Le tre cose da fare per poterci dire umani (Gad Lerner).

 

povertà

in piena tragedia delle centinaia di morti e dispersi di migranti e davanti alla loro lunga fila di bare per i cadaveri recuperati dalle onde e risuonando in noi e ancora nelle nostre orecchie il rimprovero papale: ‘vergogna!’, vengono alla mente alcuni pensieri per non perdere la nostra umanità: di seguito una lucida riflessione di Gad Lerner:

TRAGHETTI.

La prima cosa che ci vuole sono traghetti sicuri verso porti accoglienti, quand’anche i politici non possano dirlo apertamente.

È questa la prima ovvia necessità se si vuole evitare che il Canale di Sicilia si trasformi in una nuova Fossa delle Marianne. Quel tratto di mare non è di per sé insidioso per la navigazione; diventa tale quando lo solcano barche malconce e stipate all’inverosimile. Peggio dei vagoni merci diretti a Auschwitz esattamente settant’anni fa, se proprio vogliamo fare il calcolo del numero di persone ammucchiate in una superficie più o meno analoga. La differenza è che ad Auschwitz ci si andava deportati a morire, contro la propria volontà. Mentre sulle carrette del mare le persone si imbarcano volontariamente, pagando cifre con cui sugli aerei si viaggia in business class, nella speranza di vivere. Per questo la prima urgenza sono i traghetti che garantiscano un trasporto civile e sicuro dalle coste africane verso porti europei attrezzati. Non solo perché lo impone il codice fondamentale dell’umanità. Ma anche perché il metodo inverso dei respingimenti in mare, dopo quattro anni di applicazione e dopo migliaia di morti, non è risultato dissuasivo. Sono disperati ma non certo stupidi i fuggiaschi dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia. Se continuano a partire assumendosi una così elevata percentuale di rischio, significa che lo considerano il male minore. Probabilmente hanno ragione. Hanno conosciuto ben altra ferocia che non la voce grossa di qualche politicante italiano. Hanno già visto morire troppa gente per tornare indietro dopo un naufragio. Organizzando un adeguato servizio di navigazione per i migranti in fuga dalla guerra e dalla miseria — che resteranno peraltro una quota esigua rispetto al totale dei milioni di profughi accampati in attesa di fare ritorno alle loro case — le Nazioni Unite e l’Unione Europea infliggerebbero un duro colpo alle organizzazioni criminali degli scafisti. Esse lucrano enormi profitti, grazie ai quali diventano sempre più forti e pericolose. Fino ad impadronirsi di intere regioni e fino a sottomettere le istituzioni locali, com’è già avvenuto con i trafficanti d’armi e di droga. Illudersi di risolvere questo problema per via mi-litare, rafforzando — come pure è necessario — il monitoraggio del canale di Sicilia con altre motovedette italiane o europee, è pura demagogia. La seconda cosa da fare è restituire ai profughi il fondamentale diritto perduto: uno status giuridico certificato. Documenti d’identità validi. La convenzione di Ginevra del 1954 è superata. Oggi il diritto internazionale può avvalersi di una rete di codificazione informatica ben più efficiente, in grado di tutelare e sorvegliare le moltitudini di persone costrette alla mobilità. Se siamo stati capaci di organizzare il monitoraggio sistematico delle merci, cui viene garantita la libera circolazione, non si vede perché lo stesso non possa avvenire per gli esseri umani. È questione sovranazionale di volontà politica, ma anche di civiltà giuridica: la condizione di profugo ridotto all’apolidia, cioè deprivato di un passaporto valido e quindi impedito sia nel diritto a un lavoro regolare sia nel diritto alla mobilità regolare, ormai riguarda decine di milioni di persone. Va regolamentata prima che dia luogo a guerre di nuovo tipo. Non bastano le sanatorie, come quella promulgata dal governo Berlusconi nell’aprile 2011 in seguito alle primavere arabe. Anche se vale la pena ricordare che quella sanatoria riguardò in tutto 22 mila fuggiaschi, e che in quell’anno fatidico sbarcarono sulle nostre coste meno di 50 mila profughi. Fate voi la proporzione: 50 mila profughi in un paese di 60 milioni di abitanti. Restiamo sempre ben al di sotto delle cifre allarmistiche sparate dagli imprenditori politici della paura. Occorrerà certo attrezzarsi per accogliere e smistare un flusso in crescita dalla sponda sud del Mediterraneo, ma per favore non ci si venga a parlare di invasione. La terza cosa da fare è una modifica della legge Bossi Fini del 2002 che ha di fatto irrigidito la normativa per il riconoscimento degli aventi diritto all’asilo politico. Sembra incredibile, ma ne ospitiamo una quota infima rispetto ai nostri partner europei, il che oggi ci rende poco credibili quando chiediamo aiuto a Bruxelles. Tanto più dopo l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009, rivelatosi utile solo a “legittimare” la pratica illegale dei respingimenti in mare. È giusto pretendere che l’Europa non si volti dall’altra parte e che, potenziando le strutture comunitarie di Frontex, partecipi all’opera di accoglienza e monitoraggio dei profughi. Purché tale richiesta sia preceduta da un doveroso ripasso della storia e della geografia. La forma allungata della nostra penisola che si protende grazie a migliaia di chilometri di coste verso la sponda sud del Mediterraneo, ne determina una vocazione naturale; che i nostri antenati hanno saputo trasformare più volte in supremazia culturale, commerciale, finanziaria. Ciò che è valso per il passato, vale anche per il futuro: non c’è crescita, non c’è progresso italiano che non si avvalga di una relazione armoniosa con l’insieme del bacino Mediterraneo. Oggi la sponda sud è in fiamme, ma nel mare non si possono costruire dighe. E la penisola non può rattrappirsi. Il lutto nazionale proclamato ieri dal nostro governo deve quindi essere valorizzato nel suo significato più profondo, che va oltre l’umana pietà: gli uomini, le donne e i bambini che muoiono nel tentativo di approdare sulle nostre coste appartengono alla nostra comunità, abbiamo un destino condiviso.

Da La Repubblica del 05/10/2013.

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Rom e sinti, l’informazione scorretta sotto la lente dell’Osservatorio

ancora sinti

                Ogni giorno 1,86 episodi di informazione scorretta nei confronti di rom e sinti: “I media influenzano i processi di inclusione e discriminazione della minoranza rom”. Secondo l’Osservatorio 21 luglio, una soluzione c’è: monitoraggio costante e interventi puntuali            

 Ogni giorno, in Italia, si registrano 1,43 casi di incitamento all’odio e discriminazione nei confronti di rom e sinti, per lo più attraverso dichiarazioni di esponenti politici riprese da giornali, siti web e social network. Stereotipi e pregiudizi verso tali comunità, del resto, sono alimentati da una media giornaliera di 1,86 episodi di informazioni scorretta a opera di giornalisti di testate locali e nazionali. Sono questi i dati principali che emergono dallo studio Antiziganismo 2.0, il rapporto dell’Osservatorio nazionale  sull’incitamento alla discriminazione e all’odio razziale dell’Associazione 21 luglio, presentata pochi giorni fa a Roma nella sede della Federazione Nazionale della Stampa.

Dal 1 settembre 2012 al 15 maggio 2013, il monitoraggio dell’Osservatorio 21 luglio, effettuato su circa 140 fonti, ha rilevato 370 casi di incitamento all’odio e discriminazione e 482 casi di informazione scorretta in grado di alimentare il cosiddetto fenomeno dell’antiziganismo, definito dalla Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza come “una forma di razzismo particolarmente persistente, violenta, ricorrente e comune che viene espressa, tra gli altri, attraverso violenza, discorsi d’odio, sfruttamento, stigmatizzazione e attraverso le più evidenti forme di discriminazione”.

“La particolarità del nostro lavoro non si esaurisce qui – spiega Carlo Stasolla, presidente del consiglio direttivo dell’associazione –: noi non ci limitiamo a monitorare, ma interveniamo”. L’area legale dell’Associazione 21 luglio ha intrapreso 135 azioni correttive, tra cui 75 segnalazioni all’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), 29 lettere di diffida, 10 esposti al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti, 7 segnalazioni all’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori di Polizia di Stato e Carabinieri (Oscad).

“L’intervento puntuale può dare ottimi risultati – continua Stasolla –, ma non è sufficiente. Servirebbero organi istituzionali predisposti. Oltre che, ovviamente, a una rivoluzione culturale. Considerato che quest’ultima sembra di là da venire, noi proviamo a provvedere nell’immediato con i mezzi che abbiamo a disposizione”.

I risultati non si sono fatti attendere. Le segnalazioni dell’Osservatorio 21 luglio hanno portato alla chiusura di due siti web: viairom.wordpress.com e bastazingariinitalia.myblog.it che, con modalità differenti, diffondevano contenuti lesivi della dignità delle comunità rom. Nel marzo 2013 l’équipe dell’Osservatorio ha ricevuto la rettifica, da parte di Edizioni White Star, dei contenuti di un paragrafo della guida National Geographic su Roma che criminalizzava indistintamente le comunità rom. Durante la campagna elettorale romana, a seguito dell’invio tempestivo di una lettera di diffida, il candidato del Movimento 5 Stelle ha provveduto a rimuovere dalla sua pagina Facebook un’immagine in cui accusava tutti i rom che si erano recati alle primarie del Partito Democratico di aver ricevuto 10 euro. Al momento della chiusura dello studio, tutti gli esposti al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti presentati dall’Osservatorio risultano ancora pendenti, ma dall’attività di monitoraggio è emerso che 4 giornalisti (Luca Casciani de Il Giornale d’Italia, non professionista curatore di una rubrica periodica; Maria Cristina Lani e Antonio Marino di MilanoPost.info; Michele Mendolicchio di Rinascita.eu) non hanno più proposto articoli dai contenuti lesivi.

Carlo Stasolla interviene, oggi,  sabato 5 ottobre alla tavola rotonda Comunicazione e Rom in Europa organizzata a Ferrara in occasione del festival  di Internazionale, per capire quanto i mass media influenzino i processi di inclusione o, al contrario, di discriminazione della minoranza rom nel Vecchio Continente. Insieme con lui, Nicu Dumitro, giornalista rumeno; Dimiter Kenarov, giornalista e scrittore bulgaro; Marcello Maneri, ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca; Nazzareno Guarnieri, fondatore e presidente della Fondazione Romanì Italia. (ambra notari)

 

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E. Ronchi e la preghiera

mare fiore

una bella riflessione di Ermes Ronchi sulla preghiera: meditazione sul padre nostro

Questa sera cercheremo di riscoprire insieme lo stupore di essere figli. Lo faremo guidati da una intuizione di Gregorio di Nissa che afferma: “I concetti creano idoli, solo lo stupore coglie qualcosa”.
Spesso qualcuno mi dice: “Padre non ho tempo per pregare. Per favore, preghi lei per me”. Ebbene io rispondo così: “Ricorda che pregare è come voler bene. C’è sempre tempo per voler bene, perché non serve il tempo. Tu non dici: adesso mi prendo cinque minuti per voler bene a mio figlio, a mio marito, al mio nipotino. E’ sufficiente evocare la persona amata e da te parte un qualcosa, un messaggio interiore, uno slancio, una luce. Non serve il tempo, ma il cuore. Qualcosa prende la strada e parte in pellegrinaggio verso il luogo del tuo amore. Basta un istante per amare, o meglio, per esserne consapevole. Perché già ami prima, già sei struttura d’amore dentro, là dove nascono le parole, i sogni, i sorrisi, le azioni. Così è la preghiera, basta un istante, uno slancio del cuore, un solo movimento. I padri antichi dicevano che la preghiera è itinerarium mentis in Deum, cammino dell’anima verso Dio, istante forse breve, ma acceso; passo che ci pare cortissimo, ma che vibra di forza. La preghiera è un attimo immenso. Forse, solo per istanti si può realizzare il comando difficilissimo di Gesù: amerai con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente… Solo per istanti immensi.
Perché in principio non c’è la preghiera. La preghiera non è il primo atto dell’uomo, né del credente. Prima c’è un’esperienza, un grido, la passione del dolore, un amore, la carezza della gioia, uno stupore, almeno quello di essere vivi. Ed è questa la sorgente da cui nasce la preghiera come supplica e come canto, talvolta come contestazione di Dio..
Bisogna essere ben vivi per saper pregare. Bisogna essere molto vivi per pregare bene. Perché la preghiera è già in noi come sete, come esigenza. Dobbiamo solo lasciarla sgorgare, riconciliandoci con le pagliuzze d’oro che sono già presenti nel fiume del nostro io profondo. La preghiera è già dentro. Infatti lo Spirito Santo già prega in noi con gemiti inesprimibili (Rom 8,26). Che io ne sia consapevole o no. Non dobbiamo andare a conquistare la preghiera lontano, in chissà quale deserto misterioso. La preghiera respira col mio stesso respiro. La preghiera nasce prima delle parole. È sete e grido. Viene prima di te. Nasce con il bambino che nasce e grida con il bambino che grida. Non consiste nel dire preghiere: è desiderio di una sorgente e grido del sangue. Appartiene alle fibre più intime di tutto ciò che esiste.
Noi siamo chiamati a partecipare a questa corrente immensa e salvifica, che viene dal seme stesso della vita. Allora pregare è facile. Io prego perché vivo. L’intima essenza d’ogni creatura è di essere preghiera.
Che cos’è, allora, la preghiera? È collocare il senso ultimo della vita, delle cose, non in se stessi ma fuori di sé. È costatare che la speranza del mondo non risiede nella cronaca quotidiana ma oltre, in alto. Pregare, perché? Perché quando imparerò a pregare, avrò imparato a vivere, sarò finalmente uomo. Pregare vuol dire accorgersi che esistono gli altri. È smettere di ripiegarsi su se stessi: è urgenza di aprirsi, è sfuggire all’eterno ritorno su di sé. Narciso è più lontano da Dio di Caino; colui che guarda solo a se stesso è più lontano da Dio di Caino.
Dice il Signore nel libro della Genesi: Io proteggerò Caino, chi lo tocca sarà punito (Gn 4,15). Ma Narciso è assolutamente inconvertibile.

Io prego perché vivo e vivo perché prego

Io prego perché vivo, perché vivere è desiderare l’altro, desiderare la comunione. La preghiera è innata in tutte le nostre fibre, grida nella nostra stessa fisiologia. Prego perché vivo. L’essenziale preghiera dei salmi, la più ripetuta, è soltanto questa: Signore, fa che io viva. Il mio sangue chiede di vivere in una invocazione muta, originaria, primordiale, ininterrotta. Io chiedo di vivere e vivere chiede comunione. Diceva Heidegger: denken ist danken, pensare è già ringraziare. Vivere è già pregare.
E poi, io vivo perché prego. La preghiera fa lievitare la vita che si irrobustisce al contatto con Dio. Vorrei dirlo con una divagazione etimologica. Nella liturgia noi usiamo ancora la parola greca Kyrios, che significa Signore, parola liturgica della chiesa universale, da sempre in uso, e che deriva dal verbo KYO, il verbo più proprio e geloso ed esclusivo della donna, che indica l’essere incinta, il portare dentro una vita.
Il nome di Kyrios viene attribuito a chi è portatore di vita, a colui che fa crescere, difende, protegge, fa germinare vita. Dio è Dio perché datore di vita, colmo, gravido di vita che da lui si diffonde nella creazione continua, nella generazione perenne, nella resurrezione di ciò che credevo morto o spento. Dio è padre e madre nella sua stessa radice etimologica, nel senso primordiale di gravido di vita.
Allora pregare è pormi davanti a Lui, come davanti a una fontana, perché vita venga e riempia le anfore vuote del cuore, le anfore assetate dell’anima. Pregare è, allora, partecipare alla vita del Kyrios, che dona, nutre, fa crescere la vita.
Prego perché vivo: in tutte le forme dell’amore, l’uomo vivendo prega, fa comunione con la storia di Dio. Vivo perché prego: porto Dio nella vita, faccio della vita un luogo teologico, di rivelazione, faccio dell’amore un luogo privilegiato di evangelizzazione, un nuovo battesimo.
Quando Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, riceve il messaggio dell’angelo nel tempio (Lc l,8ss) e dubita, diventa muto. Ritrova la parola solo quando nasce il bambino, cioè quando lui diventa padre, quando partecipa del kyrios di Dio. Ritorna alla parola e ritrova la capacità di pregare quando gli nasce un figlio, quando un amore nuovo scioglie i limiti del cuore.
Così noi ritroviamo la parola e la preghiera, ritroviamo le parole buone e giuste quando siamo padri, quando cioè abbiamo cura della vita, quando sappiamo amare. La vita cessa di essere muta quando generiamo un figlio, un amico, un fratello, un amore. Se non hai un cuore di carne, le parole diventano di pietra.
Tu preghi quando dai vita. Così Zaccaria riprende a parlare e a pregare (è il Benedictus, la preghiera che la Chiesa ripete ogni giorno all’alba) quando la sua vita si apre al dono, diventa piena, vera. Prega perché vive. E, pregando scopre dimensioni nuove per il figlio, e profondità impensate: tu bambino, figlio mio bambino, figlio senza parole, tu sarai profeta e Dio verrà dietro di te. Pregare crea uomini con più orizzonti e con più storia. Non ci interessa un sacro che non faccia fiorire l’umano.
La stessa cosa accade alle due madri, Elisabetta e Maria. Sono entrambe incinte, partecipano del Kyrios, colui che è la fonte della vita e che le abilita al canto, al Magnificat per Maria, alla beatitudine e alla lode per Elisabetta: la preghiera sgorga dalla vita. Pregare è facile, dunque, basta essere ben vivi. E vivere è facile, non è un mestiere ingrato, basta non essere come Narciso.

Il Padre nostro

Nella preghiera cristiana, quella che sappiamo meglio, quella che intesse il nostro crescere, che accompagna i nostri giorni è il Padre nostro. Essa è prima di tutto una preghiera “espropriata”, dove mai si dice “io”, mai si dice “mio”; sempre, invece “tu” e “nostro”. È la preghiera in cui si è liberi dalla tirannia di questo “io” che vuole mettersi al centro. Ricordate la parabola del fariseo nel tempio. Prega, e pregando pecca; continua a ripetere “io faccio, io dico, io pago, io non sono come gli altri…” (Lc 18,9-14). La sua preghiera non è altro che un monumento innalzato a se stesso. E Dio è un muto specchio su cui far rimbalzare la sua soddisfazione.
Il primo atteggiamento per pregare bene è imparare a dire “tu”: il tuo nome, il tuo Regno, la tua volontà; e – di conseguenza – è imparare a dire “noi”: il nostro pane, i nostri debiti, il nostro male. Pregare è uscire dall’io ed entrare nella relazione. Il segreto del Padre nostro è la relazione. In questa preghiera la passione per il cielo si coniuga con la passione per la terra. E la causa dell’uomo diventa la causa di Dio. E mentre nella prima parte l’uomo si interessa di Dio e dice: il tuo Regno venga, la tua volontà si compia, nella seconda parte Dio si interessa dell’uomo e gli dona pane, perdono, liberazione dal male.
Qui udiamo l’appello ad uscire da noi stessi: la sua voce che continuamente dice “va”, che continuamente dice “vieni”. Vai verso l’uomo. Vieni verso il Padre. Non si può pregare se non si ama con la stessa intensità il cielo e la terra. Il Padre Nostro è la preghiera degli appassionati: è nata da una immensa passione per il cielo e per la terra ed è destinata non a grigi impiegati, ma a gente ben viva, appassionata di Dio e degli uomini.

Essere figli

La prima esperienza di umanità che noi tutti facciamo è quella di essere figli. Noi esistiamo perché figli: di un uomo e di una donna e del loro amore, figli di una storia, figli di Dio. La prima esperienza comune a tutti è l’essere generati, da altri, a una vita che non è mia, che viene da prima di me e che va oltre me. A una vita che è dono. La prima esperienza è che nessuno è figlio di se stesso. Così la prima parola del Padre Nostro ci apre alla trascendenza. Parola importante, filosofica, difficile, attraverso la quale un uomo e una donna annunciano che il segreto del loro modo di vivere è in un “al di là”, in un altrimenti. Il mio segreto è un “oltre”. Questo affermo quando dico “Padre”: il mio segreto è oltre me. E ricevo me stesso come un dono che viene da altrove. Accanto all’orante e alle sue prime parole si può allora percepire l’onda di un mare invisibile che viene a battere sulle cose e sulle parole della vita quotidiana, come un appello a salpare, a navigare avanti. Così inizia il Padre nostro: l’essenziale è avere un padre. Che ama ed ha cura.
Per il cristiano avviene come per il bambino: solo se fa l’esperienza di essere amato sarà poi capace di amare a sua volta. Perché ad amare si impara: noi cristiani lo impariamo da Dio.
C’è la tentazione, oggi, di ridurre la religione a carità, a solidarietà umana, al compimento di opere buone. Fai del bene corrisponde a Sei un buon cristiano. Questo è importante ma assolutamente insufficiente. L’ultima tentazione della Chiesa, oggi, è quella di una religione senza Dio, senza trascendenza, di una religione ridotta a opere buone, a un codice di virtù sociali, quasi una religione “atea”. Da un Dio superfluo ci preservano la preghiera e l’eucaristia che hanno come loro meta la comunione con Dio.

Abbà, Padre

E Gesù diceva: Abbà. Parola aramaica, non ebraica, parola del linguaggio popolare, del dialetto comune. Tutte le preghiere che gli evangelisti ci hanno tramandato iniziano con questa parola: Padre. Per 170 volte ricorre nei Vangeli questo termine che è una delle caratteristiche inconfondibili della preghiera di Gesù. E mi chiedo: perché inconfondibile, se tutte le religioni, da sempre – i Sumeri, gli Egizi, i Greci, i Latini – hanno usato questo termine di Padre riferito alla divinità? Se questa parola raccoglie il senso di precarietà e di dipendenza di ogni creatura sotto il sole? Se anche gli Ebrei nel Primo Testamento e più spesso al tempo di Gesù, si rivolgevano a Jahwé chiamandolo Padre, sentendosi figli? Perché dire che ciò è tipico di Gesù?
La singolarità del rapporto di Gesù con il Padre è una costante di tutti e quattro i Vangeli. E lo rivela anche l’uso sorprendente di alcune formule: Gesù parla sempre di “mio Padre”, oppure di “vostro Padre”, non associandosi mai ai discepoli per dire insieme a loro “nostro Padre”. Gesù aveva coscienza di una relazione unica, e non estensibile, con il Padre. Lo stesso Padre Nostro non è l’orazione detta insieme, non è la preghiera comune a Gesù e ai discepoli: “Quando voi pregate, direte: Padre nostro”. Quando pregava Gesù diceva: Abbà!
Abbà è la parola aramaica con cui i bambini in casa chiamano il papà; fuori casa, il figlio che incontra il genitore, lo chiama “Signore”. In casa, anche il figlio sposato si rivolge al genitore con Abbà. È la parola più confidenziale, più affettuosa, più familiare. Non ha la solennità della lingua liturgica: in sinagoga si pregava Dio dicendo: Abinù, (padre nostro, in ebraico) o più semplicemente: “ab”. Ma Gesù nel colloquio con Dio usa il linguaggio dei bambini e non quello dei rabbini; usa la lingua di casa e non quella dei documenti: usa il dialetto del cuore.
Questa espressione familiare e banale per chiamare Dio “abbà-papà” poteva apparire come una mancanza di rispetto verso Jahwé. Ma il Vangelo conserva la precisa espressione aramaica, proprio per conservare l’avvenimento dell’ardire insolito di Gesù.
E qui dobbiamo confessare che anche per noi è insolito e un po’ imbarazzante rivolgerci a Dio con l’appellativo di papà; anche per noi, oggi, il messaggio di Cristo suona sconcertante e l’abbiamo talvolta travisato o corretto, talvolta velato o dimenticato. Avviene come per un bambino, che quando chiama il padre o la madre, non li chiama per nome, col loro nome proprio. Papà, o mamma, non è un nome fra tanti: indica invece una precisa relazione, che si compie nell’amore.
Ricordiamo la bella trasmissione televisiva in cui Roberto Benigni commentò l’ultimo canto del Paradiso di Dante. È possibile parlare di Dio solo se l’uomo è come un poppante:

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella. (Par., XXXIII, 108)

Unica parola adatta è quella di chi ancora non parla, dell’infante stretto al seno: è solo balbettando, come un poppante, senza pretendere di sapere, solo ripetendo queste due sillabe ab-ba come un balbettio infinito, che possiamo dire Dio. Se non diventerete come bambini…(Mt 18,3). In questa parola Abbà – non nella parola Padre è l’originalità dell’esperienza di Gesù. E dice che l’identità della vita, il nome del vivere, è “relazione d’amore”. Se non diventerete come bambini, non entrerete… (Lc 18,17). Il bambino è colui che può sopravvivere solo se è amato; è colui che vive dell’amore dei suoi genitori, colui il cui domani dipende dall’amore; vive dentro una struttura vitale intessuta di amore e di fiducia. Il bambino è colui che un gesto d’amore ha tratto ridente dal nulla, e reso eterno.
Gesù conosce e usa anche altri nomi di Dio, lo vediamo nelle parabole dove Dio appare come Signore, re, giudice, padrone; ma tutte le parabole sono sotto il grande arcobaleno della bontà e della tenerezza di Dio come abbà, papà. Tutti gli altri sono appellativi di Dio, aggettivi, ma padre è il suo nome proprio. Che cosa Gesù ha veramente creato nel campo religioso? Gli studiosi cercano ciò che del Vangelo ha radici nell’Antico Testamento e ciò che invece è assolutamente nuovo, originale. Ebbene, l’unica cosa originale è Lui, un Figlio che si rivolge a Dio con questo nome così insolito, cosi poco ossequiente, così assoluto: abbà.
E scopriamo allora di avere un Padre, scopriamo che non nasciamo per una combinazione casuale di cellule, o di aminoacidi, che non si vive per coincidenze, né si muore per caso, votati al nulla, ma che tutto è sotto il segno della paternità. La storia dell’uomo è chiusa tra due parentesi che gli atei dicono “di nulla”, e che noi, con Gesù, diciamo “di amore”.
Perciò la prima parola della preghiera è Padre, anzi papà, cioè una vibrazione, una totalità, una modulazione della gamma dell’amore. Un amore sorgivo, iniziale, primordiale: la radice della preghiera e della fede e di tutta la religione è ciò che Dio fa per me, non ciò che io faccio per Dio. Pregare dicendo Padre è entrare in una struttura di fiducia; significa opporre alla struttura del sospetto reciproco e della indifferenza il sistema della fiducia assoluta.

Padre e altri amori

Di quale padre si tratta? Innanzitutto di lui possiamo dire che egli è Padre che non sequestra i suoi figli, che li ama di un amore non possessivo. Che non è geloso degli altri amori dell’uomo. Infatti sulla santa montagna del Sinai non ha detto: Tu non avrai altro amore all’infuori di me. Ha detto invece: Non avrai altro Dio all’infuori di me. Nel vangelo Gesù riassume la legge e la profezia in queste parole: amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore. Ma non dice: amerai Dio solamente. Dio non è Padre geloso, un rivale dei nostri amori. La totalità del cuore che egli chiede non significa esclusività del cuore. Allo stesso modo, con la stessa totalità amerai tua moglie, tuo marito, tuo figlio, i tuoi genitori. Li amerai con tutto il cuore, ma non amerai solo loro. Amerai anche il tuo amico, lo amerai con tutto il cuore, ma non amerai solo lui.
Il Padre non è geloso delle gioie della strada, non è in competizione con i nostri amori. Non vuole essere unico possessivo sbocco del nostro cuore. Il cuore dell’uomo ha molte lunghezze d’onda, ama in molte direzioni, e Dio non può e non vuole rispondere a tutte. Non vuole sottrarci alla polifonia dell’esistenza. Il rischio di una religione malintesa è di farci smarrire la polifonia dell’esistenza. Qui vive una parrocchia di musici e artisti che possono capire molto bene tutto ciò. Il rischio di una religione capita male è quello di far perdere tutta la ricchezza delle note e dei suoni della vita. In una relazione vissuta bene Dio è come la nota dominante, il canto fermo, e attorno ad esso può dispiegarsi in tutta la sua ricchezza il contrappunto di tutte le altre voci, degli altri amori, sicuri di essere sostenuti dal canto fermo e di riuscire ad esprimere tutta la loro bellezza.
Amerai allora il tuo Padre che è nei cieli, lo amerai gelosamente come unico Dio. E non avrai altri idoli, altri dei. Ma ci saranno altri amori, per necessità, per resurrezione, come acqua e pane nostro quotidiano. Piccolo e grande nostro cielo quotidiano. Liberi da un malinteso amore possessivo del Padre.

Amore sorgente

II Padre esiste solo se ha dei figli vivi, solo come paternità continua, solo come sorgente di vita, trasmessa a noi. Gesù dice alla Samaritana: ti darò un’acqua che diventerà in te sorgente (Gv 4). Anche tu esisterai solo come sorgente per qualcuno che vive accanto a te. La fine della sete non è nel bere a sazietà, ma nel diventare fontana per altri, nel dissetare qualcuno, diventando sorgente per i bisogni e l’arsura d’altri. La fine della fame non sta nel consumare voracemente per me il mio pane, ma nel saziare la fame d’altri. La felicità, tutti lo sappiamo, non sta nel consumare la mia riserva di piacere, ma nel far nascere un sorriso sul volto dell’altro. Allora la felicità che da te defluisce la riattingi dal volto dell’altro, moltiplicata. Come diceva Pacomio, abate del primo monastero cristiano: “È nell’affaticarmi per voi che trovo il mio riposo”.

Genitore e padre

Dio è padre. Genitore è colui che genera fisicamente un figlio. Padre colui che ti introduce nella vita. La nostra cultura e la nostra esperienza privilegiano la paternità rispetto alla generazione fìsica. Generare un figlio è facile, bastano pochi istanti per essere genitore. Ma essere padre è una avventura che prende tutta la vita. Essere padre significa insegnare il mestiere di uomo, l’arte di vivere, mostrare come si ama, come si lavora, come si gioisce. Dio è padre per questo. Nella sacra Scrittura il termine figlio, applicato a noi, è un termine tecnico: voi dite che avete Abramo per padre, ma non fate le opere di Abramo; non siete quindi suoi figli. Perché il termine figlio nella Scrittura designa colui che agisce come agisce il padre, colui che prolunga nella sua esistenza l’eredità del padre, le sue caratteristiche, il suo comportamento. Figlio è colui che si comporta come il Padre, figlio di Dio è uno che fa ciò che Dio fa.
Beati i costruttori di pace, saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,1-12). Perché lui non è il Dio delle guerre, ma della pace, che stronca le guerre e riporta alle loro case i prigionieri (Gdt 16,2). Chi fa la pace agisce come Dio, per questo è figlio di Dio. Dio è Padre solo se i figli agiscono come lui. Egli ha messo la sua paternità nelle nostre mani. Allora vediamo come non ci sia etica possibile senza una mistica, senza una comunione di vita con Dio. La morale altro non è che l’espandersi verso l’esterno di una vita divina che già urge dentro, che si dilata e fa forza contro le pareti troppo strette del cuore. Non c’è etica senza mistica. Non c’è mistica senza preghiera.
Il Vangelo è pieno di una piccolissima parola, come, un avverbio che da solo non vive, che ha bisogno di appoggiarsi ad un nome. Siate perfetti come il Padre, siate misericordiosi come il Padre, amatevi come io vi ho amato, come ho fatto io così fate anche voi, la tua volontà come in cielo così in terra. Come Cristo, come il Padre, come il cielo: ed è aperto per noi il più vasto orizzonte, l’obiettivo massimo, il percorso infinito. Allora so che cosa fare: ascoltare e guardare, per vedere come Dio agisce, che cosa fa nella storia, che cosa il suo Spirito crea sulla terra, quali sono le strade del regno, che cosa il vangelo dice di me, del mondo, di Dio. Altrimenti non divento figlio e Dio senza figli vivi non è Padre.

Quale padre?

Non sono figlio se non agisco come Dio. È fondamentale che sappia però in quale Dio credo. Anche Saddam prega, anche Bush prega. E fanno bene. Ma il problema è chi pregano, quale Dio pregano. Il Signore della guerra? Colui che riceve lode dall’ecatombe di battaglie sante? La peggiore sciagura che ci possa capitare è quella di sbagliarci su Dio. Perché poi ti sbagli sull’uomo e sulla storia e sul senso stesso della tua esistenza. Per non sbagliarsi su Dio occorrono ascolto, contemplazione e preghiera. Non avrai altro Dio, dice il primo dei comandamenti. Ma il testo sacro aveva appena detto: io sono colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto, il gohel, il liberatore. Non avrai altro Dio: non accettare un Dio che ti rimetta in schiavitù o che tolga libertà a popoli e persone e menti. Non accettare un Dio che benedica gli uccisori e le armi e le azioni di terrorismo. Non avrai altro Dio che il Dio liberatore. E questo è il fondamento dell’umanità, non della divinità.

Amore passivo

Davanti al Padre, sono chiamato per prima cosa a riscoprire non l’amore attivo ma l’amore passivo, il lasciarmi amare. Io sono cristiano perché Dio mi ha amato per primo. Continuo a restare cristiano perché continuo a sentirmi oggetto di amore, in debito d’amore. Se non ti senti debitore, non nascerà mai dentro di tè il Magnificat, mai una preghiera esultante. Continuerai sempre a dire: io, io, io…, saprai solo moltiplicare richieste.
È proprio in nome di questo debito che l’angelo dice a Maria: sii felice, Maria, tu sei riempita di Dio. Il tuo nome è: piena di grazia, cioè amata per sempre. Amata per sempre. L’angelo ci chiama alla riscoperta dell’amore passivo, a stare davanti al Crocifisso non per spremere dal cuore arido delle preghiere che non germogliano, ma per sentirsi amati dalle sue piaghe; a stare davanti all’icona non per guardarla, ma per lasciarsi guardare. Ci chiama, nel momento della comunione, non a forzare sentimenti e parole, ma a lasciarci invadere, lasciar riempire le anfore vuote.
Giovanni è l’Apostolo amato, il prediletto, oggetto d’amore. Pietro invece è l’apostolo che ama, che si butta in acqua, che sfodera la spada. Lui è soggetto d’amore. Oggi io sto con Maria e con Giovanni, a sentirmi amato, a sentire che ogni amore è un dono immeritato. Non si merita l’amore. Dio non si merita, si accoglie. L’amore passivo crea le condizioni per le più alte rivelazioni: è Giovanni che per primo giunge al sepolcro, che capisce, cioè, la resurrezione; è di Giovanni, l’amato, la più folgorante definizione di Dio: Dio è amore (1Gv 4,8). Lasciarsi amare è carico di rivelazioni: senti Dio che in te si esprime, lo senti parlare parole che toccano il cuore. Il cristiano diventa davvero un amato amante, agisce come agisce Dio.
La linea fondamentale della Storia Sacra non è ascendente ma discendente: si fonda non sul mio impegno di salire, di dare la scalata al Paradiso, ma sull’impegno di Dio di discendere. E’ la grande intuizione di santa Maria, quando nel suo Magnificat, per dieci volte su tredici verbi ripete: è lui che innalza, è lui che abbassa, è lui che riempie, che manda a mani vuote, e guarda, ed ha misericordia, è lui. Per dieci volte. È il decalogo di Dio, i dieci comandamenti dell’agire del Signore, quasi risposta al decalogo dato all’uomo sul Sinai. Una donna, Maria, porge un decalogo a Dio. Come un responsorio tra Padre e figli, tra cielo e terra. Il centro della fede è ciò che Lui fa per me, perciò io altro non farò che prolungare la sua azione nel mondo.

La casa di Dio

Padre nostro che sei nei cieli. Ma il cielo di Dio sono i piccoli e i poveri nei quali si nasconde (Mt 25,40), ai quali si rivela (Lc 10,21) e che più degli altri invocano il pane quotidiano. Il cielo dove Dio abita è il povero, il prossimo. Il fratello è il cielo di Dio. Dio siede alla destra di ciascuno di noi. Solo se si compie questo percorso di accoglienza e di servizio delicato, tenero, ai piccoli, solo dando loro dignità e affetto, solo allora si può chiamare Dio con il nome di Padre. E non solo Padre mio, ma Padre nostro. Solo facendo lo stesso percorso intriso di umanità che ha compiuto anche Gesù impareremo a dire: Padre.

E il dolore

Ma c’è anche, e soprattutto in questi giorni, un grande peso di dolore nel mondo: avvenimenti tragici, crudeli, di immensa sofferenza che la televisione riversa nel nostro vivere come se fossero videogiochi… Colui che prega è sempre voce di ogni creatura e c’è un immenso peso di lacrime in tutto ciò che vive: il mondo è aggressivo, ci sono vene aperte da ogni parte. Nemmeno la vita quotidiana nostra sfugge alle ombre dell’assurdo, dell’enigmatico, del crudele. Per questo, forse, la sensibilità moderna è pervasa da accuse contro Dio, contro il Padre. Non c’è morte che non provochi accuse contro Dio. Anzi, molti uomini d’oggi ripetono, in rivolta o rassegnati, le parole di Marcione, un eretico del II secolo: “Dio è padre di nessuno”. Il dolore innocente è la più grande contestazione all’esistenza di Dio. Nel Padre Nostro io divento voce del dolore, che a sua volta è voce della creazione.
Ma in che modo Dio si mostra Padre in un mondo che geme con le vene aperte, in una vicenda personale o familiare che non è libera dall’assurdo e dalle lacrime? Dio non ci tira fuori dalle onde pericolose, ma può darci coraggio dentro le tempeste. Dio non è un sedativo per le nostre paure o una risposta al nostro bisogno di protezione. Non è un genitore ansioso sempre pronto a intervenire, che risparmia al figlio qualsiasi prova e fatica, e lo rende così inetto alla vita, un mollusco incapace di direzione e di scelta. E quanti genitori in questo modo rendono i figli dei molluschi… Dio non ti toglie dalla tempesta, ma ti dà forza perché tu continui a remare dentro la tempesta, perché le tue mani non abbandonino il timone, perché gli occhi della sentinella scrutino attraverso le tenebre quanto manca all’alba. Se il nostro Dio esistesse unicamente per tirarci fuori dalle onde perigliose e non per darci coraggio in mezzo alle onde, allora morirebbe la nostra speranza, perché ci sarebbe negato un senso dentro le nostre vicende.
Quando prego per il dolore del mondo, io non faccio a qualcuno l’elemosina di una preghiera. Quando prego, io sono coloro che soffrono; io sono Abele e Caino e l’anonimo che grida a lui dal deserto dell’Iraq o da una carretta sperduta nel Mediterraneo che cerca l’approdo. Io non faccio la carità di una preghiera agli sventurati di oggi: sono loro che mi trasformano con il loro grido, mi allargano il cuore, me lo invadono, come hanno invaso di vita e di preghiere la Bibbia.

Lo stupore

Tutti conosciamo il miracolo della prima volta. La prima volta che hai visto il mare, la prima volta che hai amato, che tuo figlio ti ha chiamato “mamma”. Poi ci si abitua. L’eternità, invece, è non abituarsi. L’eternità è il miracolo della prima volta che si ripete sempre. La nostra capacità di essere felici è legata alla nostra capacità di meravigliarci. Allora la preghiera che più da lode al creatore è la gioia di vivere. L’umile piacere di esistere, provato con gratitudine, dà lode a Dio, perché attinge allo stesso stupore di Dio che guardò e vide e gridò: che bello! a tutto ciò che aveva fatto. Lo stupore e il piacere di vivere prolungano qualcosa di Dio. Con la meraviglia e la gioia di vivere ripetiamo: davvero hai fatto belle tutte le cose. Allora la vita cristiana è coniugare la mistica dello stupore e l’etica dell’impegno; legare insieme lo stupore di essere figli e l’impegno a rendere Dio padre di figli vivi.

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don vitaliano e il nuovo corso di papa Francesco

Francesco papa
“E ora si faccia chiarezza,”

di Vitaliano Della Sala 1 ottobre 2013

«Non aspettatevi cambiamenti del prodotto, aspettatevi cambiamenti della pubblicità». A sei mesi dall’elezione di papa Francesco la risposta del cardinale di New York, Timothy Dolan, ad una domanda sul nuovo papa, sembra racchiudere l’essenza di questo pontificato. Non so se sono l’unico, ma di fronte a questo papa mi sento combattuto tra due sentimenti: sta solo cambiando la forma o anche la sostanza della gerarchia cattolica? Bergoglio è solo un papa che guarda ottimisticamente il bicchiere mezzo pieno, mentre finora quasi tutti i papi hanno fatto il contrario? Fa gesti straordinari o appaiono tali solo perché nessun altro papa ne ha mai fatti di tanto normali? E quello che dice è scontato e già detto da altri o è la banalità che diventa eccezionalità solo per il contesto azzeccato in cui lo si pronuncia?
Insomma, papa Francesco rappresenta quella Chiesa-altra che in molti abbiamo sognato e ci siamo sforzati di costruire o è la solita musica suonata diversamente? Certo è che c’è credibilità e coerenza nelle sue parole chiare, semplici, incisive, che si accompagnano ai gesti “nuovi”. E c’è da sperare che non sia soltanto una squallida – e riuscita – operazione di marketing a favore di una gerarchia della quale, fino a sei mesi fa, si parlava quasi esclusivamente in relazione agli scandali sessuali e finanziari.«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e metodi contraccettivi», dice, tra l’altro papa Bergoglio nell’intervista a Civiltà Cattolica. Parole chiare e gesti concreti: questo papa sembra aver spiazzato e sorpassato anche quella parte di Chiesa “progressista” e di base. Ma la storia della Chiesa ci insegna che per una volta che si sceglie un papa buono “che puzza di pecora” e di Spirito Santo, ne possono poi venir fuori altri che invece “puzzano” di interessi personali o di cordata, di troppa teologia e di poca pastoralità, di più o meno autoritarismo, di più o meno democraticità. E il volto della Chiesa, la percezione che fedeli e non fedeli laici hanno di essa, non può cambiare dopo ogni Conclave come se la Chiesa fosse l’espressione di questa o quella cordata e non la sposa di Cristo.
Lo confesso, sono anche arrabbiato perché troppa parte di Chiesa “progressista” sembra subire e acriticamente applaudire le parole e i gesti del papa, senza ricordarsi quanto sia preoccupante, se non pericoloso, quando gli annunci di cambiamento vengono dal vertice: il Francesco poverello d’Assisi che restaura la Chiesa cadente, può veramente coincidere con un papa, solo perché si chiama anch’egli Francesco, o non si rischia di creare un inevitabile corto circuito? Qualche fedele meno plaudente e più attento, mi ha ricordato che «tante cose di quelle che oggi dice e fa il papa, le hai dette e fatte anche tu anni fa». È vero, ovviamente con le dovute proporzioni, e sono stato solo l’ultimo tra tanti che, per parole e gesti che oggi sembrerebbero scontati, è stato pesantemente punito e ancora vive gli strascichi di assurdi e ingiusti provvedimenti canonici. Come me e molto peggio di me, altri hanno subìto la moderna inquisizione, e non nel Medioevo, ma solo pochi anni fa, sotto il pontificato mediatico e reazionario di Woityla/Ratzinger, mentre Bergoglio era già cardinale, senza che abbia speso una parola di giustizia. Forse che nella Chiesa bisogna aspirare o brigare per diventare papa prima di poter parlare liberamente?
Invece oggi papa Bergoglio dice: «Ci vuole audacia e coraggio. Trovare strade nuove per chi se ne è andato», e spero che intenda anche dire: per chi è stato cacciato, e per chi è rimasto, punito, calpestato, ridotto al silenzio, umiliato, senza un briciolo di quella tenerezza di Dio, che i vertici della Chiesa avrebbero dovuto incarnare. Se il clima sembra realmente cambiato, chi restituirà il tempo perso a doversi difendere, l’insegnamento tolto ingiustamente a bravi docenti, la serenità a comunità punite e sconvolte, la salute compromessa? Chi dirà al mio vecchio ed ex vescovo che aveva torto lui, e alla mia ex comunità parrocchiale che avevamo ragione noi? Alle sue parole chiare, ai suoi gesti coerenti, papa Francesco dovrebbe far corrispondere scelte e fatti concreti. Si potrebbe iniziare dal dire apertamente se ha ragione o torto, chi ipocritamente e per intraprendere una carriera senza meriti, si è accodato al pensiero dominante di una gerarchia tesa solo ad accontentare un papa polacco e un inquisitore tedesco, divenuto a sua volta pontefice, che hanno portato avanti un’idea di Chiesa autoritaria, immischiata nella peggiore politica, invischiata nei peggiori scandali, senza un briciolo di misericordia, che ha sguazzato nella contraddizione per cui si pretende il rispetto dei diritti umani all’esterno della Chiesa, mentre li si nega al proprio interno. Sì, è indispensabile iniziare con un chiarimento, senza meschine vendette o ritorsioni, ma per «fare la verità nella carità».Sono certo che è comunque saggio e lungimirante vivere questo momento come una grande opportunità storica per la Chiesa. E per non ridurre le parole e i gesti di papa Francesco a qualcosa di stravagante; e per non arrivare ancora una volta tardi all’appuntamento con la Storia, non bastano più le parole e i gesti di “Pietro”, occorre che si coinvolga tutta la Chiesa in questo cammino. Forse è veramente giunto il tempo di un nuovo Concilio, da celebrare in una delle tante periferie del mondo, con vescovi e cardinali invitati come periti, esperti o osservatori. E con protagonisti questa volta donne e uomini fedeli laici.

*Amministratore parrocchiale a Mercogliano (Av)

Fonte: Adista n. 34/13

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anche M. Fox dice la sua sul dialogo di papa Francesco coi laici

abbracio papale

anche M. Fox dice la sua sul nuovo taglio che papa Francesco sta dando alla chiesa cattolica

Il dialogo e la verità da vivere
di Matthew Fox
“la Repubblica” del 2 ottobre 2013

È un piacere poter prendere parte all’importante dialogo ispirato dallo scambio di lettere tra Eugenio Scalfari e papa Francesco. Nel corso del lavoro preparatorio per il mio libro Lettere a papa Francesco ho letto il libro che riporta le conversazioni tra Bergoglio e il rabbino argentino (e scienziato) Skorka, per cui so bene quanta importanza attribuisca il nuovo pontefice al dialogo e a un profondo scambio di idee, e soprattutto quanto sia «vulnerabile» all’ascolto attento e all’apprendimento. È questa, a mio parere, la chiave del dialogo: parlare e ascoltare per imparare, non semplicemente per «segnare dei punti». È questo che fa di papa Francesco, una boccata d’ossigeno dopo trentaquattro anni di papi che sembravano più inclini a dettare le risposte e anche le domande, senza dare quasi mai la sensazione di avere qualcosa da imparare. La modestia del pontefice attuale è palese non solo dal suo rifiuto di trasferirsi nei palazzi pontifici, ma anche dalla sua disponibilità a prendere la penna in mano e rispondere con sincerità, dal profondo del cuore, alle domande poste da Scalfari. Papa Francesco, come molti gesuiti, conserva la smania di apprendere, e questo per me è motivo di lode. Sono i saccenti, che avvolgono tutte le loro risposte in dogmi rigidi e congelati e domande preconfezionate, che tradiscono il significato più profondo e lo spirito di avventura che una religione sana dovrebbe avere.

La verità, che la si apprenda da una persona che si autodefinisce «atea», o «laicista», o «credente », o «agnostica», o «non credente», non è vincolata a un’unica espressione. Quello che conta nel dialogo è quella parte di verità che impariamo gli uni dagli altri. La verità è qualcosa che viviamo, non qualcosa che congeliamo in dogmi e credenze liofilizzati. E poiché la viviamo, siamo in grado, a prescindere dalla nostra ideologia, di provare un’ammirazione comune per persone che ci hanno mostrato, attraverso la vita che hanno vissuto, la verità della giustizia, della bellezza, della gioia o della generosità.
La domanda diventa: in che genere di Dio crediamo? Che genere di Dio rifiutiamo? Cantiamo le lodi di un Dio del Controllo e degli imperi? O di un Dio dei poveri e di chi non ha voce? Un Dio del razzismo, del sessismo, dell’omofobia o dell’antropocentrismo, oppure un Dio della Condivisione, dei poveri, della giustizia razziale. Voglio proporre qualche altro genere di Divinità che vale la pena di venerare.

La Divinità apofatica è il Dio del silenzio, della contemplazione, dell’ascolto attento, del niente più proiezioni, il Dio che è «oscurità sovraessenziale, che non ha nome e non avrà mai nome» (Eckhart). Questo Dio ci insegna a tacere, ad apprezzare il silenzio e ad andare in profondità, e a non presumere più che chiunque di noi conosca la grandezza di Dio. In questo modo ci aiuta a placare il cervello rettile (sì, la «bestia» che è in tutti noi) lasciando spazio alla nostra intelligenza più recente, la Compassione.

Un’altra dimensione della Divinità su cui vale la pena dialogare è quella della Luce. Con la scienza che oggi ci insegna che «la materia è luce congelata » (parole del fisico David Bohm), possiamo fare piazza pulita del pericoloso dualismo tra materia e spirito, perché lo Spirito in tutte le culture del pianeta è definito come «Luce » (vedi il Buddha – «Sii una luce per te stesso» – e il Cristo – «Io sono la luce del mondo»), ma la materia secondo la scienza odierna incorpora la luce. L’incarnazione dello spirito è ovunque, anche nella materia in tutte le sue dimensioni. Vale la pena discuterne e dialogarne.

Naturalmente, l’insegnamento che Dio è Giustizia (Tommaso d’Aquino: «Dio è giustissimo») è un terreno comune, in questo momento critico della storia della Terra e dell’umanità, dove tantissime cose sono messe a rischio dai cambiamenti climatici e da sistemi economici che favoriscono i ricchi e rendono i poveri più numerosi e più poveri. La giustizia ecologica, la giustizia di genere, la giustizia economica: sono tutti nomi di lavoro per Dio, il Dio della giustizia. Quanto alla giustizia ecologica, il poeta Bill Everson commenta che «la maggioranza della gente conosce Dio nella natura o non lo conosce affatto». La natura è sacra. Dio è dentro la natura, non al di sopra o al di là di essa. È questo che significa lo spirito; è questo, sicuramente, che significa l’Incarnazione.

Sono stato felice di leggere Enzo Bianchi, nel suo contributo a questo scambio, parlare di Dio in quanto Vita e di come «ognuno di noi sia uno specialista, un esperto della vita». Dio è intrinseco alla natura e alla storia, alla materia e alla vita, perché la vita è sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di meraviglioso, qualcosa di straordinario, qualcosa di bello.
Un modo utile per definire attraverso il linguaggio le nostre esperienze del Dio in quanto Vita è dare nome al dispiegarsi e svelarsi (la rivelazione) del Dio in quanto Vita come la Via Positiva (le nostre esperienze di sgomento, meraviglia, gioia, bellezza), la Via Negativa (le nostre esperienze di silenzio, oscurità e anche dolore, sofferenza e cuore spezzato), la Via Creativa (l’impeto di co-creazione e ceatività, e lo sgomento che si genera in questo processo) e la Via Trasformativa (l’opera di giustizia, compassione, guarigione e clebrazione). Dio non è un sostantivo. Dio è un verbo. Se non sperimentiamo queste dimensioni della Divinità siamo destinati a parlare soltanto e non agire: solo parole e niente cammino.

Voglio proporre alcuni modi per tenere vivo questo importante dialogo e celebrare la vita in tutte le sue variazioni e meravigliose dimensioni, e gli aspetti Sacri legati a tutto questo. Sì, siamo in parte «bestia» e la nostra avidità, la nostra brama di potere, la nostra invidia, la nostra capacità di odiare parlano alle nostre ombre e alla nostra necessità di autoesaminarci e cercare assistenza nella psicologia, oltre che nella religione, per guarire e trovare perdono e cambiare nel profondo.
Dialoghiamo fra noi e impariamo le lezioni profonde e spesso antiche dei nostri antenati: possiamo innalzarci al di sopra del nostro cervello rettile e dare corpo al nostro cervello mammifero, che è compassionevole. Non mi dite qual è l’ideologia di cui vi ammantate. Ditemi piuttosto quale contributo date alla Vita, la Vita Sacra. Questo è il tipo di dialogo che cerco.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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Mancuso e le domande di Scalfari a papa Franceco

 

bei fiori

una interessante riflessione di V. Mancuso in riferimento alle domande e risposte nel contesto del dialogo fra Scalfari e papa Francesco
la chiesa sta imboccando una vera svolta, ma il pensiero laico è pronto a ripensare certe proprie rigidità o radici culturali inadeguate ad affrontare le grandi problematiche attuali?

Il bene del mondo e la Chiesa
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 4 ottobre2013

Inizierà davvero una nuova epoca per la Chiesa, e quindi inevitabilmente anche per la società, come prefigurava Scalfari a conclusione dell’intervista a papa Francesco? Ciò che sorprende nelle risposte del Papa è il punto di vista assunto, un inedito sguardo extra moenia o “fuori le mura” che non pensa il mondo a partire dalla fortezza-Chiesa, ma, esattamente all’opposto, pensa la Chiesa a partire dal mondo. Nei suoi ragionamenti non c’è traccia della consueta prospettiva ecclesiastica centrata sul bene della Chiesa e la difesa a priori della sua dottrina, della sua storia, dei suoi privilegi e dei suoi beni così spesso oggetto di cura gelosa da parte degli ecclesiastici di ogni tempo (un monumento del pensiero cattolico quale il Dictionnaire de Théologie Catholique dedica 9 pagine alla voce “Bene” e 18 alla voce “Beni ecclesiastici”!). C’è al contrario un pensiero che ha di mira unicamente il bene del mondo e per questo il Papa può dire che il problema più urgente della Chiesa è la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi. Non le chiese, i conventi e i seminari semivuoti; non il relativismo culturale; non il sentire morale del nostro tempo così difforme dalla morale cattolica; non la minaccia alla vita e al modello tradizionale di famiglia. No, la disoccupazione dei giovani e la solitudine degli anziani. L’aver assunto il bene del mondo quale punto di vista privilegiato ha condotto il Papa alle seguenti due affermazioni capitali: 1) la Chiesa non è preparata al primato della dimensione sociale, anzi c’è in essa una prospettiva vaticanocentrica che produce una nociva dimensione cortigiana («la corte è la lebbra del papato»); 2) storicamente essa non è quasi mai stata libera dalle commistioni con la politica – e a questo proposito la Chiesa italiana di Ruini e Bagnasco dovrebbe recitare non pochi mea culpa per non aver denunciato l’immoralità pubblica e privata di chi per anni governava l’Italia, di cui al contrario si è giunti persino a contestualizzare benignamente le pubbliche bestemmie. Ma l’azione del papa e la nuova epoca per la Chiesa che prefigura può non avere effetti anche sul mondo laico? Dei mali della Chiesa e delle riforme di cui necessita si è detto, ma penso sia saggio domandarsi se non esista anche qualcosa nella mente laica che occorre riformare. È solo la Chiesa che deve cambiare, oppure il cambiamento e la riforma interessano anche chi si dichiara laico e non credente? Naturalmente sotto queste insegne si ritrovano gli ideali più vari, dall’estrema destra all’estrema sinistra, e io qui mi limito a discutere il pensiero laico progressista rappresentato da Scalfari. Alla domanda del Papa sull’oggetto del suo credere, Scalfari ha risposto dicendo «io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti», e poco dopo ha precisato che «l’Essere è un tessuto di energia, energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità», attribuendo a combinazioni casuali l’emergere delle forme tra cui l’uomo, «il solo animale dotato di pensiero, animato da istinti e desideri», ma che contiene dentro di sé anche «una vocazione di caos». Insomma Scalfari si è professato, come già nei suoi libri, discepolo di Nietzsche. Ma cosa manca a questa visione del mondo? Trattandosi di un’eredità di colui che volle andare “al di là del bene e del male”, manca ovviamente la possibilità di fondare l’etica in quanto primato incondizionato del bene e della giustizia. Per Nietzsche infatti l’Essere è un “mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea”, il mondo “è la volontà di potenza e nient’altro”. Ma se il mondo è questo, ne consegue che il liberismo, in quanto volontà di potenza che vuole solo incrementare se stessa, ne è la più logica conseguenza. Perché mai quindi si dovrebbe lottare nel nome della giustizia, della solidarietà, dell’uguaglianza? Come non dare ragione a Nietzsche che considerava questi ideali solo un trucco vigliacco dei deboli, incapaci di lottare ad armi pari coi forti? Se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento. Da tempo vado pensando che la cultura progressista viva la grande aporia dell’incapacità di fondare teoreticamente la propria stessa idea-madre, cioè la giustizia. Darwin ha sostituito Marx, e
Nietzsche (attento lettore di Darwin) è diventato il punto di riferimento per molti. Il risultato è Darwin + Nietzsche, ovvero “l’eterno ritorno della forza”, cioè una cupa e maschilista visione del mondo secondo cui la forza e la lotta sono la logica fondamentale della vita. Se è giunto il tempo di una Chiesa che dia più spazio al femminile, è altresì tempo di un pensiero laico altrettanto capace di ospitare il femminile, intendendo con ciò una visione del mondo e della natura che fa dell’armonia e della relazionalità il punto di vista privilegiato. Da Aristotele a Spinoza a Nietzsche, la sostanza è sempre stata pensata come prioritaria rispetto alla relazione: prima gli enti e poi le relazioni tra essi. Oggi la scienza ci insegna (questo è il senso filosofico della scoperta del bosone di Higgs) che è vero il contrario, che prima c’è la relazione e poi la sostanza, nel senso che tutti gli enti sono il risultato di un intreccio di relazioni e tanto più consistono quanto più si nutrono di feconde relazioni. Questo è il pensiero femminile, un pensiero del primato della relazione, di contro al pensiero maschile basato sul primato della sostanza, e va da sé che pensiero femminile non significa necessariamente pensiero delle donne, perché ogni essere umano contiene la dimensione femminile e vi sono donne che pensano e agiscono al maschile (si consideri per esempio Margaret Thatcher, per tacere di alcune politiche italiane), mentre vi sono uomini che pensano e agiscono al femminile (si pensi per esempio a Gandhi e prima ancora al Buddha o a Gesù). Io penso che il nostro tempo abbia veramente bisogno di un nuovo paradigma della mente, di una ecologia della mente nel senso etimologico di riscoperta del logos che informa oikos,il termine greco per “casa” da cui viene la radice “eco” e che rimanda alla natura. Scalfari nel suo credo insiste sul caos e non sbaglia, perché il caos è una dimensione costitutiva della natura; non è la sola però, c’è anche il logos, alla cui azione organizzatrice si deve l’emersione dalla polvere cosmica primordiale degli enti e della loro meraviglia, tra cui la mente e il cuore dell’uomo. I grandi sapienti dell’umanità l’hanno sempre compreso, chiamando il logos anche dharma, tao, hokmà ecc. a seconda della loro tradizione. Cito volutamente un pensatore non cristiano, il pagano Plotino: «Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io; in quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio» (Enneadi IV, 8, 1). L’unione di logos + caos è la dinamica dentro cui il mondo si muove ed evolve. Essa ci fa comprendere che la verità non è un’esattezza, una formula, un’equazione, un dogma o una dottrina, insomma qualcosa di statico; la verità è la logica della vita in quanto tesa all’armonia, quindi è un processo, una dinamica, un flusso, un’energia, un metodo, una via. La verità è il bene in quanto armonia delle relazioni. In questo senso Gesù diceva “io sono la via, la verità e la vita”, non intendendo certo con ciò innalzare il suo ego in un supremo narcisismo cosmico, ma prefigurando il suo stile di vita basato sull’amore come ciò che al meglio serve l’Essere. Ne viene una visione del mondo nella quale l’ontologia cede il primato all’etica, nella quale cioè il vero non si può attingere se non passando attraverso i sentieri del bene, e l’amore diviene la suprema forma del pensare. Amor ipse intellectus,insegnava il mistico medievale Guglielmo di Saint-Thierry. I credenti sono chiamati a rinnovarsi e penso che con umiltà sotto la guida di questo papa straordinario in molti stiano iniziando a farlo; anche i non credenti però sono chiamati a rinnovare la loro mente alla luce dell’Essere non solo caos ma anche logos, cioè relazionalità originaria a livello fisico che fonda il bene a livello etico. Forse così l’ideale della giustizia e dell’uguaglianza al centro del pensiero progressista mondiale sarà distolto dalle nebbie del buonismo dei singoli e radicato su una più armoniosa visione del mondo.

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Messaggio del 33° Congresso di Teologia La Teologia della Liberazione, oggi

avversità

Dal 5 all’8 settembre, si è svolto in Madrid il 33° Congresso di  Teologia su La Teologia della Liberazione, oggi, che ha riunito un  migliaio di persone provenienti da vari paesi e continenti in un clima  di riflessione, comunione fraterna e dialogo interreligioso,  interculturale, interetnico.
1. Viviamo in un mondo gravemente ammalato, ingiusto e crudele, dove  la ricchezza si concentra sempre più in meno mani mentre crescono le  disuguaglianze e la povertà. Tra 40.000 e 50.000 persone muoiono ogni  giorno per la fame e per le guerre, quando ci sono risorse sufficienti  per nutrire il doppio della popolazione mondiale. Il problema non è,  quindi, la scarsità, ma la competitività, l’accumulo smisurato e la  distribuzione ingiusta, prodotte dal modello neoliberale. I governanti  lasciano che governino i poteri finanziari e la democrazia non è  arrivata all’economia. L’attuale crisi europea ha come effetto lo  smantellamento della democrazia.
2. La crisi economica si è trasformata in una crisi dei diritti  umani. Gli eufemisticamente chiamati “tagli” in materia di istruzione e  sanità sono, in realtà, violazioni sistematiche dei diritti individuali, sociali e politici, che avevamo ottenuto con tanto sforzo nel corso dei secoli precedenti.
3. Questa situazione, però, non è inevitabile, né naturale, né  risponde alla volontà divina. Si può rompere la passività cambiando il  nostro modo di vivere, di produrre, di consumare, di governare, di  legiferare e di fare giustizia e cercando modelli alternativi di  sviluppo nella direzione che propongono e praticano non poche  organizzazioni oggi nel mondo.
4. In questi giorni abbiamo ascoltato le testimonianze e le  molteplici voci delle differenti Teologie della Liberazione presenti in  tutti i continenti e che cercano di collaborare per dare risposte ai più gravi problemi dell’umanità: in America Latina, in sintonia con il  nuovo scenario politico e religioso e con le esperienze del socialismo  del XXI secolo; in Asia, in dialogo con le visioni del mondo orientali,  scoprendo in esse la loro dimensione liberatrice; in Africa, in  comunicazione con le religioni e le culture originarie, alla ricerca  delle fonti della vita nella natura.
5. Abbiamo verificato che la Teologia della Liberazione continua ad  essere viva e attiva di fronte ai tentativi del pensiero conservatore e  della teologia tradizionale di condannarla e darla per morta. La TdL è  storica, contestuale e si riformula nei nuovi processi di liberazione  attraverso soggetti emergenti di trasformazione: donne discriminate che  prendono coscienza del loro potenziale rivoluzionario; culture, in altri tempi distrutte, che rivendicano la loro identità; comunità contadine  che si mobilitano contro i Trattati di Libero Commercio; giovani  indignati, ai quali viene negato il presente e chiuse le porte del  futuro; la natura saccheggiata, che grida, soffre, si ribella ed esige  rispetto; emigranti maltrattati che lottano per migliori condizioni di  vita; religioni indigene e di origine africana che rinascono dopo essere state per secoli ridotte al silenzio.
6. La TdL è teologia della vita, che difende con particolare  intensità la vita più minacciata, quella dei poveri, che muoiono presto, prima del tempo. Fa realtà le parole di Gesù di Nazaret: «Sono venuto  affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Chiama a scoprire  Dio negli esclusi e crocifissi della terra: questa è la missione  fondamentale delle chiese cristiane, una missione dalla quale sono state finora molto lontane.
7. I riformatori religiosi hanno aperto e continuano ad aprire  percorsi di compassione e di liberazione integrale, che devono tradursi  politicamente, socialmente ed economicamente in ogni momento storico, in modo particolare, Siddhartha Gautama il Buddha e Gesù di Nazareth il  Cristo (tema dell’ultima conferenza del Congresso).
8. Denunciamo la mancanza di etica nelle politiche dello Stato che  presentano i tagli come riforme necessarie per la ripresa economica. La  nostra denuncia si estende a banche, multinazionali e poteri finanziari  come veri responsabili della crisi attuale in connivenza con i governi  che lo permettono. Optiamo per un altro modello economico i cui criteri  siano il principio del bene comune, la difesa dei beni della terra, la  giustizia sociale e la condivisione comunitaria.
9. Denunciamo l’uso della violenza, il militarismo, la corsa agli  armamenti e la guerra come forme irrazionali e distruttive di soluzione  dei conflitti locali e internazionali, a volte giustificati  religiosamente. Optiamo per un mondo in pace, senza armi, dove i  conflitti vengono risolti attraverso la via del dialogo e del negoziato  politico. Sosteniamo tutte le iniziative pacifiche che vanno in quella  direzione, come la giornata di digiuno e preghiera proposta da Papa  Francesco. Rifiutiamo la teologia della guerra giusta e ci impegniamo a  elaborare una teologia della pace.
10.   Denunciamo il razzismo e la xenofobia che si manifestano  soprattutto nelle leggi discriminatorie, nella negazione dei diritti  degli immigrati, nel trattamento umiliante cui sono sottoposti da parte  delle autorità e nella mancanza di rispetto per il loro stile di vita,  cultura, lingua e costumi. Optiamo per un mondo senza frontiere retto  sulla solidarietà, l’ospitalità, il riconoscimento dei diritti umani  senza alcuna discriminazione e della cittadinanza-mondo contro la  cittadinanza restrittiva vincolata all’appartenenza ad una nazione.
11.   Denunciamo la negazione dei diritti sessuali e riproduttivi e  la violenza sistematica contro le donne: fisica, simbolica, religiosa,  di lavoro, esercitata dall’alleanza dei differenti poteri: leggi sul  lavoro, pubblicità, mezzi di comunicazione, governi, imprese, ecc. Tale  alleanza favorisce e rafforza il patriarcato come sistema di oppressione di genere. Nella discriminazione e maltrattamento delle donne hanno una responsabilità non piccola le istituzioni religiose. La teologia  femminista della liberazione cerca di rispondere a questa situazione,  riconoscendo le donne come soggetto politico, morale, religioso e  teologico.
12.   Chiediamo la sospensione immediata delle sanzioni e la  riabilitazione di tutti le teologhe e teologi discriminati (coloro che  hanno visto le proprie opere proibite, condannate o soggette a censura,  coloro che sono stati espulsi dalle cattedre di insegnamento, coloro ai  quali è stato ritirato il riconoscimento di “teologi cattolici”, quelli  sospesi a divinis, ecc.), soprattutto durante i pontificati di Giovanni  Paolo II e Benedetto XVI, che furono particolarmente repressivi in  questioni di teologia morale e dogmatica, nella maggioranza dei casi per il loro coinvolgimento con la Teologia della Liberazione e anche per  seguire gli orientamenti del Concilio Vaticano II. Tale riabilitazione è esigenza di giustizia, condizione necessaria per la tanto attesa  riforma della Chiesa e prova dell’autenticità della stessa.  Rivendichiamo, a sua volta, all’interno delle chiese, l’esercizio dei  diritti e libertà di pensiero, riunione, espressione, insegnamento,  pubblicazione, spesso non rispettati, e il riconoscimento dell’opzione  per i poveri come criterio teologico fondamentale. Con Pedro Casaldáliga affermiamo che tutto è relativo, compresa la teologia, e che sono  assoluti soltanto Dio, la fame e la liberazione.

Madrid, 8 settembre 2013

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“la chiesa si spogli della mondanità!”

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Il Papa ad Assisi : “La Chiesa si spogli della mondanità”

 

“Basta cristiani da pasticceria”

(MARCO ANSALDO)

 «Oggi qui il Signore dia a tutti noi il coraggio di spogliarci della mondanità, che è la lebbra, il cancro della società». Chissà perché Francesco è il primo Papa a entrare nella Sala della Spoliazione, al Vescovado di Assisi. Ben 19 Pontefici, in 800 anni, hanno visitato la città del Poverello, e gli ultimi due (Wojtyla e Ratzinger) complessivamente per otto volte. Ma forse non è un caso che a calarsi interamente nei gesti del santo patrono d’Italia sia un Papa come Jorge Mario Bergoglio, con il guizzo per quel nome semplice e impegnativo che si è dato, e nel cui segno ha compiuto un viaggio storico – Francesco nel cuore del francescanesimo – sei mesi dopo la sua elezione.
Sotto un quadro moderno che richiama il ben più potente Giotto della Basilica a fianco, e raffigura il santo d’Assisi nudo, spogliato di tutti i suoi averi per darli a coloro che ne erano privi – un gesto radicale e unico nella storia della Chiesa – il nuovo vescovo di Roma ha ancora una volta lasciato da parte il discorso preparato alla vigilia, e parlato a braccio. Eppure, a scorrerlo, era un testo bellissimo, valorizzato da una frase guida, quasi un monito ai media: «Sono qui non per “fare notizia”, ma per indicare che questa è la via cristiana, quella che ha percorso san Francesco ». No, Bergoglio mette da parte i fogli, toglie gli occhiali, e guarda in faccia i suoi interlocutori: «Nei giorni scorsi – comincia – si facevano fantasie: il Papa andrà lì per spogliare la Chiesa, per togliere gli abiti dei vescovi, dei cardinali, si spoglierà lui stesso». E affonda il colpo: «Senza spogliazione diventeremmo cristiani di pasticceria, dei dolci bellissimi ma non cristiani davvero».
Ci sono 130 mila persone, un clima di festa. Ma il volto di Francesco è triste per l’enorme tragedia di Lampedusa: «Oggi è un giorno di pianto – continua – non importa se c’è gente che deve fuggire dalla schiavitù, dalla fame, e vediamo che cercando la libertà con quanto dolore tante persone trovano la morte».
La mattina presto, arrivato poco dopo le 7, persino in anticipo sull’orario, Francesco ha visitato i giovani pluriminorati dell’Istituto Seraphicum: «Questi ragazzi – dice accarezzandoli – sono le piaghe di Gesù che hanno bisogno di essere ascoltate, di essere riconosciute ». Fuori dal Vescovado, con i giornalisti che gli chiedono di avvicinarsi, invece scherza: «Io? Con questa brutta faccia…». Poi li benedice: «Grazie del lavoro che fate ».
A pranzo, al centro Caritas di Santa Maria degli Angeli fa gli auguri di buon onomastico a un bambino col suo stesso nome, dopo essere stato accolto da un piccolo nordafricano che lo abbraccia e gli si incolla vicino per tutto il tempo del pasto. Nell’omelia rivolge un saluto al presidente del Consiglio Enrico Letta: «Preghiamo per la nazione italiana, perché tutti lavorino per il bene comune e perché tutti guardino a ciò che unisce più che a ciò che divide».
Nella cripta del santo, accompagnato dai frati dei quattro ordini francescani, Bergoglio si inginocchia davanti alla tomba per un momento intenso di preghiera. Nella basilica di Santa Chiara depone un semplice mazzo di rose bianche avvolte in un fascio di carta blu davanti alla cripta della sorella spirituale di san Francesco. «Insegnaci a essere strumenti di pace», invoca il Papa, chiedendo che tacciano le armi in Siria, in tutto il Medio Oriente e in Terra Santa, dove andrà in viaggio a gennaio. Poi esce. È un bagno di folla. La gente applaude. Lui esorta ognuno ad ascoltare, camminare e annunciare fino alle periferie. E invita a non fare caricature del santo: «La pace francescana non è un sentimento sdolcinato. La trova chi prende su di sé il suo giogo, cioè il suo comandamento: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». Seguono tre sferzate ai religiosi: basta con «queste omelie interminabili, noiose, nelle quali non si capisce niente». Alle consorelle: «A me dispiace quando trovo suore che non sono gioiose, che forse sorridono col sorriso di un’assistente di volo ma non con il sorriso della gioia che viene da dentro». E sul celibato sacerdotale: «La verginità per il Regno di Dio comporta la rinuncia a un legame coniugale e a una propria famiglia, ma alla base c’è il sì come risposta al sì totale di Cristo verso di noi». Altro passaggio di grande effetto quello sugli sposi, rivolto ai 50 mila giovani che l’aspettano, prima di concludere il viaggio con la tappa alla Porziuncola, il luogo dove il santo morì: «Litigate quanto volete, fate volare i piatti. Ma mai finire la giornata senza fare la pace e dire: scusa, ero stanco».
Le dodici lunghe ore di visita terminano quando quasi alle 8 di sera l’elicottero con le insegne s’invola verso Roma. Nella Basilica di Santa Maria degli Angeli le campane suonano e salutano Francesco, il Papa.

Da La Repubblica del 05/10/2013.

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“chi è il nostro prossimo?” secondo A. Sofri

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“Perché sono loro il nostro prossimo”

di Adriano Sofri

un bellissimo articolo di Sofri che risponde ai più riottosi ad un’accoglienza dei migranti invitandoli a mettersi di fronte all’immediatezza della situazione al di là di posizioni precostituite che in quanto tali sono astratte:

in “la Repubblica” del 4 ottobre 2013

Ci si può commuovere tutti i giorni, o c’è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l’altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c’è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all’ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un’auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l’Isola dei famosi, la sera, e capiranno tutto. Dunque si è quasi offesi, da una giornata simile: centinaia di morti, l’ennesima, più lunga fila di sacchi da monnezza, non si può pretendere che ci commuoviamo ogni giorno che Dio manda, perbacco, e all’indomani di un allegro rilancio del governo, che prima era di necessità e ora è d’amore e d’accordo. Che c’entra il governo con la strage della barcaccia? Niente, appunto. Niente e nessuno, c’entra. È stata una disgrazia. Cioè: il cinismo degli scafisti, l’imprudenza dei passeggeri, il panico di tutti. I superstiti non presentavano problemi molto gravi, ha detto un bravissimo medico, qualcuno aveva bevuto, con l’acqua salata, parecchia nafta. Non c’entra nessuno, accusare, inventarsi dei colpevoli, è un lusso da salotto. (I leghisti sanno di chi è la colpa: di due signore). Però il papa ha detto: è una vergogna. Allora bisogna che qualcuno si vergogni, o che ci vergogniamo tutti. Di che cosa? Di tutto: della guerra civile in Siria, del mattatoio somalo, della violenza nigeriana che ricaccia indietro i ghanesi. Ah, va bene, campa cavallo! Vediamo più da vicino, allora. Controllare meglio quel tratto di mare? Ci sono occhi meccanici cui non sfugge un branco di sardine. Chi se ne intende dice che il lavoro che fanno la nostra capitaneria, la marina militare, la guardia di finanza, e anche i mezzi mercantili e da diporto è ammirevole, che i radar non bastano a vedere tutto, soprattutto con imbarcazioni piccole e mare mosso e sottocosta. Bene: eppure qualcosa occorre fare. Perché ieri non eravamo solo commossi fino alle lacrime, ma anche esasperati e furiosi. Perché anche piangendo, si pensa. Si pensa che in Giordania, in Libano, in Turchia, in Iraq, ci sono oggi un paio di milioni di profughi siriani, e da noi ne sono arrivati due o tremila; cui vanno sottratti – 250, 300? – quelli di ieri. Si pensa che due giorni fa sono state pubblicate le nuove cifre sugli immigrati in Italia, e quattro su dieci si propongono di tornare a casa o andare altrove, e molti l’hanno già fatto. Si pensa che in Grecia, tanto più povera di noi, e tanto sorella nostra – “stessa faccia, stessa razza” – gli immigrati dall’Europa orientale e dall’Asia e dall’Africa entrano per terra e per mare in numero assai superiore ai nostri, e poi ci restano chiusi, in omaggio a Dublino, in balia dei nazisti di Alba Dorata. E poi, si pensa alle obiezioni di chi, anche in mezzo a tutti questi morti – “una marea di cadaveri”, ha detto ieri un soccorritore, promuovendoli involontariamente a creature marine, quei viaggiatori che non sapevano nuotare – tiene a restare, secondo lui, freddo e lucido. “Non possiamo mica accogliere tutti i fuggiaschi del mondo”. No, infatti, non possiamo. Ma non stanno arrivando tutti i fuggiaschi del mondo. È ragionevole prevedere che ne arriveranno molti di più. Siccome ci si compiace a credere che l’alternativa sia fra buonismo e cattivismo, e chi non è né buonista né cattivista possa solo raccomandare l’anima e il corpo altrui a Dio, proverò a rispondere. Ammettiamo pure il caso più ottuso: che siate rigorosamente contrari all’immigrazione, che ve ne fottiate di tutte le avvertenze (“ma i nostri nonni, e il padre del papa Francesco, sono emigrati…”; e
“gli immigrati oggi coprono il 10 per cento del Pil italiano”, e così via). Bene. E ammettiamo ora che voi, i del tutto contrari, stiate bordeggiando sotto l’isola dei Conigli, e avvistiate una disgraziata che viene da Aleppo o da Samaria e che agita le braccia e annaspa: o la soccorrete, o no. Se non la soccorrete, siete davvero coerenti con la vostra convinzione, e il diavolo vi porti: l’avete meritato. Se la soccorrete, com’è infinitamente più probabile, non avrete affatto ripudiato la vostra convinzione, avrete saputo che c’era una cosa più importante. Che quando succede proprio a voi di imbattervi nella persona in pericolo, che da voi dipende la sua salvezza, le convinzioni politiche o demografiche si eclissano, e senza riflettere un momento lanciate il vostro salvagente o la vostra cima. (E non voglio ancora completare l’esempio, sicché succeda a voi di annaspare e agitare le braccia, venendo da Bergamo Alta, ed essere soccorso da una carretta di scafisti siriani). Questa non è la soluzione, ma è una gran parte della soluzione. La soluzione implica che in Siria finisca la guerra civile, che Dublino 2 non metta in croce la Grecia, che la Germania non si scandalizzi per l’arrivo di sbarcati a Scicli o a Riace, che l’Europa sia l’Europa. Cose grosse. Si possono affrontare, anche se sembrano così grosse. Ma intanto c’è la gran parte della soluzione, che consiste nel comportarsi seriamente, efficacemente, come si fa col disgraziato in cui vi siete imbattuti. Per esempio, quando in uno scampolo d’estate vi capita di fronte una di quelle barche di disperati, su una spiaggia siracusana o ragusana, o calabrese o pugliese, e fate una catena umana. Una catena umana – è gran parte della soluzione. Ma sarebbe ipocrita lasciarla al caso. Se il samaritano avesse saputo che tutti i giorni, sulla famosa strada, i briganti lasciavano tramortito un passeggero, avrebbe chiesto alla polizia di occuparsi dei briganti, e intanto avrebbe improvvisato con altri volontari il pronto soccorso a quell’angolo di strada. Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siamo buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell’immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che criminale, la politica dei “respingimenti”. Li respingi nei campi libici, a essere violati e bastonati e venduti. Li respingi “a casa loro”, dove gliela faranno pagare con la tortura e la pelle. E soprattutto li respingi: agitano le braccia, annaspano, gridano aiuto proprio a te, e li respingi. Perché questo non avviene, non abbastanza? Dobbiamo dirlo chiaramente. Perché le autorità, essendo responsabili (ciò che per molte di loro vuol dire ciniche) preferiscono un migrante annegato a un clandestino vivo che si aggiri per l’Europa. Un anonimo morto a un rifugiato vivo. Lo preferiscono, davvero, magari non dicendoselo così chiaro: se no non lo farebbero. Pensano (infatti pensano): “Se questi disperati arrivassero tutti vivi, sempre più disperati sarebbero incoraggiati a venire”. Bene: se pensano così, anche se non se lo dicono, stanno favorendo le stragi come quella di ieri, “magari non così grosse, non tanti in una volta”. Ciascuno, autorità o persona comune, può liberamente decidere che cosa pensa dell’immigrazione e dei migranti in carne e ossa – il nostro prossimo. Ma bisogna che sappia che cosa sta decidendo, e ne segua le conseguenze fino alla banchina di Lampedusa con la fila dei fagotti da monnezza. Resta da lodare ancora Lampedusa: perché quegli annegati non sono di nessuno, né del paese da cui fuggono, né di quello in cui sognavano di arrivare. Sono del mare, e di Lampedusa.

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“siamo credenti!” : p. Pagola commenta il vangelo di domani

anemoni

il commento del teologo biblico Pagola sul vengelo di domani 7 ottobre, 27a domenica del tempo ordinario
Lc 17, 5 – 10

SIAMO CREDENTI?

Gesù aveva ripetuto loro in diverse occasioni: “Che piccola è la vostra fede!”. I discepoli non protestano. Sanno che ha ragione. Sono oramai gia da molto tempo con lui. Lo vedono dedito totalmente al Progetto di Dio; egli pensa solamente di fare il bene; egli vive solamente per fare la vita di tutti più degna e più umana. Lo potranno seguire fino alla fine?

Secondo Luca, in un determinato momento, i discepoli chiedono a Gesù: “Aumenta” la nostra fede. Sentono che la loro fede è piccola e debole. Devono fidarsi più di Dio e credere più in Gesù. Non lo capiscono molto bene, ma non discutono. Fanno secondo loro la cosa più importante: gli chiedono aiuto affinché faccia crescere la loro fede.

La crisi religiosa dei nostri giorni non rispetta gli apprendisti. Noi parliamo di credenti e non credenti, come se fossero due gruppi ben definiti: alcuni hanno fede, altri no. In realtà, non è così. Quasi sempre, nel cuore umano c’è, contemporaneamente, un credente ed un non credente. Per questo motivo, anche per noi che ci definiamo “cristiani” dobbiamo porci questa domanda: Siamo realmente credenti? Chi è Dio per noi? L’amiamo? È egli che dirige la nostra vita?

La fede può debilitarsi in noi senza che ci abbia assaltato mai un dubbio. Se non la curiamo, essa può diluirsi a poco a poco semplicemente nel nostro interiore per rimanere ridotta ad un’abitudine che non osiamo abbandonare. Distratti da mille cose, non cerchiamo oramai più di comunicare con Dio. Viviamo praticamente senza lui.

Che cosa possiamo fare? In realtà, non c’è bisogno di grandi cose. È inutile che ci facciamo propositi straordinari perché sicuramente non li compiremo. La cosa prima è pregare come quello sconosciuto che un giorno si avvicinò a Gesù e gli disse: “Credo, Signore, vieni in aiuto nella mia incredulità”. È buono ripeterlo con cuore semplice. Dio ci capisce. Egli sveglierà la nostra fede.

Non dobbiamo parlare con Dio come se stesse fuori di noi. Egli sta dentro. La cosa migliore è chiudere gli occhi e rimaner in silenzio per sentire ed accogliere la sua Presenza. Neanche dobbiamo intrattenerci in pensare a lui, come se fosse solo nella nostra testa. Egli è nella cosa intima del nostro essere. Dobbiamo cercarlo nel nostro cuore.

La cosa importante è insistere fino ad avere una prima esperienza, benché sia piccola, benché solo duri alcuni istanti. Se un giorno percepiamo che non siamo soli nella vita, se captiamo che siamo amati da Dio senza meritarlo, tutto cambierà. Non importa che abbiamo vissuto dimenticandoci di lui. Credere in Dio, è, prima che niente, fidarsi dell’amore che egli ha per noi.

José Antonio Pagola

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