“per favore smettete di usare la povertà altrui per spargere odio”

 

“io, italiana povera, non penso che i migranti mi stiano togliendo il pane”

e il post di Francesca, 22 anni, diventa virale


COMBO

 

 ha solo 22 anni, Francesca Iacono, ed è una ragazza come ce ne sono tante. Anche la sua storia, raccontata in un lungo sfogo su Facebook, non è poi così inusuale. Per questo, forse, il suo post ha ricevuto oltre 24 mila like ed è stato condiviso da oltre 9mila persone. Perché Francesca racconta della sua vita “da povera”, ma di una “povertà gestibile”, come la chiama lei.

Racconta la trafila della richiesta di sussidi, di quella per un posto in una casa popolare, racconta del lavoro cercato e non travato, dell’adeguarsi a certe condizioni per poter avere di cosa vivere. E poi ancora della macchina di “quinta mano” e dei “libri in comodato d’uso”. Eppure, assicura Francesca, nonostante questo, mai che le sia venuto in mente di credere che i migranti le “stanno togliendo il pane di bocca, le popolazioni rom e sinti non hanno più diritti di me”.

“Non sono arrabbiata con i rifugiati né penso che le difficoltà della mia famiglia siano lontanamente paragonabili alle loro. Siete voi che siete razzisti, credete ad ogni minchiata sparata dal primo Salvini di turno, siete di un’ignoranza e di una cecità crassa e per favore smettete di usare la povertà altrui per spargere odio mentre progettate le vacanze, STRONZI”.

 post

 

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Dio esprime la sua fantasia in Maria – sulla festa dell’Assunta

“LA FANTASIA DI DIO”

15 AGOSTO ASSUNZIONE B.V.M.

assunta1Maggi
di Alberto Maggi

L’inizio e la fine della vita terrena di Maria corrispondono al compimento del progetto che Dio ha sull’umanità: creati per diventare suoi figli, realizziamo questa figliolanza nella vita terrena mediante la pratica di un amore che somigli a quello di Dio e proseguiamo presso il Padre la nostra esistenza oltrepassando la soglia della morte.
La Chiesa presenta come modello perfetto di questo itinerario Maria: l’ingresso nell’esistenza terrena viene celebrato con l’Immacolata e quello nella sfera di Dio con l’Assunta.
Come per l’Immacolata, quello dell’Assunta è un altro dei dogmi recenti (Costituzione Apostolica Munificentissimus Deus, 1950) che non hanno alcuna diretta radice nella Sacra Scrittura, ma che appartengono di buon diritto al patrimonio della fede del popolo cristiano.
L’Assunta è infatti una verità di fede nata non dalla speculazione teologica ma dal buon senso o intuito della gente, e in passato era una festività tanto importante da stare alla pari col Natale, la Pasqua e la Pentecoste, le tre grandi solennità dell’anno liturgico.
Ma dobbiamo chiederci che può significare oggi per noi celebrare una simile festa. È ancora una volta rimanere sbalorditi di fronte ai tanti straordinari privilegi che Dio ha abbondantemente riversato su Maria, oppure una proposta, una possibilità valida per tutti i credenti?
Maria “assunta” in cielo è la firma di Dio sull’umanità, la creazione di un uomo che si lasci coinvolgere dall’azione vivificante dello Spirito santo: “Tale glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli”, affermò infatti Paolo VI nella Marialis cultus, il documento pontificio che ha portato un’aria nuova nella conoscenza di Maria.
Pertanto anche noi, se mettiamo nella nostra vita una qualità d’amore che assomigli a quella di Dio, fin da adesso, come afferma l’Apostolo Paolo “sediamo nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6), siamo come lui vincitori della morte e continueremo a vivere per sempre (Gv 11,25), come prega la Chiesa il 15 agosto: “anche noi possiamo per intercessione della Vergine Maria giungere fino al Padre nella gloria del cielo”.
Dio non ha creato l’uomo per la morte, ma per la vita, per una vita che può raggiungere la stessa qualità divina, ed essere perciò inattaccabile e indistruttibile.
La festa dell’Assunta ci ricorda e ci stimola quel che possiamo essere.
Ci ricorda che noi siamo importanti agli occhi del Padre che ci vuole innalzare al suo stesso livello.
Ci stimola perché al desiderio del Signore di renderci simili a lui, deve corrispondere anche il nostro impegno di vivere una vita di una tale qualità da renderla indistruttibile e capace quindi di durare per sempre.assunta
Per Maria l’assunzione non è stato un premio ricevuto per meriti speciali, ma la conclusione logica della sua esistenza che fin da Nazareth ha diretto sempre verso scelte di servizio, d’amore, pertanto di vita. Anche quando scegliere non era né facile è logico, anche nelle situazioni più drammatiche, Maria ha scelto la vita.
Maria si è fidata della fantasia di Dio.
Quella fantasia che trasforma tutte le cose in bene (Rm 8,28), e fa si che quelle che sembrano pietre siano invece pane (Mt 7.9). La fantasia di un Dio che sceglie quel che nel mondo è disprezzato per farne oggetto del suo amore (1 Cor 1,27-30; Gc 2,5). Fantasia che viene attratta dalle situazioni più difficili e più disperate per far brillare la potenza del suo amore.
È la fantasia di Dio che fa sì che un’anonima ragazza di uno sperduto malfamato villaggio venga proclamata beata da tutte le nazioni e per tutti i secoli (Lc 1,48).
L’assunzione è il coronamento logico della vita di Maria e della fantasia di Dio: la donna, l’essere emarginato che non poteva neanche mettere piede dentro il santuario, Dio la vuole con sé. Il Signore l’innalza al suo stesso livello ed elimina la distanza che lo separava dall’umanità.
E noi oggi non dobbiamo stare a guardare con il naso per aria verso il cielo (At 1,11), ma far si che pure la nostra vita sia una festa della fantasia di Dio. Esperimentare che non esiste fallimento, non esiste peccato, non esiste angoscia che il Padre nella potenza del suo amore non possa trasformare in vita. Non esiste colpa che non possa diventare una “felice colpa” come canta la liturgia del sabato santo.
Anche per noi la vita eterna non sarà un premio da ricevere per la buona condotta tenuta nell’esistenza terrena, ma l’accoglienza di un dono d’amore di quel Padre che vuole che neanche uno dei suoi figli si perda (Gv 6,39).
L’assunzione è la festa e la condizione di quanti hanno saputo essere fedeli all’amore portando così a compimento il progetto di Dio sull’uomo.”

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teologia da liberare – a proposito della condanna della teologia di Jon Sobrino

teologia della liberazione e liberazione della teologia

Jon Sobrino Ellacuria

di Fr. Alberto Degan

 

si tratta di una riflessione che A. Degan scrisse 5 anni fa in Ecuador ‘provocata’ dal provvedimento della Congregazione della fede contro Jon Sobrino, “uno dei teologi che più hanno inciso sulla mia spiritualità” (nonché della mai). Ritengo che la problematica alla radice di questo provvedimento sia ancor oggi più attuale che mai.deporre i poveri

Liberazione della teologia. Il caso Sobrino

É di alcuni mesi fa la notizia di un proveddimento disciplinare preso dalla Congregazione per la Dottrina della fede contro Jon Sobrino, il teologo che  ispirò il vescovo-martire mons. Romero e famoso, tra le altre cose, per essere sopravvissuto alla strage contro i gesuiti dell’UCA, nel Salvador, nel 1989.
Dico sopravvissuto perché lui, che era il principale obiettivo dell’attacco criminale delle forze paramilitari, quel giorno casualmente non era in casa,  e così si salvò.

L’accusa contro Sobrino é di accentuare troppo l’umanità di Cristo a scapito della sua divinità. Ma in realtà, la Notificatio contro Sobrino é l’ultimo  atto di una serie di misure disciplinari contro alcuni teologi sudamericani, accusati – in sostanza – di accentuare in maniera esagerata la dimensione sociale della fede a scapito della dimensione spirituale, e di ridurre il messaggio cristiano a un messaggio terreno, politico. Secondo un documento del  Vaticano di qualche anno fa, la vera liberazione é la “liberazione dalla schiavitù radicale del peccato”, mentre i teologi della liberazione, di fronte  “all’urgenza dei problemi”, cadono nella ”tentazione” di “porre l’accento in modo unilaterale sulla liberazione dalla schiavitù di ordine terreno e temporale”.Jon Sobrino1
Si presenta così una contrapposizione fra “la schiavitù del peccato” e la “schiavitù di ordine terreno”. Il piano spirituale e il piano temporale sono  visti – se non come contrapposti – per lo meno come conflittivi. E così si afferma che, per non distoglierci dalle preoccupazioni di ordine propriamente  spirituale, dobbiamo evitare la “tentazione” di lasciarci prendere – in maniera “unilaterale” – dalle “urgenze” della realtà e del tempo in cui viviamo.

Io penso che, in realtà, Dio cade spesso in questa ‘tentazione’: “Ho visto la miseria del mio popolo, ho ascoltato il suo grido davanti ai suoi oppressori,  e conosco la sua sofferenza. Sono sceso per liberarlo…. Ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li tormentano” (Es 3,7-9). Possiamo immaginare che  Dio avesse molte preoccupazioni di carattere ‘spirituale’, ma davanti al grido del suo popolo, lascia tutto il resto e si fa coinvolgere, si fa prendere  dall’urgenza del problema della schiavitù e dell’oppressione, e decide di agire nella storia per liberare il suo popolo.

Questo intervento di Dio é a livello spirituale o a livello temporale? La schiavitú che Dio vuole combattere é una schiavitù di tipo spirituale o una schiavitù  di tipo terreno? Anch’io credo che la radice di tutte le schiavitù é il peccato, però poi questo peccato si manifesta e si concretizza in abitudini, atteggiamenti,  azioni e strutture concrete, che Giovanni Paolo II chiamava “strutture di peccato”: la lotta contro queste strutture é un’azione di carattere spirituale  o temporale? Dio chiede al Faraone – il più potente uomo politico di quei tempi – di liberare gli schiavi, di mettere fine all’oppressione. Questa richiesta   di Dio é una richiesta di ordine spirituale o di ordine temporale?

Per me la risposta é ovvia: con questi interventi Dio agisce contemporaneamente sui due livelli, perché lo Spirito agisce nel tempo; e così, quando lottiamo  contro le schiavitù di ordine politico-temporale, stiamo collaborando con il disegno di Dio, che vuole vincere la morte in tutte le sue dimensioni e stabilire  il regno dell’Amore e della Vita. La lotta contro le schiavitù di tipo politico é un tassello molto importante della lotta globale dello Spirito contro  il male.

Purtroppo, oggigiorno si nota una tendenza a tornare alla vecchia separazione – e a volte addirittura a una vera e propria contrapposizione – tra le due  suddette dimensioni. Si tratta di un ritorno al dualismo neoplatonico, secondo il quale l’elemento religioso-spirituale e l’elemento temporale si oppongono  e si contraddicono reciprocamente. Può essere che qualche sacerdote sudamericano abbia ridotto la religione a impegno politico, ma la stragrande maggioranza ei teologi della Liberazione si sono mossi in un altro orizzonte, in un’ottica genuina di fede e di amore ai più poveri, in linea con la più autentica  Tradizione cattolica. Però, come fa notare Luis Segundo, per poter apprezzare – senza pregiudizi filosofici – tutta la ricchezza spirituale della Teologia  della Liberazione, é necessaria e urgente una liberazione della teologia. Dobbiamo liberare la riflessione teologica da questo dualismo neoplatonico, che  ha le sue radici nella filosofia pagana e ha ben poco a che vedere con il Vangelo e con la Parola di Dio.Romero1

Il Concilio Vaticano II condannó chiaramente questo dualismo per bocca di Paolo VI: “L’unione dei valori umani e temporali con quelli propiamente spirituali,  religiosi ed eterni, é affermata e promossa sempre dal Concilio”. Sappiamo che una delle accuse che gli ambienti piú conservatori della Curia Romana rivolsero  ai padri Conciliari era quella di aver dato troppo importanza al dialogo con il mondo e, più in generale, troppa importanza alla dimensione antropologica  e sociale, a scapito della dimensione propriamente religiosa. Tenendo presenti queste obiezioni, nel discorso finale per la chiusura del Concilio, Paolo  VI affermó: “Il valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa verso la direzione antropocentrica della cultura moderna?”. Uno si aspetterebbe  che il papa dicesse: “Certamente no!”. E invece il papa continua dicendo: “Deviato no, rivolto sì”. Come dire: senza dubbio, il Concilio ha rivolto l’attenzione
della Chiesa verso l’uomo e verso le realtà temporali, ma questa non é una deviazione, bensì una fedeltà al Vangelo del nostro Dio che ha voluto farsi  uomo. Grande, straordinario Paolo VI !

Questa stessa idea si ripete nel messaggio finale del Concilio all’umanità: “É nella vostra città terrestre e temporale che Dio costruisce misteriosamente  la sua città spirituale ed eterna” (n.4). Non c’é nessuna contrapposizione fra i due livelli, ma anzi, come dice la Gaudium et Spes, c’é una “compenetrazione  della città terrena e la città celeste” (GS 40).Romero

Tutte queste idee – che fino a poco tempo fa potevamo dare più o meno per scontate – sono adesso messe apertamente in discussione in alcuni ambienti cattolici  fondamentalisti. E così, con mia grande sorpresa, ho scoperto che la pagina web “Una Vox”, la pagina forse più completa sui documenti del Magistero ecclesiale,  accompagna questi documenti con alcuni commenti ultraconservatori, spesso irrispettosi delle parole dei papi e dei Padri Conciliari. É evidente l’incapacità  di questi gruppi fondamentalisti di capire che “la gloria di Dio é l’uomo vivente”, come dice S.Ireneo, e che perciò, se vogliamo davvero servire e glorificare  Dio, possiamo farlo solo nella storia, nella società, nella cultura e nel tempo che ci é dato di vivere, mettendoci al servizio dell’umanità. La dimensione  temporale non si contrappone alla dimensione spirituale!!

Guayaquil, 20 giugno 2007

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il commento al vangelo della domenica

NON SONO VENUTO A PORTARE PACE SULLA TERRA, MA DIVISIONE   

commento al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario (14 agosto 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 12,49-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Luca è indubbiamente l’evangelista che, più di tutti gli altri, tratta il tema della pace. Il suo vangelo si apre con l’immagine della pace nel coro angelico che proclama la “pace in terra agli uomini amati dal Signore”, si conclude con Gesù risuscitato che, quando si presenta ai suoi discepoli dona a loro la pace, “Pace a voi”, laddove pace significa pienezza della vita, felicità, eppure in questa pagina sembra che ci sia quasi una contraddizione.
Leggiamo quello che l’evangelista ci dice. E’ il capitolo 12 di Luca, versetti 49-53. Gesù dichiara: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra”. Per la terza volta in questo vangelo appare la tematica del fuoco. La prima volta era apparsa nelle parole terribili di Giovanni Battista che aveva annunciato il messia come colui che avrebbe battezzato in spirito santo e fuoco. Spirito Santo, cioè energia divina per chi accoglie Gesù e il suo messaggio, e fuoco, immagine del castigo distruttore per chi lo rifiuta, per i peccatori.
La seconda volta la tematica era apparsa nelle parole di Giacomo e Giovanni che, vedendo che un villaggio di Samaritani non aveva accolto Gesù, aveva chiesto a Signore: “Diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi”. Quindi era un fuoco distruttore. L’immagine del fuoco finora è presentata come il castigo di Dio.
Ma non è questo il fuoco che vuole portare a Gesù. Lo si comprenderà dal resto delle sue espressioni che questo fuoco è frutto della sua morte. Sappiamo che Luca presenta dopo la morte di Gesù la pentecoste come la discesa dello Spirito sotto forma di lingue di fuoco. E’ la nuova realtà della nuova comunità, dell’alleanza tra Dio e il popolo, non più basata sull’osservanza delle sue leggi, ma sull’accoglienza del suo spirito, cioè del suo amore.
Allora Gesù dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”, quindi questo fuoco dello Spirito, “come vorrei che fosse già acceso!”. Gesù non vede l’ora che i suoi discepoli, la sua comunità, il suo popolo, instauri con Dio un rapporto diverso, che non è quello imposto da Mosè, ma quello di lui, il Figlio, che propone una relazione tra dei figli e il loro padre.
E continua Gesù: “C’è un battesimo”, naturalmente qui battesimo non ha l’immagine del rito, del sacramento, della liturgia, che poi avrà il termine battesimo, che significa immersione, ma ha un’immagine anche negativa, qualcosa che travolge, qualcosa che ti trascina. Quindi Gesù dice: “C’è qualcosa che sta per travolgermi e che devo ricevere”.
“E come sono angosciato…” qui veramente l’evangelista non usa il termine “angosciato”, il vocabolo usato da Luca indica essere pressato, dominato da un forte desiderio. Quindi Gesù ha proprio questa passione per questo avvenimento che pure è negativo, questa situazione che lo travolgerà. “Finché non sia compiuto!”
Quindi potremmo tradurre “c’è un’immersione nella quale dovrò essere immerso!” ed è l’immersione nella violenza, nella morte che lo spazzerà via. E a questo punto ecco la sorpresa; abbiamo iniziato dicendo che Luca è l’evangelista della pace, Gesù toglie qualche dubbio su cosa significhi questa pace e dice: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione.” Ecco, sorprende sentire queste parole di Gesù, ma che significa questa divisione? Questa pace che Gesù è venuto a portare, frutto di una nuova relazione tra gli uomini e Dio, come quella di figli con il padre, troverà la reazione e l’avversione di tante forze che si scateneranno.
E quali sono queste forze? Gesù parla di divisione, prendendo l’immagine di una famiglia, una famiglia normale.
“D’ora innanzi, in una casa di cinque persone, si divideranno tre contro due e due contro tre” e si divide quello che rappresenta il vecchio contro il nuovo. Infatti aggiunge Gesù:  “Si divideranno il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera”. L’iniziativa di questa divisione viene dai rappresentanti del passato, il padre, la madre, la suocera, che non accolgono questa novità del messaggio di Gesù che viene invece accolto dai suoi discepoli.
Ecco la causa della divisione. Bisogna tenere presente che qui Gesù non sta parlando di divisione di figlio contro figlio, di fratello contro fratello. No, la divisione nella comunità dei credenti in Gesù non è ammessa, perché dove c’è divisione la comunità si distrugge. L’evangelista qui si rifà a un’immagine conosciuta, quella del profeta Michea, che al capitolo 7, versetto 6, aveva parlato di un figlio che insulta il padre, della figlia che si rivolta contro la madre e la nuora contro la suocera.
E aveva aggiunto: “E i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua”. I nemici di questa nuova realtà, di questa nuova relazione con il padre non saranno quelli al di fuori della religione, ma proprio coloro che sono all’interno della religione che non accetteranno questa novità. Eppure Gesù è quel Dio che è venuto a fare nuove tutte le cose. Chi si ferma al passato non potrà mai comprendere la novità che lo Spirito propone.

 

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Quando capiremo davvero la follia della guerra?

Da Alqosh a Hiroshima, passando per Aleppo

di Renato Sacco

(coordinatore nazionale di Pax Christi)Aleppo1

Nel dubbio, ci ha pensato il profeta Naum, con il testo letto ieri nella liturgia. Senza entrare nei dettagli di una esegesi profonda, la lettura di questo profeta mi ha riportato subito alla mente la sua tomba, che si trova ad Alqosh, nel nord dell’Iraq. L’ho visitata diverse volte in questi anni. E ieri il suo nome è risuonato quasi come un monito a non dimenticare chi vive oggi ad Alqosh e in quella terra. Due anni fa, nella notte tra il 6 e il 7 agosto, il ‘grande esodo’: circa 100.000 persone, la maggior parte cristiani e yazidi, in fuga nel cuore della notte per salvarsi dalla furia dell’Isis che stava arrivando, scappati in pigiama, in ciabatte o a piedi nudi. Una fuga di diverse ore con un caldo pesante. Ho ascoltato racconti di persone che avevano in casa malati, anziani, invalidi. Storie atroci di bambine e donne fatte prigioniere e messe in gruppi diversi per poi essere vendute al mercato. E tanta morte, nel corpo e nello spirito. Il tutto – se penso a quella mattina del 7 agosto 2014 – abbastanza nell’indifferenza dei mass media… Era l’inizio di una nuova tragedia per centinaia di migliaia di profughi. Con negli occhi e nel cuore il dolore per le tante violenze e uccisioni che avevano visto. E, ieri, diceva il profeta Naum: “Guai alla città sanguinaria, piena di menzogne,colma di rapine, che non cessa di depredare!… feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri.«Ti getterò addosso immondizie, ti svergognerò, ti esporrò al ludibrio. Allora chiunque ti vedrà, fuggirà da tee dirà: “Ninive è distrutta! Chi la compiangerà? Dove cercherò chi la consoli?”».

Aleppo Sembra descrivere la realtà di oggi: di Mosul (l’antica Ninive), dell’Iraq, ma anche di Aleppo, della Siria e di tanti altri luoghi di dolore e morte, dalla Palestina al Sud Sudan, all’ Afghanistan, … Per non dire poi che il 6 agosto è anche l’anniversario di Hiroshima. Quando capiremo davvero la follia della guerra? Quando smetteremo (Italia in prima fila) di vendere armi a mezzo mondo, compresi quegli Stati che, si sa, sono i principali sostenitori dell’Isis: Arabia Saudita e Qatar.  Quando? Ce lo chiedono in tanti che vivono in quella terra: chiudete i rubinetti delle armi! Oggi il pensiero va alle tante famiglie di Mosul, Alqosh, Karamles, Batnaia, Kirkuk… che mi hanno accolto come un fratello, ai tanti amici Iracheni e Siriani: dal Patriarca di Baghdad Sako, al Vescovo di Aleppo Audo, da p. Paolo Dall’Oglio a p. Ziad e p. Mourad SJ di Aleppo. Ma, a quanto pare, c’è chi pensa che una nuova guerra in Libia sia una buona soluzione.. Ha ragione papa Francesco: “Mentre il popolo soffre, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei paesi fornitori di queste armi, sono anche fra quelli che parlano di pace. Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?” (5 luglio 2016). Ma, oggi, è anche la festa della Trasfigurazione, c’è una Luce! Una Luce di vita per ogni

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i vescovi brasiliani denunciano con coraggio il ‘reato di povertà’ alle Olimpiadi

Giochi di Rio

la Chiesa non tace e denuncia

di Luca Rolandi

in “La Stampa-Vatican Insider” del 7 agosto 2016rio

 

Si parte. La 31esima Olimpiade dell’era moderna si inaugura a Rio e al mondo olimpico sono arrivati gli auguri di papa Francesco: «Agli atleti di #Rio2016! Siate sempre messaggeri di fraternità e di genuino spirito sportivo». Papa Francesco ricorda, reduce da Cracovia, i giorni di Copacabana, il suo primo bagno di folla con i giovani di tutto il mondo ed è ben consapevole della forza di aggregazione e fratellanza dello sport. Se le Olimpiadi dovrebbero sempre rappresentare incontro, relazioni, lealtà e competizione, la Chiesa, quella brasiliana in prima linea, non dimentica tutto ciò che intorno all’evento resta ai margini. Migliaia di persone in povertà, sfruttate e senza speranza. La Chiesa brasiliana e i Giochi di Rio La Chiesa brasiliana è ovviamente mobilitata da tempo. Tanti vescovi condividono riflessioni sull’importanza dello sport nella promozione di alcuni valori. Sono stati organizzati eventi e iniziative per chiedere di mettere a tema, nei giorni delle Olimpiadi, l’esclusione sociale, la lotta al traffico di esseri umani, al lavoro schiavo e allo sfruttamento. Un centro interreligioso con luoghi di culto per cristiani, musulmani, ebrei, buddisti e indù è stato già costruito nel villaggio olimpico che ospita 10mila atleti, una collaborazione tra Comitato olimpico internazionale e arcidiocesi di Rio de Janeiro. Sul sito della Diocesi carioca è anche ospitata la piattaforma Meu lugar no Rio per tutti coloro che vorranno mettersi a disposizione come volontari o aprire le porte di casa all’accoglienza durante i Giochi. La Chiesa locale è impegnata in un momento importante di testimonianza ed evangelizzazione. Centinaia di giovani, formati dalla Comunità do caos à gloria, andranno a parlare del Vangelo ai turisti durante i weekend.

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La vergogna delle Favelas e il reato di povertà

La povertà è stata dichiarata un reato.

Dal settembre 2015 le famose spiagge di Ipanema e Copacabana di Rio sono proibite ai ragazzini delle favelas. Basta non avere le scarpe o essere vestiti in malo modo per essere bloccati e arrestati da un cordone di agenti mentre il Parlamento brasiliano vorrebbe abbassare a 16 anni l’età in cui si può essere processati come adulti. La presenza di minori – spesso autori di assalti, furti, scippi e altri reati – è vista come una minaccia al Paese, che vorrebbe mostrarsi «pulito» e in grado di garantire tranquillità e sicurezza a turisti e tifosi durante le Olimpiadi. La polizia ammette la morte violenta di molti minori, ma sostiene di aver risposto al fuoco di gruppi criminali o dice che molti minori muoiono nel fuoco incrociato tra bande, poi è la polizia a mettere la pistola accanto o in mano al cadavere di un ragazzo. Nei primi sei mesi del 2015 gli agenti hanno ucciso nello Stato di Rio de Janeiro 347 persone, di cui 170 nella città capitale dello Stato; il 75% delle vittime aveva tra i 15 e i 29 anni; otto su dieci erano afroamericani. L’Unicef parla di 10.500 bambini e adolescenti assassinati in un anno, il doppio rispetto al 1992. In media c’è un minore ucciso ogni ora, 28 al giorno. Non tutti sono vittime della polizia, delle bande, degli squadroni della morte. Molti muoiono durante episodi di criminalità. La lotta alla povertà durante le presidenze di Lula e di Rousseff ha fatto uscire dalla povertà oltre 50 milioni di persone, ma quella brasiliana rimane una società violenta, come quella statunitense. E la polizia brasiliana gode di una sostanziale immunità, come quella a stelle e strisce.favela

La «Convenzione per i diritti dell’Infanzia», adottata nel 1990, aveva fatto del Brasile un paese-guida in America Latina. Oggi non più. Al di là dei minori assassinati c’è il fenomeno dei bambini e ragazzi scomparsi: si teme che molti siano stati uccisi. Don Renato Chiera, fondatore nel 1986 della Casa do meñor São Miguel arcanjo, comunità per bambini di strada alla periferia di Rio, parla di quattrocento alla settimana, cioè ogni 15 minuti un minore sparisce nel nulla, e in maggioranza sono abitanti delle favelas e sono neri. La Chiesa e le organizzazioni cattoliche – come ricorda in un colloquio don Chiera con don Pier Giuseppe Accornero, sono da sempre in prima linea in questo settore, anche per la loro esperienza plurisecolare in difesa dei minori abbandonati o a rischio. La Chiesa cerca anzitutto di sensibilizzare le comunità e la rete capillare delle organizzazioni cattoliche; si oppone all’abbassamento della soglia di punibilità a 16 anni; ritiene che i minori, anche se reclutati dalle bande, siano più vittime che carnefici, prodotti da una società violenta. Un impegno ecclesiale che si concretizza nelle periferie Impegnata nella «Pastoral da criança, pastorale dell’infanzia», la Chiesa è presente in 3.821 municipi del Brasile e si occupa direttamente di circa 1.100.000 bambini tra i 3 e i 6 anni. Vi lavorano 198mila volontari – di cui l’88% sono donne – che evitano ogni forma di discriminazione e di proselitismo. «Bisogna lottare con ogni mezzo contro l’infamia del traffico degli esseri umani e la diffusa cultura edonistica e mercantile, che incoraggiano lo sfruttamento sistematico della dignità e dei diritti delle persone». A nome di papa Francesco, l’arcivescovo Bernardito Auza, capo della missione della Santa Sede alla Conferenza delle Nazioni Unite per eliminare la tratta dei bambini dei giovani, denuncia ancora una volta «questo cancro sociale». Una battaglia che la Chiesa – attraverso le parole dei papi e l’impegno concreto delle istituzioni cattoliche – porta avanti incessantemente per contrastare «la tratta delle persone, il lavoro forzato e la moderna schiavitù». È un’infamia che soggioga 2 milioni di minori al mondo. La conferenza organizzata al «Palazzo di vetro» di New York valuta cosa si sta facendo e cosa non si sta facendo, e cosa deve essere fatto per liberare bambini e ragazzi dalla schiavitù e raggiungere l’obiettivo nell’«Agenda» Onu, che obbliga la comunità internazionale entro il 2030 a porre fine all’abuso, allo sfruttamento, al traffico e a tutte le violenze e torture contro i bambini.

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l’odio non è la al terrorismo

 

Tonio Dell’Olio

le reazioni di odio alimentano il terrorismo

intervista di Emanuela Citterio
Il presidente di Pro Civitate Christiana (nella foto accanto al Papa), spiega perché lavorare per la pace ha ancora senso, dopo l’attentato di Nizza. E racconta di quando ne parlò con Papa Francesco.
 
«Vivo ad Assisi e anche qui ci sono basiliche presidiate. Ci sono le transenne, la perquisizione, il mitra. Ma il terrorismo ha assunto modalità tali che pensare di affrontarlo con le armi è quanto meno una scelta miope. Ieri ne abbiamo avuto la prova eclatante, a Nizza». A parlare è Tonio Dell’Olio, sacerdote da sempre impegnato sul fronte della non violenza e dell’educazione alla pace. In questi giorni è stato nominato presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, associazione laicale che opera ponendo la centralità del Vangelo di Gesù come chiave interpretativa della piena realizzazione dell’umano. Dell’Olio è stato responsabile del settore internazionale di Libera – associazioni nomi e numeri contro le mafie, coordinatore nazionale (1993 – 2005) e membro del consiglio nazionale (1993 – 2009) di Pax Christi – movimento cattolico internazionale per la pace. Ma ciò di cui porta ricordi incancellabili è la sua collaborazione, tra il 1985 e il 1993, con Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi.
 
Il Papa, di fronte alla strage di Nizza di ieri sera ha detto che si è trattato di un attacco alla pace. È ancora possibile, oggi, parlare di pace senza essere tacciati di buonismo? Di fronte a quanto accaduto ieri c’è chi invoca le “maniere forti” e la guerra…
 
In realtà siamo di fronte a un terrorismo che non colpisce obiettivi sensibili e non usa più nemmeno le armi. E nel momento in cui i terroristi sono identificati come persone che vivono in Europa, che non agiscono nemmeno seguendo ordini di catena con l’Isis, ma in modo autonomo se non spontaneo, bisogna ammettere l’evidenza, e cioè che il terrorismo non può essere affrontato “esclusivamente” con le armi e con mezzi tradizionali. Dovremmo invece cercare di tagliargli l’erba sotto i piedi.
 
In che modo?
 
Tutti gli sforzi di dialogo con il mondo islamico – o meglio, con i mondi islamici, che sono tanti e diversi – sono destinati a lungo termine a dare risultati maggiori.
 
Non è illusorio parlare di dialogo?
 
Sinceramente non vedo altra via. Le modalità dell’attentato di ieri sera ce ne hanno dato una prova eclatante. Va detto che nemmeno il pacifismo più radicale è contrario alla difesa, a un ordine pubblico che abbia il compito di contenere la violenza. Ma l’errore è alimentare la violenza con altra violenza, non provare a cercare vie alternative.
 
Oggi si sono scatenate le reazioni di odio nei confronti dell’Islam e degli immigrati, da parte di politici e della gente comune…
 
Per quanto possa sembrare paradossale queste reazioni danno carburante al terrorismo. Sia le reazioni istintive di pacia sia quelle che partono da un’analisi per arrivare alla condanna dell’Islam in quanto tale non fanno che offrire ragioni e motivazioni al terrorismo stesso. La vera alternativa è agire sul piano educativo, cercare di approfondire nelle scuole e nelle parrocchie, cominciare a costruire la convivenza da lì. E poi bisogna chiedere con forza alle moschee e gli imam parole ferme di condanna: questa potrebbe essere una delle chiavi di volta nel percorso di sconfitta del terrorismo, che durerà anni.
 
Il Papa è stato il primo a parlare di “Terza guerra mondiale a pezzi” fornendo un’interpretazione di tante guerre ed episodi di terrorismo di questi anni. Ma la sua sembra spesso una voce isolata.
 
Sento spesso papa Bergoglio. Siamo amici sin da quando era cardinale a Buenos Aires, continuiamo a sentirci e a confrontarci su questi temi, sul potere delle mafie, sulla non violenza. Sì, è stato lui a parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, ed è martellante la sua condanna sul traffico delle armi, su chi trae profitto dalle guerre e dal terrorismo. Ma molte cose le dice anche con la scelta dei suoi viaggi apostolici. Nei suoi confronti, del Papa, abbiamo un difetto di analisi: siamo attenti a quello che dice, perché siamo abituati così, e facciamo più fatica a leggere i segni. Una volta, chiacchierando con lui, gli ho citato una frase di don Tonino Bello, che diceva: “Di fronte a coloro che ostentano i segni del potere dobbiamo opporre il potere dei segni». «Esto me gusta!» esclamò d’un tratto. E dal viaggio a Lampedusa in poi sono stati tanti i segni fatti dal Papa. Credo che questa possa essere un’indicazione anche per noi. Opporre i segni alla violenza, metterli prima delle parole.
 
Ci può fare un esempio?
 
Di fronte alle prese di posizione a priori sugli immigrati, per esempio, ho constatato che non c’è altra via che la conoscenza personale. Da lontano sono stranieri, hanno un altro colore della pelle, ci rubano il lavoro, disturbano la nostra sicurezza e la nostra salute. Quando ne conosci uno, che ti dice dove stava, ti descrive il suo Paese raccontandoti anche le sue bellezze, un altro stile di vita, e quando ti dice il disagio di un viaggio nel deserto… Ho visto persone arrivate con idee ben precise e molto prevenute sciogliersi in lacrime. Credo che l’antidoto all’odio e alla paura nei confronti degli altri sia solo la conoscenza dei volti, delle biografie, delle storie dei migranti. Tra l’altro riconosceremmo la nostra, di storia. Se facessimo questo in tutte le parrocchie e le scuole credo che la convivenza con gli immigrati in Italia sarebbe molto diversa.
(Fonte: Mondoemissione)
NIZZA – Non dobbiamo cadere nella trappola dello scontro delle civiltà
Intervento di p. Giulio Albanese, missionario comboniano e giornalista
(estratto “Agorà-Estate” Raitre del 15.07.2016)
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solo l’inclusione sociale riuscirà a sconfiggere l’Isis

Bauman

che errore sovrapporre
il terrorismo all’immigrazione

lo studioso e filosofo polacco spiega che le prime armi dell’Occidente per sconfiggere Isis sono inclusione sociale e integrazione

«Solo la società nel suo insieme può farlo»

di Maria Serena Natale

Professor Bauman, nel dibattito europeo terrorismo e immigrazione si sovrappongono in una distorsione ottica che fa il gioco dei populisti e ostacola la percezione dei profughi come «vittime». Un meccanismo che sposta il discorso sul piano della sicurezza e legittima i governi a sbarrare le porte, come ha annunciato Varsavia subito dopo gli attentati di Bruxelles. Quali sono i rischi di questa operazione?

«Identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale, subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro. Questo rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso. Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini».

Mantenere una connessione vitale tra «società ospite» e immigrati è sempre più difficile in questo clima di sospetto reciproco. In Paesi che si scoprono inermi, come oggi il Belgio, è saltato il patto sociale sul quale si fondava la speranza dell’integrazione? 

«Dal punto di vista dei terroristi, quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più forti sono le possibilità di reclutamento. Se cade del tutto la prospettiva di una comunicazione trans-culturale e di un’interazione autentica tra etnie e religioni, si riduce al minimo anche la possibilità di un incontro diretto, del “faccia a faccia” con l’altro, di una reciproca comprensione. A questo si aggiunge la stigmatizzazione di interi gruppi in base a caratteristiche ritenute non sradicabili che li rendono diversi da “noi, i normali”. Ne consegue l’alienazione forzata di persone marchiate come anomale, bandite dal consesso al quale, apertamente o nella profondità dei loro cuori, vorrebbero aderire ma dal quale sono state ostracizzate senza diritto al ritorno, dopo essere state per di più costrette ad accettare il comune verdetto sulla loro inferiorità. Come se fossero loro a non aver saputo raggiungere lo standard richiesto per entrare nel club. Chi viene così stigmatizzato subisce un doloroso colpo al rispetto di sé, che porta senso di colpa e umiliazione. Lo stigma può essere anche percepito come un oltraggio immeritato, che richiede e giustifica una vendetta tanto forte da ribaltare il giudizio della società e re-impossessarsi del rispetto rubato».

Come ristabilire il contatto con questa parte della comunità, cosa può fare la politica?

«I governi non hanno interesse a placare le paure dei cittadini, piuttosto alimentano l’ansia che deriva dall’incertezza del futuro spostando la fonte d’angoscia dai problemi che non sanno risolvere a quelli con soluzioni più “mediatiche”. Nel primo genere rientrano elementi cruciali della condizione umana come lavoro dignitoso e stabilità della posizione sociale. Nel secondo, la lotta al terrore. Non c’è dubbio sul ruolo che la comunità musulmana deve giocare per combattere la radicalizzazione, dobbiamo comprendere però che solo la società nel suo insieme può sradicare la minaccia comune. Le prime armi dell’Occidente nella lotta contro il terrorismo sono inclusione sociale e integrazione».

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giovani di poca fede: da una ricerca di Garelli

cattolici ma non troppo

l’Italia dei giovani non crede più

una ricerca di Franco Garelli sulla religiosità tra i 18 e i 29 anni. Il fenomeno è più diffuso al Nord e tra quanti hanno frequentato l’università

Secondo la ricerca Eurisko su un campione di 1500 giovani, nel 2015 gli atei dichiarati erano il 28% (il 23% nel 2007); quelli che credono solo per tradizione famigliare il 36,3%, ma di questi il 22% afferma di non credere davvero in Dio

 di andrea tornielliGarelli

 Nel nostro paese Piccoli atei crescono. S’intitola così la ricerca curata dal sociologo Franco Garelli sulla religiosità degli italiani con età compresa tra i 18 e i 29 anni (Il Mulino, pp. 231, € 16). I risultati attestano che, in effetti, la secolarizzazione avanza tra i giovani del Belpaese, pur avendo ricevuto questi ultimi, per oltre il 90%, battesimo e prima comunione, e per il 77%, la cresima. L’Italia, un tempo «cattolicissima», è dunque ancora densamente popolata di battezzati sempre meno evangelizzati.

La ricerca, realizzata da Eurisko su un campione di circa 1500 giovani, è interessante sotto vari aspetti. Il 72% degli intervistati dichiara di credere in Dio (anche se ormai la fede intermittente prevale su quella certa); oltre il 70% si definisce in qualche modo «cattolico»; circa un giovane su quattro (27%) afferma di pregare alcune volte la settimana o più. Il dato sulla frequenza settimanale ai riti è decisamente più basso, coinvolgendo il 13% dei giovani (a cui segue un 12% che vi partecipa almeno una volta al mese), pur risultando il migliore nel panorama europeo. Siamo di fronte a una generazione ancora complessivamente «cattolica», osserva Garelli. Non si può pertanto parlare di un tracollo religioso, quanto piuttosto di una prosecuzione della «secolarizzazione dolce».

Perché allora quel titolo? Lo spiega il dato dei giovani non credenti, cresciuto di ben cinque punti percentuali in pochi anni: sono passati dal 23% del 2007 al 28% del 2015. I non credenti sono ormai uno dei gruppi più numerosi che si ottengono distinguendo i giovani a seconda del loro rapporto con la religione. Sono più dei «credenti convinti e attivi», ormai ridotti a una piccola minoranza del 10,5%. E sono più numerosi anche dei «credenti non sempre o poco praticanti», che rappresentano uno degli stili religiosi più diffusi nella nazione. I «piccoli atei» risultano secondi soltanto a un altro stile religioso in voga tra gli adulti ma anche tra i giovani: quello dei «credenti per tradizione e educazione» (36,3%), quanti cioè credono più per ragioni ambientali o anagrafiche o familiari che per motivi religiosi o spirituali. Vale inoltre la pena sottolineare che ben il 22% di questi «cattolici per tradizione e educazione» afferma in realtà di non credere in Dio, rientrando quindi in quella singolare forma religiosa che va sotto il nome di «appartenenza senza credenza». Se si sommano i non credenti dichiarati ai credenti per tradizione che però ammettono di non credere in Dio, si può concludere che i non credenti a livello giovanile siano oltre un terzo del totale.

Questi giovani non credenti sembrano rappresentare, osserva Garelli, «l’avanguardia moderna dell’Italia giovane, essendo maggiormente presenti nelle zone geografiche più dinamiche e produttive, tra quanti hanno un’istruzione elevata e nelle famiglie di medio-buona condizione socioculturale». Ad esempio, l’ateismo o l’indifferenza religiosa coinvolgono il 37% dei giovani del Nord, rispetto al 21% dei giovani del Mezzogiorno; e il 37% dei giovani che ancora studiano o hanno frequentato l’università, rispetto al 27% di quanti già lavorano e al 20% di chi non lavora.

La ricerca fa anche emergere una significativa difficoltà nel trasmettere ai figli la propria fede, specialmente quando è convinta e praticata. Al contrario, ateismo o religiosità soft si trasmettono più facilmente. Più della metà delle famiglie i cui genitori sono non credenti, infatti, hanno figli non credenti. E più della metà delle famiglie caratterizzate da un cattolicesimo culturale e poco religioso hanno figli che si riconoscono in questa stessa matrice religiosa.

Diversa è invece la situazione delle famiglie che si identificano in un cattolicesimo convinto e attivo. Solo il 22% di queste ha figli che si dichiarano «cattolici convinti e attivi». Tendenze, spiega Garelli, dalle quali si potrebbe concludere che le famiglie distanti da una prospettiva di fede hanno più probabilità delle famiglie religiosamente impegnate di trasmettere ai figli il proprio orientamento culturale. Sembra dunque più facile trasmettere da una generazione all’altra la «non credenza» o una «credenza debole» che un orientamento religioso più impegnato.

 

 

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