il problema di Dio nell’ultimo libro di Veronesi

Umberto Veronesi: “Dopo Auschwitz, il cancro è la prova che Dio non esiste”

Il suo libro: “Il mestiere di uomo”
VERONESI

 nel suo ultimo libro U. Veronesi ha suscitato un vivace dibattito circa il suo ateismo motivato a partire dall’esperienza del dolore e, per lui oncologo di fama, dal cancro vera e propria “prova della non esistenza di Dio”
di seguito alcune sue riflessioni contenute nel suo libro e un tentativo di risposta da parte di don Antonelli e del teologo V. Mancuso:
“Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”

Umberto Veronesi racconta il suo progressivo allontanamento dalla fede. Quella in Dio, non nella vita. Perché di fronte all’esperienza fisica – e non più metafisica del dolore – ogni fiducia in un essere soprannaturale viene meno, e l’uomo riscopre la sua finitezza da cui nessun ente superiore lo può salvare. Nessun Dio può riscattare l’uomo dalla sua sofferenza, nessuna verità rivelata può lenire il dolore di due genitori che perdono un figlio malato di tumore.

Dall’infanzia da “inappuntabile chierichetto” e “paggetto”, all’amicizia con padre Giovanni che gli fece capire che esiste anche una carità laica, il famoso oncologo ripercorre le tappe della sua meditazione sulla vita e sul dolore.
Umberto Veronesi, oggi direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia, nel suo libro “Il mestiere di uomo” (Einaudi, in uscita domani) racconta come nel corso degli anni sia maturato il suo agnosticismo che non perde la fede nella vita. Repubblica ne pubblica alcuni estratti.

“Non saprei dire qual è stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l’esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo in senso letterale: non andavo bene a scuola. Di fatto sono sempre stato anticonformista, ribelle ai luoghi comuni e alle convenzioni accettate acriticamente, e questa mia natura mal si conciliava con l’integralismo della dottrina cattolica che era stata il fondamento della mia educazione di bambino”.

A incrinare ulteriormente il rapporto di Veronesi con la fede fu la guerra:

A diciotto anni non volevo andare a combattere, ma finii in una retata e mi ritrovai con indosso un’uniforme che non aveva per me alcun valore e fui ben armato per uccidere altri ragazzi, in tutto e per tutto uguali a me salvo per il fatto che indossavano una divisa diversa.
Oltre alle stragi dei combattimenti, ho toccato con mano anche la follia del nazismo e non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: “Dov’era Dio ad Auschwitz?”.
La scelta di fare il medico è profondamente legata in me alla ricerca dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro”.

 
Per Veronesi, così come per tutti i medici impegnati nella cura dei tumori, il dolore smette di essere qualcosa di intangibile e assume una forma, un contorno, un’identità. È a quel punto che

“diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che affonda nel corpo di un uomo o di una donna lo ritiene lontano dalla metafisica del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta, è a te che affida la sua vita. L’ultimo sguardo di paura o di fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l’operazione, quando in pochi istanti devo decidere cosa fare, quando asportare, come fermare un’emorragia.”    

Ed è allora che l’uomo scopre di essere uomo, si rende conto che non c’è nessuna entità sovrannaturale a benedire il suo operato, che

“ci sei solo tu in quei momenti, solo con la tua capacità, la tua concentrazione, la tua lucidità, la tua esperienza, i tuoi studi, il tuo amore (o anche la tua carità come la chiamava don Giovanni) per la persona malata. Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio. Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del “non so”.

la risposta di d, parroco ad Antrosano, alle considerazioni di U. Veronesi nel suo libro: ‘il mestiere di uomo’
Don Aldo Antonelli Headshot
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la protesta della ‘fondazione romani’ per i pregiudizi contro i rom nei mezzi di informazione

rom

Dopo aver assistito increduli a numerose trasmissioni televisive che fornivano pregiudiziali informazioni su tutta la popolazione romanì, la Fondazione romanì Italia ha inoltrato proteste ad alcune istituzioni delegate al rispetto del diritto di replica per la generalizzata assenza di professionisti rom nelle trasmissioni televisive e radiofoniche.

Abbiamo chiesto con urgenza incontri istituzionali e spazi televisivi di confronto per replicare alle false informazioni diffuse. Qualora le nostre richieste non vengono accolte attiveremo democratiche iniziative pubbliche di forte protesta.

Numerosi programmi televisivi e radiofonici quando si occupano del tema rom hanno la consuetudine di non invitare al confronto professionisti rom, e quindi diffondono informazioni ricche di stereotipi e pregiudizi che producono una esplosione di istigazione all’odio razziale verso i rom e di violenza verbale, contraddistinte dalla fierezza dell’ignoranza e dall’arroganza del potere.

Queste trasmissioni quando non sono bilanciate da un sano confronto democratico producono solo istigazione all’odio razziale verso diverse decine di migliaia di persone rom, onesti e laboriosi cittadini Italiani che hanno contribuito alla conquista della libertà e della democrazia.

Oggi siamo arrabbiati con le televisioni per la vergognosa disinformazione e l’istigazione all’odio razziale, ma siamo certi che la responsabilità sia da addebitare solo a loro?

Il contesto attuale è il risultato di 40 anni di impiego di un modello di sviluppo degli interventi per la popolazione romanì privo di senso; un modello composto da scelte politiche-progetti-azioni-denunce decise senza il professionale coinvolgimento dei diretti interessati; un modello che ha concentrato tutto il dibattito pubblico esclusivamente sui campi nomadi, in cui vive meno del 20% delle comunità romanès, e che sono un dispositivo amministrativo frutto di equivoci ed una serie concatenata di errori che hanno occupato tutto lo spazio politico e mediatico, con conseguenze in termini di fossilizzazione delle rappresentazioni sociali di una intera popolazione.

Il modello di sviluppo degli interventi per la popolazione romanì ha condotto il dibattito pubblico ad ignorare due elementi essenziali nella programmazione politica e culturale: la reale composizione della popolazione romanì e la partecipazione attiva e professionale dei rom.

  1. Numerose ricerche e documenti politici indicano che più della metà della popolazione romanì residente in Italia è composta da cittadini italiani e che oltre 80% dei rom non hanno sperimentato le politiche di segregazione dei campi nomadi.

  2. la partecipazione attiva dei rom NON è stata mai promossa nella sua reale dimensione, spesso è stata ostacolata, tante volte ridicolizzata, strumentalizzata, folclorizzata.

Si è trattato di un errore di valutazione o di una strategia? Ognuno faccia la personale ed intima riflessione che ritiene opportuna.

Il modello di sviluppo degli interventi per la popolazione romanì è stato proposto e/o gestito da presunti esperti e qualche folclorostico rom, arrogandosi il diritto di sostituirsi alla partecipazione attiva e professionale dei rom a tutti i livelli.

Oggi, dopo 40 anni, fisicamente sono cambiati alcuni nomi dei presunti esperti e delle loro associazioni, sostanzialmente il modello di sviluppo degli interventi per la popolazione romanì non è cambiato e sta producendo una catastrofe culturale ed umana.

Si tratta di una scelta Italiana o Europea? Difficile da capire.

Da 40 anni le Istituzioni Europee emanano risoluzioni e raccomandazioni agli Stati membri per attivare l’inclusione della popolazione romanì, per sostenere la partecipazione attiva dei rom. I fatti dimostrano che l’inclusione dei rom troppo spesso è solo teoria e carta, e che nelle Istituzioni Europee la partecipazione attiva e professionale dei rom è pressochè inesistente. Al Consiglio d’Europa nel Comitato esperti sui rom (CAHROM) ancora oggi per l’Italia non c’è un professionista rom.

La strategia Italiana per l’inclusione dei rom, sollecitata dalle Istituzioni Europee, è un esempio del modello di sviluppo degli interventi per la popolazione romanì, ad iniziare dal nome (rom sinti e camminanti) che attribuisce alla nostra popolazione una denominazione che è frutto di interpretazioni ed errori di presunti esperti; è grave che accade in un documento politico del Governo Italiano, perchè il nome non è solo il primo elemento dell’identità culturale, ma è anche uno strumento di riconoscimento

politico e culturale, oltre ad una necessità comunicativa.

Il giorno 8 aprile, giornata internazionale del popolo rom ha un senso? Si, se il Governo e le Istituzioni Italiane hanno recepito questo riconoscimento ‘ONU.

Allora perché delegittimare e dividere il nome della popolazione romanì?

Riflettendoci è facile accorgersi che anche il non riconoscimento del nome è parte integrante del disastroso modello di sviluppo degli interventi per soffiare sul vento della divisione

La strategia Italiana per l’inclusione dei rom è anche una questione di modello, di metodo, di strategie, che purtroppo sono identiche alle scelte sbagliate del passato.

Per concludere, il fallimentare del modello di sviluppo degli interventi per la popolazione romanì è diventato un “sistema” fondato su stereotipi e pregiudizi e che si nutre di stereotipi e pregiudizi per produrre discriminazione che poi si denuncia con un importante impatto mediatico.

A fronte di questo “sistema” per la popolazione romanì cosa fanno i media?

Ci mettono “il carico da undici”, (parafrasando il gioco delle carte della briscola).

Oggi non è affatto sufficiente la soluzione di smantellare i campi nomadi, che non dovevano essere mai allestiti, ma è necessario smantellare e demolire il “sistema”.

Le persone rom devono avere la determinazione di demolire l’attuale “sistema”, e abbattere il fatalismo, l’assistenzialismo culturale e il personalismo. Se questo disastroso sistema continua ad essere attivo la responsabilità è solo di noi rom.

Le persone rom devono muoversi nella direzione dell’emancipazione politica collettiva, prima, individuale dopo, fondata sull’autonomia e la normalità, sulle differenze e l’uguaglianza, sulla cultura del rispetto e della legalità.

Si, la legalità, che non è tabù e dobbiamo rivendicarla con determinazione, perché solo il concetto di legalità è cultura dei diritti esigibili, com’è cultura della responsabilità, della partecipazione e della giustizia sociale.

Sulla base di queste brevissime motivazioni la Fondazione romani Italia ha definito una visione strategica di elaborare una nuova romanipè con “azioni di sistema” per smantellare e demolire il vecchio e disastroso modello di sviluppo degli interventi che ha schiacciato la popolazione romanì fuori dal contesto politico-culturale ed ha bloccato l’evoluzione della cultura romanì.

Le azioni di sistema della Fondazione romanì Italia intendono muoversi nella direzione dell’emancipazione politico-culturale ed elaborare una romanipè 2.0 per affontare le sfide socio-culturali del terzo millennio.

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