anche a Lucca baby squillo

“Sesso e foto hard se mi fai una ricarica”: tredici anni, proposte choc ai compagni

 

Accade in una scuola media

La denuncia di un nonno

 Ha soltanto 13 anni. Ma si propone come una donna «esperta», facendo propria anche un’attenta strategia marketing. Dice di essere pronta a rapporti orali, di poter offrire le foto delle sue parti intime, di promettere momenti «speciali». Si fa avanti personalmente con i suoi compagni, ma li contatta anche, privatamente, sui social e per sms. Ma tutto ha un prezzo. In cambio chiede infatti qualche euro, quello che serve per una ricarica telefonica, per soddisfare gli sfizi di una ragazzina appena adolescente.

UNA STORIA choc che arriva da una scuola media lucchese. A raccontarla è un nonno che ci contatta direttamente in redazione. «Mio figlio preferisce non alzare polverone, non lo ha detto nemmeno alla preside e non ne vuol parlare con i genitori della ragazza – dice -. Ma io personalmente non mi sento di far passare del tutto sotto silenzio un fatto inquietante. Mio nipote che quest’anno frequenta la terza media è stato avvicinato con esplicite avances sessuali da una coetanea della sua scuola. Ha proposto a lui e ad altri ragazzini di fare sesso o di scattarsi foto oscene in cambio di soldi o ricariche telefoniche. E’ allucinante, sarebbe perfino incredibile se non si trattasse di mio nipote, il modo in cui si è proposta, praticamente senza limiti né inibizioni. In famiglia siamo rimasti sconvolti». Episodi simili erano venuti alla luce, ma in età decisamente più avanzate. In questo caso non solo si tratta di una minorenne, ma di una ragazzina di appena 13 anni.

«NON VOGLIO alzare il polverone nelle famiglie, né mettere in croce una scuola che per molti aspetti funziona bene e che non può certo essere responsabile di tutto ciò che avviene. Ma mi sembra doveroso – sottolinea il nostro lettore – far sapere che anche nella nostra apparentemente placida Lucca, esistono problematiche sociali drammatiche, di cui magari molti sono già a conoscenza ma fanno finta di non vedere. La sfrontatezza delle ragazzina, la mancanza assoluta di valori e di amor proprio, unite forse al volersi mettere in luce a tutti i costi, ci devono far riflettere».

UN CASO choc, piovuto a Lucca sull’onda lunga degli episodi romani, in cui le baby squillo si proponevano sul web con espliciti inviti e ammiccamenti. «Un problema che esiste, temo che infatti sia tutt’altro che circoscritto alla compagna di scuola di mio nipote. Le istituzioni, la chiesa, le associazioni e gli psicologi, devono far quadrato per affrontare questa nuova, drammatica emergenza sociale».

il quotidiano ‘la nazione’ giustamente ha voluto riflettere su questo caso certamente preoccupante e ha intervistato una psicologa che definisce grave un caso come questo ed è importante denunciarlo (di seguito l’articolo de ‘la nazione’ con l’intervista di Laura Sartini alla psicologa Lavinia Lombardi9

Baby-squillo alle scuole medie, parla la psicologa: “Casi gravi da denunciare”

“L’obiettivo e’ comprare vestiti griffati per essere accettati

 Fa discutere il caso dellaragazzina di terza media, studentessa in una scuola lucchese, disposta a concedere sesso in cambio di qualche euro. Un nonno ci aveva segnalato il fatto: suo nipote era stato avvicinato con esplicite avances dalla compagna di studi. Con il sorriso e lo sguardo malizioso gli aveva anche sommariamente descritto il «menù», che includeva anche la possibilità di riceverefoto delle sue parti intime.

Sul prezzo ci si poteva accordare (anche se fino a un certo punto). Non grandi pretese, bastava l’equivalente per una modesta ricarica telefonica. Un racconto inquietante che il nostro lettore ci ha voluto comunicare per sensibilizzare la società lucchese. «Puntare il dito sulle strutture territoriali che non funzionano, come sulla famiglia, non è la risposta — replica oggi ladottoressa Lavinia Lombardi, psicologa e consulente insieme alla dottoressa Consuelo Giuli del progetto “Area Cognitiva ” per la zona di Lucca, oltre che membro attivo dello sportello ascolto nelle scuole —. Non c’è un clichè, ogni caso è specifico. E’ chiaro che la società cerca di rispondere, ma lo è altrettanto che certi fatti, molto spesso, passano sotto traccia. I ragazzi non ne parlano in famiglia e quasi mai con noi psicologi.

IL PROBLEMA è quello dell’inconsapevolezza. E mi spiego. Qui siamo di fronte a un’inconsapevolezza delle conseguenze e non del gesto specifico. Loro hanno ben chiaro l’obiettivo: quello di comprarsi la maglia griffata, in modo di poter stare a pieno titolo nel gruppo di appartenenza. Il desiderio diventa volontà e travalica i limiti. Qui arriva appunto l’inconsapevolezza della ricaduta sulla vita sociale, sulla visione di loro stessi. Tutto questo viene al momento resettato per fare spazio all’obiettivo perseguito».

MA PER QUALI motivi, in modo quindi più aperto e diretto, i ragazzi si rivolgono allo sportello ascolto nelle scuole? «Di solito — dice la psicologa — si tratta delle problematiche di ansia legate al rendimento scolastico. C’è in molti la rincorsa alla migliore performance, secondo le rispettive ambizioni. Inoltre molti vivono il timore di essere messi da parte nel gruppo, soprattutto di essere giudicati. Anche se il motivo più specifico del nostro contributo è legato ai disturbi specifici dell’apprendimento e ai conflitti preadolescenziali ed è chiaro che i casi più complessi vengono poi raccomandati per un percorso più mirato di psicoterapia».

 

di Laura Sartini

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p.Pagola e p.Maggi commentano il vangelo della domenica

rosellina

 

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi e da p. Pagola
vangelo della seconda domenica di avvento (8 dicembre 2013)

Mt 3,1-12

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea
dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del
quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel
deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».
E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle
attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora
Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui
e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di
vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un
frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi:
“Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può
suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni
albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo
nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e
io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e
fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel
granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

 

PERCORRERE STRADE NUOVE

Negli anni 27 o 28 apparve nel deserto del Giordano un profeta originale ed indipendente che provocò un forte impatto in tutto il popolo ebreo: le prime generazioni cristiane lo videro sempre come l’uomo che preparò la strada a Gesù.
Tutto il suo messaggio si può concentrare in un grido: “Preparate la strada al Signore, appianate i suoi sentieri”. dopo venti secoli, Papa Francesco sta gridando lo stesso messaggio ai cristiani: Aprite le strade a Dio, convertitevi a Gesù, accogliete il Vangelo.
Il suo proposito è chiaro: “Cerchiamo di essere una Chiesa che trova strade nuove”. non sarà facile. Abbiamo vissuto questi ultimi anni paralizzati dalla paura. Il Papa non si sorprende: “La novità ci fa sempre un po’ di paura perché noi ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi quelli che costruiamo, programmiamo e pianifichiamo la nostra vita”. E ci fa una domanda alla quale dobbiamo rispondere: “Siamo decisi a percorrere le strade nuove che la novità di Dio ci presenta o ci trinceriamo in strutture caduche che hanno perso capacità di risposta”?.
Alcuni settori della Chiesa chiedono al Papa che egli faccia quanto prima diverse riforme che nella chiesa sono considerate urgenti. Senza dubbio, Francesco ha manifestato la sua posizione in maniera chiara: “Alcuni sperano e mi chiedono riforme nella Chiesa e con costui io sono dunque in debito. Ma prima è necessario un cambiamento di atteggiamenti.”
Mi sembra ammirabile la chiaroveggenza evangelica di Papa Francesco. La cosa principale non è firmare decreti riformisti. Prima, è necessario mettere le comunità cristiane in uno stato di conversione e recuperare all’interno della Chiesa gli atteggiamenti evangelici più basilari. Solo con questa nuova condizione sarà possibile effettuare in maniera efficace e con spirito evangelico le riforme di cui necessita con urgenza la Chiesa.
Lo stesso Francesco ci sta indicando tutti i giorni i cambiamenti di atteggiamenti che necessitiamo. Segnalerò alcuni di grande importanza. Mettere Gesù nel centro della Chiesa: “una Chiesa che non porta a Gesù è una Chiesa morta”. non vivere in una Chiesa chiusa ed autoreferenziale: “una Chiesa che si rinchiude nel passato, tradisce la sua propria identità”. Agire sempre mossi dalla povertà di Dio verso tutti i suoi figli: non coltivare “un cristianesimo restaurazionista e legalista che vuole tutto chiaro e sicuro, e che poi non trova niente”. “Cercare una Chiesa povera e dei poveri”. Ancorare la nostra vita alla sicurezza, non “nelle nostre regole, i nostri comportamenti ecclesiastici, i nostri clericalismi.”

Cambia i tuoi atteggiamenti per percorrere strade nuove nella Chiesa.

José Antonio Pagola

p. Maggi

 

CONVERTITEVI: IL REGNO DEI CIELI E’ VICINO

Commento al Vangelo di p.
Alberto Maggi 

 

Nel brano che la liturgia ci presenta questa domenica ci sono tre termini che è importante
esaminare perché se non si comprendono bene rischiano di avere nella vita del credente degli
effetti diversi da quelli che l’evangelista voleva.
Il primo è l’annunzio di Giovanni Battista nel deserto ed è un imperativo, “Convertitevi!” Questo
verbo ha il significato di un cambio di mentalità che poi comporta un cambio nel
comportamento. Purtroppo, in passato, l’aver tradotto questo invito di Giovanni Battista, che
Gesù poi farà anche suo, con “se non fate penitenza”, ha dato il via all’immagine di un
1cristianesimo fatto di penitenze, di sacrifici, di rinunce, di mortificazioni; tutte parole, tutti
vocaboli, tutte immagini che sono assenti nel linguaggio di Gesù.
Mai Gesù nei vangeli ha invitato a fare penitenza. Mai Gesù nei vangeli ha invitato le persone a
mortificarsi, mai Gesù nei vangeli ha invitato il popolo a fare sacrifici, ma anzi, il contrario!
Riprendendo l’espressione di Osea, “Imparate cosa significa ‘misericordia io voglio non
sacrifici’”, Gesù non chiede sacrifici verso Dio, ma la misericordia verso gli uomini.
Quindi l’invito di Giovanni Battista, il suo imperativo, è “cambiate comportamento”, che si
traduce con un orientamento diverso della propria esistenza, non pensare più a sé per pensare
agli altri. Questa conversione permette la vicinanza del Regno dei Cieli. Anche qui in passato ci
fu un po’ di confusione; si interpretò il Regno dei Cieli come un regno nei cieli.
Ma non è così. Regno dei Cieli è una forma che adopera solo Matteo e ha il significato di Regno
di Dio. Ma perché Matteo adopera l’espressione “Regno dei Cieli”? Perché lui scrive per una
comunità di giudei ed è attento a non urtare la loro sensibilità in quanto costoro non
pronunziano né scrivono la parola “Dio”, ma adoperano al suo posto dei sostituti.
Esattamente come facciamo noi nella nostra lingua quando diciamo “grazie al cielo”, laddove si
intende ringraziare Dio, la divinità. Allora il Regno dei Cieli non è un Regno nei cieli, non si tratta
dell’aldilà, ma si tratta della realizzazione del progetto di Dio sull’umanità. Lui è il re che governa
il suo popolo, lui è il padre che si prende cura dei suoi figli.
Questo è il Regno dei Cieli, quindi il Regno di Dio. Perché si dice che questo Regno di Dio è
vicino e non c’è ancora? Perché questo Regno dei Cieli non scende dall’alto per un intervento
divino, ma è condizionato dalla collaborazione degli uomini attraverso l’accettazione delle
beatitudini proposte da Gesù. Infatti Gesù nella prima beatitudine proclamerà beati i poveri per
lo Spirito, quelli che liberamente e volontariamente decidono di essere poveri, perché di questi
E’ …
Non è una promessa per il futuro (sarà), ma E’ il Regno dei Cieli.
Nel momento esatto in cui ci sono degli individui che decidono di orientare la propria vita al
bene e al benessere degli altri, in questo stesso istante la risposta di Dio è che lui, come padre,
si prende cura di loro e dei loro bisogni.
Quindi abbiamo visto il termine “conversione”, un cambio di mentalità, il Regno di Dio, la
realizzazione del progetto di Dio sull’umanità, e infine Giovanni proclama che lui battezza
nell’acqua, cioè aiuta a cambiare vita, ma poi la forza per iniziare questa vita nuova non la può
dare lui. La darà Gesù che viene qualificato come colui che battezza in Spirito Santo. Questo è
talmente importante che in tutti e quattro gli evangelisti troviamo la stessa espressione della
missione di Gesù.
Gesù è colui che battezza in Spirito Santo. Se battezzare nell’acqua significa immergere un
corpo in un liquido esterno all’uomo in segno di un cambiamento di vita, battezzare nello Spirito
significa immergere, inzuppare, impregnare la persona dello Spirito, cioè della stessa forza e
della stessa vita di Dio.
2Ma quando e come Gesù battezza in Spirito Santo? La risposta è nei vangeli, nel momento
della cena con i suoi, nel momento dell’eucaristia. Infatti nella cena, dove i discepoli si
impegnano ad essere fedeli a Gesù – mangiare il pane impegnandosi a farsi pane, alimento di
vita per gli altri, anche a costo di fare la sua stessa fine, questo significa bere al calice – si
effonde sui discepoli e sui credenti di ogni tempo lo Spirito Santo che li rende come Gesù “Figli
di Dio”.
La cena di Gesù quindi è il momento nel quale egli risponde a quanti lo hanno seguito con il
dono dello Spirito Santo. Infatti, bevendo al calice, espressione dell’impegno di non porre limiti
all’amore, i discepoli ricevono lo Spirito, la stessa forza d’amare del Padre.
La penetrazione di questo vino-sangue nell’intimo dell’uomo è la comunicazione dello Spirito,
vita e forza d’amore che trasforma l’uomo.

 

Vangelo della domenica II di avvento commentato da p. Maggi

 (versione lunga)

(brano estrapolato dal commento del vangelo di Mt.in una  relazione di Alberto Maggi)

 

L’espressione con la quale  Matteo comincia il capitolo tre in quei giorni non si riferisce al periodo trascorso, ma è un rimando alla figura di Mosè. Fin dall’inizio Matteo scrive il suo vangelo, presentando gli avvenimenti sulla chiave di lettura della vita e degli insegnamenti di Mosè. L’espressione si trova una sola volta in Matteo e si trova nel libro dell’Esodo 2,11 quando indica l’inizio dell’attività di Mosè: “In quei giorni Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi”. Questa indicazione, l’unica volta in Matteo, introduce un tema di liberazione dalla schiavitù. Mosè è colui che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù. Matteo usando questa espressione che c’è una sola volta sia nel suo vangelo sia nell’Esodo, vuole dire che tutto quello che lui narrerà, dovrà essere interpretato in chiave di Esodo, cioè di liberazione, non la liberazione dall’Egitto, ma da un altro tipo di liberazione.

 

1 “In quei giorni venne Giovanni il Battista”, è un inviato del Signore; nei vangeli gli inviati di Dio non appartengono mai all’istituzione religiosa. Quando Dio vuol comunicare qualcosa al suo popolo, evita accuratamente persone, luoghi e ambienti religiosi, perché sa che sono sordi, ostili, refrattari al suo messaggio e sceglie persone al di fuori. Il personaggio è presentato con il nome Giovanni – nome ebraico che significa Jahve è misericordia – e con l’indicazione della sua attività. È conosciuto e identificabile per l’attività di essere il battezzatore e più avanti vedremo cosa significa “a proclamare nel deserto della Giudea,” non va ad annunziare nella città di Gerusalemme, nella regione densamente abitata, ma nel deserto, la zona ad est di Gerusalemme e scende nella valle del Giordano fino al mar Morto. L’evangelista con questa sottolineatura ci richiama il tema del deserto, della liberazione

2 “dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Abbiamo visto come sia importante l’esatta traduzione del testo del vangelo perché se la nostra vita si basa sul vangelo ed esso è tradotto male, la nostra vita ne avrà delle conseguenze negative.

In passato il termine convertitevi era stato tradotto, in latino, con poenitentiam agite cioèfate penitenza, di per sé il termine era buono, perché poenitentia indica il pentimento, il ravvedimento; poi fu tradotto in italiano con l’invito a fare penitenza e da qui è uscito fuori il masochismo e le perversioni religiose, perché sembrò un invito alla mortificazione. Più la persona accettava il male della vita, o nei casi più sadici, ricercava la sofferenza, più pensava di essere gradita a Dio. Si pensava ciò perché Giovanni Battista – e Gesù, che farà proprio il messaggio – diceva: fate penitenza, e si perdeva il significato originario pentitevi, cambiate comportamento; nella voce penitenza venne compreso tutto quello che avvelena l’esistenza!

Fa piacere segnalare la nuova traduzione del testo del vangelo, dove il termine penitenza è scomparso per convertitevi, ravvedetevi. C’è un progresso nella traduzione che comporta poi un progresso anche nella vita spirituale. L’altra volta segnalavamo che il termine miracoli è scomparso nella nuova traduzione, non perché Gesù non li compia più, ma perché il termine è tradotto esattamente con segni compiuti da Gesù, le cose che vengono dette qui sono poi ufficializzate.

L’invito di Giovanni è convertitevi. Nella lingua greca esistono due termini, due verbi per indicare la conversione e vediamo quale uso ne fanno gli evangelisti.

Il primo termine indica il ritorno a Dio, è la conversione classica. La persona che  non è religiosa, in base ad una esperienza della propria vita o una scelta, ritorna a Dio, ritorna al culto, ritorna alla preghiera; convertirsi significa ritornare a Dio. Gli evangelisti evitano accuratamente questo termine, c’è una sola volta in Luca; gli evangelisti lo evitano accuratamente, usano il verbo convertirsi con il significato di cambio di mente, di comportamento nei confronti degli altri.

Per gli evangelisti la conversione non è più un ritornare a Dio, perché Gesù è il Dio con noi (ricordate l’inizio del vangelo di Matteo? Gesù è il Dio con noi). Con Gesù non c’è più da cercare Dio; non c’è più da tornare verso Dio, c’è da accoglierlo e con lui e come lui andare verso gli altri; questo esige un profondo cambio di mentalità. L’invito perentorio che viene da Giovanni è convertitevi! Cambiate testa.

Non è soltanto un cambiamento di testa, è un cambiamento anche del comportamento: cambiate mentalità e comportamento mettendo al primo posto, come valore, il bene dell’uomo. La conversione non è più un ritorno a Dio, ma con Dio e come Dio andare verso gli uomini. La conversione è richiesta perché il regno dei cieli è vicino. L’espressione regno dei cieli, viene usata esclusivamente nel vangelo di Matteo. Nei preliminari del primo incontro dicevamo che Matteo – probabilmente uno scriba, non si sa – scrive per una comunità di giudeo/credenti, giudei/ebrei, che hanno accolto Gesù come Messia, ma è attento a non urtare al loro suscettibilità o sensibilità. Gli ebrei ancora oggi evitano, non solo di nominare, ma anche di scrivere il nome Dio.

Nelle riviste o nei libri scritti da ebrei, quando gli ebrei devono scrivere Dio, ancora oggi, scrivono D-o, in tal modo non è stato scritto il nome di Dio.

L’espressione regno dei cieli è solo in Matteo, gli altri evangelisti parlano sempre di regno di Dio. Regno dei cieli non significa l’al di là, pensate quali deformazioni nella spiritualità hanno dato in passato l’inesatta traduzione del vangelo: si pensava che Gesù fosse venuto ad assicurare, promettere un bel posto nell’al di là. Ricordate la fregatura per i poveri: beati voi che siete poveri, perché vostro è il regno dei cieli, contenti e coglionati! State buoni, rimanete poveri, perché poi andrete in paradiso. Gesù indica qualcosa di molto diverso; non è un regno nei cieli, ma il regno dei cieli. Abbiamo detto che evitano di scrivere Dio e uno dei termini con il quale sostituirlo è cielo o cieli, come facciamo anche noi nella lingua italiana. Delle volte diciamo grazie al cielo, vogliamo ringraziare il Signore, il cielo non voglia…, ma non parliamo di meteorologia!

Cosa si intende per regno di Dio (=regno dei cieli)? L’esperienza della monarchia in Israele era stata tragica, causa di tutte le disgrazie che pativano nel momento presente. Dio che non tollera che un uomo possa mettersi al di sopra degli altri e comandarli, non voleva l’istituto della monarchia per il popolo d’Israele. Tutti gli altri popoli avevano la monarchia, Israele no! Dio diceva: quando c’è un  pericolo io comunico la mia forza, il mio spirito a uno di voi, questo vi libera dal pericolo, poi torna a badare le pecore. Troviamo nella storia di Israele personaggi che conosciamo, come Sansone che muore con tutti i Filistei o Gedeone. Erano persone normali che, nel momento del pericolo per il popolo, erano investite della forza di Dio e salvavano il popolo. Le loro gesta le trovate nella Bibbia nel libro dei Giudici, che significa libro dei condottieri, sono i condottieri che salvano il popolo, ma questo non piaceva al popolo che ha insistito, perché voleva un re come gli altri popoli. Dio manda il profeta Samuele che dice: voi volete un re? Ma si prenderà per sé i vostri campi, metterà delle tasse, farà soldati dei vostri figli e serve le vostre figlie! Noi vogliamo il re.

Dio che rispetta la libertà degli uomini, anche quando questa va contro il suo disegno, concede la monarchia, ed è un disastro completo! Saul il primo dei re impazzì e morì suicida; erede al trono era il figlio Isbàal, che venne fatto assassinare dal genero di Saul, Davide, che ne occupò il trono. Nella Bibbia, Davide è stato maledetto dal Signore che gli ha impedito di costruire il tempio con queste parole: perché hai versato troppo sangue sulla terra, davanti a me. Morto Davide, sarebbe dovuto succedergli al trono il figlio Adonia, ma fu ammazzato dal fratellastro Salomone. Salomone è peggiore dei precedenti, un despota megalomane e neanche molto intelligente, da quanto dice  la storia. Questo lo dico proprio per far risaltare il contrasto – perché a me da piccolo insegnavano la sapienza di Salomone, che faceva  a pezzi i bambini per darne un pezzo ad una madre e un pezzo all’altra – di quello che crediamo di sapere su certe figure, di quello che la Bibbia dice.

Salomone despota e megalomane mise ai lavori forzati il suo popolo per la propria mania di grandezza; morì idolatra, la peggiore delle morti, e per un ebreo è il massimo orrore. La Bibbia, 1 Re 11,6, dice: Salomone commise quanto è male agli occhi di Jahve e non fufedele a Jahve.

Gli successe il figlio Roboamo, ambizioso come il padre, meno intelligente e abbandonò non solo la legge di Dio, ma trascinò tutto il popolo lontano da Dio e la Bibbia dice: Roboamo abbandonò la legge di Jahve e tutto Israele lo seguì. Alla sua morte ci fu lo scisma, il regno si divise in casate in lotta fra loro; l’indebolimento del regno rese Israele un boccone appetibile per i regni confinanti. La tragica esperienza della monarchia, dove non ci fu un re degno, portò il popolo a proiettare in Dio l’immagine di un re ideale che è padre degli orfani e difensore delle vedove, perché orfani e vedove sono le categorie di persone che, non avendo un uomo in casa che le difende, sono alla mercé degli altri. Si pensava che il vero re sarebbe stato Dio: Dio, re del popolo che si prende cura degli elementi più deboli e più poveri. Un re che non governa i suoi, emanando leggi e dominando, ma comunicando il suo Spirito e potenziando le persone.

Questo significa regno di Dio, e si deve interpretare così l’espressione del vangelo di Matteo regno dei cieli, e si intende che si deve permettere a Dio di governare i suoi.

La comunità dei credenti che non accetta nessuno al di sopra, viene governata da Dio mediante il suo Spirito. Il regno dei cieli, il regno di Dio è vicino ed è condizionato dal cambiamento; l’evangelista mette le cose in chiaro perché loro pensavano che il regno di Dio si sarebbe inaugurato per un intervento di Dio. All’improvviso Dio avrebbe cominciato a essere il re del suo popolo. Matteo non è d’accordo; il regno di Dio è condizionato dal cambiamento del popolo: se voi cambiate comportamento, il regno di Dio diventa realtà. Continua l’evangelista

3 “Egli è colui del quale aveva parlato Isaia, il profeta, dicendo:

Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, rendete dritti i suoi sentieri!

Ancora una chiave di lettura data dall’evangelista, nel caso non avessimo capito, per situare il brano in chiave di liberazione dell’esodo. Il testo del profeta Isaia 40,3 si riferisce alla fine della deportazione in Babilonia, quando a causa dell’editto del re Ciro, venne concessa la libertà. Il testo citato indica l’inizio della nuova libertà per il popolo da Babilonia. C’è una differenza fra la citazione di Isaia e quella di Matteo. Il testo di Isaia dice:“Nel deserto aprite una via a Jahve e spianate nella steppa una strada al nostro Dio”.L’evangelista non dice: nel deserto aprite una via, ma dal deserto comincia a sentirsi il messaggio di liberazione e lo attribuisce a Giovanni. Se Isaia dice i sentieri del nostro Dio, Matteo cambia la citazione e scrive: preparate la via per il Signore, rendete dritti i suoi sentieri. L’evangelista comincia a fare l’attribuzione alla figura di Gesù, di quelle che erano le prerogative esclusive di Dio. Matteo pian piano comincia a spostare, attribuire a Gesù, tutto quello che nell’Antico Testamento, è attribuito a Dio. Non più la via al nostro Dio, ma al Signore che è Dio. È una maniera dell’evangelista per indicare, prima ancora che compaia in scena, che in Gesù si manifesta la pienezza di Dio.

Poi c’è la descrizione di Giovanni

4 “Giovanni aveva un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico”. Più volte lo diciamo e lo ripetiamo nella consapevolezza di essere noiosi: quando nei vangeli troviamo dei particolari, che di per sé non sono importanti per la comprensione del testo, sono sempre indicazioni teologiche. Per noi non cambia molto che Giovanni avesse o no, una cintura di pelle ai fianchi; perché l’evangelista tiene a sottolineare che Giovanni avesse un vestito di pelli di cammello? Il mantello di pelo era indossato dai profeti per profetizzare. L’evangelista ci vuole indicare in Giovanni un profeta, ma un profeta particolare che ha una cintura di pelle ai fianchi, questa rendeva riconoscibile il più grande dei profeti in Israele, Elia. Quando degli inviati si recano da Elia e poi ritornano, dicono che hanno visto un uomo con una cintura di pelle a fianchi: questo è il profeta Elia, reso riconoscibile dalla cintura di pelle ai fianchi. L’evangelista vuole dirci che il profeta Elia, che la tradizione religiosa attendeva per la venuta del Messia, si può già vedere – non come reincarnazione – nelle gesta di Giovanni Battista. Poi vedremo il perché.

Per quanto riguarda le indicazioni della alimentazione che per noi non è il massimo, le cavallette in oriente sono un cibo normale. Tra l’altro nella Bibbia sta scritto: potrete mangiare ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di grillo. In un libro di ricette dell’epoca, si dice che le cavallette vanno messe nel fuoco o nell’acqua fintanto che sono ancora vive. In queste traduzioni noi stiamo attenti il più possibile al testo greco, che poi bisogna aggiustare per renderlo comprensibile. L’evangelista dice qui:

5 “Allora uscivano verso di lui Gerusalemme, accorrevano” è esatto, Matteo scriveuscivano verso di lui perché il verbo uscire è usato nel libro dell’Esodo, per indicare l’uscita del popolo ebreo dalla schiavitù dall’Egitto, per andare verso la terra promessa. Ancora una volta Matteo sta dicendo: tutto il brano è in chiave di liberazione. Liberazione non più dall’Egitto, ma da Gerusalemme. Avrebbe dovuto scrivere da Gerusalemme, invece dice: “uscivano verso di lui Gerusalemme”, che appare così tutto uno. È strano che Gerusalemme risponda all’invito, perché Gerusalemme fin dall’inizio al primo apparire, sta in una luce sinistra, in una cappa di morte. Quando viene annunciato: è nato il re dei Giudei, Erode tremò e con lui tutta Gerusalemme. Gerusalemme sa che quando arriva Gesù è la sua fine.

Gerusalemme viveva sfruttando il nome di Dio, quando arriva il vero Dio per lei è la fine. Gerusalemme, allora  è  la città che va in tutt’uno, lei è la città del sacro e accorre per un rito in più, che verrà poi materializzato nella figura degli scribi e dei farisei

6 “e si facevano battezzare da lui, nel fiume Giordano, confessando i loro peccati”.Torniamo sull’attività di Giovanni, chiamato il Battista o il Battezzatore. Il verbo battezzare in greco significa immergere, il gesto dell’immersione o battesimo era conosciuto e significava la morte ad un passato che non c’è più. Infatti se una persona si immerge nell’acqua e resta immersa, muore. Quando ad uno schiavo era concessa la libertà, lo si immergeva nell’acqua (simbolicamente lo schiavo moriva) e  chi usciva dall’acqua era una persona nuova, una persona libera; oppure quando un pagano voleva avvicinarsi alla religione giudaica, era immerso nell’acqua, moriva il pagano e l’uomo nuovo iniziava il cammino per avvicinarsi alla religione giudaica. Questi si fanno battezzare da Giovanni, nel fiume Giordano, è una indicazione che indica la frontiera che il popolo di Israele ha dovuto attraversare per entrare nella terra promessa. Ora diventa una frontiera per il nuovo e definitivo esodo di Gesù.

Confessando i loro peccati, forse è meglio tradurre riconoscendo così i loro peccati. A noi il termine confessione ci rimanda al rito del confessionale in cui si butta la lista delle cose sporche per ricevere lo scontrino di buona condotta per andare a fare la comunione, qui non ha questo senso! Con il fatto che andavano ad immergersi nell’acqua riconoscevano i peccati. Il termine peccati usato dall’evangelista, non indica sbaglio o mancanza o colpe occasionali  o abitudinarie; indica un atteggiamento sbagliato che riguarda il passato delle persone. Nei vangeli il termine peccato riguarda il passato della persona, mai il presente. Quando la persona incontra Gesù e lo accoglie, – il passato – il peccato viene cancellato e poiché non c’è la perfezione esistono sbagli, mancanze, colpe. La gente, per il fatto di immergersi nel fiume Giordano, riconosceva di avere un passato di ingiustizia che voleva abbandonare.

7 “Ma vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha suggerito (o avvertito, dipende) di sottrarvi all’ira imminente?”Gerusalemme che accorre a Gesù, che già il profeta Isaia aveva denunciato come: popolo che onora Dio con le labbra, mentre il suo cuore gli è lontano, si materializza nella figura di farisei e sadducei.

Il termine che noi traduciamo con farisei viene da una parola ebraica, perushim, che significa separati.

Ed anche santo vuol dire separato. La differenza tra fariseo e santo oltre che etimologica è che sono due termini diversi.

Santo vuol dire separato da tutto quello che non è vita, che è contrario alla vita. Dio è santo perché non c’è nulla di non vita in lui, è il pienamente santo. Tutti quelli che come lui diventano santi, sono separati da ogni forma di male. La separazione da parte di Dio, vuol dire separato da ogni forma di male per andare incontro agli altri con atteggiamenti di vita, di compassione o di solidarietà.

I farisei facevano un altro tipo di discorso, loro erano separati, non dal male, ma dagli altri. L’osservanza della Legge, automaticamente li rendeva superiori agli altri, e li separava. Io non mi potevo associare, accomunare con persone che ritenevo incapaci di osservare la legge. La separazione dei farisei è la separazione dell’altro, porta all’ingiustizia, alla discriminazione dal punto di vista religioso.

Sono due separazioni diverse, quella da Dio e quella dei farisei.

I farisei fanno parte di un movimento nato circa due secoli prima di Gesù, al tempo della resistenza contro i re stranieri, per opera dei fratelli Maccabei. Sono dei pii laici che, per accelerare l’arrivo del regno di Dio, osservavano quotidianamente tutte le severe prescrizioni igieniche e rituali, che nell’Antico Testamento, il libro del Levitico, indicava per il sacerdote nel limitato periodo di tempo che serviva al tempio. Il libro del Levitico dice: quando il sacerdote deve svolgere le sue funzioni nel tempio, deve fare le abluzioni, non può toccare questo, osserva quest’altro ecc., ma era per un  periodo limitato, al massimo una settimana. I farisei osservavano quelle regole quotidianamente! Poiché la gente normale non poteva osservare tutto questo, si separavano dalla gente a causa di questa osservanza.

Erano riusciti a tirare fuori dalla Bibbia 613 regole da osservare, sommando le 365 proibizioni che vi hanno trovato, più i 248 precetti. Il numero 365 è legato ai giorni dell’anno, il 248 invece riguarda le componenti del corpo umano, secondo la loro cultura.

Pensavano che  il corpo umano fosse composto da 248 pezzi. È un modo per dire che tutto l’uomo, per tutto il tempo (365 giorni è l’anno), deve osservare le regole e i precetti. Loro preoccupazione era di mangiare cibi puri, per i quali fosse stata pagata la decima al tempio e soprattutto il sabato si astenevano dal praticare uno dei 1521 lavori proibiti in giorno di sabato. Il numero dei lavori proibiti viene dai 39 lavori principali svolti per costruire il tempio, moltiplicato per 39 lavori secondari; un mese fa sono diventati 1522 perché il gran rabbino di Israele, fra le azioni proibite in giorno di sabato, ha messo quella di non potersi infilare le dita per il naso!

È una cosa seria perché nel fare ciò, si può staccare un pelo, il che equivarrebbe al radersi. Una ditta di pannolini ha investito cento milioni di dollari per trovare un pannolino che non dovesse essere attaccato con l’adesivo, perché di sabato non si può attaccare con l’adesivo; ora hanno trovato un pannolino, con l’autorizzazione del rabbino, che deve essere solo appoggiato e rimane fermo, senza dover ricorrere all’adesivo. Appoggiare non è ancora compreso tra i lavori proibiti in giorno di sabato. È una vita complicatissima, assurda che dava ai farisei un enorme prestigio presso la gente, che li odiava, ma li ammirava. Erano i santoni dell’epoca e al tempo di Gesù la vita religiosa era retta tutta secondo le loro prescrizioni. Uno storico dell’epoca, Giuseppe Flavio scrive: crebbero in potenza i farisei, un gruppo di giudei in fama di superare tutti gli altri nel rispetto della religione e della esatta interpretazione delle leggi. Divennero i padroni del regno, liberi di esiliare e di richiamare chi volessero, di assolvere e di condannare. Fecero mandare a morte chi volevano. Tanta pietà non impedisce loro di esercitare il potere. All’epoca del regno di Erode erano circa seimila.

I sadducei sono i discendenti di un certo Zadòk. Salomone ha usurpato il trono al fratello, uccidendolo, ma prima di questo si era fatto consacrare re d’Israele da un sacerdote traditore, Zadòk, che poi ricompensò nominandolo sommo sacerdote al posto del legittimo sacerdote. I figli di Zadòk vennero addetti al servizio del tempio e al tempo di Gesù erano i componenti del Sinedrio ed erano l’aristocrazia economica e potere politico dell’epoca. Giuseppe Flavio quando deve parlare dei sadducei, li descrive semplicemente con la parola i ricchi. Come tutti i ricchi erano estremamente conservatori e riconoscevano come parola di Dio solo i primi cinque libri della Bibbia e disprezzavano i Profeti in cui c’è una continua invettiva contro i ricchi, contro quelli che accumulano potere su potere e ricchezze. Non accettavano i profeti dicendo che non c’era in loro parola di Dio. Tra farisei e sadducei c’era un odio mortale, ma li vedremo sempre uniti quando c’è  una situazione di pericolo.

Appena Giovanni li vede arrivare, li apostrofa subito Razza di vipere. Qual è il significato dell’espressione? A quell’epoca si credeva che la vipera dovesse uccidere la madre per nascere, è quindi un animale mortifero. È l’espressione che poi Gesù farà sua e la rivolgerà di nuovo ai farisei e poi agli scribi, indica in costoro i discendenti del serpente che nel giardino dell’Eden causò la morte di Adamo ed Eva. Il libro del profeta Isaia dice: dal ceppo del serpente uscirà una vipera. Razza di vipere significa gente capace di trasmettere soltanto e unicamente morte. Sempre Isaia dice: covano uova di vipere. Chi mangia quelle uova morirà, e dall’uovo schiacciato esce una vipera. Farisei e sadducei non credono all’invito di Giovanni e più avanti Gesù stesso glielo rinfaccerà dicendo: è venuto da voi Giovanni e non gli avete creduto. Gli hanno creduto le prostitute, i pubblicani, voi, farisei e sadducei non gli avete creduto. Non vanno al battesimo di Giovanni perché ci credono, vanno per indagare. C’è un movimento di massa, c’è una emorragia da Gerusalemme verso il deserto e loro vanno ad indagare questo movimento, che li allarma; per indagare fingono di sottoporsi loro stessi al rito.

L’evangelista dice: chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira di Dio? È importante il termine ira ed è l’unica volta che è presente nel vangelo di Matteo, praticamente assente nel Nuovo Testamento. L’evangelista si riferisce al fatto che si aspettava il giorno del Messia, il giorno del Signore e veniva chiamato il giorno dell’ira. Prima della riforma liturgica quando moriva una persona cara, per consolarci c’era il “dies irae”! E una serie di maledizioni capitavano al poveretto! Era il giorno della venuta del Signore, il giorno dell’ira. Gesù prenderà le distanze dal messaggio, ma per Giovanni Battista che continua la tradizione di Israele, quando arriva il Messia, viene a giudicare, a condannare e a castigare; l’ira è allora imminente. Gesù smentirà quest’attesa e Giovanni Battista andrà in crisi.

Gesù riprenderà l’apostrofe di Giovanni Battista anche per gli scribi e se c’è la minaccia dell’ira imminente, c’è pure la possibilità di uscirne

8 “Fate dunque frutti degni di conversione”, il termine frutto indica sempre delle azioni concrete del comportamento. L’evangelista invita farisei e sadducei a rinunciare al loro atteggiamento mortifero e a rendere visibile la conversione, significata dal rito del battesimo, mediante gesti concreti che comunichino e trasmettiamo vita. Anticipiamo la storia: l’invito non verrà ascoltato e i due gruppi saranno sempre ostili a Gesù e al suo messaggio, fino a volerne la morte. Prima che farisei e sadducei possano rispondere e obiettare, il Battista incalza

9 “e non crediate di poter dire fra voi: per padre abbiamo Abramo, perché io vi dico che Dio può da queste pietre far suscitare figli di Abramo”. C’era una certezza nel popolo ebraico che per il fatto di essere discendenti di Abramo, fossero eredi delle promesse di Dio e poi del regno di Dio; per i meriti di Abramo tutto era loro dovuto.

Giovanni non è d’accordo, e dice: non state certi di questo, perché Dio da queste pietre può far suscitare figli di Abramo. Perché l’immagine delle pietre? Sempre in Isaia, Abramo viene descritto: guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo vostro padre. Abramo è l’immagine della roccia, della pietra e il Battista li avverte che Dio non è condizionato dalla discendenza di Abramo, perché come da un uomo ormai vecchio, come era Abramo e con una moglie sterile, come era Sara, ha potuto suscitare un popolo nuovo, così ora potrà far nascere una realtà nuova. Qui la lingua italiana non può rendere il gioco di parole che c’è nella lingua ebraica, non nella greca con cui è scritto il vangelo. Figli in ebraico si dice ‘banaya e pietre ‘abnaya, è un gioco di parole che l’evangelista tenta di riportare.

L’alleanza con Dio non è più vincolata a un popolo o ad una razza, ma chiunque darà adesione a Gesù è per questo erede delle promesse che Dio aveva fatto ad Abramo, di suscitare un grande popolo. Il Battista riprende:

10 “Ormai la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. L’evangelista nell’indicare Giovanni Battista gli attribuisce i tratti del profeta Elia, che era il più grande dei profeti della storia di Israele e veniva rappresentato con il simbolo del fuoco. In uno dei libri della Bibbia, nel Siracide, si legge: Allora sorse Elia profeta simile al fuoco. Da una parte la tradizione biblica diceva che era stato rapito al cielo su un carro di fuoco e cavalli di fuoco, ma soprattutto perché aveva un metodo infallibile per vincere le discussioni con i pagani: un fuoco dal cielo, un arrosto collettivo! Questo è nel 2° libro dei Re, 1,13: c’è il re Acazia che gli manda cinquanta inviati, ed Elia li manda a fuoco e così anche con i successivi cinquanta perché a quei tempi il Padreterno era spicciativo! Elia è famoso per il fuoco sui cento pagani, ma non si ferma qui. Personalmente si vanta di aver sgozzato 450 sacerdoti pagani.

A parte queste immagini, il profeta Elia era un riformatore religioso che usava la violenza in nome di Dio e in Giovanni si vedono questi atteggiamenti. La sua è una immagine di giudizio, di condanna e di castigo.

11 “Io vi battezzo con l’acqua per la conversione”; il battesimo di Giovanni è un segno di morte al proprio passato, ma non basta eliminare il peso del passato, bisogna avere poi la forza e l’energia per vivere in maniera nuova il presente. Questo Giovanni non lo può dare. Quello che lui può dare è compiere un gesto che significa il desiderio di cambiamento di vita, ma per l’effettivo cambiamento ci vuole qualcosa di nuovo. I buoni propositi non servono molto. Io vi battezzo nell’acqua, come segno di cambiamento,

“ma colui che viene dopo di me ed è più forte di me io non sono degno di togliergli i sandali”; abbiamo già accennato a questo nella genealogia di Gesù, per il caso di Giuda e di Tamar e di Onan e abbiamo parlato del matrimonio ebraico. Una delle immagini con cui si rappresentava l’alleanza tra Dio e il suo popolo era quella del matrimonio: Dio è lo sposo, Israele è la sposa. La formula togliere i sandali si rifà all’istituto giuridico del matrimonio, alla legge del Levirato. Levirato deriva dalla parola levi che significa cognato, ed è la legge del cognato. L’accenno brevemente perché è già stata trattata.

Quando una donna rimaneva vedova e senza figli, il cognato aveva l’obbligo di fecondarla e metterla incinta. Se costui rifiutava, (Onan rifiutò e fu subito castigato da Dio!) colui che aveva diritto dopo di lui, procedeva alla cerimonia dello scalzamento, cioè scioglieva i sandali (questo era un grande disonore e la famiglia veniva chiamata la famiglia dello scalzato). Attribuendo queste parole a Giovanni Battista, l’evangelista non dà una lezione di umiltà da parte del Battista, ma vuol dire che colui che deve fecondare il popolo di Israele e dargli nuova vita, non è il Battista. Lui può solo fare l’amico dello sposo, ma colui che deve fecondare è colui che viene dopo Giovanni.

“ egli infatti vi battezzerà nello Spirito santo e fuoco”.

Giovanni battezza in acqua, simbolo di morte al proprio passato, la nuova immersione è nello Spirito santo e fuoco. Già nella annunciazione di Gesù abbiamo visto che spirito in greco è vento, forza, e l’immagine alla quale Giovanni si riporta è quella della vagliatura del grano. Giovanni aiuta ad arrivare all’incontro con Gesù che poi ci immergerà in un vento, in una forza – la forza vitale di Dio – la cui azione è di santificare. Faccio un richiamo: Spirito significa la forza di Dio, santo è l’attività di questa forza, cioè separare dal male. Ritorna di nuovo il termine separati: i farisei mediante l’osservanza della legge e dei precetti si separavano dalle persone. Gesù comunica una forza che non separa dalle persone, ma dalla sfera del male.

Mentre l’osservanza della legge produceva la disuguaglianza e la superiorità, l’immersione nello Spirito santo provocherà l’uguaglianza e il servizio. L’azione di Gesù sarà di immergere nella forza che elimina le scorie dell’uomo e le brucia nel fuoco, che nella Bibbia è sempre un segno di castigo. Lì si dice che il fuoco è stato creato per il castigo. La forza (dello Spirito) è l’energia per rendere perfetto il desiderio di cambiamento.

12 “Egli ha in mano la pala, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”. Ecco l’immagine alla quale Matteo voleva arrivare. Nell’Antico Testamento gli empi sono descritti sempre come paglia o come pula che poi è bruciata. Quando si parla di fuoco non significa che si subisce una pena, ma una distruzione completa perché il fuoco consuma completamente. Giovanni erede della tradizione descrive l’azione del Messia come quella di colui che attua un giudizio tra la gente, per realizzare quel sogno che è descritto nell’ultima parte, nel profeta Isaia: il tuo popolo sarà tutto di giusti. Quando verrà il Messia, egli dividerà i giusti dagli ingiusti ed eliminerà fisicamente i peccatori. Nel libro del profeta Malachia l’annuncio dell’invio di Elia è preceduto da questa immagine: Ecco infatti sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia e quel giorno venendo li incendierà. Il fuoco distrugge e annienta completamente tutto quanto, un fuoco inestinguibile.

Nel corso del vangelo vedremo come Gesù prenderà una posizione di distanza nei confronti di questa immagine annunziata da Giovanni Battista. Questi aveva annunciatoarriva colui con la scure posta alla radice degli alberi, ma in Luca Gesù dice: se un albero non  porta frutto, io lo zappetto, lo concimo nella speranza che poi porti frutto. Gesù non solo non condanna, non giudica, non castiga i peccatori, ma si unisce a loro. Gesù è conosciuto per essere amico dei pubblicani e dei peccatori.

Il povero Giovanni Battista va in  crisi e mentre è in carcere, gli manda un ultimatum che sa di scomunica: sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro? Gesù risponde: E Gesù dice: andate a dire a Giovanni quello che vedete, e sono tutte azioni che comunicano vita, nessuna è di condanna. Arriviamo alla figura di Gesù.

 

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i primi 6 capitoli della biografia di Tonino Bello

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BIOGRAFIA DEL SERVO DI DIO ANTONIO BELLO

di Sergio Magarelli

 

(l’ho trovata su fb e la pubblico volentieri, purtroppo coi limiti con cui l’ho trovata, cioè con i tanti sbagli contenuti nel primo capitolo non rivisto)

1. La croce del sud

I trattati di pace del 1919 e del 1920, all’indomani della prima guerra mondiale, avevano in qualche modo arginato i problemi causati dal grande conflitto. Una delle novità più concreteed innovative di quella fittissima rete diplomatica fu la creazione della Società delle Nazioni, una Organizzazione internazionale che doveva garantire alle popolazioni vittime della guerra il mantenimento della pace e di un nuovo assetto politico e sociale.

Le aspettative furono peròdeluse, perché una radicale trasformazione dei sistemi politici nell’Europacentro-occidentale e l’avvento di Hitler al potere (30 gennaio 1933),rappresentarono una seria minaccia alla pace. Infatti, il principale obiettivodella politica nazista era quello di assicurare alla Germania un incontrastatodominio su tutti gli altri Stati, e per raggiungere questo scopo Hitler nonrisparmiò mezzi antidemocratici, nonché brutali.

Nell’ostacolare il grave pericoloche ormai la Germania rappresentava, i Paesi europei ed extra-europei nonavevano che pochissime scelte: o costituire una coalizione contro la Germania,o allacciare con essa relazioni diplomatiche per evitare dissapori cheavrebbero potuto degenerare pericolosamente. La seconda possibilità fupreferita alla prima.

Ma le nuove relazioniinternazionali, in realtà, non fecero altro che nascondere le vere crisipolitiche e le apparenti distensioni che di lì a poco avrebbero generatol’orrore più inspiegabile che la storia ha poi partorito: la seconda guerramondiale. Erano quelli gli anni che vedevano l’Italia passare dallo Statoliberale alla dittatura fascista; erano gli anni della politica imperialistica.E mentre tutto questo accadeva, nel 1935 un’altra storia, una tutta d’amore,preparava Maria Imperato a partorire Tonino, la contropartita alla guerra, luiche della pace farà l’anelito più grande della sua vita.

Era il 18 marzo. Alessano,piccolo paese in provincia di Lecce, metteva alla luce l’ennesimo figlio, anchelui destinato a fare i conti con la povera condizione meridionale. Quella delsud è una realtà difficile da spiegare, è una “croce” ormai radicata da secoliin una avversa congiuntura storico-sociale che, accompagnata anche da pochi edinefficaci interventi di natura politica, non ha permesso di allontanare il meridionedal suo antico stato di arretratezza. Anche Alessano è coperta dall’ombra diquesta croce.

L’abitazione della famiglia Belloera sistemata in via Scipione Sangiovanni, al numero civico 17. E fu proprio lìche il piccolo Tonino aprì gli occhi al sole consegnando all’anagrafe, e allastoria, il suo nome: Antonio Giuseppe Mario Bello. Il papà, Tommaso, in passatoera già stato sposato e da quel matrimonio erano nati due figli maschi:Giacinto Antonio Carmine e Vittorio Nunzio Emilio. Rimasto poi vedovo, sposò inseconde nozze Maria Imperato dalla quale ebbe altri tre bambini. Tonino fu ilprimo a nascere, e a lui seguirono in ordine Trifone Nazzareno e MarcelloFernando.

Tommaso, che era maresciallo deicarabinieri in congedo, fece appena in tempo a mettere al mondo i suoi tre caripargoletti perché da loro, e dalla moglie Maria, dovette veramente congedarsiper sempre. La stessa sorte toccherà ai due figli del primo matrimonio.Carmine, che era radiotelegrafista sui MAS, morirà per infarto a Milano, nell’abitazionedella sua fidanzata. Vittorio, cannoniere in Marina, perderà la vita in seguitoall’affondamento della corazzata “Roma”. Era in pieno svolgimento la grandeguerra.

La croce del sud aveva cosìallungato la sua ombra, oscurando la casa e la famiglia Bello. Ma la signoraImperato con i suoi tre piccoli, messa a dura prova dal destino, non si lasciòcadere nella disperazione e nello sconforto. Anzi! Lo stesso Tonino, quandosarà vescovo, racconterà così: «Sono nato in una famiglia molto modesta, mamolto amante del Signore. Ho perduto mio padre a cinque anni. Ma mia madre nonsi è scoraggiata ed ha avuto molta fiducia nel Signore. Non era una bigotta edha condotto avanti tutta una famiglia».

Arrivarono per Tonino i tempidestinati a ricevere i primi sacramenti. Battesimo e Cresima gli furonoamministrati nella chiesa di Alessano, a volte designata come la cattedrale delpaese. Fu prorpio in questo luogo che Tonino cominciò a muovere i primi passidi un lungo cammino, imparando di certo qui il passo degli “ultimi” che loporterà alla sequela di Cristo.

I primi passi nella vita sonosempre i più difficili e non raramente si è soli in questa circostanza; Tonino,invece, ebbe attorno a sé qualcuno che intuì in lui inclinazioni particolari.Don Carlo Palese, per esempio, che era il parroco del paese, aveva già capitoche in quel ragazzo si sarebbe realizzato un grande progetto e lo seguiva conparticolare attenzione nella sua crescita spirituale. Anche la mamma, lasignora Maria, vuole la sua parte nell’aver accreditato al proprio figliolo unagiusta strada. Anzi, fu proprio lei a confidare al parroco, don Carlo, le sueintenzioni su quello che sarebbe stato di Tonino.

Infatti, quando il ragazzoterminò le elementari, i parenti non avevano alcun minimo sospetto di ciò chesarebbe accaduto. Per loro era normale pensare che Tonino frequentasse lascuola media nel proprio paese. Rimasero invece stupefatti quando vennero asapere che il ragazzo stava per essere avviato al seminario diocesano diUgento, dove avrebbe dovuto compiere gli studi ginnasiali. Questo fu decisodalla mamma, e Tonino consenziente rimase contento.

Nel paese, intanto, il piccoloTonino aveva già iniziato a conoscere la “sua” gente. Coetanei e adultidivennero subito i suoi privilegiati interlocutori. Nel tempo libero anche ilmare diventò la sua grande passione. Le lunghissime nuotate e gli interminabilituffi nel mare di Leuca lo vedevano assoluto protagonista di vere e propriegare con amici. Nel nuoto non aveva rivali, era il migliore. Anche da adultoconserverà questo entusiasmo per il mare. Quando il tempo e il lavoro gliconcedevano un po’ di tregua ne approfittava per trasferirsi nella sua terrad’origine, dove trascorreva brevi vacanze a nuotare nel mare di Santa Maria diLeuca.

Tutta l’infanzia fu da Toninovissuta nella semplicità e nell’umiltà, e in quei valori si forgiò il suo animoe la sua personalità. Era ormai pronto a realizzare quel grande progetto che sistava manifestando per volontà di sua madre. Intanto la seconda guerra mondialeera da poco finita. La miseria, la disoccupazione, le distruzioni furono anchein Italia le sue conseguenze. La gente iniziò a trovare fortuna altrove,lasciando le proprie città per recarsi in terre lontane.

Anche per Tonino giunse il giornodella partenza, il seminario di Ugento apriva le sue porte al novellinoalessanese. Ugento non dista poi tanto da Alessano, ma se pensiamo che neglianni quaranta le strade erano ancora senza asfalto, anche le distanza più brevidiventavano irraggiungibili. Basti pensare pure che l’unico mezzo di trasportodisponibile a quei tempi era il cavallo, e fu proprio uno di questi a tirare ilcalesse su cui viaggiava Tonino accompagnato dalla mamma e dal parroco donCarlo. Quel primo distacco fu veramente doloroso. Nonostante la giovane età,Tonino vide passare attorno al suo cuore una schiera di sentimenti che in luidiedero vita a qualche lacrima. Lasciava alle sue spalle Alessano, i fratelliniTrifone e Marcello, i piccoli amici del paese, ma nel cuore se li portavatutti.

Don Tito Oggioni Macagnino, cheall’epoca nel seminario di Ugento era vice prefetto di disciplina e incaricatodell’accoglienza dei novellini, racconta così il suo primo incontro con Tonino:«Ricordo le lacrime di quel ragazzino confuso e smarrito quando i parenti, lamamma soprattutto, andarono via e rimase solo con i seminaristi e i superiori.Aveva paura di non farcela e voleva tornare a casa da mamma Maria. Non so cosadissi e feci per distrarre e confortare il novellino, ma la serata andò per ilmeglio tra presentazioni, conoscenze e ricreazione improvvisata nei corridoi.Nei giorni successivi tutto si rasserenò! Venne a trovarlo anche il suoparroco. E la vita del seminario andò avanti».

Nel seminario di Ugento iniziòuna nuova vita. Gli anni di permanenza in quell’ambiente di formazioneculturale e spirituale furono cinque. Qui Tonino frequentò i tre anni dellemedie e i due del ginnasio, il suo impegno nello studio e in tutte le attivitàcomunitarie richiamarono l’attenzione dei superiori i quali, compiaciuti per ledoti di quel ragazzo, non ebbero grandi difficoltà a prevedere per lui unfuturo ricco di grandi soddisfazioni.

Erano quelli gli anni dellaadolescenza. Anni difficili per la crescita di ogni ragazzo; anche Toninoattraversò quei momenti importanti e da adulto li ricorderà con queste parole: «Ricordoi miei anni del ginnasio, un mare di dubbi. Dubitavo perfino della mia capacitàdi affrontare la vita. Che età difficile! Hai paura di non essere accettatodagli altri, della tua capacità di impatto con gli altri e non ti fai avanti. Epoi problemi di crescita, problemi di cuore».

E già, problemi di cuore! Anchese questi non mancarono, non furono mai tanto pericolosi da mettere a rischiola vocazione sacerdotale. Quest’ultima era ormai evidente, Tonino avevamaturato la sua scelta. Una scelta definitiva. Una volta, in una intervista,gli chiesero se aveva mai avuto la tentazione di tornare indietro. Quale fu larisposta? Eccola: «La tentazione del ritorno sui propri passi è una tentazionedi tutti. Sarei stato un anormale se non avessi avuto la tentazione a tornareindietro. Però ho visto che era molto bello dare una mano al Signore perannunciare il Regno di Dio in questo modo».

Terminati gli studi ginnasiali,Tonino si trasferì al seminario regionale di Molfetta per compiere i tre annidi liceo. Qui conseguì la maturità a pieni voti ma con gli occhi di tutti iprofessori puntati su di lui. Persino il vescovo di Ugento, monsignor Ruotolo,constatò di persona l’intelligenza e la cultura di Tonino e pensò ditrasferirlo a Bologna, presso il seminario ONARMO a studiare Teologia. Ilseminario ONARMO differisce dagli altri per il semplice motivo che prepara ifuturi sacerdoti ad avere contatti con il mondo operaio, una realtà, questa,delicata ed importante. In quel periodo, inoltre, arcivescovo di Bologna era ilcardinale Lercaro, un nome abbastanza conosciuto negli ambiente della Chiesacattolica; addirittura era uno tra i più papabili alla morte di papa GiovanniXXIII. Era noto a tutti l’impegno del cardinale Lercaro per la riformaliturgica, e lo stesso Tonino, che era alla “corte” dell’arcivescovo bolognese,di questa corrente condivideva i canoni.

Era contento di quella esperienzache stava vivendo, ed era altresì soddisfatto di come procedevano i suoi studi.L’esperienza vissuta nel capoluogo emiliano, durata cinque anni, fu decisiva edeterminante per la formazione sacerdotale del giovane Antonio Bello, ormaipronto ad essere consacrato al Signore.

 

 

2. Prete a ventidue anni!

 

 

Era il 1957. Tonino a Bolognaaveva terminato il quadriennio di Teologia. E dopo essere stato consacratoDiacono dallo stesso cardinale Lercaro, si accingeva a realizzare il suo piùgrande sogno. Ma per la giovanissima età, appena ventidue anni, occorreva unadispensa che autorizzasse l’Ordinazione sacerdotale. Il vescovo di Ugento –Santa Maria di Leuca, monsignor Ruotolo, che conosceva Tonino e che era giàstato informato della incredibile stima che il giovane contava, non trovòalcuna difficoltà a concedere l’autorizzazione. E fu lui stesso a presiedere ilrito di consacrazione l’8 dicembre 1957, festa dell’Immacolata, nella chiesa diAlessano. Circondato dalla presenza e dall’affetto dei suoi familiari, ilgiovane don Tonino si apprestava a percorrere una nuova e lunghissima strada.

La prima tappa del camminosacerdotale fu caratterizzata dal conseguimento della Licenza alla Facoltàteologica di Milano. A dire il vero fu sempre Lercaro a coinvolgere don Toninoin quella avventura, e lo stesso cardinale bolognese lavorava per poterlotenere con sé. Ma nel sud della Puglia c’era pure chi lavorava per garantire algiovane prete un’altra sistemazione. Infatti, il vescovo Ruotolo aveva pensatodi trasferire don Tonino (per lui sarebbe stato un gradito ritorno in un luogogià familiare) nel seminario di Ugento ad educare i ragazzi, e con tonischerzosi in una lettera indirizzata al cardinale Lercaro scriveva così: «Titieni don Tonino solo se me ne mandi due in cambio».

A soli ventidue anni, quindi, ungiovane prete era già conteso da un cardinale ed un vescovo. Non furono perògli unici a volere don Tonino. Monsignore Bnelli, allora responsabile dei pretioperai, lo considerava già un ottimo cappellano del lavoro nell’Emilia Romagna comunistaed anticlericale, o in altre zone industrializzate del nord. Anche i superioridel seminario ONARMO di Bologna lo volevano per fargli vivere esperienzepastorali di notevole considerazione. Ma alla fine prevalse la decisione dimonsignor Ruotolo. Don Tonino si trasferì ad Ugento nel 1958. Appena giunto nelseminario di Ugento, oltre ad essere incaricato della disciplina, don Tonino funominato professore di più materie scolastiche. Durante la sua permanenza,durata diciotto anni, fu prima prefetto, poi vice rettore e in ultimo dal 1974al 1976 rettore del seminario. Quegli anni risultano essere fondamentali perchémettono a nudo ulteriormente le capacità educative e pastorali di don Tonino,il suo impegno senza sosta, la sua cultura senza confronti.

Nonostante i delicati compiti dicui don Tonino fu investito e l’importanza di quel ruolo, il giovane prete non amòdistinguersi dagli altri. Don Tito Oggioni Macagnino, anch’egli educatore nelseminario, ricorda un episodio dei primi giorni: «Don Tonino era seduto arefettorio, al tavolo dei superiori, in seguito sceglierà di stare sempre con iseminaristi e di condividere in tutto i loro pasti, senza nessuna “variante”.Quella mattina si era fermato a prendere il caffè con noi, mentre i seminaristierano saliti nei corridoi per la ricreazione. A tazzina ultimata mi accorsi chesul tavolo non c’era la zuccheriera. “L’hai preso senza zucchero!” – notaimortificato – “perché non l’hai chiesto?” E lui, calmo: “Pensavo che usasteprenderlo così!” Era sempre così, si adattava ad ogni situazione, amavaperdersi nell’anonimato, essere l’ultima ruota del carro, lui che un giorno nesarebbe diventato il cocchiere».

Ancora oggi quei ragazzi che sonostati educati da lui, alcuni poi diventati preti, lo ricordano con nostalgia edimmutato affetto. Ricordano il suo spirito vivace, pronto, sempre in trinceaper sorprendere con le sue iniziative chi lo circondava. Nell’agosto del 1965,durante il seminario estivo che ogni anno si svolgeva a Tricase Porto, donTonino diede origine alla “Società dei rizzivendoli”. Antonio Andrea Ciardo,che all’epoca frequentava la prima media nel seminario di Ugento, ricorda chedon Tonino e i suoi ragazzi ogni giorno, invece di comprare i “rizzi” dairizzivendoli, all’ora del bagno e al grido di “Regina ricciorum” si tuffavanonell’acqua muniti di maschere e pinne e facevano i “rizzi” vendendoli poi almisero prezzo di cinque lire l’uno. A quell’estate appartiene un componimentodi don Tonino il quale, immedesimandosi nei panni di un riccio, così siesprimeva:

«Ti ringrazio o Signore, per leprofondità del mare, che mi hai dato come dimora. Per le valli sconfinate dialghe e di madrepore, che mi hai dato come compagne. Per la moltitudine deipesci, che mi guizzano velocemente d’intorno. Per l’incanto del paesaggio,fatto miracolosamente sbocciare dai raggi del sole. Per il misterioso silenziodegli abissi, che Tu hai creato mentre ti libravi sulle a cque. Grazie,Signore, per gli aculei pungenti che mi hai dato a difesa dagli attacchi di tuttigli abitatori del mare. Grazie, per l’onore che mi dai quando l’uomo, fatto atua immagine, violando il segreto degli abissi, mi coglie per assaporare sullasua mensa il mio profumato corallo».

Sempre Ciardo racconta che neldicembre ’64 don Tonino decise di fare il presepio tutto di pietra. Unaconseguenza di quella decisione fu che da quel giorno i muri delle campagne diUgento si abbassarono, mentre nella Cappella del seminario cresceva ilpresepio. E quando il 27 gennaio 1965 “La Gazzetta del Mezzogiorno” pubblicò lanotizia che «il nostro presepio era stato giudicato il migliore in assoluto intutta la provincia di Lecce, don Tonino trasudava felicità. Gridava la suagioia. Ci contagiò. E la sera don Tonino rientrò nello studio del seminario conla coppa levata al cielo».

Era fatto così. Semplice,spontaneo, genuino, agiva sempre con naturalezza. Ancora una volta don Toninofu protagonista ed ispiratore anche di una improvvisata. Nel seminario diUgento si aspettava la visita di un certo monsignor Panico, venuto a visitareil vescovo Ruotolo. Mentre accompagnavano l’ospite lungo i corridoi cheaccedono all’episcopio, don Tonino fermò la comitiva e pregò l’arcivescovoPanico di ascoltare una musica in suo onore. I ragazzi al cenno del loroeducatore cacciarono fuori dai loro nascondigli gli “strumenti musicali” ecominciarono ad esibirsi: pettini avvolti in plastica per clarinetti, pezzi ditubi di gomma per bassi, coperchi di pentole d’alluminio per “piatti”, altristrumenti a percussione ottenuti con posate, pezzi di ferro, cartoni… Don Titoera pronto a ricorrere ai ripari e alle scuse nei confronti dell’ospite che,invece, volle riascoltare i “musicisti” e il loro don Tonino nei panni didirettore di banda. «I complimenti andarono a me», racconterà poi don Tito,«perché come spesso accadeva, quando don Tonino sentiva odor di lodi sparivadalla circolazione o si disperdeva tra i suoi prodi».

Con i suoi ragazzi che lochiamavano ABEL (Antonio Bello), don Tonino fondò l’Antenna, un giornale che lui stesso dirigeva e che preparava contanta pazienza e meticolosità. Pure se il suo carattere e la sua personalitàdavano segnali di eccezionalità, ed era ben stimato dai ragazzi e dai superiorisuoi colleghi, don Tonino a volte lamentava la presenza di alcune “scorie” nelsuo modo di essere e di comportarsi. Ciò lo dimostra un breve componimento cherisale al 2 aprile 1932: «Sono un impasto di mansuetudine e di ira, di superbiae di modestia, di bontà e di durezza. Sono un intruglio di fervore e difrigidezza, di dissipazione e di raccoglimento, di slanci impetuosi e diapatiche immobilità. Sono un polpettone di carne e di spirito, di passioniindomite e di mistiche elevazioni, di ardimenti coraggiosi e di depressionisenza conforto. Dio mio, purificami da queste scorie in cui naviga l’anima mia;fammi più coerente, più costante. Annulla queste misture nauseanti di cui sonocomposto, perché io ti piaccia in tutto, o mio Dio».

Durante la permanenza nelseminario di Ugento, don Tonino riuscì a vivere anche una esperienzainteressante ed importante. Nel 1962 il Concilio Vaticano II, voluto da papaGiovanni XXIII, stava per iniziare e monsignor Ruotolo che doveva seguirne ilavori a Roma decise di portare con sé don Tonino, ormai lo considerava suopersonale teologo. Infatti, le tracce degli interventi che il vescovo di Ugentofece durante le sessioni conciliari furono preparate da don Tonino il qualetrovò anche il tempo di scrivere un diario su quella esperienza romana.L’ultima pagina del diario, intitolato “Appunti sul mio soggiorno romano inoccasione del Concilio Vaticano II”, nasconde il vivo desiderio di don Toninodi ritornare in seminario forse perché l’ambiente, troppo cerimonioso perquella particolare circostanza, lo metteva a disagio. «Sono così passati diecigiorni», annoterà don Tonino, «stasera riparto. Me ne torno a casa, a lavorarein diocesi, nel mio seminario, tra i miei ragazzi, nel mio umile posto divicerettore. Francamente in questi giorni ho più volte desiderato di fareritorno nel mio campo di lavoro… ».

È inutile sottolineare comel’aria di rinnovamento lanciata dal Concilio Ecumenico gli condizionerà moltola già ricca cultura pastorale che, successivamente, evidenzierà durante il suomagistero episcopale. Anche nella diocesi ugentina don Tonino si impegnò etanto per applicare gli insegnamenti che il Concilio aveva lasciato. GigiLecci, un laico impegnato pastoralmente in quegli anni, ricorda tuttora i primicorsi formativi e le settimane teologiche animati da don Tonino, quegliincontri che diventarono poi così familiari. Dirà Lecci che don Tonino «sapevaparlare ai più esigenti e farsi capire dai più semplici e che, senzasceglierlo, contribuì a promuovere e rafforzare l’unità della Chiesa (a livellolocale) tra le diverse persone, le varie associazioni e le 39 parrocchie».

Nel frattempo, il contributonotevole che don Tonino offrì al suo vescovo nel soggiorno a Roma era servito apreparare una grande sorpresa. Il vescovo Ruotolo lo fece nominare“monsignore”. A ventotto anni don Tonino era già monsignore! Naturalmente egliaccettò di buon grado quella sorpresa, ma continuò a farsi chiamare “don”Tonino, e lo farà pure dopo la sua nomina episcopale. Non dimentichiamo,inoltre, che mentre era a Roma don Tonino si iscrisse all’UniversitàLateranense, laureandosi, nel 1965, in Teologia.

Gli anni di permanenza nellacittà di Ugento avevano messo in risalto un’altra passione di don Tonino: losport. Ogni attività sportiva ed agonistica lo trovavano pronto ad impegnarsicon i suoi ragazzi fino all’estremo delle sue forze fisiche. Era riuscito,addirittura, ad ottenere il patentino di arbitro di calcio, sostenendo irelativi esami. Giocava appassionatamente a pallone, non accettava le sconfittee pur di riuscire a vincere le gare prolungava ulteriormente la regolamentaredurata delle partite. Era tifoso del Cagliari. Anche la pallavolo loentusiasmava. Anzi, egli stesso diede origine ad una squadra del seminario,riuscendo ad imporsi ed a raggiungere in quella disciplina sportiva incredibilirisultati nel campionato nazionale. Il migliore piazzamento, il secondo posto,fu ottenuto nel 1975. Ogni gara con i suoi valorosi atleti era una avventura.

Ogni cosa nella vita terrenafinisce, e quasi sempre ciò che più piace. Anche per don Tonino giunse il tempodi lasciare i suoi ragazzi e il seminario per adempiere ad un altro incarico.Questo avvenne nel 1978 quando il vescovo monsignor Mincuzzi, succeduto nelfrattempo a Ruotolo, nominò don Tonino amministratore parrocchiale del SacroCuore di Ugento. Amministratore parrocchiale vuol dire occupareprovvisoriamente il ruolo di parroco, ma assumerne tutte le responsabilità e idiritti. Appena arrivato in parrocchia don Tonino si tuffò a tempo pieno nelsuo nuovo lavoro. Ricostituì subito il Consiglio parrocchiale, dedicòparticolare attenzione al canto sacro e alla preparazione al commento delleletture della domenica. La gente ricorda ancora quando don Tonino girava incontinuazione per le strade della parrocchia. Infatti conosceva tutti, echiamava ciascuno per nome. Per tutti aveva un sorriso e una parola diincoraggiamento. Anche in questo nuovo ambiente, dunque, don Tonino lavoròmolto ed appassionatamente, conquistando immediatamente la stima e l’affettodei suoi parrocchiani a tal punto che nel 1979, quando fu eletto parroco aTricase, la gente contestò vivamente il vescovo.

Don Tonino si preparò così atrasferirsi nella nuova parrocchia di Tricase che gli era stata affidata dalvescovo Mincuzzi .

 

 

3. Il pane e la tenda

 

 

Tricase era in festa per l’arrivodel nuovo parroco. D’altronde don Tonino già conosceva molte persone di quelpiccolo paese distante appena sette chilometri dalla sua Alessano. La gente loaccolse con tanto affetto, entusiasmo e mille attenzioni, considerandolo unfiglio della propria patria. Tre anni di parroco a Tricase, nella parrocchiadella Natività di Maria, basteranno per fare capire a “qualcuno” che quelministero era soltanto una prova generale. Da quel gennaio del 1979 all’estatedel 1982, don Tonino rivoluzionò il paese con il suo impegno dinamico, conscelte nuove e rinnovatrici, sforzandosi di applicare nel suo popolo gliinsegnamenti che il Concilio Vaticano II aveva lasciato. «È necessaria un po’di follia nella Chiesa», diceva don Tonino, e di quella “follia” si servì peristituire il Consiglio pastorale parrocchiale, i corsi prematrimoniali; percreare la festa del fanciullo e una sezione dei volontari del sangue; perriordinare la questione delle confraternite e delle processioni.

I parrocchiani, la gente delpaese, tutti avevano inteso che quel prete era diverso dagli altri, e perciòdon Tonino cominciò a vedere la sua chiesa riempirsi di tantissime personeaffascinate e conquistate dalle sue omelie. Talvolta quelle prediche gliservivano per lanciare “sferzate” ai politici e agli amministratori locali iquali, pur non risparmiandosi, rispondevano con battute bagnate al veleno. Laparrocchia di cui don Tonino era il parroco diffondeva un fogliettosettimanale, “Comunità”, un ciclostilato su due facciate di carta comune, maricco di tanti spunti di riflessione oltre che di informazioni. Un piccolospazio don Tonino lo riservava a loro, gli ultimi, alla loro condizione divita, alla situazione sociale del paese. Una volta, racconta Ercole Morciano, «suun numero di “Comunità” don Tonino scrisse l’articolo “Gli ultimi e il pianoregolatore”, pochissimi righi nel suo stile, facendo rilevare che il pianoregolatore dovrebbe considerare i bisogni della popolazione e non gli interessidi pochi. Si seppe che i destinatari dell’invito snobbarono l’intervento ecircolò qualche battuta su don Tonino esperto in urbanistica».

Intanto la popolarità di donTonino cresceva. Anche i giovani di Tricase si lasciavano conquistare da lui,soprattutto i suoi alunni. Già, perché don Tonino insegnava e si incontravatutti i giorni a scuola con i giovani, vivendo l’impegno scolastico non come unlavoro ma come una missione, come un momento di espansione e di verifica delsuo ministero sacerdotale e pastorale. Questo dimostra il fatto che spessodimenticava di riscuotere il suo stipendio, e quando una volta, dirà VitoCassiano, «il segretario gli fece rilevare che giaceva presso la segreteria ilsuo onorario, don Tonino lo prese e acquistò delle riviste o fece degliabbonamenti per i giovani». Nel paese non si faceva altro che parlare di lui,di quel parroco moderno, umile, coraggioso e semplice. E forse quelle vocierano penetrate anche negli “ambienti romani”, tanto è vero che già nel 1980don Tonino dovette recarsi a Roma perché convocato dalla Congregazione deivescovi.

Qui incontrò il cardinaleSebastiano Baggio, Prefetto della Congregazione, il quale dopo un lungo colloquiogli propose la nomina a vescovo con destinazione Palmi, in Calabria. Quell’eventolo turbò, e non poco, ma alla fine decise di declinare la proposta. Non passòmolto tempo da quel primo incontro che una seconda convocazione a Roma gliprocurò la proposta di nomina a vescovo nella diocesi di Tursi, in Basilicata.Ancora una volta don Tonino non accettò l’invito, lo tormentava la sola idea dilasciare Tricase, la sua parrocchia, la sua gente che egli amava ma,soprattutto, la sua mamma ormai troppo anziana che, infatti, morirà nelnovembre del 1981.

L’anno successivo, a metà giugno,don Tonino ricevette la terza proposta. Era indeciso, ma propenso ad accettarela nomina, e così scrisse al papa, Giovanni paolo II, questa bellissimalettera: «Beatissimo padre, le significo la mia gratitudine per la stima, lafiducia e l’onore di cui mi degna elevandomi al ministero episcopale. La miaaccettazione, oltre che carica di incertezze, è anche permeata di moltatristezza: mi fa così soffrire il pensiero di dover lasciare questo popolo cheho amato e servito per tre anni, che riterrei una grazia straordinaria delSignore poter continuare a lavorare nella mia parrocchia ancora per qualchetempo. Se non insisto per essere liberato da questo onore e da questaresponsabilità che mi spaventano, è perché temo di intralciare con i mieicalcoli i disegni di Dio. Beatissimo Padre, mi rimetto alle sue decisioni qualiche siano e chiedo sulla mia povera vita la sua paterna benedizione. Don ToninoBello».

Non trascorsero che solo alcunigiorni, e il 10 agosto 1982 don Tonino Bello fu nominato vescovo di Molfetta,Giovinazzo e Terlizzi e, successivamente, anche di Ruvo di Puglia unita alleprecedenti città “in persona episcopi” ed entrata a fr parte della nuovadiocesi il 30 settembre 1986. A Molfetta, la notizia fu data al clerointerdiocesano il sabato del 4 settembre alle ore 12 da monsignor Aldo Garzia,che nel frattempo era stato trasferito nella diocesi di Gallipoli. Due giornidopo, il 6 settembre, don Tonino conobbe di persona, nell’aula magna delseminario vescovile di Molfetta, il clero delle tre città della diocesidicendo, con tono scherzoso, di aver voluto subito incontrare la «fidanzata chela Santa Sede gli aveva trovato per corrispondenza», e cioè la Chiesa diMolfetta. Il 19 settembre, invece, in tutte le chiese della diocesi fu letto ilprimo messaggio del nuovo vescovo Antonio Bello:

«Miei cari fratelli delle Chiesedi Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, il Signore mi manda in mezzo a voi perchémi metta a camminare alla Sua sequela, cadenzando il mio passo col vostro, cheso agile e spedito. Finora ho camminato con altri fratelli nella fede, che mihanno edificato con la loro bontà e che ora lascio con tanta amarezza. Apareggiare, però, e a sopravanzare il dolore del distacco, c’è in me la gioiadi poter testimoniare in mezzo a voi la fede, la speranza e l’amore dellacomunità da cui provengo. Non è bello anche per voi vedersi raggiungere lungola strada da un altro viandante che vi dice come mille altre carovane corronodietro Gesù e Gli vogliono bene? Sulla via ci aiuteremo a vicenda. Spartiremoil pane e la tenda. Anzi, faremo in modo che la nostra tenda e il nostro panesiano disponibili per quanti, dispersi o sbandati, incontreremo nel viaggio.Saluto il vostro Pastore che vi ha guidati e sorretti con cuore generoso e conmano sicura. Saluto tutte le vostre autorità. Ancora non conosco i vostrivolti, però stringo egualmente la mano di tutti, non solo di voi credenti, maanche di coloro che, pur non condividendo le nostre speranze cristiane,sperimentano come noi la durezza della strada e si impegnano perché la lorovita e quella degli altri sia più degna dell’uomo. Ma non è già questa unasperanza cristiana? La madonna ci assista e ci accompagni nel cammino».

Iniziarono così i preparativi perla celebrazione di consacrazione episcopale, che avvenne a Tricase il 30ottobre nei pressi della chiesa di San Domenico. Una immensa folla eraconvenuta in piazza Pisanelli. Dopo alcuni giorni dalla consacrazione, donTonino dovette recarsi a Roma per prestare giuramento davanti al presidentedella repubblica, Sandro Pertini. Oggi questo rito non ha più luogo conl’entrata in vigore dell’Accordo di Villa Madama del 1984. Pertini tenne unlungo colloquio con il nuovo vescovo di Molfetta, durante il quale rimasecolpito dalla semplicità con cui il novello vescovo vestiva, e sbalordito nelvedere la croce pettorale fatta in legno, una cosa insolita per un vescovo,chiese spiegazioni in merito. Don Tonino, naturalmente, spiegando i motivi diquella sua scelta sollevò la croce dal petto e togliendola da collo la posenelle mani del Presidente facendone a lui dono.

Di ritorno da Roma, don Toninorimase qualche settimana ancora a Tricase per sistemare alcune faccende utilial suo trasferimento in Molfetta. Intanto era stato deciso che l’ingresso nellasua nuova Chiesa avvenisse il 21 novembre 1982. Gli ultimi preparativi, però,lo angosciavano, gli dispiaceva molto lasciare Tricase, la gente che amava, madovendo giustificare a chi gli chiedeva il motivo di quella sua scelta usavaqueste parole: «Ho accettato per lo stesso motivo per cui mi sono fatto prete eper le stesse ragioni per le quali, dopo venti anni spesi in seminario, sonovenuto qui a Tricase: obbedire a una chiamata che, per me credente, non èsoltanto umana. Ho accettato, perché continuare a dire no mi sarebbe parsa unaforma di egoismo camuffato di modestia. Ho accettato, perché mi sono accortoche il prezzo di questa decisione per me sarebbe stato altissimo: se itricasini non mi avessero amato, forse sarei rimasto. A qualcuno può sembrareuna logica strana, ma è la stessa logica che ha indotto Abramo a lasciare laterra, la tenda e gli amici per andare nel paese indicatogli da Dio. Se inquesta decisione è entrata un’ombra di vanagloria, ne chiedo perdono a tutti.Una cosa, comunque, oso sperare: che l’amarezza di chi resta e il dolore di chiparte non rimangano sterili».

Nessuno ormai poteva più trattenerlo, don Tonino si accingeva a guidare la Chiesa di Molfetta.

 

 

4. Una Chiesa povera

 

Dopo il lunghissimo episcopato di Achille Salvucci (1935-1978) il più lungo del novecento, e quello transitorio di Aldo Garzia (1975-19782), Molfetta si preparava ad accogliere il nuovo vescovo. L’ingresso nella diocesi avvenne il 21 novembre 1982, festa della presentazione di Maria al Tempio. Sul sagrato della Cattedrale il sindaco molfettese, Beniamino Finocchiaro, e tutte le altre autorità civili di Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi pronunciarono i discorsi di saluto e di benvenuto al nuovo Pastore. È inutile nascondere la massiccia partecipazione e la curiosità dei fedeli convenuti in chiesa per quella rara occasione. Ma la convinzione che quel nuovo vescovo avrebbe “dirottato” la Chiesa molfettese verso altre strade, si ebbe durante l’omelia che don Tonino preparò per quella solenne cerimonia. In evidente stato di imbarazzo, don Tonino esordì con queste parole: «Miei cari fratelli, Dio solo sa come in questo momento vorrei essere libero dalla preoccupazione di dovervi fare un discorso “intelligente”, uno di quei discorsi tra le cui righe ci si senta poi autorizzati a leggere orientamenti e prospettive, a spiare svolte o ristagni, a intuire speranze o involuzioni. A nessuno è lecito strumentalizzare l’incontro con la Parola di Dio. Per cui a me non è lecito, in questo momento, cedere alla debolezza di darvi, come si suol dire, una buona impressione sin dalle prime battute. E non è lecito neppure a voi indugiare su analisi estetizzanti, quasi per studiare le mie mosse, piuttosto che per convertirvi». Continua ancora don Tonino rivolgendosi al popolo: «Aiutatemi, vi prego, con la vostra comprensione e con la vostra indulgenza, perché la solennità di questo primo incontro con voi non mi carichi della suggestione di dirvi necessariamente delle cose raffinate, ma cose vere, cose semplici, cose di tutti i giorni, cose buone come il pane, cose di cui voi avete bisogno e che Lui, il Signore, mi suggerisce. Aiutatemi, soprattutto, a rispondere a quella domanda essenziale che avete nel cuore e che sulle vostre labbra stasera si traduce così: “Messaggero che vieni da lontano, quale buona notizia ci porti”?».
Un esordio semplice quello di don Tonino, che continuando l’omelia giunge ad un punto chiave di quel suo primo discorso ufficiale: «Ma se io, cari fratelli nella fede, sono stato inviato a voi a proclamare che Gesù è risorto ed è l’unico Re e Signore; se io, chiamato ad essere vostro Vescovo, sono stato incaricato di svegliare l’aurora che già vi dorme nel cuore… chi porterà questo annuncio di speranza agli “altri”, a quella porzione del popolo delle nostre diocesi che non coincide più col perimetro della Chiesa, a coloro ai quali i valori cristiani non dicono più nulla? […] Tocca a noi, allora, popolo tutto intero di battezzati, depositari della speranza cristiana, passare per le strade del mondo e proclamare insieme: Coraggio, gente, non ti deprimere…». Altro che ristagni o involuzioni! In queste poche righe è concentrato il succo di un vero e proprio programma pastorale, denso di prospettive, di svolte e di speranze. Ancora qualche pensiero, e don Tonino conclude così la sua prima omelia innanzi ad una immensa folla: «Eccomi, cari fratelli. Nel giorno della presentazione di Maria al Tempio, mi presento anch’io a questo tempio umano, fatto di pietre vive, glorioso di tradizioni di fede e di impegno, carico di Storia e di cultura. Accoglietemi come fratello e amico, oltre che come padre e Pastore. Liberatemi da tutto ciò che può ingombrare la mia povertà. Di mio non ho molte cose da darvi. Però nella mia valigia ho due cose buone. La prima me l’ha messa il Signore: ed è la sua Parola, perché la dispensi lungo la strada a voi, miei nuovi compagni di viaggio, in modo che cambi il vostro povero cuore e affretti la cadenza dei vostri passi. E poi c’è un’altra cosa. Ed è la tenerezza, la sofferenza, la fede, l’amore, la speranza indistruttibile della mia piccola stupenda Chiesa d’origine e delle mie indimenticabili comunità di Alessano, di Ugento e di Tricase».
Quelle non furono soltanto parole. L’azione seguì ben presto al pensiero. La gente imparò a conoscerlo per strada, nei locali pubblici, nel salone del barbiere. Si interessava dei problemi dei più sfortunati, impegnandosi in prima persona a risolverli. Un esempio eclatante che don Tonino riuscì a dare, a pochi mesi dalla sua elezione a vescovo, fu quando egli stesso partecipò allo sciopero che gli operai delle ferriere di Giovinazzo attuarono per la chiusura dello stabilimento. Nel suo messaggio assicurò loro «che la Chiesa ha un compito e una competenza che nessuno ci può contestare, quello di schierarci con gli ultimi. E in questo momento gli ultimi siete voi». Non è questo il solito messaggio di circostanza che nasconde il debole profumo della retorica e della demagogia, perché don Tonino riesce a spiegare, ma non solo con la parola, cosa significa stare con gli ultimi. «Stare con voi», ribadisce il vescovo molfettese, «significa anche condividere la vostra protesta. Protesta contro le latitanze, le lentezze, i ritardi, le scelte che hanno reso estremamente pesante la situazione. Protesta contro una politica che non ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso le necessarie riconversioni e ristrutturazioni. Protesta, dobbiamo pur dirlo, contro la leggerezza, l’assenteismo, il doppio o triplo lavoro, la mancanza di serietà…».
Per gli operai in agitazione don tonino prelevò undici milioni di lire dal fondo per la costruzione delle chiese; seguì l’intera vicenda, anche giudiziaria, tra lo stupore degli stessi operai, increduli a riconoscere quell’uomo nei panni di un vescovo. Forse perché abituati ad altre concezioni di intendere e riconoscere un vescovo. Col passare dei mesi, don Tonino intensificò ulteriormente i suoi aiuti verso coloro che versavano in condizioni pietose. Aprì le porte del suo appartamento vescovile agli sfrattati, a chi aveva bisogno di una casa, di un po’ di pane, o anche solo di un po’ di affetto. E non lo faceva per pietismo, ma soltanto perché era convinto che dai poveri poteva venire la “salvezza”. La sua era e doveva essere una Chiesa povera, una Chiesa sempre al servizio di tutti. Da qui nascerà poi l’espressione che lo stesso don tonino diede alla sua Chiesa: «Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Che sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi…».
Continua don Tonino: «La chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. Nell’hit parade delle preferenze il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il lezionario fra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi. Con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca». Le ultime parole di questo discorso sono suggestive, sono l’invito del vescovo a “simpatizzare” il servizio: «cari fratelli, riprendiamo la strada della condiscendenza, della condivisione, del coinvolgimento in presa diretta nella vita dei poveri. Solo se avremo servito, potremo parlare e saremo creduti. Solo allora potremo riprendere le vesti sontuose del nostro prestigio sacerdotale e nessuno avrà nulla da dire».
E il suo servizio era ormai evidente a tutti. Un impegno senza sosta. Fu lui a volere e a far nascere nel 1985, nei pressi della provinciale Ruvo-Terlizzi, la C.A.S.A. (Comunità di Accoglienza e Solidarietà “Apulia”) con la collaborazione di don Nino Prudente che ne diventerà direttore. L’obiettivo di quella iniziativa era, ed è tuttora, quello di recuperare e rieducare i giovani tossicodipendenti, preparandoli attraverso il lavoro ad un nuovo inserimento nella società. Molto lavoro fu svolto da don Tonino per quella preziosa iniziativa, e don Prudente spiegherà con queste parole l’impegno del vescovo: «La comunità C.A.S.A. deve molto a don Tonino. Egli si è impegnato in prima persona anche dal punto di vista economico, facendo pazzie per una somma di oltre quattrocento milioni. Spesse volte di sera o di notte mi telefonava e andavamo a raccogliere alla stazione di Molfetta dei barboni, alcolizzati, a rischio personale. A volte mi affidava situazioni di coppie disperate, di drammi familiari. Tutto questo egli lo faceva con profonda sofferenza. Una volta mi disse: “senti, Nino, io ti devo confessare che certe volte, un po’ per tante amarezze e un po’ per la difficoltà di soluzione di tante situazioni, vorrei andarmene in missione, vorrei tornare a fare il parroco, vorrei stare in mezzo alla gente, rimboccarmi le maniche ogni giorno con loro”».
Con la collaborazione di qualche sacerdote, don Tonino istituì a Ruvo una Casa di accoglienza per extracomunitari. A Molfetta, invece, per sua iniziativa nacque la “casa per la pace”. Erano le azioni, dunque, a precedere i discorsi, che perciò diventavano credibili. Erano comunque e sempre i poveri la sua grande passione. Per loro don Tonino orientò tutto il suo magistero episcopale, e fu felice quando eletto vescovo perché capì che era giunto per lui il momento di mettersi al loro servizio: «Grazie, terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che, proprio per questo, mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli». I molti avvenimenti tristi e seri che accaddero nei primi tempi del suo ministero episcopale gli diedero la possibilità di scrivere bellissime lettere. Dirà Donato Valli, già Presidente della “Fondazione don Tonino Bello”, che don Tonino «attraverso lo stile epistolare entra in contatto con gli uomini veri che gli sono di fronte, ma anche con gli uomini di tutti i tempi, del passato prossimo e remoto». Ma chi sono questi uomini? Semplice. Massimo il ladro, ucciso a Molfetta la notte dell’8 gennaio 1985, e sulla cui fossa don Tonino accese una lampada; Giuseppe l’avanzo di galera, alla cui libertà don Tonino ha brindato; Mario la guardia campestre, ucciso a Ruvo il 14 novembre 1986, a cui don Tonino ha auspicato la nascita di un fiore sulla viottola di campagna irrigata dal suo sangue; ogni fratello marocchino, invitato da don Tonino a fermarsi a casa sua. E poi altri ancora: Antonio il pescatore, Peppino l’ubriaco, Marta la scheda perforata, Mohamed il diverso… Tutte storie di uomini a cui don Tonino ha prestato un po’ della sua, mescolandosi con loro; anche ai lontani, a chi per diverse ragioni ha dovuto lasciare la propria terra per cercare fortuna altrove. Così si spiegano i suoi numerosi viaggi oltreoceano, alla ricerca di volti molfettesi che la storia ha voluto allontanare. E dalla sua prima esperienza in Australia, don Tonino compila un rapporto pastorale sulla emigrazione molfettese, “Sotto la croce del sud”. Un messaggio forte viene trasmesso ai molfettesi in Australia, parole che contano più di una lezione di catechesi: «Il Vangelo vale più del dollaro. L’amore vale più della macchina», dirà don Tonino, e ancora, «Non lasciatevi sedurre dal piatto di lenticchie per cui svendere i valori della vostra cultura d’origine: l’amore per la giustizia, il gusto del dialogo, la gioia di condividere».
Ben presto diventò popolare anche all’estero, mentre a Molfetta era già entrato nel cuore della gente. Tutti lo cercavano, chiedendo a lui aiuto o conforto. Era diventato pure il personaggio più corteggiato da stampa e televisione, che a turno si accontentavano di articoli o di interviste. Era ormai fuori discussione la straordinarietà del vescovo che, senza trascurare gli impegni diocesani, partecipava a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Roma, Torino, Bologna ed altre tante città d’Italia, e non solo, divennero le mete di frequenti trasferte a cui il vescovo molfettese non rinunciava. In poco più di due o tre anni era conosciuto da tutti, non si faceva altro che parlare di lui. Ma questa notorietà mise in guardia gli “ambienti romani”, che iniziarono a seguire con più interesse le sue iniziative. Del resto, non mancheranno occasioni per cui don Tonino fu chiamato a dare spiegazioni sul suo operato.

 

 

5. Il nome della Pace

 

Per il vescovo di Molfetta gli impegni cominciarono a moltiplicarsi sul finire del 1985, quando la nomina a presidente di Pax Christi lo vedrà protagonista di tante battaglie a difesa della pace. Fu il cardinale Ballestrero, all’epoca Presidente del consiglio permanente della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), a promuovere don Tonino Bello alla guida di quel movimento cattolico internazionale. La scelta su quella nomina non era stata del tutto facile. Basti pensare che dal 1978 al 1985 nessun vescovo aveva occupato quel ruolo lasciato libero da monsignore luigi Bettazzi. Sei anni di attesa, dunque, lasciano supporre come don Tonino Bello sia stato scelto perché ritenuto l’uomo giusto al posto giusto. Ed i fatti lo dimostreranno subito.
Nemmeno il tempo di insediarsi alla guida di Pax Christi, che don Tonino veniva coinvolto, seppure alla larga, da polemiche le cui origini si trascinavano ormai da tempo: obiezione di coscienza al servizio militare, obiezione fiscale, guerra alla guerra, erano i temi scottanti di un accesissimo confronto dialettico tra Stato ed Associazioni pacifiste. E le difese di don tonino nei confronti di monsignor Bettazzi, l’unico vero bersaglio della stampa particolarmente laica, lo indussero a scontrarsi con Indro Montanelli, famoso giornalista che allora dirigeva “Il Giornale”, il quale attraverso l’articolo di fondo apparso il 4 febbraio 1986 ridicolizzava Bettazzi. Don Tonino non accettò minimamente quella provocazione, e manifestò al noto giornalista «il più amaro disgusto per ciò che lei ha scritto del vescovo monsignor Bettazzi e che dell’articolo di fondo ha solo il fondo. Un fondo nero, limaccioso, torbido. Sarà stato un incidente sul lavoro: cosa che non le capita di rado. Ma stavolta il secchio della sua abilità letteraria, invece che attingere l’acqua pulita dell’argomentazione intelligente, è sceso a pescare nel fango. Del suo pozzo, naturalmente. Il fango di antiche sedimentazioni laiciste e di pregiudizi culturali fuori moda, che disilludono amaramente quanti pensavano che l’anticlericalismo fosse solo una malattia infantile della nostra democrazia». La lettera prosegue con parole audaci e dure, innescando così la fredda e sterile replica di Montanelli: «Nostro est giornale non quaresimale».
Furono, perciò, molte le delusioni che il vescovo molfettese collezionò a causa del suo immenso impegno pacifista. D’altronde faceva il suo dovere di vescovo, difendeva e promuoveva il nome della Pace contrapponendolo a quello della guerra, delle armi, della violenza. E può, addirittura, sembrare strano come le sue dichiarazioni scomode abbiano più volte infastidito persino le grandi personalità della Chiesa cattolica! Ciò ci viene dimostrato da una lettera che David Maria Turoldo, un altro grande profeta del novecento, scrisse a don Tonino, per manifestargli la sua solidarietà: «Caro don Tonino, appena due righe. Anche se il desiderio di un colloquio è immenso. Supplirò alla brevità col volerti ancora più bene. Mi dicono che sei stato richiamato, per le tue scelte, per i tuoi interventi, che non è bene parlare troppo contro le armi. Ebbene, non solo ti sono vicino, ma oso perfino darti un consiglio: a maggior ragione intervieni, intervieni sempre di più; e insieme dì che sei stato richiamato, dillo pubblicamente; perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo. Se non intervieni, se non dici pubblicamente come stanno le cose, ti andrà sempre peggio. E loro diventeranno sempre più arroganti. Appunto perché sono vili: cioè, forti con i deboli e deboli coi forti. Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Tanto più che di vescovi in cui confidare ce ne sono così pochi!».
L’impegno di don Tonino a difesa della pace si evidenziò anche nell’ambito locale. Infatti, una delibera del Consiglio Regionale di Puglia del 1983 concedeva l’autorizzazione per la costruzione di alcuni poligoni militari su una vasta zona della Murgia. Non è difficile immaginare la protesta e la contestazione dei contadini, proprietari delle terre che dovevano ospitare le esercitazioni militari. Don Tonino iniziò subito a prendere provvedimenti. Partecipò alla marcia organizzata per protestare contro quella decisione, animò incontri e dibattiti e, infine, prese carta e penna e scrisse un appello, nell’aprile del 1986, a tutti i componenti del Consiglio Regionale. «Cari amici», esordiva don Tonino, «dichiariamo subito il profondo rispetto per le istituzioni che rappresentate, la fiducia nel vostro impegno umano, la stima sincera per la vostra persona. Ma sentiamo pure il bisogno di dirvi che da tempo la nostra coscienza di cittadini di Puglia è turbata da inquietudini profonde e da oscuri presentimenti. […] Il destino della nostra assenza dalla storia del progresso sembra oggi capovolgersi. Ma con un protagonismo distorto. Incombe su di noi la dissolvenza in negativo del testo di Isaia che dice: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci, e non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. […] A voi, politici, di cui pure comprendiamo la sofferenza e intuiamo le perplessità, chiediamo di mostrare che la rete delle istituzioni non si è scollata dal sentire della gente. Che a voi preme ancora il bene comune. Coraggio. La revoca della delibera regionale dell’83, che assegnava gran parte della Murgia ai poligoni di tiro, significa che il sogno di Isaia è ancora possibile. Ed è certamente ancora possibile che sulla nostra terra, pur riarsa dal sole e bruciata dalla sete, il grano della pace diventi pane».
Nemmeno quella presa di posizione da parte del vescovo di Molfetta riuscì ad ostacolare le esercitazioni militari che, nel frattempo, si svolgevano sul territorio della Murgia. Don Tonino tornò alla carica. Preparò un nuovo documento, “Terra di Bari, terra di pace”, al quale aderirono i vescovi della Metropolita di Bari: Magrassi (Metropolita e arcivescovo di Bari-Bitonto), Carata (arcivescovo di Trani-Barletta-Bisceglie), Lanave (vescovo di Andria), Pisani (vescovo di Gravina-Altamura), Padovano (vescovo di Conversano-Monopoli), Cacucci (vescovo ausiliare di Bari). Quel documento rappresentò la svolta di quella delicata vicenda, tanto è vero che di lì in seguito dei poligoni di tiro sulla Murgia non si ebbe più notizia. Ma le polemiche non finirono. La notizia dell’installazione di settantadue “F16” a gioia del Colle rianimerà l’intervento di don Tonino. Ulteriori incontri, nuovi appelli, nuove marce saranno da lui organizzati per respingere quel progetto. Ma la protesta contro l’installazione degli “F16” raggiunge il suo vertice allorquando don Tonino redige un nuovo documento, anche in quella circostanza firmato dagli altri vescovi della terra di Bari. Viene spedito in tutte le segreterie dei partiti e in tutti gli ambienti “importanti” della politica nazionale. Si scatena un vero putiferio. Vale però il caso di riproporre alcuni passi del testo “Puglia, arca di pace e non arco di guerra”: «… Abbiamo appena finito di rallegrarci per i confortanti gesti di distensione internazionale, e già una nuova grave foschia sembra oscurare il nostro cielo: l’ipotesi di stazionamento di 72 cacciabombardieri americani “F16” nell’aeroporto di Gioia del Colle. Triste destino della nostra terra! Finora è stata la storia a ricacciarla indietro, in ruoli subalterni. Adesso è la geografia che la respinge ancora più indietro, affidandole compiti di un perverso protagonismo: e non su ribalte di civiltà, ma su scenari di morte. Contro questa logica eleviamo, ancora una volta, la nostra fiera e sofferta protesta! È già pesante il pedaggio che la Puglia sta pagando, in fatto di servitù, ai programmi di riassetto militare. […] L’arrivo degli “F16” a Gioia del Colle comporterà un’ondata di nuovi espropri, sia per favorire l’indispensabile ampliamento dell’aeroporto, sia per permettere l’ospitalità ad almeno cinquemila americani che vi stanzieranno in pianta stabile».
Continua ancora don Tonino: «A questo punto, sentiamo l’obbligo di precisare che il nostro fermo rifiuto della logica legata all’operazione “F16” non nasce solo da ragioni interne ai confini territoriali ento i quali noi vescovi svolgiamo la nostra particolare missione pastorale. Ma deriva anche dalla condivisione del severo giudizio che Giovanni paolo II, al n. 20 della “Sollecitudo rei socialis” ha espresso sulla politica dei blocchi: “L’esistenza e la contrapposizione dei blocchi non cessano di essere tuttora un fatto reale e preoccupante, che continua a condizionare il quadro mondiale”. Sia ben chiaro, quindi: qualsiasi altra collocazione geografica dei “falchi combattenti” non alleggerirà più che tanto le nostre preoccupazioni». Il documento conclude così: «Non ci resta che invocare il signore, “perché diriga i nostri passi sulla via della pace” e induca i governanti, più che a sfruttare strumentalmente le debolezze antiche della nostra storia o le lusinghe recenti della nostra geografia, a restituirci al ruolo che ci è congeniale: essere operatori di sintesi con le diverse civiltà. Oggi più che mai, infatti, la Puglia è chiamata, dalla storia e dalla geografia, a protendersi nel suo mare come “arca” di pace, e non a curvarsi minacciosamente come “arco” di guerra». Non riesce a non intervenire in quella circostanza il capo del Governo, allora Bettino Craxi, il quale considerando illegittima la protesta e l’interferenza di don Tonino e degli altri vescovi pugliesi nelle questioni dello Stato, ricorreva alle norme del Concordato. Don Tonino non fu turbato dall’intervento del presidente del Consiglio dei Ministri, anzi a lui ribadì che «non gli risultava che il Concordato imponesse di stracciare delle pagine del Vangelo che i vescovi non dovessero predicare». Anche quella battaglia fu vinta da don Tonino. Gli “F16” non trovarono più ospitalità sul territorio di Gioia del Colle.
Al tirocinio seguì la teoria. Fu questo il principio che caratterizzò sempre il vescovo molfettese, che darà vita anche ad una “letteratura della pace”. È vero che il suo esempio precedeva sempre la parola, ma è altrettanto vero che quella sua parola, impetuosa e travolgente, era sorgente di bellissime frasi oltre che di credibilità; per molti soltanto utopia. La pace, diceva il vescovo monsignor Bello, «non è un semplice vocabolo, ma un vocabolario». E perciò i suoi discorsi, le sue omelie, le sue preghiere erano orientate a mettere in luce i diversi significati della pace. «Sul terreno della pace», ribadiva don Tonino, «non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita: bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari». La pace era per lui un cammino, «e per giunta in salita»; era il perdono, «solo chi perdona può parlare di pace e teorizzare sulla non violenza»; la pace per don Tonino era solidarietà, «non è solo il silenzio delle armi, o l’isolamento di chi non manca di nulla. La pace è comunione»; la pace era soprattutto verità, «chi ama la pace non ha paura di dire come stanno le cose, anche quando le sue parole rovinano la digestione dei potenti».
Ma don Tonino sapeva altresì bene quale pace additare agli uomini. Era consapevole che «la pace la vogliono tutti, anche i criminali, perché nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra». Per questa ragione invitava tutti a «non scommettere sulla pace non connotata da scelte storiche concrete, perché è un bluff»; a non fidarsi della pace «che prenda le distanze dalla giustizia, perché è peggio della guerra»; a non promuovere una pace «che si proclami estranea al problema della salvaguardia del creato, perché è amputata»; a non scommettere, inoltre, sulla pace «che sorrida sulla radicalità della non violenza, perché è infida»; a non osare una pace «che non provochi sofferenza, perché è sterile»; e, infine, don Tonino affermava di non scommettere «sulla pace come “prodotto finito”, perché scoraggia».
Si può certamente ben dire che don Tonino sia stato l’annuncio totale della pace, e come ha sottolineato Gianni Novelli (dirigente nazionale di Pax Christi), «don Tonino ha riportato i temi, l’ansia, i modi concreti, le iniziative, i movimenti per la pace all’interno della Chiesa». A confermare questa asserzione è Raniero la Valle il quale, nel periodo più atroce della guerra nella ex Jugoslavia, ebbe il coraggio di annunciare che «non c’è oggi, un Tonino Bello che faccia appello alle coscienze, che cerchi di risvegliare la Chiesa, che dia coraggio agli altri vescovi perché prendano la parola; che sappia infondere la fiducia nella efficacia anche storica della pace». La sua credibilità aveva conquistato il popolo della pace. Da ogni parte d’Italia lo invitavano a tenere conferenze. Andò a Rocca di Papa, A Verona, a Prato e ad altre città ancora.

6. Sul passo degli ultimi

L’impegno per la pace, seppure sia stato il lato forte del ministero episcopale, non ha però messo in ombra altri aspetti determinanti di don Tonino. Il suo lavoro di vescovo nella Chiesa locale, per esempio, merita di essere analizzato per quanto ha saputo condensare nei suoi progetti pastorali e non solo. Il documento più importante che racchiude l’esigenza del vescovo molfettese di “riordinare” la diocesi, è: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Sono tre le ragioni di questo progetto pastorale, e che don Tonino definisce “luci di posizione”: evangelizzazione, spiritualità, scelta degli ultimi. Occorreva innanzitutto privilegiare l’evangelizzazione, e questo per migliorare la qualità della vita cristiana. «Per le nostre Chiese locali», affermava, «si tratterrà di un trapasso difficile, perché accompagnato dal rimpianto per qualche cosa che dovremo pure avere il coraggio di lasciare». Ristabilire il primato della spiritualità era il secondo obiettivo, perché «non è difficile percepire che essa è la grande assente nelle nostre comunità». E, infine, era necessario che ogni azione partisse dagli ultimi. Scriverà don Tonino che «i poveri sono il punto di partenza di ogni servizio da rendere all’uomo», e per questo bisogna «mettersi in corpo l’occhio del povero […] per condividere con gli ultimi la nostra ricchezza e la loro povertà»; e per lottare con loro «non basta il buon cuore, occorre il buon cervello»; ed è anche necessario «stimolare una formazione politica seria per il nostro popolo, senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale».
Da qui si può dedurre con facilità come il progetto sui poveri sia già un progetto di pace. Risale, inoltre, al novembre del 1986 la pubblicazione “linee programmatiche d’impegno pastorale per l’anno 1986-87”, dal titolo: “Insieme per camminare”. Lo scopo principale di questo scritto pastorale fu quello di sollecitare l’intera Chiesa locale a sbloccare «la situazione preoccupante di stallo pastorale». Don Tonino non si risparmia dal fornire “qualche spina nel fianco” e offre alla riflessione di tutti i fedeli alcune tracce essenziali contenute nelle sue domande: «Quali sono le “scomuniche” più scandalose che oggi vive la nostra Chiesa locale? Dov’è che sanguina la ferita? Che fare per cicatrizzarla? Quali sono i venti che ci hanno dispersi? E quali sono i venti che ci possono radunare?». E poi ancora: «Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree, qual è il nostro annuncio? Siamo, come credenti, capaci di perdono?».
Per l’anno pastorale 1988-89, don Tonino proporrà nuovamente altre linee programmatiche di natura tecnica e spirituale, offrendo “segni nuovi e stimoli di comunione”. Il programma pastorale del 1989-90 si sofferma, invece, all’attenzione del ruolo dei laici all’interno della Chiesa diocesana, ispirandosi alla Esortazione Apostolica “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II. L’ultimo scritto pastorale del vescovo molfettese risale al settembre del 1992. Anche in questo caso don tonino si sofferma su alcuni valori fondamentali della pastorale. Parla della “Comunione” come «un dono che occorre chiedere dall’alto», ma anche come «bene che dobbiamo costruire dal basso»; sottolinea l’importanza della “Comunità” che «fiorisce attorno a Cristo», e «che si sente permeata di carità missionaria»; conclude soffermandosi sul valore della “Comunicazione” che «non è solo trasmissione di notizie», ma è soprattutto «ministero della misericordia».
Durante l’intero episcopato don Tonino si recò due volte a Roma dal papa, per la visita “ad limina”. Tale appuntamento ha luogo, per tutti i vescovi, ogni cinque anni, un incontro che vuol essere una vera e propria verifica della situazione generale della diocesi. La prima volta che don Tonino incontrò Giovanni Paolo II fu nel dicembre del 1986: «Mi ha chiesto se in diocesi ci sono molti poveri», dirà don Tonino, «se le mie città sono violente. Se la speranza vi è di casa. Se i sacerdoti sono generosi fino alla follia. Se i laici vivono con autenticità i valori del Vangelo…». La seconda visita “ad limina” avvenne il 14 gennaio 1992, quando don Tonino era già malato. «Sono stato con lui, nel suo studio privato, per un quarto d’ora che lì per lì mi è parso un minuto», racconterà don Tonino. E ancora: «Mi ha domandato di voi, della vostra coerenza cristiana, delle difficoltà più grosse che incontrate in questa comune fatica del vivere. Si è interessato dei giovani, e mi ha chiesto che quota di speranza si portano nel cuore. Mi ha incaricato di far giungere ai poveri e ai sofferenti la sua solidarietà, e, mentre diceva queste cose, mi accorgevo che non c’era nulla di rituale nelle sue parole, che mi rigavano l’anima come la penna di un sismografo. Durante il colloquio privato mi sono permesso di dirgli che tutti i credenti della nostra diocesi gli vogliono bene, pregano incessantemente per lui, e gli promettono di seguire di più i suoi insegnamenti. Ho fatto bene? ».
Il lavoro di vescovo nella diocesi di Molfetta fu caratterizzato anche dalle visite pastorali. Don Tonino frequentò tutte le parrocchie delle quattro città sostando una settimana in ciascuna di esse. La visita pastorale offre l’occasione al vescovo di verificare il lavoro e le attività che si svolgono nell’ambito di una parrocchia. Dà, inoltre, la possibilità di conoscere il quartiere con i relativi problemi sociali. Ebbene, don Tonino entrò in un rapporto diretto con i diversi gruppi associativi delle parrocchie diocesane, verificandone così lo stato di salute; frequentò le diverse categorie di lavoro dei parrocchiani; i professionisti, gli artigiani, i contadini; si recò nelle scuole, negli asili e nei circoli culturali; visitò gli ammalati e gli ospedali, e per tutti elargiva parole di conforto e di speranza. Le visite pastorali gli avevano dato pure la possibilità di intraprendere un dialogo epistolare con le diverse comunità incontrate, e attraverso il settimanale diocesano “Luce e Vita” don Tonino scriveva bellissime lettere che rappresentavano un po’ il bilancio delle sue verifiche. Così anche preferì lo stile epistolare per comunicare ai catechisti della diocesi i suoi messaggi. Nel periodo quaresimale, ogni mercoledì sera, prese la consuetudine di incontrarsi con i giovani in Cattedrale. E furono quegli incontri a far sì che gli stessi giovani s’innamorassero della sua travolgente parola, del suo fresco ed originale linguaggio, nonché della sua credibile testimonianza. Uno sguardo panoramico agli “atti del vescovo” pubblicati puntualmente nella rivista “Luce e Vita documentazione”, ci permette di constatare la copiosa mole di lavoro di don Tonino nella Chiesa locale. Ricordiamo alcuni decreti: il 2 febbraio 1984 viene decretata l’entrata in vigore dello Statuto-Regolamento del Consiglio Presbiterale Interdiocesano; il 20 febbraio 1985 viene ufficializzato l’Ordinamento delle processioni nella diocesi di Molfetta; nel corso del 1985, don Tonino decreta l’istituzione dell’Archivio Diocesano di Giovinazzo e l’Archivio Diocesano di Terlizzi e, il 23 ottobre dello stesso anno, l’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero; il 2 febbraio 1986 don Tonino firma il decreto per l’Erezione Canonica della Pia Unione Oblate di S. Benedetto Giuseppe Labre; l’8 dicembre 1988 il vescovo istituisce il Centro Diocesano Volontari della Sofferenza e, qualche anno dopo, il Movimento Apostolico Sordi. Durante il suo episcopato, inoltre, si insedia il Tribunale Diocesano per la Casa di Canonizzazione del servo di Dio Ambrogio Grittani.
Ma chi ha conosciuto don Tonino Bello, può certamente ricordare come la sua vita non l’abbia trascorsa soltanto a firmare decreti, preparare discorsi seri, omelie ben oculate, a partecipare a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Ci sono stati anche tantissimi momenti in cui il vescovo molfettese ha dato prova di estrema naturalezza, quella naturalezza che è riscontrabile in qualsiasi uomo. E perciò si divertiva a suonare la fisarmonica nei momenti di fraternità con amici, con i giovani, e con quanti gli rendevano visita nel suo appartamento vescovile. A calcio, con i ragazzi del seminario, avrebbe voluto giocare, ma lo frenava la paura di farsi male e poter così arrestare il suo impegno pastorale. Improvvisava divertenti giochi di gruppo con i bambini quando andava a trovarli negli asili. Si recava nelle palestre o sui campi da gioco per incoraggiare gli atleti, insegnando loro a comportarsi da veri sportivi. E per questa sua spontaneità, normalità e naturalezza, don Tonino riuscì a conquistare tantissima gente, fuorché una categoria di uomini, quelli a cui si attribuisce il termine “politico”.

© Luce e Vita – Molfetta

6. Sul passo degli ultimi</p><br /><br /><br /><br />
<p>L’impegno per la pace, seppure sia stato il lato forte del ministero episcopale, non ha però messo in ombra altri aspetti determinanti di don Tonino. Il suo lavoro di vescovo nella Chiesa locale, per esempio, merita di essere analizzato per quanto ha saputo condensare nei suoi progetti pastorali e non solo. Il documento più importante che racchiude l’esigenza del vescovo molfettese di “riordinare” la diocesi, è: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Sono tre le ragioni di questo progetto pastorale, e che don Tonino definisce “luci di posizione”: evangelizzazione, spiritualità, scelta degli ultimi. Occorreva innanzitutto privilegiare l’evangelizzazione, e questo per migliorare la qualità della vita cristiana. «Per le nostre Chiese locali», affermava, «si tratterrà di un trapasso difficile, perché accompagnato dal rimpianto per qualche cosa che dovremo pure avere il coraggio di lasciare». Ristabilire il primato della spiritualità era il secondo obiettivo, perché «non è difficile percepire che essa è la grande assente nelle nostre comunità». E, infine, era necessario che ogni azione partisse dagli ultimi. Scriverà don Tonino che «i poveri sono il punto di partenza di ogni servizio da rendere all’uomo», e per questo bisogna «mettersi in corpo l’occhio del povero […] per condividere con gli ultimi la nostra ricchezza e la loro povertà»; e per lottare con loro «non basta il buon cuore, occorre il buon cervello»; ed è anche necessario «stimolare una formazione politica seria per il nostro popolo, senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale».<br /><br /><br /><br /><br />
Da qui si può dedurre con facilità come il progetto sui poveri sia già un progetto di pace. Risale, inoltre, al novembre del 1986 la pubblicazione “linee programmatiche d’impegno pastorale per l’anno 1986-87”, dal titolo: “Insieme per camminare”. Lo scopo principale di questo scritto pastorale fu quello di sollecitare l’intera Chiesa locale a sbloccare «la situazione preoccupante di stallo pastorale». Don Tonino non si risparmia dal fornire “qualche spina nel fianco” e offre alla riflessione di tutti i fedeli alcune tracce essenziali contenute nelle sue domande: «Quali sono le “scomuniche” più scandalose che oggi vive la nostra Chiesa locale? Dov’è che sanguina la ferita? Che fare per cicatrizzarla? Quali sono i venti che ci hanno dispersi? E quali sono i venti che ci possono radunare?». E poi ancora: «Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree, qual è il nostro annuncio? Siamo, come credenti, capaci di perdono?».<br /><br /><br /><br /><br />
Per l’anno pastorale 1988-89, don Tonino proporrà nuovamente altre linee programmatiche di natura tecnica e spirituale, offrendo “segni nuovi e stimoli di comunione”. Il programma pastorale del 1989-90 si sofferma, invece, all’attenzione del ruolo dei laici all’interno della Chiesa diocesana, ispirandosi alla Esortazione Apostolica “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II. L’ultimo scritto pastorale del vescovo molfettese risale al settembre del 1992. Anche in questo caso don tonino si sofferma su alcuni valori fondamentali della pastorale. Parla della “Comunione” come «un dono che occorre chiedere dall’alto», ma anche come «bene che dobbiamo costruire dal basso»; sottolinea l’importanza della “Comunità” che «fiorisce attorno a Cristo», e «che si sente permeata di carità missionaria»; conclude soffermandosi sul valore della “Comunicazione” che «non è solo trasmissione di notizie», ma è soprattutto «ministero della misericordia».<br /><br /><br /><br /><br />
Durante l’intero episcopato don Tonino si recò due volte a Roma dal papa, per la visita “ad limina”. Tale appuntamento ha luogo, per tutti i vescovi, ogni cinque anni, un incontro che vuol essere una vera e propria verifica della situazione generale della diocesi. La prima volta che don Tonino incontrò Giovanni Paolo II fu nel dicembre del 1986: «Mi ha chiesto se in diocesi ci sono molti poveri», dirà don Tonino, «se le mie città sono violente. Se la speranza vi è di casa. Se i sacerdoti sono generosi fino alla follia. Se i laici vivono con autenticità i valori del Vangelo…». La seconda visita “ad limina” avvenne il 14 gennaio 1992, quando don Tonino era già malato. «Sono stato con lui, nel suo studio privato, per un quarto d’ora che lì per lì mi è parso un minuto», racconterà don Tonino. E ancora: «Mi ha domandato di voi, della vostra coerenza cristiana, delle difficoltà più grosse che incontrate in questa comune fatica del vivere. Si è interessato dei giovani, e mi ha chiesto che quota di speranza si portano nel cuore. Mi ha incaricato di far giungere ai poveri e ai sofferenti la sua solidarietà, e, mentre diceva queste cose, mi accorgevo che non c’era nulla di rituale nelle sue parole, che mi rigavano l’anima come la penna di un sismografo. Durante il colloquio privato mi sono permesso di dirgli che tutti i credenti della nostra diocesi gli vogliono bene, pregano incessantemente per lui, e gli promettono di seguire di più i suoi insegnamenti. Ho fatto bene? ».<br /><br /><br /><br /><br />
Il lavoro di vescovo nella diocesi di Molfetta fu caratterizzato anche dalle visite pastorali. Don Tonino frequentò tutte le parrocchie delle quattro città sostando una settimana in ciascuna di esse. La visita pastorale offre l’occasione al vescovo di verificare il lavoro e le attività che si svolgono nell’ambito di una parrocchia. Dà, inoltre, la possibilità di conoscere il quartiere con i relativi problemi sociali. Ebbene, don Tonino entrò in un rapporto diretto con i diversi gruppi associativi delle parrocchie diocesane, verificandone così lo stato di salute; frequentò le diverse categorie di lavoro dei parrocchiani; i professionisti, gli artigiani, i contadini; si recò nelle scuole, negli asili e nei circoli culturali; visitò gli ammalati e gli ospedali, e per tutti elargiva parole di conforto e di speranza. Le visite pastorali gli avevano dato pure la possibilità di intraprendere un dialogo epistolare con le diverse comunità incontrate, e attraverso il settimanale diocesano “Luce e Vita” don Tonino scriveva bellissime lettere che rappresentavano un po’ il bilancio delle sue verifiche. Così anche preferì lo stile epistolare per comunicare ai catechisti della diocesi i suoi messaggi. Nel periodo quaresimale, ogni mercoledì sera, prese la consuetudine di incontrarsi con i giovani in Cattedrale. E furono quegli incontri a far sì che gli stessi giovani s’innamorassero della sua travolgente parola, del suo fresco ed originale linguaggio, nonché della sua credibile testimonianza. Uno sguardo panoramico agli “atti del vescovo” pubblicati puntualmente nella rivista “Luce e Vita documentazione”, ci permette di constatare la copiosa mole di lavoro di don Tonino nella Chiesa locale. Ricordiamo alcuni decreti: il 2 febbraio 1984 viene decretata l’entrata in vigore dello Statuto-Regolamento del Consiglio Presbiterale Interdiocesano; il 20 febbraio 1985 viene ufficializzato l’Ordinamento delle processioni nella diocesi di Molfetta; nel corso del 1985, don Tonino decreta l’istituzione dell’Archivio Diocesano di Giovinazzo e l’Archivio Diocesano di Terlizzi e, il 23 ottobre dello stesso anno, l’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero; il 2 febbraio 1986 don Tonino firma il decreto per l’Erezione Canonica della Pia Unione Oblate di S. Benedetto Giuseppe Labre; l’8 dicembre 1988 il vescovo istituisce il Centro Diocesano Volontari della Sofferenza e, qualche anno dopo, il Movimento Apostolico Sordi. Durante il suo episcopato, inoltre, si insedia il Tribunale Diocesano per la Casa di Canonizzazione del servo di Dio Ambrogio Grittani.<br /><br /><br /><br /><br />
Ma chi ha conosciuto don Tonino Bello, può certamente ricordare come la sua vita non l’abbia trascorsa soltanto a firmare decreti, preparare discorsi seri, omelie ben oculate, a partecipare a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Ci sono stati anche tantissimi momenti in cui il vescovo molfettese ha dato prova di estrema naturalezza, quella naturalezza che è riscontrabile in qualsiasi uomo. E perciò si divertiva a suonare la fisarmonica nei momenti di fraternità con amici, con i giovani, e con quanti gli rendevano visita nel suo appartamento vescovile. A calcio, con i ragazzi del seminario, avrebbe voluto giocare, ma lo frenava la paura di farsi male e poter così arrestare il suo impegno pastorale. Improvvisava divertenti giochi di gruppo con i bambini quando andava a trovarli negli asili. Si recava nelle palestre o sui campi da gioco per incoraggiare gli atleti, insegnando loro a comportarsi da veri sportivi. E per questa sua spontaneità, normalità e naturalezza, don Tonino riuscì a conquistare tantissima gente, fuorché una categoria di uomini, quelli a cui si attribuisce il termine “politico”.</p><br /><br /><br /><br />
<p>© Luce e Vita - Molfetta

 

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