A. Paoli visto da V. Mancuso

paoli

 

Vito Mancuso riflette sul nuovo libro di Arturo Paoli: ‘cent’anni di fraternità’ presentando tutta la sua vita come una vita da teologo della libertà

Arturo Paoli, una vita da teologo della libertà
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 2 dicembre 2013
Escono i ricordi del “profeta” del cristianesimo senza potere che ha compiuto 101 anni.
‘Cent’annidi fraternità’

Cent’anni di fraternità è il nuovo bellissimo libro di Arturo Paoli, un titolo che suona come una
metafora dell’esistenza in contrapposizione ai Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez, ma che
certifica anche una vita individuale che il 30 novembre scorso ha compiuto 101 anni. Nato a Lucca
nel 1912, sacerdote, medaglia d’oro al valor civile e giusto tra le nazioni per aver salvato molti
ebrei, Paoli risulta presto sgradito alla chiesa di Pio XII e viene allontanato dall’Italia. Va in
Argentina dove trascorre 13 anni e finisce tra le liste dei condannati a morte del regime, si salva
andando in Venezuela dove rimane 12 anni, poi in Brasile dove passa vent’anni, torna in Italia nel
2005.
Maestro spirituale, profeta mite e severo, autore di numerosi libri che mostrano vasta cultura e uno
stile letterario affascinante, la sua opera è un’anticipazione profetica e una coerente applicazione
della Teologia della liberazione. In gioco vi sono due liberazioni, la prima riguarda i poveri e gli
sfruttati del pianeta perché «tutto il Vangelo è una denuncia contro coloro che stanno sopra», perché
«Dio si trasforma in un’immagine tirannica se l’uomo non lo raggiunge per il cammino della
relazione con gli altri», perché se è vero che esiste una dimensione della vita più profonda della
sfera economica è ancora più vero che «rinunziare a guardare in faccia l’economico è come
svuotare la croce di Cristo». Il segno più chiaro dell’identificazione con Cristo ha molto a che fare
con l’economia, il Vangelo la chiama fame e sete di giustizia.
La seconda liberazione promossa da Arturo Paoli riguarda lo stesso cristianesimo, spesso ridotto a
ideologia che difende i privilegi dei potenti e che va riscattato da tale alienazione. Questo
cristianesimo ecclesiastico nemico della liberazione degli uomini si manifesta nelle idee «che hanno
portato i vescovi dell’Argentina ad aderire con un tacito assenso alla furia diabolica dei militari…
con la complicità della Nunziatura apostolica, dunque del Vaticano». Nessuno può ignorare infatti
che «i generali argentini si dichiaravano cattolici», «paladini della civiltà occidentale cristiana», né
può essere un caso che lungo la storia dell’umanità «le nazioni cristiane sono quelle che hanno
creato più guerre».
Parole durissime, di un uomo sempre pacifico e sorridente ma che non fa sconti quando c’è di
mezzo la giustizia, raro profeta all’interno di un cattolicesimo italiano così schiacciato sui calcoli
politici e sempre generosamente ossequioso verso il potere. Arturo Paoli al contrario è sempre stato
amico dei poveri, mai dei potenti, lo dimostrano le pagine di critica esplicita verso Karol Woytjla e
Joseph Ratzinger per l’opera di demolizione della Teologia della liberazione e delle comunità
ecclesiali di base. Temevano la contaminazione marxista, «però quelli che parlano di questi pericoli,
non sono forse nel pericolo di far convivere tranquillamente la fede cristiana con l’ingiustizia e
l’oppressione?».
Oggi l’anziano profeta scrive che «con papa Francesco sembra inaugurarsi uno stile nuovo di vita»
e si dichiara «felice di ricevere dalla Chiesa l’elogio della Teologia della liberazione di cui sono
stato fedele seguace». Attenzione però, niente mezze misure, perché occorre «rifondare un
cristianesimo nuovo» e al riguardo Arturo Paoli non teme di affrontare il nesso strutturale del
cristianesimo ecclesiastico, cioè la dottrina peccato originale-redenzione. Egli denuncia che Gesù è
troppo schiacciato sul ruolo espiatorio del peccato, mentre «la sua vera missione è quella di
amorizer le monde, non quella di pagare il prezzo di espiazione dei nostri peccati». Gesù è il
maestro dell’amare, non la vittima immolata per la nostra redenzione al fine di rimediare ai danni di
un inesistente peccato originale.
Ma c’è un’ulteriore liberazione per cui lavora il cuore instancabile di Arturo Paoli: si tratta del nostro tempo imprigionato dalla tecnica, in particolare dell’anima dei giovani. Dichiarando di voler
aiutare i giovani «a uscire da questa incredulità generale», confessa: «Devo essere lieto in un mondo
sempre più triste». Egli sa bene infatti che è solo la gioia a poter veramente educare, e per questo
suggella il libro con parole di grande spiritualità: «Più viviamo nella meravigliosa profondità della
vita interiore, più scopriamo che lì si trovano i veri beni dell’essere umano: la sua libertà, la sua
pace, la sua gioia».
Conosco da tempo Arturo Paoli, l’ultima volta l’ho incontrato un mese fa, mi ha detto sorridendo
che non rimpiange nulla della sua vita e che rifarebbe tutto, e io penso che questa sia la più grande
beatitudine. Se il papa argentino si ricordasse di questo padre della Chiesa povera, farebbe il regalo
più bello ai suoi cent’anni di fraternità.

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il grido di mons. Bregantini

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Evangelii Gaudium, mons. Bregantini: “Non lasciamo da solo il Papa!”

 

 “Il vero rischio oggi, di fronte a un documento così innovativo come la Evangelii Gaudium di Papa Francesco, non è quello di contestare ciò che scrive il vescovo di Roma, ma di ignorarlo”. Così,mons. Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano, commenta l’esortazione apostolica sulla gioia del Vangelo appena pubblicata dal Pontefice. Il vescovo si spiega con una similitudine calcistica: “E’ come se nella squadra della Chiesa fosse entrato un nuovo giocatore, Papa Bergoglio, che scombina tutti gli schemi di gioco, ma segna molti goal e assicura molte vittorie alla sua compagine”. “Siccome però lui è il goleador, rischiamo di voler lasciare solo a lui questo compito, mentre noi ci limitiamo ad osservare a bordo campo. L’appello che il Papa ci rivolge nell’Evangelii Gaudium è invece proprio di non lasciarlo da solo. Lui ha impostato il gioco, l’ha rilanciato, ma serve una squadra compatta, non basta un fuoriclasse”.“Rivolgo perciò un invito ai cardinali, ai vescovi – conclude mons. Bregantini – a non lasciare solo Papa Francesco. Non limitiamoci ad ammirarlo, ma aiutiamolo nella concretezza e nella fatica quotidiana”. Si dice “confortato e commosso”, dalla lettura dell’Evangelii Gaudium, Sergio Tanzarella, storico della Chiesa, docente alla Pontificia Facoltà dell’Italia meridionale e alla Gregoriana. “Sono parole che attendevamo da molto tempo. Il Papa aveva anticipato molti concetti nei primi otto mesi di pontificato, ma vederli tutti insieme in un documento fa un’impressione notevole”. “Un testo – spiega Tanzarella – che invita più a una vera e propria trasformazione audace e creativa, che a un semplice rinnovamento. Ripensare obiettivi, strutture, stile e metodo di evangelizzazione”. “Qui non si tratta di un documento con un programma del pontificato, come ce ne sono stati di bellissimi in passato. Qui c’è un vero e proprio programma per la Chiesa”, aggiunge Tanzarella. “Siamo davanti a quella che definirei una svolta, perché pone in crisi una prassi che il Papa riconosce non adeguata al compito principale, se non unico, della Chiesa che è quello dell’evangelizzazione. E ricorda come questo compito riguardi tutti, non solo qualche categoria, non ci sono i delegati dell’evangelizzazione, ma tutti i cristiani debbono dare testimonianza. E a rafforzare le sue esortazioni Francesco ci spiega che non si tratta della sua opinione, o di semplici opzioni pastorali, ma di indicazioni della Parola di Dio”. (a cura di Fabio Colagrande)
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nomade per cercare lavoro

Io, rom, sono nomade per cercare lavoro

Intervista a Dolores Barbetta

Dolores

le difficoltà dei rom – e anche di una di loro particolarmente favorita e avvantaggiata, laureata e mai stata in un ‘campo nomadi’ – rappresentate al ministro Boldrini
un resoconto dell”associazione 21 luglio’ che ha organizzato l’incontro

Al liceo i compagni di classe si stupivano che non portasse le gonne lunghe delle zingare e che vivesse in una casa con quattro mura e un bagno. D’altronde suo padre, operaio Fiat a Melfi, quando era piccola le ripeteva che avrebbe sempre incontrato persone ottuse e ignoranti. Glielo diceva in romanés, la lingua dei rom, la stessa con la quale ora Dolores Barbetta si rivolge alle nomadi che chiedono l’elemosina in metropolitana: lontane anni luce dalla sua esperienza di vita ma vicine nella tradizione culturale.

“Non sono mai entrata in un campo rom”, confessa questa ragazza di 27 anni, laureata in lettere e residente a Roma, che lunedì varcherà il portone di Montecitorio per incontrare la presidente Laura Boldrini in occasione della Giornata internazionale dei Rom e dei Sinti. Con lei un gruppo di ragazzi rom dell’Associazione 21 luglio: una vittima degli sgomberi forzati, uno studente di Milano, una madre residente in un campo rom romano e un apolide.

associaz 21 luglio

Dolores dice che in quel momento, mentre entrerà alla Camera, si sentirà «una mosca bianca»: «So che la mia vita, la mia realtà, le mie giornate sono completamente diverse e molto più fortunate della stragrande maggioranza dei rom che vivono in Italia». Dolores sta frequentando un corso di ripresa e montaggio: vorrebbe girare presto docu-film. Legge con passione i romanzi di Irène Némirovski e Haruki Murakami. Come moltissimi suoi coetanei, teme di dovere fare le valigie e andare all’estero per trovare un lavoro. E sulla crisi politica dice: «Grillo era una grande speranza e invece sta facendo il despota».

Cosa dirà a Laura Boldrini? Dirò che i rom hanno bisogno di integrazione e gli apolidi, nati in Italia da profughi della ex Jugoslavia, hanno bisogno della cittadinanza italiana. I bambini che vivono segregati in questi ghetti vengono portati a scuola da autobus con una R sulla fiancata, vivono molto lontani dai centri abitati e non possono giocare e fare i compiti con i loro compagni come succedeva a me, a Melfi.

A Melfi esiste una nutrita comunità rom. La sua famiglia ha subito discriminazioni? I rom vivono a Melfi dal 1600. Viviamo tutti negli appartamenti, siamo italiani e abbiamo naturalmente la cittadinanza. Eppure i gagé (i non-rom, ndr) ancora oggi ci guardano con diffidenza. Per esempio i miei nonni materni non volevano che mia madre sposasse “uno zingaro” ma poi il matrimonio si è celebrato ugualmente. E quando si gioca a calcio e arriva una squadra da un’altra città allora partono i cori dei tifosi contro gli zingari. Da piccola mi vergognavo di essere rom ma poco a poco ho capito che questa è la mia cultura di appartenenza e ne sono orgogliosa: i miei bisnonni erano realmente nomadi e giravano la Puglia in carovana, mio nonno lavorava con i cavalli, le mie zie hanno molti figli, una addirittura 13. Io invece sono figlia unica. Ma sogno di avere almeno tre o quattro bambini. Per noi la famiglia è importante, un rifugio che ripara anche dalla diffidenza ma che può ostacolare l’integrazione.

Fatica a dire che è rom agli estranei? No. Lo dico con orgoglio, non mi nascondo. Per fortuna ho amici che mi vogliono bene e raramente ho incontrato persone razziste. L’episodio che mi ha fatto soffrire maggiormente è capitato a quattordici anni, quando un ragazzino che si era invaghito mi scrisse un messaggio per invitarmi a uscire. Gli risposi che non mi andava, e allora si sfogò: “Sei solo una brutta zingara, perché te la tiri tanto?”. I miei genitori mi hanno sempre parlato delle discriminazioni che avrei potuto subire.

Perché non ha mai visitato un campo rom? Lo farò presto. Sto frequentando un corso di montaggio e regia, la mia passione, ma potrei cominciare a lavorare come mediatrice culturale perché conosco il romanés. E quando incontro una nomade che chiede l’elemosina non riesco a sopprimere la mia curiosità, mi avvicino e comincio a parlare con lei per sentire parlare la nostra lingua. È il legame che unisce le comunità rom, un’eredità che non riuscirò a trasmettere ai miei figli: la capisco bene ma la parlo male. E non c’è modo di recuperarla, perché è una lingua non scritta, non esiste una grammatica.

Come si sente quando i rom vengono definiti ladri e criminali? È una strumentalizzazione politica. Lo so che i rom non sono tutti santi, ma è come se dicessimo che tutti gli ebrei sono ricchi. Penso che se i rom finalmente potessero vivere nelle case, se gli italiani capissero che un rom può laurearsi e vestirsi come tutti gli altri, allora le cose cambierebbero.

Vive a Roma da molti anni, sarà per sempre? Roma è una grande città del Sud, una mamma che ti vizia troppo e ti culla. Questo mi fa felice. Ma è anche una città immobile, i romani stanno sempre in macchina, pigri e arrabbiati. Potrei andare a vivere a Milano oppure a Berlino. Se non troverò un lavoro dovrò andarmene, come tanti. Ho votato a sinistra e pensavo che Grillo fosse una speranza ma si sta rivelando un despota. L’Italia ha bisogno di cambiare in fretta.

(Claudio Stasolla, il presidente dell’associazione 21 luglio che ha organizzato l’incontro dei rom con Laura Boldrini, suggerisce a giornalisti e lettori di sostituire durante la lettura dell’articolo la parola “ebreo” alla parola “rom”. Soltanto così, dice, è possibile comprendere l’abisso di discriminazione subita dai cosiddetti nomadi).

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tutti gli oppressi gridano! intervista a Boff

Boff

 

una bellissima intervista, anzi un vibrante grido di L. Boff per la liberazione di ogni oppresso: i poveri, gli sfruttati, i dissidenti, gli indigeni, le donne, i discriminati … ma anche gli alberi, la natura, gli animali

la terra tutta grida! l’opzione preferenziale per i poveri si allarga a misura della difesa di tutta la terra

 

Il grido degli oppressi

intervista a Leonardo Boff

a cura di Sonia Zuccolotto

in “Mosaico di pace” del novembre 2013

In uno scenario di straordinaria accoglienza e di calore, quello del Centro di accoglienza e promozione culturale Ernesto Balducci di Zugliano, abbiamo incontrato, in esclusiva per i lettori e le lettrici di Mosaico di Pace, Leonardo Boff, grande teologo, tra i padri della Teologia della Liberazione. Gli abbiamo rivolto alcune domande, per abbozzare con lui un excursus degli ultimi
anni della Chiesa e per accennare alle nuove possibili prospettive che si intravedono. Per una liberazione autentica, delle persone e dei popoli.

Papa Francesco è un latinoamericano, un Papa “nuovo” e vicino alla gente. Cosa ne pensa?
Quali sogni ha lei nel cassetto? Quali urgenze per la Chiesa di oggi?
Io penso che papa Francesco, prima di fare la riforma della curia, abbia cominciato a lavorare per
una riforma del papato, perché di solito, quando uno è eletto Papa, deve seguire un certo rituale
tenendo conto di tutti i simboli storici. Deve assumere i simboli del potere (alcuni di questi simboli
sono espressione del potere supremo legato alla figura del pontefice). Francesco ha lasciato cadere
tutto ciò adattando il papato alle sue convinzioni e al suo stile. Il nome Francesco è un emblema
perché è il nome di una Chiesa povera, di una umanità più semplice e aperta a tutti con una
sensibilità speciale per la natura. Dunque, questo Papa si sta profilando davvero come una speranza
per la Chiesa. Farà sicuramente una riforma della curia, ma prima deve operare una riforma del
papato. Non sarà facile, ma lui è intelligente e ha scelto altri otto cardinali che, insieme e a lui, sono
proiettati verso questo progetto di una vera riforma della Chiesa. Una riforma collegiale. E questa è
un’altra novità di questo processo ed è forse più facile così che procedendo alla organizzazione
strutturale con una commissione interna. Francesco, però, è anche una speranza per il mondo — e
non solo per la Chiesa — perché i suoi discorsi sulla pace e sulla guerra gli conferiscono
l’autorevolezza di un leader mondiale non autoritario, con un grande carisma e una capacità di
comunicazione. Egli sa coniugare lo spirituale con il sociale, il mondiale con il locale. È una
promessa e, nello stesso tempo, una benedizione divina.
Lo si è visto durante la giornata di digiuno e di preghiera da lui indetta per la pace in Siria. È
stato un gesto che ha toccato il cuore delle persone e che dà speranza per il futuro. Le chiedo
qualche parola in merito alla Teologia della Liberazione. Come e cosa è cambiato oggi e quali
sono le priorità nel tempo attuale?
La Teologia della Liberazione (TdL) è nata ascoltando il grido dei poveri. I poveri, gli sfruttati, i
dissidenti, gli indigeni, le donne sotto il patriarcato, i discriminati… Questi poveri gridano e si
sentono oppressi. Contro l’oppressione è nata la Teologia della Liberazione. E per noi la liberazione
è parte del messaggio cristiano, della tradizione profetica, della parola di Gesù. Marx non è mai
stato il padre o il padrino della TdL e noi non lo abbiamo mai “sfruttato” in tal senso. Oggi non ci
sono solo le persone che gridano, ma anche gli alberi, le piante, gli animali. La terra tutta grida.
Quindi oggi bisogna considerare che, accanto all’opzione preferenziale per i poveri, che è il punto
centrale su cui è nata e si è sviluppata la TdL, c’è il bene più ampio che è la difesa della terra.
Adesso si sta elaborando una grande, forte eco-teologia della liberazione, che rappresenta il futuro
di questo cammino di riflessione a partire dalla parola di Dio che sta dalla parte delle creature
oppresse, gli uomini e l’ambiente naturale che ci circonda.
Come è arrivato all’elaborazione di una teologia che abbia a cuore il creato? Dai poveri e
dalla lotta al capitalismo, come è approdato a questa sensibilità ecologica?
Come ho detto, la stessa logica di oppressione che sfrutta le persone, le classi, i Paesi, sfrutta anche
la natura. Sfrutta la terra in un modo e in un tempo illimitati. Cosa vuol dire questo? È in corso un
processo d’appropriazione indebita delle risorse della terra, di devastazione dell’equilibrio ecologico. È una logica “industrialista”, di estremo consumismo… Siamo arrivati al punto da sentire
i limiti della terra. La terra ora ha bisogno di un anno e mezzo per ricomporre quanto gli abbiamo
sottratto in un anno. Quindi, il sistema non è più sostenibile. La terra è ammalata. La forma con cui
si manifesta questa malattia è il riscaldamento globale, gli eventi estremi naturali che colpiscono
alcune zone del mondo, gli sbalzi climatici. Abbiamo capito che la Terra è essa stessa un’oppressa e
che, in quanto tale, grida. E così abbiamo aperto il discorso della TdL anche alla natura e
all’ecologia, includendo la sua tutela. Il pianeta Terra è l’unica casa comune che abbiamo.
La sua appartenenza ecclesiale è stata piuttosto controversa e faticosa. Ma lei è sempre stato
fedele al Vangelo e al messaggio di liberazione dei poveri intrinseco nella parola e nella vita di
Cristo. Come vive oggi questi “contrasti”?
Ho avuto alcuni problemi con il Vaticano e con la Congregazione della Fede. Alla radice c’era un
mio libro dal titolo Chiesa, carisma e potere. Questo libro provava ad applicare i principi della TdL
nei rapporti interni alla Chiesa. Si intuiva bene che la Chiesa non rispetta così bene i rapporti umani,
non mette i laici tutti sullo stesso piano, non accetta la parità della donna. C’è una centralizzazione
molto forte del potere e questo porta a una specie di autoritarismo. La Chiesa può parlare di forma
credibile di liberazione nella società quando essa stessa si apre alla libertà dei rapporti… Così Roma
non ha mai accettato questi discorsi e mi criticava dicendomi che questa impostazione è protestante.
Io ho sempre detto che è un discorso analitico e cristiano. Mi hanno imposto il silenzio e, dopo
alcuni anni, mi volevano imporre di allontanarmi dall’America Latina. Dovevo scegliere tra Corea e
Filippine. Ho detto che lo avrei fatto. Sono un frate e ci sarei andato. Ma ho chiesto anche se lì avrei
potuto insegnare teologia, scrivere e parlare liberamente. Mi hanno risposto di no, che avrei potuto
solo esercitare il ministero e fare il missionario. Ho replicato che non avrei potuto rinunciare alla
teologia perché studio e insegno da cinquant’anni. E così ho dovuto rinunciare al sacerdozio e a
essere frate francescano. Però non ho lasciato la Chiesa, ma solo una funzione che ricoprivo prima:
la funzione di prete. Ho continuato a lavorare come teologo e diversi vescovi mi hanno sempre
accompagnato e sostenuto e continuo con la teologia che amo. Dopo tanti anni vedo i vantaggi
dell’essere laico perché ho un approccio più aperto di tanti sacerdoti. Porto avanti ugualmente il
Vangelo e il messaggio cristiano. Adesso mi occupo molto di etica, spiritualità e di ecologia.
Il prossimo anno si celebreranno i 40 anni dalla morte di Frei Tito Alencar da Lima,
violentemente torturato durante la dittatura degli anni Settanta in Brasile. Ci può tracciare
un suo profilo?
Frei Tito è stato un frate domenicano molto impegnato accanto ad altri domenicani, come frei Betto,
che si opponevano fortemente alla dittatura militare. Avevano elaborato una strategia per salvare la
vita dei perseguitati che sicuramente sarebbero stati torturati e uccisi. Li facevano fuggire dal sud
del Brasile, attraverso l’Uruguay. Frei Tito era uno di questi: è stato imprigionato, terribilmente
torturato.
Il torturatore gli diceva che lo avrebbe torturato in un modo così brutale e profondo che la sua
persona, la sua immagine, gli sarebbe stata sempre “dentro”. Questo atteggiamento, questa pratica
violenta si studia anche in psicologia. E il torturatore è riuscito nel suo intento. Così quando frei
Tito era in Francia, dove è arrivato da esiliato, continuava a gridare contro i suoi torturatori. Finché
non si è tolto la vita lasciando in eredità queste parole: “È meglio morire, piuttosto che perdere la
dignità e la vita…”. È un martire vivo, vittima delle terribili strategie di tortura applicate in tanti
Paesi latinoamericani fino a toccare l’estrema solitudine dell’essere umano. Fino a togliergli la
libertà di vivere. Questa è la più grande atrocità che l’uomo abbia mai potuto mettere in piedi.

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Arturo Paoli fratello e amico

paoli

 

La via della fraternità e l’ottimismo evangelico di Arturo Paoli

di Lucia Capuzzi
in “Avvenire” del 29 novembre 

(detto tra parentesi e sottovoce: fa piacere costatare che ‘Avvenire’ riscopra  oggi persone e situazioni che sembrava fino a qualche mese fa ignorare o non valorizzare adeguatamente; papa Francesco senbra che sia in questo proprio miracoloso … )

Chi vanno a trovare i ragazzi che, ogni sera, bussano alla porta dell’antica casa di pietra di San
Martino di Vignale? Non è facile definire in una parola Arturo Paoli: sacerdote, piccolo fratello di
Charles de Foucauld, ‘giusto tra le nazioni’ per aver salvato centinaia di ebrei dalle persecuzioni
naziste, testimone delle grandi tragedie degli ultimi cinquant’anni da un osservatorio privilegiato,
l’America Latina. Eppure, per adolescenti, universitari, giovani professionisti (spesso non devoti né
praticanti e, a volte, nemmeno credenti), l’uomo che li accoglie nella campagna lucchese, per
condividere un pensiero, un bicchiere di vino o una preghiera, è solo ‘un amico’. Non c’è definizione
più propria per fratel Arturo. Che, per tutta la vita, ha cercato di essere ‘amico’ delle donne e degli
uomini del suo tempo. A imitazione dell’Amico, il vero e più grande amico dell’umanità, quello che
De Foucault chiamava «il Modello Unico»: Gesù. La riflessione sull’amicizia, come quotidiana
prosecuzione evangelica del progetto di Dio, costituisce il cuore di Cent’anni di fraternità, l’ultimo
libro di Paoli appena pubblicato da Chiare Lettere (pagine 168, euro 12). Un mosaico composto da
brani di alcune delle più famose opere pubblicate dal religioso nell’ultimo mezzo secolo. E
arricchito dalle riflessioni scritte, rigorosamente a mano, su un quaderno tenuto sempre sulle
ginocchia, nel suo centesimo inverno di vita. Parole principalmente rivolte ai giovani e pertanto
«difficili e rischiose – afferma, nel cominciare –. È questa una generazione incredula, ma Tu saprai
trovare e dettarmi le verità che romperanno la durezza dei cuori».
Perché questa è anche una generazione spaventata, confusa e affamata di speranza. A lei fratel
Arturo si dirige per dirle che, mutuando l’espressione del gesuita Teilhard de Chardin, è ancora
possibile, e forse più che mai necessario, «amorizzare il mondo». A partire dalla relazione, o
meglio, dalla fraternità.
«Io sono un difensore e seguace del motto ‘guai all’uomo solo’», scrive Paoli, capovolgendo lo
slogan sartriano «gli altri sono l’inferno». Perché «l’essere umano vero è l’uomo per gli altri. La
relazione autentica è quella rivolta verso il futuro». Un concetto non molto diverso da quello scritto
34 anni fa e riportato nella prima parte di Cent’anni di fraternità . A chi gli dice che il mondo non
ha domani e profetizza, non senza fondamento, nuovi disastri e sciagure nucleari (siamo nel 1980),
il religioso risponde: «Che importa se viene il diluvio? L’importante è che ci trovi nell’arca».
Che cosa intenda con questa espressione è subito spiegato.
«Qualunque sia il destino del mondo», afferma, conta solo il fatto che l’avvenimento ci trovi «in
questa ricerca attiva e dinamica del regno, in questa ricerca di costruire le relazioni fra gli uomini.
Non è questa la vera arca di oggi?». Di fronte ai conflitti, ai genocidi, alle pulizie etniche, alle
dittature «folli e dementi» (drammi che Paoli ha conosciuto da vicino), in una parola: alle infinite
manifestazioni del male, la fede resta rifugio inespugnabile. Arturo, l’’anticonformista resistente’,
come lo definisce il premio Nobel per la Pace argentino, Adolfo Pérez Esquivel nella postfazione,
non parla di un principio teorico, bensì della fede «che s’incarna nelle parole giustizia e carità».
L’unica forza davvero in grado, a dispetto dei catastrofisti, di ‘amorizzare il mondo’. A 101 anni che
compie oggi, fratel Arturo resta un ostinato ottimista. Non un ottimista sprovveduto, un ottimista
evangelico.

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