il giusto rimprovero del papà del piccolo Alan

“vi eravate commossi per il mio piccolo Alan ma ora costruite altri muri”

intervista a Abdullah Kurdi

a cura di Fabio Tonacci
in “la Repubblica”

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Otto mesi dopo, Abdullah Kurdi è un condannato alla vita con un ultimo desiderio che nessuno ha esaudito

«I bambini profughi continuano ad affogare ogni giorno, la guerra in Siria non è stata fermata. Vedo Stati che costruiscono muri e altri che non ci vogliono accogliere. Il mio Alan è morto per niente, poco è cambiato»

Il suo Alan. Un corpicino con la maglietta rossa e le scarpe blu che le onde adagiarono pietosamente sulla spiaggia di Bodrum dopo il naufragio. Era il settembre scorso, e per qualche settimana la foto scattata da una reporter turca fu il macigno sulla coscienza dell’Europa. A bordo del gommone che puntava all’isola greca di Kos erano in dodici. C’era Abdullah, siriano in fuga da Kobane. C’era sua moglie Rehan. C’erano Alan, tre anni, e l’altro figlioletto Galip, cinque anni. Li ha persi tutti. Lui è sopravvissuto.

Cosa ricorda di quei giorni?

«Ho i ricordi annebbiati, come fossi stato ubriaco. Ero assediato dai media di tutto il mondo, rilasciavo un’intervista dopo l’altra. Il clamore mi impediva di realizzare che non avevo più la mia famiglia. I miei figli, erano meravigliosi… mi sono scivolati dalle mani, quando cademmo in acqua. Vi prego chiamatelo Alan e non Aylan come a volte scrivono i giornalisti. Ci tengo». I trafficanti di uomini condannati dalla polizia turca per quel naufragio, Muwafaka Alabash e Asem Alfrhad, l’hanno accusata di far parte della rete degli scafisti. «Ma quale scafista metterebbe la propria famiglia su un gommone tra i disperati? Uno scafista ha i soldi e le conoscenze per prendere un motoscafo e far viaggiare con dignità e sicurezza i suoi figli.

Alan3Questa accusa è un’offesa all’intelligenza di chi l’ascolta».

Ha seppellito sua moglie e i suoi figli a Kobane. Vive ancora accanto a loro?

«No, sono a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Sono stato a Kobane per un mese dopo il funerale, ma mancava tutto, la città era distrutta ed ero solo. Da un giorno all’altro, poi, sono spariti tutti. Non ce la facevo più, stavo per perdere la testa e il cuore mi faceva male da quanto soffrivo ».

Nessuno l’ha aiutata?

«Non le organizzazioni internazionali, né quelle siriane o curdo-siriane. La solidarietà si era dissolta, ad eccezione dell’ex premier turco Davutoglu che mi ha dato 5.000 dollari. Per fortuna mi è arrivata la telefonata del premier del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani che mi ha invitato a Erbil, dove mi ha comprato una casa ».

Dopo la tragedia, nell’intervista con Repubblica, lei si augurava che il sacrificio di Alan e di Galip cambiasse l’atteggiamento dei governi europei nei confronti della questione profughi. Oggi cosa pensa?

«Per un po’ sembrava che la foto di Alan avesse smosso qualcosa negli animi dell’opinione pubblica occidentale e nelle stanze della politica. A mio figlio sono state intitolate scuole e campagne, e questo mi fa piacere perché può aiutare a stimolare l’empatia della gente e a non dimenticare la mia famiglia. Ma le notizie di nuovi naufragi, di muri eretti lungo la via balcanica, delle polemiche tra i governi, mi dicono che in realtà, al di là della reazione emotiva sul momento, poco è cambiato ».

In Europa stanno guadagnando terreno partiti xenofobi, e a Bruxelles i membri Ue fanno fatica a distribuire equamente l’accoglienza dei migranti. Qual è il suo messaggio per le istituzioni?

«Ai governi e alle persone spaventate dall’arrivo di tanta gente vorrei dire che non è più moralmente accettabile chiudere le porte in faccia a chi fugge dalla morte e dell’umiliazione. Chi si mette su un barcone non ha alternative, credetemi ». Come giudica il comportamento del governo turco nei confronti dei rifugiati siriani? «Sono grato alla Turchia, perché ha dato ai miei connazionali molti permessi di lavoro e ha consentito a tanti di prendere la cittadinanza».

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Cosa farà adesso?

«Barzani mi ha promesso che aprirà una fondazione umanitaria per l’assistenza dei bambini intitolata ad Alan, e ci lavorerò anch’io. Voglio essere la mano tesa verso i più piccoli, per accogliere chi ha bisogno e dar loro la possibilità di non aver paura, di non aver più fame. E di ricominciare a giocare ».

( Ha collaborato Fouad Roueiha)

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“perché Dio rimane silenzioso davanti a un popolo che si uccide? ” la tremenda fatica di credere!

“scegliere a ogni alba di restare”

intervista a padre Jihad Youssef

a cura di Chiara Pellegrino

in “Oasis” del 1 giugno 2016

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padre Jihad Youssef è un monaco della comunità al-Khalîl , insediata dal 1991 nel monastero di  Mar Musa al-Habashi (San Mosé l’Abissino) in Siria, ottanta chilometri a nord di Damasco. L’esistenza di questo antico luogo di eremitaggio fu scoperta nel 1982 da padre Paolo Dall’Oglio, rapito in Siria a luglio 2013, che decise di avviarne i restauri. La tradizione vuole che Mosè l’Abissino, figlio di un re etiope, rifiutò di succedere al trono del padre e scelse la via dell’eremitaggio. Arrivato in Siria, racconta ancora la tradizione, trovò riparo in una grotta sulle montagne dove oggi sorge il monastero. Mosè l’Abissino morì martire alcuni anni dopo per mano dei soldati dell’Impero bizantino.

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padre Jihad Youssef

Come è cambiata la vita a Mar Musa dal 2011 oggi?

Ormai non ci sono più visitatori, noi monaci dormiamo in città e andiamo a trovare gli sfollati nelle città vicine di Nebek e Homs. Ci alterniamo a mantenere il monastero aperto con la presenza di un solo monaco a rotazione e degli operai per la manutenzione e quando riusciamo, saliamo per celebrare la messa, pregare assieme e riposare. Dal 2011 abbiamo vissuto quattro anni di vita contemplativa vera, eravamo sempre soli e pregavamo di più. Quando all’inizio del 2015 Isis ha preso Qaryatayn, a pochi chilometri dal monastero, ci siamo dedicati alla pastorale, andando a visitare le persone nelle loro case. Da monaci contemplativi siamo diventati diocesani e missionari.

Nel dicembre 2013 i militanti di Jabhat al-Nusra hanno assediato per 25 giorni la città di Nebek, a pochi chilometri da Mar Musa. Come avete vissuto quei giorni al monastero?

Ci siamo sentiti soffocare, per tutto il periodo in cui la città era bombardata siamo stati chiusi nel monastero. Tra gli abitanti della città, chi ha potuto si è rifugiato in quei pochi sotterranei presenti. A Nebek la comunità cristiana conta 250 anime. Poco prima di Natale la battaglia è finita, noi allora siamo scesi in città e abbiamo scoperto che il quartiere cristiano era praticamente distrutto. Con l’aiuto di tre organizzazioni cattoliche europee abbiamo lavorato a un progetto di restauro e ricostruzione e in pochi mesi abbiamo restaurato 63 case di cristiani e cinque case di famiglie musulmane povere.

Come avete vissuto la vostra fede nel momento in cui la situazione è degenerata in Siria?

Io e gli altri monaci ci siamo sempre chiesti se rimanere o partire. La tribolazione è stata grande. Siamo stati messi alla prova per verificare se la nostra fede era fatta d’oro o di qualcosa che brucia e si consuma fino a esaurirsi. Ci siamo chiesti perché accadeva tutto questo. Perché Dio rimane silenzioso davanti a un popolo che si uccide? Non è stato facile, a ogni alba abbiamo dovuto decidere se credere oppure no. Abbiamo scelto di credere, ogni giorno. Abbiamo scelto di andare al di là del silenzio di Dio.

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Pensa che i cristiani siriani dovrebbero restare o fuggire?

Tutti parlano della necessità che i cristiani rimangano nei loro Paesi, dove è nata la Chiesa. Anch’io fino al 2013 pensavo che bisognasse incoraggiare i cristiani a non partire, ad aggrapparsi alle loro radici perché vivevano in quelle terre già ben prima del musulmani. Ma forse dimentichiamo che c’è sempre stato qualcuno prima di noi. Adesso non sono più di questo parere. Noi stiamo lavorando per aiutare chi vuole partire ad andarsene e chi vuole restare a rimanere. I ricchi o i privilegiati, come noi monaci, sono già scappati o possono andar via quando vogliono, ma la povera gente è condannata a rimanere. In Siria restano solo i cristiani convinti, che sanno di avere una missione, anzi che sono una missione, perché ogni battezzato lo è.

Che ruolo possono avere i cristiani orientali nel costruire un dialogo con l’Islam?

I cristiani in Siria non sono gli unici a essere perseguitati: siamo perseguitati come tutti gli altri siriani. L’Isis distrugge i nostri monasteri ma anche le moschee e le tombe dei santi musulmani. I loro militanti rapiscono e uccidono i nostri confratelli, ma hanno anche sgozzato migliaia di musulmani sunniti come loro. Certo noi cristiani siamo molto più fragili perché siamo un piccolo gregge. Ma se il Signore ci ha fatti cristiani in questa terra un motivo c’è. Il nostro dialogo non ha lo scopo di convincere l’altro che ha torto, ma è un “andare verso l’altro” con curiosità positiva, evangelica, disarmati, con la faretra vuota. Dal dialogo oggi non si può prescindere, né in Medio Oriente né in Occidente. Dobbiamo pregare molto anche per l’unità dei musulmani, che sono più divisi di noi cristiani. Nella loro unità c’è il bene per loro e per noi.

Che cosa direbbe all’Italia dove arrivano ogni giorno migliaia di profughi?

I profughi arrivano, e voi non potete impedirlo né costruire muri. Se li accogliete con dignità, forse un giorno saranno buoni cittadini; altrimenti saranno cattivi cittadini, saranno un cancro. Penso che anche voi dovreste impegnarvi nel dialogo. I musulmani ce li avete sotto casa, i vostri figli vanno a scuola con bambini musulmani, abbiate il coraggio di bussare alla porta del vostro vicino  musulmano, portare lì Cristo con la vostra semplice presenza. San Francesco diceva nella regola non bollata: “I frati che vanno tra gli infedeli possono vivere e comportarsi con loro, spiritualmente, in due modi: un modo è che non suscitino liti o controversie, ma siano soggetti, per amore di Dio, a ogni umana creatura, e confessino di essere cristiani; l’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annuncino la Parola di Dio”. L’iniziativa è di Dio, è lui a fare il primo passo, non noi. padre Jihad Youssef 1

Quando finirà la guerra, come si potrà ricostruire il tessuto sociale e restaurare la fiducia tra cristiani e musulmani?

Sarà possibile solo se ciascuno si impegna nella sua fede. Io, da cristiano, mi impegno a vivere il Vangelo. Il Vangelo ricostruisce, e se ricostruisco in me forse riuscirò a ricostruire nell’altro. Non sarà facile, anche perché le ferite e le offese subite restano nel tempo. I cristiani di Maalula, per esempio, difficilmente riusciranno a riacquistare fiducia nei musulmani perché sono stati traditi. Oppure Padre Jacques Mourad, il nostro confratello: è stato rapito da una persona che conosceva, con cui aveva preso il tè il giorno prima e che lo ha consegnato a Isis. È restato in prigionia per sei mesi, prima di riuscire a fuggire. Ma per fortuna anche il buon esempio rimane. Durante l’assedio a Nebek, i cristiani temevano che le loro donne sarebbero state prese in bottino e gli uomini fatti schiavi. I vicini musulmani si sono offerti di accogliere le ragazze cristiane nelle loro case spacciandole per loro figlie, sottraendole così ai militanti di Jabhat al-Nusra. Quanto a noi monaci, viviamo tra la Siria e l’Europa per coltivare lo studio. Quando finirà la guerra la Siria avrà bisogno di persone ben formate che possano predicare il Vangelo dell’amicizia, dell’armonia e del dialogo, per superare divisioni e odio.

Lei tornerà in Siria?

Non sono mai andato via.

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