ancora sulla bambina bionda’rapita’

La vergognosa campagna anti-rom sulla “bambina rapita”

 

La vergognosa campagna anti-rom sulla “bambina rapita”

Forse ho perso qualche passaggio giornalistico, non sono abbastanza attento. L’impressione che ho riguarda una sequenza così: un paio di giorni o tre di clamore su una bambina bionda probabilmente (più che probabilmente) rapita da una coppia di rom. Foto della bambina bionda. Messaggi di migliaia di persone che hanno perso una loro bambina. Flebili (non nella voce che le diceva, ma nell’ascolto che trovava) parole di sorpresa di persone che conoscono i rom, o che sono rom, vantaggio non secondario, e dicevano che i rom sono così pieni di figli che, nonostante la leggenda, rapire figli altrui è l’ultima delle cose cui penserebbero. Scoperta dei veri genitori – cioé, i veri genitori si fanno vivi e dicono di aver dato loro la bambina, e danno delle loro spiegazioni. Titoli dimezzati, che non dicono: “Non era rapita la bambina, e non era scandinava”, eccetera, ma dicono: “Sospetti sulla bambina: forse è stata comprata”. Infine, sparizione della notizia. E’ durato poco, ma è stato bello.

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gli zingari non rubano i bambini!

La leggenda dei rom che “rubano”  i bambini e la verità dei fatti

Nella storia  italiana mai un caso di rapimento di bambini da parte dei “nomadi”. Una ricerca  rivela dati allarmanti: rispetto a un non rom, un bambino rom ha quasi 40  possibilità in più di essere dichiarato adottabile.

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La leggenda dei rom che

E’ il 10 maggio del 2008.

La 27enne napoletana Flora Martinelli accusa Maria  Dragan, ragazza rom di 16 anni, di essersi introdotta nella  sua abitazione del quartiere Ponticelli e aver tentato di rapire la sua bambina,  di appena sei mesi. La romnì rischia il linciaggio della folla e viene condotta  in una struttura per minori dalla polizia, che la interroga su quanto accaduto.  Maria risponde di essere andata in quella casa per prendere dei vestiti usati  che voleva darle una signora. Fuori, intanto, esplode la rabbia dei cittadini:  un operaio romeno viene aggredito da 20 persone mentre sta tornando a casa, ma  non è che l’inizio. Due giorni dopo si dà il via a una vera e propria  persecuzione: vengono lanciati sassi e bottiglie incendiarie nel campo rom di  Ponticelli, alcune baracche abitate da famiglie con bambini vanno a fuoco, una  struttura occupata da gitani viene data alle fiamme e un’ape car guidata da un  rom ribaltata. Di fatto gli attentati di matrice razzista si susseguono a decine  e costringono 700 rom di Napoli a fuggire. I media descrivono i fatti come una  “sollevazione popolare”, ma si scoprirà successivamente ben altro: su alcuni  terreni occupati dalle baracche avevano messo gli occhi dei clan camorristici.  Lì, infatti, doveva sorgere il Palaponticelli: ciò voleva dire milioni di euro e  appalti. La storia del rapimento non fu che il pretesto per innescare una  rivolta e sgomberare il campo. Non ci fu, infatti, nessun sequestro di minori da  parte della giovane Maria Dragan, che presto venne scagionata di tutte le  accuse. L’italiana Flora Martinelli era invece parente di un boss camorristico  del territorio.

Mai nella storia italiana si è verificato il rapimento di un minore  non rom da parte di una famiglia rom. Eppure il pregiudizio continua ad  essere ben radicato, alimentato nei giorni scorsi dalle notizie provenienti da  Grecia e Irlanda dove, in alcuni insediamenti rom, sono state trovate  delle bambine bionde. Il colore dei capelli è stato sufficiente a rinfocolare la  credenza popolare: “Sono state rapite”, hanno sostenuto i più, prima di scoprire  che una era la figlia albina della famiglia rom e l’altra era figlia di una  donna bulgara, che l’aveva data in “affidamento” a una famiglia rom pochi giorni  dopo la nascita “perché non potevamo darle da mangiare”. Ancora una volta si è  dimostrato come quella dei “bambini rapiti” non sia altro che una leggenda che  non trova nessun sostegno ufficiale. Lo dimostra anche uno studio del 2008  dell’Università di Verona, che ha rivelato come dal 1986 al 2007, in Italia,  nessun caso di presunto “rapimento” di bambini non rom da parte di rom e sinti  si sia concluso con una condanna per sequestro o sottrazione di persona.  Malgrado ciò nei giorni scorsi le forze dell’ordine hanno effettuato controlli  all’interno dei campi di Salone e Castel Romano – a Roma – e chiesto i  certificati di nascita di alcuni bambini.

Nessun bimbo “non rom”, dunque, è stato mai trovato nelle mani delle  comunità rom e sinte. Ma se fosse vero il contrario? Se fossero le  istituzioni a sottrarre i bambini rom alle proprie famiglie affidandoli in  adozione alle famiglie della società maggioritaria? La tesi, presentata a Roma  dall’Associazione 21 Luglio, è spiegata in un  dossier dal titolo “Mia madre era rom” (versione integrale in calce  all’articolo) che analizza in maniera scientifica la situazione dei minori rom,  a Roma e nel Lazio, che oggi non vivono più presso le proprie famiglie. “Dalla  ricerca – spiega l’Associazione 21 Luglio – realizzata in collaborazione con la  Facoltà di Antropologia culturale dell’Università di Verona, emergono dati  allarmanti, che mettono in risalto un flusso sistematico e istituzionalizzato di  minori dalle famiglie rom a quelle non rom in attesa di adozione, “giustificato”  dalle precarie condizioni abitative alle quali le comunità rom e sinte nel Lazio  sono costrette dalle politche locali in atto”. Condizioni abitative, va  sottolineato, che sono state indotte a seguito del Piano Nomadi della Giunta  Alemanno. Gran parte dei campi rom, infatti, sono di proprietà comunale.

Spiegano i ricercatori dell’Università di Verona: “L’indagine  quantitativa ha mostrato come dal 2006 al 2012 sia stato segnalato al  Tribunale Minorile il 6% della popolazione rom minorenne, ovvero 1 minore rom su  17. La percentuale scende drasticamente, allo 0,1%, per quanto riguarda i minori  non rom, nel cui caso è stato dunque oggetto di segnalazione 1 minore su 1000.  Lo studio indica come negli anni menzionati sia stata aperta una procedura di  adottabilità – ovvero ci si è interrogati sull’opportunità o meno dell’adozione  – per 1 minore rom su 20 e per 1 minore non rom su 1000. Le dichiarazioni di  adottabilità – le sentenze che decidono in via definitiva che un minore sia dato  in adozione – riguardano poi 1 minore rom su 33 – ovvero hanno coinvolto il 3,1%  della popolazione minorenne rom laziale – e 1 minore non rom su 1250 – ovvero lo  0,08% della popolazione non rom laziale. La popolazione minorenne rom  costituisce lo 0,35% del totale della popolazione minorenne laziale, per cui,  dal 2006 al 2012, se le proporzioni fossero rispettate, i minori rom dichiarati  adottabili dovrebbero essere solo quattro. Al contrario di quanto si potrebbe  prevedere, le dichiarazioni di adottabilità sono 117, un numero circa 30 volte  maggiore rispetto a quello atteso. In altri termini, rispetto a un minore non  rom, un minore rom ha circa 60 possibilità in più di essere segnalato alla  Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, circa 50  possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità e  quasi 40 possibilità in più di essere dichiarato effettivamente adottabile”.

Ma ancora, gli studiosi affermano: “Emerge dalla ricerca come esista  una conoscenza estremamente lacunosa e un forte pregiudizio nei  confronti dei rom da parte delle figure professionali protagoniste dell’iter che  porta alle adozioni. (…) Si è riscontrato, sia da parte dei giudici che degli  assistenti sociali, un diffusissimo approccio culturalista alla questione rom:  la cultura rom diventa nelle parole dei giudici, dei PM e degli assistenti  sociali un bacino, uno spazio omogeneo e uniforme, popolato da figure tra  loro identiche e fortemente stereotipate tra cui spicca quella del rom dedito ad  attività criminali, illecite, violente, all’accattonaggio e allo sfruttamento  dei propri figli. Seppur le condizioni materiali e abitative in cui vivono i rom  vengano riconosciute come pregiudizievoli per i minori, tali condizioni vengono  imputate alla cultura rom e alla volontà dei genitori e raramente si riconosce  il ruolo delle politiche sociali sull’indigenza e sul  degrado abitativo in cui vivono molte famiglie rom.  Oggettivamente, le condizioni di molti “campi” sono inadeguate e ledono i  diritti dell’infanzia. Se però tale inadeguatezza è associata alla cultura rom e  non agli effetti delle politiche locali, sistematicamente volte ad accentuare il  disagio socio-economico dei rom, allora lo strumento di intervento diventa  l’allontanamento del minore dalla propria famiglia, culturalmente e  ontologicamente inadatta a tutelare l’infanzia.

continua su: http://www.fanpage.it/la-leggenda-dei-rom-che-rubano-i-bambini-e-la-verita-dei-fatti/#ixzz2j99Qk2pq http://www.fanpage.it

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ripensare il relativismo

 

duei

il ‘relativismo’ sembrava ai due pontefici precedenti la cifra del limite intrinseco della cultura moderna e contemporanea e quindi da combattere e superare in base ad una identità culturale e valoriale più forte quale quella offerta dalla cultura cattolica le cui radici affondano nell’humus culturale ebraico e greco

col nuovo pontefice sembra essere possibile ripensare il relativismo come relatività, relazione. chissà che non sia possibile uno sguardo nuovo (meno conflittuale e più dialogico) rispetto al passato …

in merito un bel contributo di C. Albini in ‘Viandanti’:

Ripensare il relativismo

di Christian Albini
in “Viandanti” (www.viandanti.org)

Credenti e no sono necessariamente avversari? Da sempre sostengo che non sia vero. Premetto che queste sono etichette fuorvianti, come ormai sostengono molti. Il «credente» è abitato dal dubbio e anche il «non-credente» conosce una sua fede e la ricerca. Tuttavia, sono categorie comode per semplificare i nostri discorsi, a patto di disinnescare alcuni luoghi comuni fuorvianti e dannosi. Uno dei più importanti riguarda il significato del linguaggio del relativismo, che ha segnato il pontificato di Benedetto XVI, e l’uso che se ne fa. A lungo, il dissenso rispetto alle posizioni prevalenti tra i vertici della gerarchia cattolica, soprattutto in campo etico-legislativo, è stato respinto ricorrendo a quest’accusa. Il relativismo fa parte di quei concetti il cui significato è stato irrigidito e che vanno ri-compresi e ri-letti. C’è bisogno di una nuova comprensione di parole che sono state sequestrate dai settori più chiusi del cattolicesimo. La laicità non è relativista Gustavo Zagrebelsky, intervenendo nel dialogo aperto da papa Francesco con Eugenio Scalfari, scrive: «In ogni spirito che s’ispira alla laicità e crede alla necessità che forze morali possono unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a “reimpostare in profondità la questione” suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene e il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà» (la Repubblica, 23 settembre 2013). In anni recenti, vale la pena ricordarlo, Zagrebelsky ha portato avanti una critica serrata all’etica dei principi non negoziabili e della legge naturale, così com’era impostata anche da voci autorevoli del magistero. Questa sua posizione, come si evince dalle parole che ho riportato, non significa la negazione della verità, del bene e della giustizia. Il suo è il rifiuto di una certa impostazione etica e degli argomenti di cui si avvale, più che di ogni etica. E nemmeno è il sostenere una posizione radicalmente individualista e perciò relativista. Ultimamente, alcuni fatti tragici hanno dimostrato come sia possibile trovare una sintonia tra portatori di visioni del mondo diverse in nome del bene della persona. È accaduto in occasione della giornata di preghiera e digiuno per la pace e in seguito alle tragiche morti di Lampedusa. Qui è in causa la persona con il suo volto, la sua carne, il suo sangue: un bene univoco, evidente, da difendere nei confronti di un male indubitabile. Alle radici delle divergenze Ci sono altre situazioni – soprattutto quelle riguardanti l’etica d’inizio e fine vita e la famiglia – in cui questa sintonia non si riscontra. Perché? Bisogna avere l’accortezza di chiedersi se questa è una divergenza che nasce da una negazione della vita e della famiglia, o piuttosto da una differente concezione del bene. Il nichilismo certamente esiste, ma sarebbe irrealistico considerarlo un fronte ben identificabile e schierato in armi contro i cattolici che lo fronteggiano. Solo un’esigua minoranza, tra gli atei e i non cattolici, può essere considerata effettivamente nichilista. Nietzsche e Heidegger hanno ben spiegato come il nichilismo sia piuttosto un clima di pensiero, un’atmosfera che tutti respiriamo, cattolici compresi. Si può essere perfettamente ortodossi sul piano dottrinale, eppure assumere un atteggiamento nichilista: è il caso del fondamentalismo, che divide il mondo in due e demonizza l’alterità negandone il bene. Il punto è: chi sostiene su questioni di vita e famiglia una posizione “altra” rispetto a quella prevalente nella Chiesa – scrivo prevalente, perché in ambito teologico-morale interrogativi e
dibattiti hanno uno spazio molto più ampio di quanto generalmente non si pensi, al punto che nella storia si rilevano cambiamenti anche notevoli nel magistero – è sostenitore di un male? E se, invece, sostenesse un bene differente, oppure una differente attuazione del medesimo bene che la Chiesa sostiene? La prospettiva dell’incontro Se in una relazione omosessuale caratterizzata da fedeltà e dedizione c’è un bene, riconoscerlo non significa negare il matrimonio. Chi sostiene, a certe condizioni e in certe situazioni, l’interruzione della ventilazione o della nutrizione artificiale è per la morte, o invece discerne una sproporzione tra i costi soggettivi, in termini di disagio psicologico, di queste pratiche e il fine che perseguono? Si tratterebbe allora di un giudizio morale su come coniugare la cura della vita con la libertà e la dignità della persona umana. Non è affatto l’avvallo dell’eutanasia e di una cultura dello scarto, ma accettare che oltre un certo limite può diventare disumanizzante persistere nell’impedire la morte. Affrontare queste e altre questioni non significa entrare in una prospettiva di permissivismo senza freni, in cui tutto va bene. Sarebbe caricaturale porre le cose in questi termini. È più corretto dire che è una prospettiva d’incontro, la quale nasce dalla disponibilità a riconoscere il bene di cui l’altro è portatore dentro a una relazione. Senza che questo significhi necessariamente trovare un accordo facile e totale. Allo stesso modo, non è attraverso la vittoria in una disputa, bensì nella relazione che l’altro arriva a ritenere credibile me e il bene di cui sono portatore. Scrive Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21). Il relativismo, allora, non è dato da posizioni non pienamente coincidenti con le mie, ma dall’indifferenza per la persona e il suo bene, che inizia dal non riconoscerlo come soggetto portatore di un’autenticità etica che si manifesta nella sua coscienza. È in questi termini che si può leggere l’esortazione di papa Francesco a seguire il bene percepito dalla propria coscienza, che non è avvallo di tutto. Nel mercante di clandestini o nell’aguzzino nazista non c’è autenticità etica, perché c’è indifferenza verso l’altro. Ben diverso è il caso di chi entra nei dibattiti su vita e famiglia.

Christian Albini Socio fondatore e membro del Consiglio direttivo di Viandanti

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L’Italia abbandona i più deboli

L'Italia abbandona più deboli

         Le donne, gli uomini, i bambini invalidi sono vittima dei tagli imposti alla spesa pubblica. Senza sussidi né servizi, restano affidati alle famiglie che spesso non hanno i mezzi per curarli adeguatamente. Ecco le loro storie                                                          

di Fabrizio Gatti

                                                 Il mio bimbo si chiama Loris, scusi se ho scritto Lollo nell’email, ma era il nome che lui diceva quando gli veniva chiesto come ti chiami», rivela il suo papà: «Sì, il mio bimbo, fino a quel giorno che vorrei cancellare e cioè il 23 aprile 2012, stava benissimo. Era un bimbo sanissimo di due anni e mezzo. Poi un’emorragia al cervelletto e il mondo cambia, la vita diventa difficile e tutti ti chiudono le porte».
Ma uno Stato può chiudere le porte e sacrificare i suoi cittadini più deboli? L’Italia, anche quella dei pregiudicati che frodano il fisco e pretendono di continuare a sedersi in Parlamento, la risposta se l’è già data. Chiara e tonda: un sì, netto e drammatico. Non siamo ancora all’eutanasia imposta alla Grecia dall’Unione Europea per non far crollare l’euro. Ma non siamo lontani: anzi, con i recenti tagli alla spesa sociale le persone non autosufficienti sono già state sacrificate. In nome del fiscal compact, il patto di bilancio europeo. Con tutte le sue conseguenze.

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                                              Basta ascoltare i racconti dei lettori che hanno partecipato a questa inchiesta dell’Espresso. E guardare il nostro Paese dagli occhi di piccoli e adulti che per vivere, studiare, lavorare hanno bisogno di aiuto. Al punto che Lollo, sopravvissuto all’emorragia, adesso non può accedere alla riabilitazione di cui ha bisogno. Mentre a Milano e in altre città ci sono bambini che frequentano la scuola dell’obbligo soltanto per 11 ore la settimana, dopo che il ministero ha ridotto le spese per gli insegnanti di sostegno.
E altri ragazzi proprio in questi giorni rischiano di dover rinunciare agli studi perché i Comuni non pagano più il trasporto e i bus di linea sono barriere architettoniche con le ruote. Oppure bisogna osservare l’Italia dalle finestre di donne e uomini invalidi che, prigionieri dei loro appartamenti, sopravvivono a fatica visto che l’Inps a ogni verifica sospende l’assegno anche per diciotto mesi.

DISABILI IN CADUTA LIBERA

O immaginarla dai letti di quelle migliaia di anziani non autosufficienti che aspettano la loro ora ingabbiati dentro istituti convenzionati a 700 euro al giorno, ingrassando i bilanci di cliniche e cooperative quando, se bene organizzata in casa, la stessa assistenza costerebbe alle casse pubbliche meno della metà. Sofferenza e affari. Se la crisi è una corrente impetuosa che erode le nostre vite e i doveri di solidarietà sanciti dalla Costituzione, i cittadini disabili e le loro famiglie sono già in caduta libera oltre la soglia della cascata. Al Nord, come al Centro e al Sud.
Un paradosso se si considera la presenza così massiccia di cattolici nella politica italiana. Come ha sottolineato Margherita Hack nella prefazione al libro-inchiesta di Roberto Gramiccia e Vittorio Bonanni “La strage degli innocenti. Anatomia di un omicidio sociale” (Ediesse): «Balza agli occhi, da un lato, l’assurda contraddizione fra la difesa della vita a tutti i costi di persone in coma da anni ridotte a vegetali, fra la proibizione di usare le cellule staminali embrionali perché l’embrione si ritiene persona in fieri», ha scritto l’astrofisica scomparsa il 29 giugno, «e, dall’altro, la scarsa e inadeguata assistenza agli anziani, soprattutto ai più deboli, senza sufficienti risorse».
Gli economisti di mezzo mondo discutono se i tagli siano conseguenza della crisi in Europa: o viceversa se le misure di austerità non abbiano annientato l’autonomia degli Stati nell’intervento a difesa dei più bisognosi. Non tutti la pensano come il presidente della Bce, Mario Draghi, che in un’intervista al “Wall Street Journal” ha dichiarato che il modello sociale europeo è ormai superato. O come Norbert Walter, l’economista di punta della Deutsche Bank che nel 2008 profetizzava: «In futuro alcuni di noi dovranno adattarsi a guadagnare uno stipendio insufficiente a sopravvivere». Ma ecco, quel futuro è già qui.

NIENTE FISIOTERAPIA

Savino Ferrara, 42 anni, il papà di Lollo, per assistere il suo piccolo ha dovuto chiudere la sua impresa. «Prima che succedesse la mia fine del mondo», racconta, «ero un artigiano edile». I Ferrara abitano a Seregno, provincia di Monza e Brianza, una ventina di chilometri da Milano, una zona ricca, ma non per tutti.
Savino ora fa l’operaio in una ditta di costruzioni. «Ho chiuso perché non avrei più il tempo che avevo da dedicare all’impresa. Mia moglie», aggiunge, «non lavora perché deve accudire il piccolo di giorno e soprattutto la notte. Ho altri due figli, una di 20 anni, uno di 18. La prima ha lasciato le superiori all’ultimo anno perché dopo che Lollo è tornato a casa dal lungo ricovero, il bisogno di un aiuto era più importante dello studio. Attualmente il nostro piccolo con l’assistenza domiciliare integrata della Asl fa tre sedute settimanali della durata di 45 minuti di fisioterapia. Io ne integro privatamente altre due alla settimana. Poi quattro sedute di logopedia per la deglutizione a settimana e io ne integro altre due. Non siamo assistiti da nessun centro neuropsichiatrico infantile. Tutto viene svolto a casa. Perché il Don Gnocchi, il centro privato convenzionato che c’è qui, ci avrebbe dato solo tre sedute di fisioterapia e una di logopedia che sono uguali a niente».
Savino racconta che ogni otto mesi può richiedere una seduta intensiva in un altro centro convenzionato dove ci sono medici, neurologi, fisiatri e quant’altro: «Ma ogni otto mesi è davvero troppo poco. Per poterlo rimettere in piedi, un bimbo con tetraparesi spastica avrebbe bisogno di almeno due ore al giorno di fisioterapia e se dobbiamo anche insegnargli a deglutire e a svezzarlo con le pappe, avrebbe bisogno di almeno sei incontri al giorno di logopedia». Poi ci sono le spese: «Mille euro al mese non rimborsabili.
Li spendo per colliri e alcuni farmaci che il servizio sanitario non passa e tutto l’occorrente per le medicazioni, la tracheotomia, il sondino per il nutrimento. Ci sentiamo in balia delle onde», confessa il papà di Lollo e spera nell’aiuto economico di qualche associazione privata. Sa che con il suo stipendio da operaio da solo non può farcela. Arriva quel momento che prima o poi tutti i genitori nella sua situazione devono affrontare: la consapevolezza di non riuscire a fare il necessario per salvare il proprio bimbo. Prima dell’avvento del liberismo finanziario e del disastro che sta provocando, era compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che tolgono il sonno a milioni di italiani. Ora rimangono i gesti di buona volontà. Nella regione del senatore Formigoni che in pochi anni si è mangiata 89 milioni in tangenti sulla sanità, i soldi per aiutare Lollo li raccolgono i clienti di un bar. Con spiccioli e mance.

SCUOLA PUBBLICA, SOSTEGNO PRIVATO

Anche M., 7 anni, seconda elementare a Milano, è una bambina sacrificata dallo Stato. Per lei, come per molti altri alunni, l’Ufficio scolastico ministeriale ha concesso 11 ore di insegnante di sostegno su 40 di presenza settimanale a scuola. Nelle altre 29 ore la piccola, che soffre di encefalopatia post natale, aveva due alternative: rimanere parcheggiata in aula o tornare a casa. La piccola M. però può dirsi fortunata.
La soluzione l’ha trovata la mamma, 41 anni, impiegata. Paga lei l’educatrice in classe per le ore non coperte: 1.400 euro al mese. «Se ne va tutto il mio stipendio, unica entrata della famiglia», dice: «Ma posso permettermelo grazie all’aiuto dei miei genitori». Per tutti gli altri bambini che non possono contare sui nonni, la scuola dell’obbligo a Milano dura soltanto 11 ore alla settimana. Laura, 16 anni, anche lei milanese, con una grave sindrome autistica, non si è potuta iscrivere alle superiori: «Nei casi più gravi come quello di nostra figlia», spiega la mamma, 49 anni, «gli istituti non sono in grado di accogliere questi ragazzi con le necessarie modalità educative. E in questi ultimi anni le ore di sostegno sono state ridotte all’osso: sei o massimo nove alla settimana. Tanto che quest’anno ci siamo trovati nella condizione di dover rinunciare a iscriverla alla scuola superiore. Dove peraltro abbiamo trovato gentili ma fermi rifiuti alla sua iscrizione per l’inadeguatezza di strutture e la mancanza di personale qualificato. I dirigenti puntano sul fatto che l’obbligo scolastico finisce a 16 anni. Mentre la legge sull’integrazione scolastica prevede un insegnante di sostegno su tutte le ore per ogni studente con il 100 per cento di invalidità, fino alla quinta».
In alternativa Laura e altri ragazzi nelle sue condizioni frequentano un centro di riabilitazione privato. Sono 900 euro al mese di retta. Li copre in parte il Comune, dopo una lunga trattativa con i genitori. Il trasporto, 25 euro al giorno, è tutto a carico delle famiglie. Fanno 500 euro al mese: praticamente l’intera indennità mensile di accompagnamento di 499 euro che Laura riceve dall’Inps. E che un invalido dovrebbe far bastare anche per i farmaci che il servizio sanitario non passa, gli integratori, le vitamine, le ore in più di riabilitazione e mille altri imprevisti. Tutto questo nella stessa città in cui la Regione spende milioni di euro in buoni scuola. Un modo per aggirare la Costituzione, articolo 33, e finanziare le scuole private.
«Non si ha idea dello sconvolgimento, dell’impegno che riguarda tutta la famiglia ad affrontare l’assistenza», commenta Susanna Ligato, 48 anni, impiegata part-time per seguire il figlio autistico, 17 anni, il maggiore di due ragazzi, terza liceo artistico che frequenta a orario ridotto, un mutuo da 550 euro al mese, il centro di riabilitazione da pagare perché non è convenzionato: «Mi aiutano i miei genitori, 77 e 70 anni. L’angoscia più grande è pensare a cosa succederà quando non ci sarò più io». Chi può permettersi l’avvocato fa ricorso al Tar per ottenere più ore di sostegno. E di solito vince. Ma la scuola non aggiunge mai insegnanti. Per rispettare la sentenza, l’ufficio scolastico regionale si limita a togliere ore ad altri bambini o ragazzi disabili dello stesso istituto. Così i genitori che hanno vinto il ricorso finiscono con il sentirsi in colpa. Perché alla fine, altri alunni perdono l’insegnante di sostegno. Oppure scoppiano discussioni per accapparrarsi un’ora in più. Nessun preside ha la forza di opporsi alla follia di queste soluzioni. Obbediscono alla cieca. Da quando la loro carica dipende da un contratto triennale, chi protesta mette a repentaglio la sua qualifica.

O IL TAXI O LA VITA

I tagli non risparmiano nemmeno il diritto al lavoro. A Torino il Comune ha diminuito la spesa per i buoni taxi. Un punto di eccellenza che garantiva alle persone con disabilità motoria la possibilità di andare a scuola, in ufficio, a fare visite mediche. La copertura è stata ridotta a un massimo di 4 euro a corsa. Con il traffico delle ore di punta, significa un minimo contributo su un totale di 25 – 30 euro al giorno. «È un balzo indietro di una trentina d’anni», osserva Andrea Ginestri, 47 anni: «La cosa più grave è che alcuni disabili abbiano preso in considerazione l’ipotesi di licenziarsi. Chi ha un impiego part-time, riterrebbe più conveniente licenziarsi perché gran parte del suo compenso verrebbe spesa in taxi». A Torino come nel resto d’Italia le barriere architettoniche sono fuori legge. Ma spesso al taxi non ci sono alternative.

MANCANO LE STRUTTURE

Il trasporto è ugualmente un dramma per Concetta Drago, 46 anni, insegnante, che quest’anno scolastico appena cominciato non sa come far arrivare in classe la figlia colpita da osteogenesi imperfetta, 16 anni, terza liceo linguistico: «Abitiamo in un piccolo paese della Sicilia e», racconta, «la scuola di mia figlia è a 40 chilometri, a Sant’Agata Militello. Ci hanno spiegato che con la prevista abolizione delle province, quella di Messina non ha rifatto il bando per l’appalto del trasporto. Tutti i paesi di qui sono nella stessa situazione. Intanto abbiamo cominciato a portarla noi ogni giorno. Mi sta aiutando mia madre, ma ha settant’anni e non potrà farlo sempre. Mia figlia è ben inserita, completamente dedita allo studio. Si muove su una carrozzina e no, è impossibile servirsi dei pullman di linea. Li dovrebbe vedere».
A Cerignola, provincia di Foggia, la cooperativa che trasporta i disabili al centro diurno di Andria, 92 chilometri tra andata e ritorno, vanta un credito di 11 mesi di arretrati da parte del Comune e 14 mesi da parte della Asl. Pochi giorni fa si è trovata una copertura temporanea delle spese e soltanto per questo il servizio non è stato sospeso. «Per le luminarie della festa patronale però il Comune i soldi li ha trovati, per questo ci siamo arrabbiati», protestano i disabili di Cerignola e dintorni. La lista dei paesi italiani nelle stesse condizioni è lunga. Un altro esempio è Catania: il Comune ha ridotto il contributo per il trasporto scolastico degli alunni disabili dai 6,69 euro al giorno del 2006 ai 2,28 del 2012. Il resto della spesa lo devono aggiungere i genitori. Oppure Ginosa Marina, provincia di Taranto, dove Biagio, 27 anni, è bloccato a casa senza poter svolgere alcuna attività: «Utile quanto meno ad avere un lieve miglioramento nel linguaggio e nel fisico. I genitori impegnati ad accudire Biagio 24 ore su 24», racconta una parente: «sono sempre stati troppo poveri per agire privatamente e le strutture sono quasi inesistenti. A scuola non è mai stato seguito seriamente. La struttura per disabili più vicina è a 25 chilometri. Il papà, manovale saltuario, ha chiesto di poter usufruire di un servizio navetta. Ma da quel “le faremo sapere” è trascorso tanto tempo e il telefono non squilla mai».
«Come risultato ai tagli», racconta Maria Simona Bellini, 56 anni, di Roma, «si è attivato un meccanismo perverso attraverso il quale ci viene consigliato di rinchiudere i nostri cari in istituto. Cioè per non sostenere i mille euro al mese di assistenza domiciliare, gli enti preferiscono spendere 700 euro al giorno in istituti privati per non autosufficienti. Dietro alla lobby delle cliniche e delle cooperative c’è un forte bacino di interessi e di voti. Il meccanismo delle cooperative è diabolico. Per mia figlia il Comune di Roma spendeva 1.500 euro al mese per 12 ore settimanali di assistenza a casa. Ora che ci occupiamo noi dei contratti, 20 ore a settimana costano al Comune 700 euro al mese. È una forma di assistenza prevista dalla legge. Ma viene concessa solo se si minacciano denunce e ricorsi. Gli uffici preferiscono far passare tutto attraverso i loro appalti con le cooperative. Immaginate voi il perché».

INDENNITÀ BLOCCATE

Maria Simona ha ottenuto un contratto di telelavoro per stare accanto alla figlia di 25 anni e al marito, 57 anni, invalido dal 2007 dopo un aneurisma. «La vita non smette mai di metterti alla prova», dice lei: «Mio marito è prigioniero in casa. Ha una pensione di invalidità civile, 270 euro con cui dovrebbe vivere. L’hanno fatto rivedibile ogni due anni. A gennaio ha passato la visita. Ma a febbraio, alla scadenza, l’Inps gli ha bloccato l’indennità. Succede a tutti, giovani e anziani. Ogni due anni. Riprendono a erogartela dopo sei, sette mesi. Per qualcuno anche diciotto. Una vessazione. Per fortuna ci aiutano i suoi genitori anziani. Altrimenti non saprei come fare». Parafrasando “Germania anni Dieci”, l’ultimo libro del grande giornalista tedesco Günter Wallraff (L’Orma), sono i più anziani la stampella di questa Italia anni Dieci. Ma quanto può durare?

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in solidarietà alle ‘ragazze al volante’

ragazze al volante

un piccolo grande gesto, una sfida delle ‘ragazze al volante’ ad un regime autoritario e oscurantista, destinato a dare frutti molto più ampi

così la bella riflessione di M. Serra (congiunta ad un bel video) ne l’ ‘amaca’ odierna:

Mette allegria, mette energia la coraggiosa ribellione delle saudite al volante. Siamo così immersi nella nostra piccola palude nazionale da dimenticarci che a pochissima distanza da noi, praticamente appena fuori dall’uscio, c’è un luogo chiamato “mondo”. E nel mondo succedono tante cose formidabili e importanti. Per esempio questa sfida a una delle tante amputazioni che le femmine non vogliono più subire. Non è un dettaglio, se pensate che la libertà di movimento determina la felicità degli umani quanto la libertà di parlare, di lavorare, di amare chi si preferisce amare, di scegliere il proprio destino. Il comunismo sovietico è caduto, prima ancora che per la sua penuria di beni, e di libertà individuali, per l’odioso divieto di viaggiare, muoversi, cambiare città, paese, vita. La potenza simbolica della caduta del Muro dipendeva dalla fine, tanto attesa, di quella assurda gabbia.
Festeggiamo dunque quelle ragazze (di ogni età) al volante. Sentiamole nostre sorelle. Rischiano qualcosa, forse rischiano molto, ma hanno da perdere, come si dice classicamente, soltanto le loro catene. E non perdetevi l’eccellente video satirico (di un maschio saudita, l’artista Hisham Fageeg) No woman no drive (clicca qui) , che sta facendo il giro del mondo. È un piccolo capolavoro.

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