povertà a LUCCA

 

La povertà è un’emergenza: 1.500 famiglie ai centri Caritas

Il rapporto annuale dell’organismo diocesano fotografa una situazione drammatica

Il vescovo Castellani

Il vescovo Castellani

Lucca, 22 novembre 2013 

Un dato su tutti: nell’ultimo anno ai Centri ascolto «Caritas» della Lucchesia hanno chiesto aiuto ben 1.500 persone, un terzo un più rispetto all’anno precedente. Ognuno portavoce delle istanze di una famiglia con almeno un figlio: lo specchio statistico riflette dunque un popolo di almeno 4.500 persone che nella nostra provincia sono in cerca di un sostegno e, nel 70 per cento dei casi, anche di un lavoro. L’emergenza non arretra di un passo, secondo quanto rivela l’ultimo report sulla povertà della Caritas, significativamente intitolato «Forti nella speranza». Ormai non si tratta solo più di immigrati in cerca di «primo approdo». Quasi un caso su due parla italiano, e tra gli italiani uno su quattro si trova in una situazione di frattura familiare, diviso dal coniuge.
Padri separati che si rifugiano in alloggi di fortuna e, dall’altra parte di un fossato che si divarica, madri che non ricevono l’assegno di mantenimento e non sanno come mettere in tavola la cena per sè e e per i figli. La crisi avanza e non ne fa mistero il vescovo Italo Castellani che ha dovuto ritagliare uno spazio apposito da dedicare all’ascolto nel centro Caritas.  «Fino a qualche tempo fa il venerdì la mia porta era sempre aperta per chi aveva dei problemi su cui confrontarsi — ha dichiarato monsignor Castellani —. Oggi, purtroppo, il fronte dell’emergenza si è notevolmente allargato e ogni 15 giorni ho creato uno spazio al centro Caritas dedicato a chi cerca risposte. E’ in atto una forte crisi non solo dal punto di vista economico, ma anche dei valori, morali, spirituali e culturali. E c’è un altro campanello d’allarme che suona fortissimo: l’aumento della rassegnazione e, di conseguenza, del numero degli inoccupati, coloro che hanno rinunciato a trovare un lavoro». La classe media è nel vortice di una crisi che non molla, e i bisogni che rappresenta sono quelli essenziali: il cibo e l’abitare.
«La povertà ha un nuovo identikit — ha spiegato Donatella Turri, direttrice della Caritas Lucca —. Attraversa tutta la società, bussa a casa di chi fino all’altro giorno ha avuto un buon tenore di vita e di colpo dalla vita ha ricevuto un fendente violento e improvviso che l’ha gettato nel baratro. E i parenti aiutano, ma le risorse non sono infinite». La povertà colpisce soprattutto sotto i 34 anni, e il dato rivela tutta la difficoltà di entrare nel mondo del lavoro, anche da laureati. In seconda battuta chi ha sotto i 44 anni, mentre è leggermente più clemente nella fascia intermedia, per poi tornare a colpire duro nella zona degli ultra 65enni. Gli stranieri in cerca di aiuto sono soprattutto marocchini, poi romeni, originari dello Sri Lanka, albanesi, ucraini e, in ultimo, tunisini.
«Di solito — afferma la dottoressa Elisa Matutini che ha collaborato alla stesura del resoconto — la richiesta va nella direzione di una ricerca di autonomia. Prima ancora che sussidi economici e viveri, cercano un lavoro full time. E, purtroppo, una volta che si sono affacciati ai nostri centri di ascolto, in un caso su due ritornano perché il problema negli anni non si è risolto». I numeri lo confermano. I 20 centri di ascolto della Caritas nel 2000 accoglievano 109 persone; nel 2005 sono saliti 827, nel 2012 quasi il doppio, 1.500. La fame di lavoro non trova appagamento: in provincia oggi sono quasi 20mila le persone in cerca di occupazione di cui 3.400 stranieri. E poi l’emergenza sfratti: nel 2012 sono stati ben 377 nella nostra provincia, più di uno al giorno. Peggio del 2011 (358), molto peggio dell’anno in cui è iniziata la crisi, il 2008 (218). Le famiglie non riescono a far fronte a bollette, affitti, spese vive necessarie. E i provvedimenti di sgombero coatto delle abitazioni si moltiplicano

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recupero della ‘teologia della liberazione’?

Gutierrez

La teologia liberata e liberante

È in atto il superamento dell’incomunicabilità della teologia della liberazione (TdL) col magistero
Conquiste, correzioni e discussioni per un pensiero utile alla Chiesa
Il senso degli interventi vaticani e il cammino dei teologi
Il silenzioso lavoro di quattro decenni

fuori dai riflettori dei media la ‘teologia della liberazione’ ha forse dato i suoi frutti migliori nel ripensamento costante e umile, e ora li offre alla chiesa perché mai dimentichi i poveri, preferiti di Dio e immagine vivente del Cristo crocifisso e risorto

 

La pubblicazione del libro scritto a quattro mani dal card. G. Müller e dal teologo G. Gutiérrez, indicato come padre della TdL (Teologia della Liberazione), Dalla parte dei poveri, pare aver messo fine, se non al dibattito e alla discussione, quantomeno all’incomunicabilità tra il magistero e la stessa TdL, aprendo il tempo del dialogo costruttivo.

All’esito ha contribuito la fine del socialismo reale con l’attrattiva del marxismo e lo scorrere del tempo che ha portato diversi teologi a ripensare, alla luce delle critiche ricevute, quanto debba restare e quanto invece debba essere superato all’interno della teologia liberazionistica. Ma non senza peso è stato anche il pontificato di papa Francesco. In quanto pensiero umano su Dio, la TdL può anche scomparire dopo aver segnalato la necessità di mantenere vivo l’aspetto fondante, ovvero il rapporto Vangelo/poveri ai quali è preferenzialmente destinata la buona notizia. A partire da loro, il Vangelo diventa richiamo esigente ad una conversione delle strutture economiche e politiche, generatrici di ingiustizia e di sfruttamento.

Per una valutazione interna della TdL e dei cinquant’anni dal concilio in America Latina (cf. Sett. 39/2012, pp. 8-9).

Per molti essa è la trasposizione contestuale e continentale delle istanze del concilio Vaticano II, ove si afferma che le gioie e i dolori dell’umanità appartengono indissolubilmente al corpo ecclesiale e in modo specifico le sofferenze degli impoveriti devono trovare eco e difesa nella comunità dei discepoli di Gesù. Tale ansia evangelizzatrice e liberatrice, si sedimenta nelle riunioni continentali dei vescovi latinoamericani che si traduce nel metodo vedere-giudicare -agire e nella scelta preferenziale per i poveri e i giovani sempre riaffermate nelle assemblee di Medellín (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992) e Aparecida (2007). La necessità di riflettere a partire dalla fede per servire i poveri e difenderne la dignità umana, viene a calarsi negli anni ’60-’70 in una realtà continentale segnata dai venti della guerra fredda: gli stati latinoamericani vivono sotto dittature militari violente e repressive, alleate ai potentati economici, in conflitto anche violento con i movimenti di guerriglia di ispirazione marxista. Le tre correnti maggiori Alcuni rappresentanti del movimento teologico della TdL non vedono altra possibilità di agire a favore degli sfruttati se non alleandosi con i rivoluzionari, non trovando altre possibilità di lettura della realtà in grado di giustificare l’impegno politico liberazionista. Si viene a creare in questa corrente, minoritaria ma amplificata volutamente nelle sue prospettive, una sorta di contaminazione tra marxismo, fede, Bibbia e agire concreto. Si fi- nisce col leggere la Bibbia con categorie esclusivamente sociologiche e si fa della lotta di classe, anche violenta, l’unica strada per servire i poveri. A questa corrente si rivolgerà direttamente l’istruzione vaticana del 1984 Libertatis nuntius, che segnalerà il pericolo di rileggere i dati della rivelazione alla luce della prospettiva marxista, creando un corto circuito inaccettabile. L’istruzione vaticana successiva del 1986 – Libertatis conscientia – offrirà ai credenti le coordinate per essere nel processo di liberazione veri discepoli del Cristo unico liberatore dell’umanità dal peccato e dalla morte. Ci sono state altre correnti significative. Come quella derivante dalla predicazione e dall’azione di vescovi lungimiranti, ancorata al magistero sociale della chiesa dalla prassi storica dei popoli latinoamericani, escludendo la violenza o la rivoluzione armata. Di essa hanno fatto parte i più conosciuti teologi: G. Gutiérrez, i fratelli Boff (Clodovis e Leonardo), J. Sobrino, J. Ellacuría, S. Galilea, E. Dussel. Anche questa corrente però, pur escludendo odio e violenze, ha ricevuto critiche notevoli. Il punto più discusso è l’identificazione, in alcuni, del proprio impegno con quello dell’intellettuale organico (Gramsci). I dati della fede sono tali solo come stimolo per la prassi, sottomettendo così tutto il patrimonio biblico ad una selezione fatta in funzione dell’azione efficace da realizzare nella società, spingendo i cristiani ad una militanza quasi totalizzante. L’urgenza legittima di ridare vita ai poveri portava a considerare la TdL come l’unica forma valida di tutta la teologia, escludendo qualsiasi altra prospettiva accusata di ideologizzare, nell’ottica dello status quo, la fede e di servire il potere oppressore. Il martirio È esistita anche una corrente che, senza rinnegare l’analisi sociale, ha posto l’attenzione sulle energie proprie della religiosità del popolo per ritrovare in esso le coordinate per resistere all’ingiustizia imperante e sostenere progetti di trasformazione della società senza farsi condizionare da ideologie atee. La sapienza del popolo, soggetto attivo della sua storia, è alimento vitale per costruire una teologia autenticamente liberatrice che lo aiuti a produrre una prassi efficace ma libera da schemi socioolitici estranei al suo humus vitale. Di questa corrente i nomi più importanti sono quelli di alcuni teologi argentini come L. Gera e J.C. Scannone (che è stato professore di papa Francesco), e facenti capo alla Facoltà di teologia dei gesuiti di Buenos Aires. Le nette critiche del magistero sono state utili per un valido ripensamento della TdL, anche se va detto con amarezza che molti le hanno utilizzate non come elementi teologici, bensì politici, volendo eliminare e far tacere tutta la voce della Chiesa latinoamericana che invece si spendeva coraggiosamente a favore del popolo povero, indipendentemente dall’adesione formale a una teologia, seppur importante, come è stato il caso ad esempio, di mons. Oscar Romero ucciso in San Salvador nel 1980. Diversi teologi si sono fatti carico di rivisitare le questioni metodologiche della TdL in modo che fosse davvero più aderente alla natura stessa della teologia in quanto intelligenza della fede che divenisse anche intelligenza dell’amore, in grado di guidare la testimonianza cristiana a favore della giustizia e fraternità, a partire dalla qualità rinnovatrice insita alla fede stessa. Anzitutto G. Gutiérrez, negli anni successivi alle prese di posizione del magistero e rispondendo anche alle osservazioni a lui fatte nel 1985 dalla Conferenza episcopale del Perù, ha avuto modo di focalizzare alcuni punti importanti. Egli afferma che il sorgere della teologia è radicato non solo nell’efficacia della prassi, bensì in un’esperienza mistica, ovvero nell’incontro col Dio della vita, presente nel mondo dei poveri. La struttura che realmente cementa e sostiene la prassi trasformatrice è la spiritualità, la rea- le esperienza globale di vita come assenso e totale donazione al Signore percepito come il vivente nel cuore della storia. L’esperienza di questa spiritualità si nutre di gratuità poiché ci si sente sostenuti dalla grazia di Cristo nella gioia interiore alimentata dal Risorto. Si manifesta concretamente come infanzia spirituale, ovvero come disponibilità ad abbandonarsi totalmente nelle mani di Dio condividendo i patimenti dei poveri al cui fianco aprire squarci di speranza nella lotta spasmodica tra le forze di morte e quelle della vita. Spiritualità e prassi Il primo momento della teologia è quindi per Gutiérrez la fede che si esprime in preghiera e im- pegno. La scelta preferenziale per i poveri è conseguentemente teocentrica poiché in essi agisce il Dio vivente e la prassi del credente a loro favore è cristocentrica, poiché trova in Gesù la sua origine e regola definitiva. Si comprende il cammino compiuto dal teologo peruviano: non è la prassi a determinare la fede e la Rivelazione, ma è la fede a guidare l’impegno a favore degli oppressi. In questa prospettiva si è posto anche il teologo argentino J.C. Scannone. Egli riconferma l’utilità e la necessità di una teologia contestuale che si caratterizzi come intellectus misericordiae, ovvero come riflessione sulla verità della fede che faccia scoprire come questa verità sia amore condiscendente e gratuito della Trinità per l’umanità intera a partire però dagli esclusi e dai sofferenti. L’autore che maggiormente ha insistito sulla qualità della dimensione cristocentrica della TdL è stato Clodovis Boff,in un poderoso studio di ripensamento delle sue prospettive, Teoria do método teológico, (Petropolis 1998). La teologia, anche quella a favore dei poveri, ha come fondamento la fede in Dio e non la realtà concreta da trasformare. L’ortoprassi suppone l’ortodossia. Il giudizio sulla verità della prassi deriva dalla parola di Dio. La definizione classica dela TdL come riflessione critica sulla prassi storica alla luce della parola di Dio – sottolinea C. Boff – non considera la prassi come istanza determinante ma viene sottomessa al giudizio della fede che resta criterio definitivo di orientamento. All’accusa che la TdL sottometta la fede alla prassi, C. Boff ora risponde che è la prassi giustamente a essere sottomessa alla fede, luce unica che illumina la vita personale e la storia intera. Collocare la prassi all’inizio di ogni ri- flessione teologica è, per C. Boff, un cedimento alla modernità e una fissazione culturale nell’idea del sapere-potere che si esprime nell’attivismo tecnico-storico. La prassi che si concretizza nell’amore non deve essere cieca, ma veritiera, altrimenti vi è il rischio di amare un idolo qualsiasi e non il Dio vivo rivelato in Gesù. La ragione teologica non è immediatamente utilitaristica. La teologia serve per conoscere il Dio amore: essa conosce per amare e ama per liberare e promuovere la vita. L’azione testimoniale come tale è un fine medio, quello ultimo è godere la comunione con Dio sommo bene. La fede, quindi, resta sempre la ragione formale del fare teologia anche in contesti di sofferenza e di ingiustizia, riaffermando il primato di Dio, non però un Dio astratto ma coinvolto nella salvezza anche storica delle sue creature. I nuovi cammini Questa prospettiva riaffermata più volte da C. Boff, anche alla vigilia dell’incontro dei vescovi latinoamericani in Aparecida (Brasile), ha trovato un’opposizione critica nel fratello Leonardo Boff, secondo il quale la realtà dei poveri resta atto primo del fare teologia in quanto in essi è presente il Dio della vita. La TdL deve restare an- corata alla sua primigenia intui zione: servire alla liberazione de- gli oppressi amati e preferiti da Dio stesso nella vita storica di Gesù. Sinceramente, non si vede una contraddizione insanabile tra le prospettive dei fratelli Boff. Leonardo invita a guardare i poveri con gli occhi amorevoli di Dio e depositari della sua preferenza, Clodivis ci ricorda che in tale impegno a loro favore non possiamo però esaurire tutta l’esperienza cristiana o ridurla a prassi limitata sebbene necessaria. Il rischio di esaurire la fede in strategia è sempre presente e per questo la luce della fede deve sempre illuminare la testimonianza del credente nella mischia pericolosa della storia da cambiare nella logica del regno di Dio. Bisogna aggiungere che, anche negli anni del silenzio e delle censure, la TdL ha proseguito il suo cammino di riflessione, aprendosi a nuove prospettive e tentando di rispondere a nuove sfide. Anzitutto si è posta al servizio dell’inculturazione della fede nelle culture indigene dell’America Latina. Ha riflettuto con profondità sulla necessità di difendere l’ambiente, deturpato e stravolto dalla sete di ricchezza, considerandolo dono di Dio da difendere e da custodire. È nata una teologia ecoliberatrice di cui tutto il mondo ha bisogno se vogliamo avere un futuro come umanità. Così l’autore brasiliano Jun Mo Sung si è preso il compi- to di elaborare una critica teologica dell’economia odierna per poter abbattere alla radice la visione idolatrica del liberismo imperante ed escludente. Fuori dai riflettori dei media, la TdL ha forse dato i suoi frutti migliori nel ripensamento costante e umile e ora li offre alla Chiesa per- ché mai dimentichi i poveri preferiti di Dio e immagine vivente del Cristo crocifisso e risorto.

Antonio Agnelli

(in ‘Settimana’- attualità pastorale del 29.9.2013)

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il dialogo interreligioso

croce

 

Il dialogo interreligioso

di Andrés Torres Queiruga
in “Missione Oggi” n. 7 del agosto-settembre 2013

Dagli atti del convegno di Missione Oggi, su “Siamo gli ultimi cristiani? Alle soglie di un nuovo mondo”, riprendiamo l’intervento del teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga sulla missione in tempo di pluralismo religioso. Il problema del dialogo tra le religioni oggi si pone in modo nuovo e richiede un cambiamento di mentalità: vedere l’altro non più come un concorrente, ma come un compagno di ricerca. Ogni religione è vera, nel senso che tutte le religioni sono parzialmente vere e quindi non nella stessa misura, tutte hanno qualcosa da insegnare e da imparare. Il dialogo religioso è un vero processo. Accanto alla Bibbia (ritenuta dai cristiani la rivelazione più completa) altre rivelazioni. Gesù unico salvatore e volontà salvifica universale: una unicità non escludente. Oltre l’esclusivismo  (nessuna salvezza fuori della chiesa), oltre l’inclusivismo (tutta la verità delle altre religioni è già inclusa nel cristianesimo). Per l’universalismo asimmetrico (‘finesettimana’-rassegna stampa)

 

Il problema del dialogo tra le religioni è antico quanto l’umanità, poiché in un modo o nell’altro le diverse tradizioni religiose sono sempre state in contatto e si sono sempre influenzate reciprocamente. La stessa Bibbia, quanto più ne conosciamo la genesi e le complesse evoluzioni nella storia, appare un modello di questo dialogo interno: religioni molto più antiche, come quelle mesopotamiche ed egizie, ne accompagnarono la formazione, influenzando profondamente tanto i libri cosiddetti storici quanto quelli profetici, dei salmi e sapienziali. Ma indubbiamente il fenomeno acquista oggi un’intensità eccezionale, non solo per l’esponenziale intensificazione dei contatti, ma anche perché la necessità di un dialogo aperto e riflessivo tra le diverse religioni si è imposto con evidenza nel pensiero religioso attuale. In realtà il problema è divenuto così urgente che comporta un radicale cambiamento nel modo di affrontarlo, un autentico mutamento di paradigma. E questo implica la necessità di una profonda trasformazione non solo nei nuovi concetti, ma anche negli atteggiamenti e nei sentimenti. Un nuovo modo di avvicinarsi all’altro, in cui è opportuno vedere non più un concorrente, ma un compagno di ricerca; perciò davanti al Mistero comune risulta privo di senso insistere sul “tuo” e sul “mio”, giacché, essendo identica la ricerca e comune il Mistero, il mio è anche tuo come il tuo è ugualmente mio e tutto è di tutti.
ogni religione è vera Troppe volte ci è stato detto che Dio ci ha creato “per la sua gloria” o affinché “lo servissimo”; un’idea che — almeno in senso letterale — risulta chiaramente contraddittoria col suo Essere. Infatti, persino sul piano filosofico — Dio come Pienezza assoluta — e naturalmente in una concezione cristiana — Dio come amore (1Gv 2,4-8) — è ovvio che, se Dio crea, può essere solo per dare, per regalare. Nella creazione, ben intesa, l’unico interesse di Dio siamo noi: tutto in noi e tutti e tutte noi. Per questo la teologia attenta a questo dato fondamentale deve ripensare molto a fondo l’idea di rivelazione. Si deve capire che dall’inizio della creazione Dio, come Padre/Madre che crea per amore, cerca di manifestarsi nel modo migliore e più pieno possibile a ogni donna e a ogni uomo, a ogni razza e a ogni cultura. La creazione è già salvezza, sforzo amoroso di Dio per manifestarsi e salvarci. I limiti — che, per disgrazia, sono così certi, duri ed evidenti — non derivano dalla sua mancanza di generosità, ma dalla nostra piccolezza: finiti, non siamo capaci di comprendere l’infinito; mondani, ci è molto difficile cogliere in qualche modo il Trascendente; finitamente liberi, resistiamo spesso ad accoglierne la manifestazione. Però qualcosa Dio riesce a ottenere nella lunga pazienza storica della sua “lotta amorosa” coi nostri limiti e le nostre resistenze. Osservando bene, questo spiega la storia delle religioni, che, in definitiva, consiste nella lenta, difficile e tortuosa percezione umana di quanto Dio cerca da sempre di rivelare. Ogni religione è un modo di configurare in credenza, rito e prassi questa percezione nel proprio tempo e nella propria cultura. Per questo —varrebbe la pena dilungarsi su questo punto —non c’è privilegio né “elezione”: gli stessi profeti sono stati nella Bibbia molto critici su questa categoria e, contro le pretese elitarie, lo stesso Giovanni Battista avvisava che “Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre” (Mt 3,9; cfr. le parole di Gesù in Gv 8,33-40). Di conseguenza, e col massimo rigore, è opportuno porre come principio fondamentale: ogni religione è vera. In questo senso fondamentale ciò, infatti, equivale esattamente ad affermare che ogni religione è una percezione della presenza rivelatrice e salvatrice di Dio. Lo è, certo, in modo umano, cioè carente e limitato, con una mescolanza di errori e oscurità, progressi e passi indietro, deformazioni e persino perversioni molte volte terribili. Cosa che vale per tutte, compresa quella biblica nella sua storia reale, e non solo, come si potrebbe pensare, per le religioni più “arretrate” o “primitive”. In realtà, il principio deve, allora, essere riformulato: “Tutte le religioni sono
parzialmente vere”. Constatazione decisiva per tre fondamentali motivi. Prima di tutto, perché proprio per questo una riflessione realista comprende che, come succede in tutto ciò che è umano, pur essendo tutte vere, non lo sono nella stessa misura: per eliminare ogni dubbio è sufficiente uno sguardo alla storia delle religioni o alla stessa attualità, In secondo luogo, perché allora diventa evidente che, nessuna essendo perfetta e conclusa, tutte hanno qualcosa che alle altre manca e quindi in tutte e in ciascuna c’è sempre qualcosa che possono insegnare e qualcosa che devono apprendere. Il che, in terzo luogo, mostra qualcosa di decisivo: che il dialogo religioso, qualunque siano i partecipanti, può e deve essere un processo reale, che chiede al contempo apertura e umiltà, disponibilità a dare e a ricevere, atteggiamento critico e recettività autocritica.
fine del “bibliocentrismo” Riconoscere la nuova situazione e accettare gli atteggiamenti che essa comporta implica una disposizione esigente a non resistere al cambiamento e ad aprirsi al rinnovamento. In termini religiosi, implica una metanoia, cioè un “cambiamento di mente”, una conversione. Una cosa che non accade mai senza inevitabili rinunce, ma che, se ben condotta, è anche sempre carica di promesse. Questo coinvolge, come è logico, tutte le religioni, ma qui, per realismo e modestia, dobbiamo concentrarci sulla nostra. Al suo interno ci sono due punti che devono essere posti in primo piano. Il primo è l’inevitabile fine del “bibliocentrismo”. Se, come si è detto, tutte le religioni sono — nella propria, ma reale, misura — rivelate, risulta evidentemente impensabile che la Bibbia sia un libro assolutamente unico, per cui solo in esso sia adeguato parlare di rivelazione divina. Riconoscerlo implica situarla nel continuum dei diversi libri e delle diverse tradizioni sacre dell’umanità. Il che, in partenza, non le concede alcun privilegio; ma ha il grande vantaggio di rendere possibile il dialogo critico reale con tutte. In questo modo, senza pericolo di imposizione di alcun tipo, la tradizione biblica può dispiegare la propria profondità e ricchezza, offrendola alle altre religioni, mentre si lascia interrogare e, a sua volta, arricchire da loro. Perché allora, all’interno di questo dialogo e ormai a posteriori, ci sarà spazio per stabilire paragoni e rendere evidenti i motivi per cui noi cristiani crediamo che nella Bibbia si sia raggiunta una rivelazione che nel suo insieme — non in tutti i dettagli! — risulta la più completa e riveste addirittura carattere ultimo e definitivo.
significato della rivelazione in Cristo Si tratta, come si vede, di un tema delicato e decisivo. Però più delicato e decisivo risulta il secondo, peraltro intimamente collegato: il significato che noi cristiani attribuiamo al culminare della rivelazione in Cristo. Nel linguaggio della “confessione” gli Atti degli Apostoli arrivano ad affermare: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Però la riflessione più austera della “teo- logia” deve precisare l’intenzione oggettiva, cercandone il vero significato, in modo che non contraddica la volontà salvifica universale di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1 Tm 2,4) né, come ha detto il Concilio, neghi tutto quanto nelle altre religioni “c’è di vero e santo”. Da subito è opportuno riconoscere, allora, che non può trattarsi di una negazione che escluda gli altri, ma di un’affermazione cordiale ed entusiasta del proprio vissuto, così tipica del linguaggio dell’amore: “Tu sei unica o unico per me”. Per tanto non può mai indicare una dialettica intransigente del tutto o niente, del vero e falso, ma un dialogo cordiale del buono e migliore, del vero o più vero, nella consapevolezza che la conclusione non si può proclamare a priori né, tanto meno, imporre con la forza, ma deve essere frutto di analisi critica e discussione dialogante. Questo è peraltro quanto accade di fatto: chi sceglie di appartenere a una religione sta manifestando, con coscienza più o meno esplicita e rigorosa, che nel suo insieme la considera migliore, più completa e convincente delle altre. Il che succede anche in religioni che, come l’induismo o il buddhismo, paiono proclamare l’uguaglianza di tutte. “Coloro che adorano altri dei con fede e devozione, adorano anche me, anche quando non osservano le forme usuali. Io sono l’oggetto di ogni adorazione, il suo recettore e Signore”, dice Krishna (Bhagavad-Gita IX). Pericolosa non è la
scelta, ma il dogmatismo; non è la scelta, ma l’esclusivismo. Inoltre, com’è indicato all’inizio, un atteggiamento aperto e umile davanti al Mistero non cerca di appropriarsi di nulla, ma di condividere tutto, vedendo in ogni differenza non una minaccia, ma una promessa di progresso e completamento.
insufficienza delle categorie: esclusivismo, inclusivismo, universalismo Il cambiamento che tutto ciò presuppone fa sì che le categorie finora usate per affrontare il problema risultino oggi insufficienti. Alcune in modo così chiaro da esigere semplicemente un rifiuto. Altre, mostrandosi utili, chiedono di essere profondamente riformulate. Alle prime appartiene, senza dubbio, l’esclusivismo, il quale presupponeva — letteralmente —che tutte le persone collocate fuori dall’orbita cristiana fossero destinate alla condanna eterna: è il famoso “Nessuna salvezza fuori della Chiesa”. Francis A. Sullivan, che fa la storia dettagliata della “atroce formulazione di questa dottrina”, indica che su questo punto ancora “nell’ultimo quarto del XVIII secolo erano sostanzialmente d’accordo” cattolici e protestanti. Oggi la semplice formulazione suscita un rifiuto così istintivo che costituisce la migliore dimostrazione della sua falsità. Si capisce che di fronte a questa teoria sia nato l’ inclusivismo, che ha costituito un grande progresso. Il suo fondamento cordiale, che costituisce la sua verità incancellabile, si radica nel riconoscimento che salvezza e bontà non sono esclusive dei cristiani, ma sono anche lì dove qualcuno, a partire dalla propria religione, risponde all’appello profondo del Signore. Qualcosa che, in definitiva, è già stato detto da Gesù di Nazaret negli stessi Vangeli: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21); o, con maggior rigore, quando nella parabola del giudizio finale afferma che chi conosce davvero Dio è colui o colei che pratica l’amore reale, sebbene teoricamente non professi la fede. In questa linea si muoveva la teoria patristica dei logoi spermatikoi, che nelle verità dei filosofi vedeva i “semi di verità” che non venivano annullati, ma, al contrario, arrivavano alla loro pienezza nella rivelazione di Gesù. Karl Rahner, col suo “cristianesimo anonimo”, ha aperto strade e detto cose memorabili in materia. E a partire dal Vaticano II l’accettazione di questa visione di fondo è divenuta patrimonio praticamente unanime della teologia. Però il limite di questa categoria consiste in due punti importanti. Da una parte, nella mancanza di realismo storico, quando pretende che sia la “grazia cristiana” a operare in tutte le religioni. Dall’altra, nel fatto che, pretendendo che “tutta la verità” delle altre religioni sia già inclusa nel cristianesimo, rende impossibile un dialogo realista, che non si riduca a mera strategia retorica. Non possiamo dare l’impressione che tutte le religioni, per il fatto di essere vere e condurre a Dio, debbano passare per la fede cristiana, poiché la storia mostra che Dio, a seconda delle circostanze e delle possibilità, ha seguito e segue vie specifiche con ciascuna. L’alternativa all’inclusivismo è rappresentata dal pluralismo o universalismo, sostenuto principalmente da John Hick e, poi, da molti altri. Anche questa categoria riconosce qualcosa di fondamentale e indiscutibile: il fatto che la risposta a Dio è data sempre nel proprio tempo e nella propria cultura. Per questo dicevamo che tutte le religioni sono vere. E per questo non può stupire che questa posizione, per il superamento dell’etnocentrismo e per il suo spirito di rispetto e tolleranza, susciti oggi una spontanea simpatia. Tuttavia, se prima parlavamo di mancanza di realismo storico, adesso bisogna parlare anche di mancanza di realismo antropologico. Se da parte di Dio l’universalismo è totale e assoluto, senza favoritismi, “elezioni” o “preferenza di persone”, da parte umana le risposte non sono mai uguali né simmetriche. Da ciò deriva il fatto che perfino nello stesso ambito culturale esistano religioni diverse e addirittura contraddittorie in aspetti importanti. Ancor più decisivo: in ogni religione c’è sempre un’insoddisfazione, una necessità di cambiamento e purificazione, che si manifesta in movimenti profetici e di rinnovamento, quando non in conflitti e rotture (si pensi pure che quanto più si studia lo stesso Nuovo Testamento, tanto più si apprezzano le profonde differenze e contrapposizioni tra le diverse teologie contenutevi). Il fatto stesso che i più radicali sostenitori dell’universalismo debbano distinguere tra “grandi” e “piccole” religioni indica in modo incontrovertibile che esistono criteri di discriminazione per distinguere la maggiore o minore profondità, completezza o purezza; altrimenti il mero numero di adepti diventerebbe criterio
di verità.

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la diffamazione di Paolini nei confronti di Ratzinger

Paolini: “Ho conosciuto Ratzinger in una sauna per gay”

 Diffamazione?

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Parole di diffamazione secondo gli avvocati Marcello e Michelangelo Melandri, legali della Rai che hanno già chiesto che il tribunale trasmetta gli atti alla Procura. A far scoppiare la bomba è stata una dichiarazione spontanea rilasciata da, Gabriele Paolini, nell’ambito di uno dei processi per una delle sue incursioni ai danni di due collegamenti in diretta della Rai, nella quale il “disturbatore” ha affermato:

“Ho conosciuto Joseph Ratzinger in una sauna per gay, a Torino, quando avevo 14 anni”

e poi ha proseguito:

“Sono vent’anni che vengo ai processi. Oggi per me è emozionante perché vengo da detenuto per un altro motivo e perché è presente in aula mia madre. Nel periodo dei fatti che mi sono contestati in questo processo, gridavo di una infanzia rubata. Ho nella mia vita scelto di stare dietro ai giornalisti non per disturbare, ma per dire la mia verità. E per un motivo o un altro, la mia voce è stata sempre ascoltata a metà. Nelle due occasioni di cui si occupa questo processo chiedevo le dimissioni di Ratzinger”.

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