l’Europa dei muri e dei fili spinati

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Si continua a costruire muri. In Europa e nel mondo. Muri di cemento e di reti metalliche, di filo spinato e di leggi di carta. Ma muri anche dentro le nostre coscienze e nelle nostre intelligenze. Muri nelle relazioni umane e interpersonali, muri tra le generazioni e tra le fedi.

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C’è un’idolatria del muro che è l’esatto opposto del Dio biblico che vede la miseria del suo popolo schiavo in Egitto e ascolta il suo grido (cfr. Esodo 3, 7). Gli idoli invece “sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Salmo 115).




i migranti sono la salvezza dell’Europa, parola saggia di Ovadia

 

Moni Ovadia

Moni Ovadia: «L’Europa, guardando negli occhi i migranti, ha riscoperto sé»

 

lo scrittore commenta il cambio di passo dei governi europei «L’immagine di Aylan ha prodotto un’intuizione. Ci ha ricordato chi siamo e da dove veniamo. Oggi abbiamo solo due leader, una è Merkel l’altro è Francesco»

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Moni Ovadia

L’Europa, dopo il dramma di Aylan, sembra essersi svegliata. Dalla Germania alla Francia, anche i paesi più rigidi hanno cambiato posizione sui migranti e si sono aperti all’accoglienza. In tutto il territorio dell’Unione fioriscono esperienze di accoglienza diffusa e di solidarietà. Ne abbiamo parlato con lo scrittore Moni Ovadia, per capire se sia possiible che una sola immagine possa essere cos’ determinante
Sembra che l’Europa abbia cambiato marcia sul tema dei migranti. Come se lo spiega?

Credo che Angela Merkel sia l’unica vera statista che abbiamo, lo dico da uomo di sinistra. Ha capito una cosa: questa onda umana non la puoi fermare se non ha prezzo di conseguenze inacettabili per la Germania, con il passato che ha. I bambini sono stati per lei il segno di quelle conseguenze. Stalin diceva: un morto è una tragedia, un milioni di morti sono una statistica. Sono morti tanti bambini in questi anni, migliaia. Ma quell’uno, Aylan, è impossibile da sostenere. Nel lager di Auschwitz successe un episodio simile. Dei detenuti tentarono di scappare o rubarano qualcosa. Non ricordo esattamente. Erano due adulti e un bimbo di 9 anni. Furono condannati e impiccati. I due uomini morirono subito. Il bimbo invece agonizzò per mezz’ora prima di morire. Era troppo leggero. Una certa teologia cristiana vide in quel bimbo il Cristo. Fu uno di quegli episodi che rese impossibile il silenzio su quel che succedeva in quei posti. È lo stesso che è capitato con Aylan. La Merkel ha fatto un atto lungimirante, estrememanerte forte in termini simbolici: la nazione carnefice della storia diventa umana., accogliendo un popolo in fuga E poi pensa al futuro, a costruire la Germania del futuro, come terra di accoglienza e di multiculturalità, sapendo di recuperare tante energie forti. I Siriani sono colti. Basta guardare la storia degli Stati Uniti d’America. La Merkel sta dando un segnale per il futuro dell’Europa. Da oggi i Paesi dell’est, penso anche alla Polonia che per quello che ha sofferto dovrebbe avere un atteggiamento diverso, possono solo adeguarsi alla linea. E non è un caso che tutto questo capiti nel tempo di Francesco. L’unico leader morale di questo periodo storico. Adamantino, puro e sudamericano, che sa cosa significa la tirannia. L’accoglienza però è solo il primo passo…

In che senso?

Dobbiamo ascoltare Francesco anche sugli altri grandi temi. In particolare sulla questione dei mercati e della finanza. Senza tornare ad un economia umana produrremo sempre più disperazione, povertà e guerre

Ma come può una sola foto ottenere un cambiamento così drastico?

Può perchè la forza icastica di un immagine è inimmaginabile. Pensiamo al bambino con le mani alzate quando i nazisti entrarono nel ghetto di Varsavia. Oliviero Toscani diceva che fa impressione che una sola immagine sia più forte di tutte le tragediie. Ma per fortuna è così. Il cambio di rotta della Germania è stata un’intuizione data da quella foto, non un calcolo. C’è una storiella yiddish che racconta di un bambino e un nonno. Il nipote chiede al nonno perché i ricchi siano così insensibili ed egoisti. Allora il nonno porta il bimbo alla finestra e gli chiede cosa veda. «Vedo delle persone che camminano, un cane che gioca e delle piante scosse dal vento». Allora il nonno lo porta davanti allo specchio: «adesso cosa vedi?». E il bimbo: «vedo solo me stesso nonno». E l’anziano: «Ecco, sei come un ricco, basta un po’ d’argento dietro ad un vetro e non vedi altro che te». Ci voleva un’immagine che rompesse lo specchio. Ma serviva un’immagine da cui non ci si potesse nascondere. E quell’immagine lo è. È sconvolgente.

Possiamo dire che da un dramma come quello di queste migliaia di persone che fuggono da fame e guerra stia nascendo qualcosa di bello, una nuova speranza?

Mi sembra che fosse una canzone di De Andrè, comunque è una frase che diceva sempre Don Andrea Gallo: Dai diamanti non nasce nulla, dal fango nascono i fiori. Questa disperazione è un fatto dolorosissimo. Se non portasse nulla con sé di buono però sarebbe triplamente dolorosa.

Sembra che si stia tornando alle nostre origini, quelle più nobili. Penso ad Enea e alla sua fuga da Troia con il padre e il figlio per arrivare in Italia, in Europa…
L’Italia è nata da un meticciato tra un turco, un uomo scuro, e un’autoctona. La grande Roma nasce dal meticciato. Ci siamo già dimenticati dei 30 milioni di italiani emigrati per fame. E che 4 milioni e mezzo di loro furono clandestini e tanti morirono in mare. Tanti di loro furono anche respinti e vissero in miseria. Vendevamo schiavi al Belgio per lavorare nelle miniere di carbone. Abbiamo dimenticato l’episodio di Marcinelle quando morirono 262 minatori italiani nella miniera di carbone Bois du Cazier. Erano nostri connazionali obbligati, pena la galera, a scendere a 2mila metri nelle budella della terra per poi strisciare nei cunicoli a lavorare. Scavavano e puntellavano per 12 ore al giorno. E se sbagliavano morivano sepolti vivi. Questa è la nostra storia. Non dobbiamo dimenticare cosa eravamo.

È così importante la memoria?

Freud diceva che ogni rimozione ritorna sempre come patologia. Ecco perché la memoria è importante. Per ricordarci la gloria del riscatto dalla miseria. Dalla nostra miseria.




la diocesi che vuole superare i tabu sulle coppie gay

famiglia in crisi

la Diocesi studia le coppie gay

duomo di Treviso

di Silvia Madiotto
in “Corriere del Veneto” del 11 settembre 2015

La società trevigiana è cambiata, e con essa anche la famiglia. Quarant’anni fa si interrogava su divorzio e interruzione di gravidanza, oggi su coppie omosessuali, libri gender e crisi di valori. E anche la Diocesi guarda con curiosità e interesse scientifico alle nuove coppie e alle relazioni che compongono la comunità odierna.

«C’è una trasformazione culturale di cui la Chiesa deve prendere atto e a cui deve trovare un senso profondo, mi piacerebbe capire e studiare scientificamente le dinamiche delle coppie gay, altrimenti continuiamo a ragionare per ideologia e non per realtà effettiva».

Parole di Mario Cusinato, per quasi quarant’anni docente all’Università di Padova di psicologia della famiglia e oggi direttore del Centro della Famiglia di Treviso. Di famiglie in senso lato ce ne sono sempre meno, è questo il primo cambiamento della società. Le coppie che scelgono la fede al dito nella Marca sono in continuo calo: il rito civile è in leggera ripresa ma quello religioso viene scelto sempre meno. Di contro, dicono le rilevazioni Istat, sono in diminuzione i divorzi, principalmente per motivi economici e processuali. Un insolito boom di separazioni si registra tuttavia a Vittorio Veneto, mentre è Treviso ad avere il più alto numero assoluto di coppie che si lasciano. In provincia meno di un trevigiano su quattro è sposato (il 24%), sono celibi il 22% degli uomini e il 19% delle donne, divorziati l’1% degli uomini e l’1,4% delle donne. Un dato preoccupante è la natalità in forte calo: nella Marca il dato è di 1,09 figlio per donna, sulla media italiana di 1,2 (fra le più basse in Europa). «E gli stranieri si sono adeguati al Veneto, fanno meno figli anche loro» dice Adriano Bordignon, direttore del Centro. La Fondazione diocesana festeggia domenica al seminario vescovile i suoi 40 anni di attività, con oltre 18 mila corsi di formazione al matrimonio (sia religioso che civile), 4 mila consulenze, 100 gruppi di mutuo aiuto. «Le famiglie sono più fragili, le difficoltà sono maggiori di quelle che c’erano dopo il 1968, ma sono più forti le risorse per rispondere all’emergenza» dice Cusinato. Il Centro della Famiglia discute al suo interno anche sulle nuove famiglie, in particolare dopo l’apertura del governo Renzi alle unioni civili e alle coppie di fatto. Non solo: anche marito e moglie che scelgono il rito civile partecipano ai gruppi del Centro, e collaborano nelle attività di formazione dando il loro contributo: «Il matrimonio civile è il sacramento antico, distinguiamo i livelli umano e di fede non per importanza ma per specificità – chiude Cusinato -. Rispetto le coppie di fatto e il valore che hanno, non so prevedere cosa succederà con le coppie omosessuali, a me interessa capire le relazioni fra loro e i valori che condividono, non per apparire ma per essere». Coppie e «persone in relazione», precisa, non famiglie. Su questo la Chiesa è ancora molto ferma. Ma Cusinato si stupisce anche di alcuni matrimoni religiosi «che spesso sono solo apparenza e poca sostanza».




finalmente felice il ‘bimbo brutto e nero’

bimbo rifiutato da tre coppie etero perché “brutto e nero”

ora è felicemente adottato da una coppia gay

è una storia a lieto fine e per capirlo basta guardare il sorriso di questo bambino brasiliano, (vedi foto qui sotto), orfano e rifiutato ben tre volte da altrettante coppie eterosessuali che dopo averlo visto hanno preferito non adottarlo perché “brutto e nero”

Alla fine José – nome di fantasia – è stato accolto da una coppia gay di Rio de Janeiro composta dal giornalista Gilberto Scofield Jr e dal suo compagno Rodrigo Barbosa. Una vicenda che intreccia e combatte due tipologie di discriminazione: quella contro gli omosessuali, ritenuti spesso indegni di crescere dei figli, e quella contro i neri. Gilberto e Rodrigo, i due papà del piccolo José, sono bianchi.

Abbandonato da padre e madre alcolizzati all’età di due anni, il piccolo abitava da oltre due anni in un orfanotrofio nella città di Capelinha, nello Stato di Minas Gerais. È lì che ha incontrato per la prima volta i suoi attuali, nuovi genitori. 

  • Rodrigo Barbosa/Facebook
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intervista a mons. Gaillot dopo l’incontro col papa

 “il futuro è aperto!”

intervista a Jacques Gaillot a cura di Agnès Willaume e Jean-Baptiste Willaume
in “temoignagechretien.fr” del 10 settembre 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

Gaillot

quando, nel 1995, gli strali del Vaticano caddero su Jacques Gaillot, Témoignage chrétien, su iniziativa del suo direttore Georges Montaron, fu in prima linea per sostenere il vescovo di Évreux. Oggi, l’invito fraterno di papa Francesco a colui che è diventato “il vescovo degli esclusi” è un vero riconoscimento per tutto coloro per i quali si è impegnato da vent’anni e una buona notizia per coloro che credono che Cristo è per i poveri. Diciamo grazie a Jacques Gaillot per aver accettato di condividere con noi la sua gioia suscitata da quel bell’incontro
Può raccontarci che cosa è successo martedì 1 settembre?

Tutto è cominciato con un messaggio. Papa Francesco mi aveva telefonato diverse volte, ma ogni volta ero assente. Trovavo sulla mia segreteria telefonica il seguente messaggio: “Sono papa Francesco!”. Voleva incontrarmi. E, poco tempo dopo, ho ricevuto questo biglietto, molto coerente con il suo modo di essere. Mi sono quindi recato martedì scorso alla Casa Santa Marta con il mio amico Daniel Duigou. Quando siamo arrivati, un laico ci ha accompagnati nella sala d’attesa, una stanza molto semplice, senza comfort, e ci ha detto che sarebbero venuti a chiamarci. Meno di due minuti dopo, si è aperta la porta ed era lui, il papa, da solo, senza quei “monsignori” che assistono tradizionalmente ai colloqui pontifici. Entra e si siede accanto a noi, prendendo la prima sedia che trova. Gli suggerisco di prendere la mia, più comoda. Rifiuta gentilmente la mia offerta, ricordandomi che “siamo fratelli”. Allora mi butto: “Ci tengo a ringraziarla di accoglierci qui e a dirle che quelli che sanno che sono venuto qui sono veramente molto felici. Sono sicuramente ancor più felici di me! Trovano che la cosa sia meravigliosa, perché mi dicono che li rappresento. Tutti: i senzatetto, i ‘sans-papiers’, i rifugiati… Io non ho niente da chiederle, ma loro hanno moltissime cose da dirle!”. Il papa ha sorriso. Gli ho parlato di quel ragazzo in un ospedale psichiatrico che si rallegrava tanto: “Quando ti riceverà, sarà come se io fossi riconosciuto!”. “Vede, ricevendomi, lei fa del bene a tanta gente”. Il papa si è mostrato molto interessato all’esperienza di Daniel, parroco di SaintMerry, una parrocchia pilota nell’accoglienza dei migranti. Ha ripetuto con forza un’espressione che per lui è essenziale: “I migranti sono la carne della Chiesa”. Ha ricordato che anche lui è un immigrato. E io ho annuito: Francesco è lontano dal suo paese, lontano dal suo popolo, come loro. Non è facile, ma resiste. Gli ho spiegato che sono vent’anni che sono stato allontanato, escluso… “Ma, escludendomi, la Chiesa mi ha dato un buon passaporto per andare verso gli esclusi!”. Ha riso e ci ha ricordato quell’immagine dell’Apocalisse che aveva usato al conclave prima di essere eletto: “Cristo bussa alla porta della Chiesa, ma bussa dall’interno! Vuole che si spalanchino le porte! Per lasciarlo uscire! Per andare a incontrare il mondo e l’umanità”. Gli ho risposto che, in effetti, non bisognava rinchiudere Colui che è venuto a liberarci. Quando lo abbiamo lasciato e siamo usciti da Santa Marta, Daniel mi ha detto: “Voltati, è ancora lì!”. Ed effettivamente, era in piedi sulla soglia e ci guardava andar via, aspettando, come se non volesse rientrare. Forse non è molto rispettoso, ma gli faccio un piccolo cenno con la mano allontanandomi. Lo abbiamo lasciato come si lascia un amico, un amico che si trova in una situazione un po’ peggiore della nostra: lui è un po’ il prigioniero del Vaticano! Era visibilmente contento del tempo passato con noi. Non lo abbiamo stancato! Gli abbiamo portato la speranza. Un bell’incontro con un uomo molto semplice, autentico, assolutamente libero. È così che dovrebbe essere la Chiesa.

Lei è sempre rimasto fedele e leale verso la Chiesa in tutti questi anni. Come ci è riuscito?

Al primo posto, c’è comunque Cristo, la persona di Gesù! È per lui che ho dato la mia vita. La Chiesa, d’accordo, ma non è un assoluto! L’istituzione non è al primo posto nella mia vita. Ho sempre detto che ciò veniva prima era interessarsi alla storia delle persone, alle trasformazioni della società. Non siamo fatti prima di tutto per la Chiesa, ma per la gente. Un giorno ero nel metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapevo più dove attaccarmi. Mi appoggiavo quindi alle persone, a seconda delle scosse, sballottato a destra e a sinistra. Scendendo, ho detto ad un uomo che rideva della mia situazione precaria: “Vede, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la gente!” Allora, è vero che non sono più stato invitato dalla Chiesa, ma sono stato invitato altrove, da credenti, da non credenti, da musulmani, massoni, detenuti, iraniani, baschi, nelle grandi città e nelle periferie, in piccoli collettivi e in associazioni in lotta. Sempre per incontrare persone ai margini. Quando andavo da qualche parte, era sempre in nome della solidarietà, dei diritti umani, della pace… Ed è evidente che non avrei potuto fare tutti quegli incontri se fossi rimasto un vescovo classico. Sono stato sollevato da tutto ciò che è istituzionale. Ringrazio Roma! Da quando sono vescovo di Partenia, ho imparato a “predicare fuori”. È una cosa diversa, ma è talmente bello. Mi piace andare ad incontrare le famiglie del DAL1 (1) a Place de la République. Le donne mi vogliono bene: mi accolgono come se andassi a dar loro chissà che cosa e applaudono quasi prima che io parli! Oggi, faccio Chiesa con persone come loro, con la gente di Place de la République. In un certo senso, è una benedizione. L’ho detto al papa: “Se lei potesse leggere nel mio cuore, vedrebbe migliaia di persone!”.

Lei pensa che il papa sia in grado di trasformare l’istituzione, di liberare la parola della Chiesa?

Certo ne ha la volontà. Ne ho avuto la certezza appena ho visto che aveva preso il nome di Francesco d’Assisi, riformatore radicale che viveva nella povertà, impregnato di Vangelo! Nessun papa prima di lui aveva osato prenderlo. Il papa vuole davvero andare avanti, ho perfino la sensazione che voglia farlo in fretta. Non si concede periodi di vacanza, lavora fino allo sfinimento. Ci tenevo a fargli coraggio, a dirgli di continuare: “Siamo con lei, siamo un popolo numeroso! Lei ha suscitato ovunque una speranza enorme, non bisogna deluderla! Lei è una delle rare persone, o forse la sola, la cui parola può essere ascoltata su tutto il pianeta, da tutti gli uomini. Credenti o no”. Abbiamo parlato del Sinodo, e del fatto che ci si trova oggi di fronte ad una molteplicità di configurazioni familiari. Gli ho detto che pensavo che occorre raggiungere le persone così come sono e non come si vorrebbe che fossero! Siccome mi piacciono i casi concreti, gli ho raccontato di aver benedetto quest’estate una coppia di divorziati risposati. Era il 15 d’agosto, all’aperto, con attorno un centinaio di persone. Che bel matrimonio! Ero in abiti civili e ho benedetto quegli sposi. Ho anche benedetto, sempre quest’estate, una coppia di omosessuali. Erano insieme da nove anni, si erano sposati civilmente e desideravano, essendo cristiani praticanti, essere benedetti dalla Chiesa. Tutti i preti avevano rifiutato. Allora mi hanno scritto una lettera così bella che non ho potuto fare altro che andare a benedirli. Eravamo all’aperto, c’erano 80 persone, ed era molto bello! Si benedicono le case… perché non le persone? Il papa ha annuito: “La benedizione è esprimere la bontà di Dio a tutti!”. Avrebbe potuto fare delle puntualizzazioni, farmi dei rimproveri. E invece no. Non mette al primo posto le regole, ascolta, si accontenta di dire che la benedizione di Dio è per tutti. Questo fa pensare che è favorevole all’apertura, che vuole liberare le persone, liberare la parola. Dove ci porterà questo? Non lo so!

Per quanto riguarda lei, si può interpretare questo incontro con papa Francesco come una
  DAL: Associazione Droit au logement, cioè: Diritto alla casa.

 
Sì, possiamo dirlo. Personalmente non ci ho pensato troppo, perché il semplice fatto di incontrarlo mi sembrava importante. Non immaginavo che l’annuncio di questo incontro avrebbe avuto tali ripercussioni. Il mio telefono trabocca di chiamate e di messaggi. Ricevo moltissime lettere di persone che si rallegrano per me. Ma molte di loro sono deluse: “Come? Non ti ha detto niente? Non ti ha proposto niente?” Si aspettavano cose concrete! Mi è difficile spiegare loro l’atmosfera di quell’appuntamento con papa Francesco: non ci sono stati annunci particolari, ci si è limitati a parlare in tutta semplicità Eppure, sono molto felice del nostro colloquio. Non cambia la mia vita, ma sono contento di constatare che la Chiesa, al suo massimo livello, accoglie tutto ciò che ho potuto vivere in questi ultimi vent’anni e manifesta che c’è una comunione con il successore di Pietro. È importante e senza dubbio meno per me che per molte persone che mi conoscono.

Ma che cosa l’ha colpita di più in questo incontro?

È bello constatare che, in un’istituzione come la Chiesa, papa Francesco resta un uomo libero. Non è un uomo d’apparato, non è assorbito dalla sua funzione, è semplice, è esattamente come è. È uno che ascolta. Non fa puntualizzazioni, non giudica. Si mette in ascolto della realtà così com’è, in qualsiasi ambito. La notte successiva al nostro incontro, nella mia camera al terzo piano di Monte Mario, nel convento degli Spiritani, ho guardato attraverso la finestrella che dà sulla cupola di San Pietro e ho realizzato che c’era qualcuno accanto a me, che il papa vegliava, come un custode dell’umanità.

Che cosa vorrebbe dire a tutti coloro che l’hanno sostenuta in questi vent’anni, tra cui anche i lettori di Témoignage chrétien?

Vorrei dire loro che il futuro è aperto. Non penso molto al passato. Sembra che neanche il papa lo faccia. È il futuro che ci attende. È il domani che è da costruire, e tocca a noi scrivere il futuro. Ai cristiani che possono perdere la speranza nei confronti della Chiesa francese, dirò che non bisogna gettare la speranza alle ortiche! La speranza è in noi, bisogna andare avanti, perché Cristo ci precede. Forza, andiamo