è bugiardo chi dice che non siamo in guerra

“Su Sirte basta bugie. E basta guerre”

intervista a Alex Zanotelli

a cura di Alessandro Cisilin
in “il Fatto Quotidiano” zanotelli (2)

Non siamo in guerra? Bugie per coprire attacchi preparati da tempo”. Tra una sessione e l’altra di un Campo di Lavoro a Castelvolturno, dedicata proprio alla convivenza tra italiani e africani (“qui oramai sono la metà della popolazione”), padre Alex Zanotelli rinnova i suoi strali verso i “negazionismi” sulle operazioni in Libia.

Li lanciò già sei mesi fa.

È da tempo che sapevamo della presenza sul campo di militari americani, inglesi, forse anche italiani. Capisco del resto la paura a dichiarare i fatti: nella zona di Sirte ci sono forse solo un migliaio di miliziani dell’Isis, ma in tutta la zona saheliana gravitano altri gruppi radicali che guardano con interesse allo Stato islamico, a cui ha già aderito anche Boko Haram. L’offensiva verrebbe percepita come una nuova guerra coloniale contro un paese arabo-musulmano.

Fuori dalle percezioni, che guerra sarebbe?

Un conflitto per il petrolio, e magari per spaccare il paese in tre Stati, altro segnale tipico dei disegni coloniali. Stiamocene fuori, è tempo di fermare le guerre, non di farne altre.

In un suo appello, lanciato a inizio anno assieme allo storico Angelo Del Boca, lei ha ipotizzato un “solo caso in cui l’Italia può intervenire”, indicando la strada di una “missione di pace” su richiesta delle autorità locali. Tale missione potrebbe per lei prevedere l’accompagnamento di forze militari?

No, nessun intervento militare, le armi portano solo conflitti, non li risolvono. Né può bastare che sia solo uno dei tre attori principali (Tripoli, Tobruk, il generale Haftar) a chiedere una missione civile. Dovrebbero essere almeno in due, e con l’accordo dell’Onu, di altri paesi europei e dell’Unione Africana. O così o niente.

Nel suo no alla guerra c’è anche l’argomento che “i libici ci odiano”. Ma è proprio così?

Noi rimuoviamo il nostro passato, ma quei 100 mila libici impiccati e fucilati dai coloni italiani restano nella memoria locale. E poi rimuoviamo il nostro supporto alla guerra sbagliata del 2011, quando fornimmo le basi aeree e i cacciabombardieri per aggredire un paese col quale per giunta avevamo da poco firmato Trattati di pace e altre intese. La ministra Pinotti si ricordi che noi siamo responsabili, anche della fornitura di armi a paesi come l’Arabia Saudita e Qatar, che poi finiscono nei teatri bellici come questo. Altro che “liberatori”.

In questi anni si è discusso anche di operazioni militari orientate a fermare l’immigrazione

Sull’immigrazione gli italiani dovrebbero prendersela con chi ha fatto la guerra. Quelle persone arrivano perché scappano dal caos. E arrivano perfino dal Bangladesh, in quanto la Libia stava relativamente bene e vi affluivano lavoratori da ovunque. Non difendo Gheddafi, era un dittatore, ma ha portato sviluppo e anche un’interessante modernizzazione dell’Islam. Quella guerra immotivata ha poi consegnato il paese alle milizie jihadiste. A Londra un rapporto parlamentare ha inchiodato Blair alle sue responsabilità per l’invasione dell’Iraq. Dovremmo farlo prima o poi anche noi per quanto fatto in Libia.

Peraltro lo stesso universo pacifista è descritto “in crisi” da un po’ di tempo. Lei è d’accordo?

Confermo, e per almeno due motivi. Il primo è che c’è stato un abbassamento delle sensibilità, è passato il messaggio della guerra “venduta” come una normale operazione politica. L’altro problema è che siamo spezzati tra mille rivoli, per motivi ideologici e altro. Dovremmo metterli tutti da parte. L’occasione può essere la Marcia della Pace del prossimo 9 ottobre. Che sia un momento unitario.

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il commento al vangelo della domenica

ANCHE VOI TENETEVI PRONTI  

commento al vangelo della diciannovesima domenica del tempo ordinario (7 agosto 2016) di p. Alberto Maggi:p. Maggi

Lc 12,32-48

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. [Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». ]
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi.
Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».   

Nel capitolo 12 del vangelo di Luca l’evangelista presenta la nuova realtà del regno. Se i discepoli si prendono cura dei loro fratelli permetteranno a Dio, come Padre, di prendersi cura del loro bene e del loro benessere. Qui ora l’evangelista ci presenta i versetti finali di questo capitolo.
Scrive Luca: “Non temere”… quindi Gesù toglie ogni ansia, ogni preoccupazione, “piccolo gregge”. E’ proprio minuscolo. Il termine piccolo è micron, quindi qualcosa proprio di inconsistente. “Perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.” L’evangelista contrappone la piccolezza, il piccolissimo – microscopico quasi – gregge, la comunità che segue Gesù, con la grandezza del Regno di Dio, del progetto di Dio sull’umanità. Poi Gesù con tre imperativi passa a definire le caratteristiche che rendono possibile la realtà di questo Regno. La prima è “Vendete ciò che possedete”. Non è un invito, è un imperativo. Quindi vendere ciò che si possiede, “E datelo in elemosina”, cioè con quello che avete ricavato fate del bene a chi ne ha bisogno, e poi ecco il cambio, la nuova realtà del Regno, “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli”. Sappiamo che il termine cieli, nel linguaggio del tempo significa “in Dio”. Cosa vuol dire Gesù? Gesù dice che, man mano che il credente sperimenta che dare non significa perdere, mette la sua fiducia nel Padre, li libera dalle preoccupazioni materiali e si riempie di una fiducia crescente nell’azione del Signore. Quindi “fatevi un tesoro sicuro nei cieli”, cioè in Dio, “dove ladro non arriva e tarlo non consuma”. Quindi è al di fuori di ogni preoccupazione. E poi ecco l’affermazione chiara di Gesù. “Perché, dov’è il vostro tesoro (cioè dove mettete la vostra fiducia, ciò che vi dà sicurezza), là sarà anche il vostro cuore.” Il cuore, nella cultura ebraica, non è come nella nostra occidentale la sede degli affetti, il cuore significa la mente, la coscienza, quindi dov’è il tuo pensiero – dice Gesù – là sarà anche la tua vita. Quindi dove hai diretto il tuo pensiero, là sarà tutta la tua vita, se invece pensi al bene degli altri questa sarà la tua ricchezza sicura. Poi Gesù di nuovo con un imperativo – e qui è un’immagine  molto importante che se compresa bene cambia il rapporto con Dio e conseguentemente il rapporto con i fratelli –  “[Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi]”. Perché quest’indicazione? L’abito comune degli uomini in Palestina era una tunica che arrivava fino alle caviglie. Quando ci si doveva mettere in cammino, e soprattutto quando si doveva lavorare, questa tunica era di impaccio, allora la si raccoglieva e si annodava alla vita. Allora Gesù chiede che la caratteristica, quello che distingue la sua comunità dei discepoli, il suo distintivo, sia quest’atteggiamento di servizio. Non un servizio abituale, ma un servizio che diventa il distintivo della persona e della comunità. E poi Gesù aggiunge: [“E le lampade accese”]. Perché questo richiamo alle lampade accese? Il riferimento è al libro dell’Esodo dove in una tenda c’era la presenza del Signore, e c’era la prescrizione che una lampada doveva essere sempre accesa. Con questa indicazione preziosa Gesù dice che  l’individuo e la comunità che si manifestano nel servizio sono il vero santuario dove Dio manifesta la sua presenza. [“Siate simili a quelli che aspettano il loro padrone (letteralmente l’evangelista scrive signore) quando torna dalle nozze”]. Come Jahvè era lo sposo del suo popolo, così Gesù è lo sposo della nuova comunità. [“in modo che, quando arriva e bussa”] Gesù non si comporta come il padrone di casa che entra, spalanca la porta. Lui bussa. E’ un grande segno di rispetto e delicatezza verso gli altri. [“Gli aprano subito. ”] E qui Gesù proclama qualcosa di inconcepibile per la cultura dell’epoca. Gesù proclama “beati”, cioè straordinariamente e pienamente felici, [“Quei servi che il padrone (il signore) al suo ritorno troverà ancora svegli”]. Quindi questo atteggiamento di servizio non è qualcosa che vale ogni tanto, è un atteggiamento che continuamente rende distinguibile la comunità. [“In verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi”] Quello che Gesù ha chiesto ai suoi discepoli di avere come distintivo, il servizio, è il suo distintivo. Gesù, nella sua comunità, è colui che serve. E qui c’è qualcosa di inaudito. Gesù si presenta come il Signore, il padrone della casa e, anziché mettersi a tavola e farsi servire dai servi, sarà lui a servire. Dice Gesù: [“li farà mettere a tavola (letteralmente sdraiare a tavola) e passerà a servirli.]  Questa è la novità di Gesù. Gesù, nel vangelo di Luca, nell’ultima cena, fa proprio questa affermazione: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve”. Questa immagine dell’evangelista è un’allusione all’eucaristia. L’eucaristia non è un culto, ma è la comunità che sempre continuamente in atteggiamento di servizio, viene fatta riposare da Gesù, per farla ristorare, per farla ricaricare con una nuova carica del suo amore. Gesù stesso passa a servire, questa è l’immagine che l’evangelista ci presenta. Quindi non una comunità a servizio di Dio, ma Dio che si mette a servizio della comunità. Allora il culto della comunità cristiana non è diretto al Dio, al Padre, ma dal Padre, attraverso Gesù, passa agli uomini perché continuamente si manifestino attraverso questo atteggiamento di servizio. E Gesù continua con questo atteggiamento della disponibilità che rende riconoscibile la sua comunità dicendo: [“Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». ] Questa presenza di Gesù  nella sua comunità, questo suo improvviso apparire non ha una scadenza, è all’improvviso. Cosa significa all’improvviso? Ogni volta che ci sono situazioni di bisogno, di necessità degli altri, la comunità deve essere sempre pronta. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Dice Gesù che se nella comunità, anziché servirsi gli uni altri, se nella comunità non ci si tratta con amore e con rispetto, ma per l’arroganza, per la prepotenza, per il desiderio di potere si schiavizzano gli altri per i propri comodi, Gesù usa un’espressione tremenda. Dice “quando il padrone verrà” – l’espressione è molto forte – “lo dividerà in due”. Essere divisi in due era la pena per i traditori. Quindi Gesù ammonisce che coloro che nella comunità, anziché servire, mettersi al servizio degli altri, pretendono di comandare, dominare, agiscono con prepotenza, per Gesù sono dei traditori che nulla hanno a che fare con la sua realtà.

 

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ricordando ogni 2 di agosto l’olocausto dei rom chiamato ‘porrajmos’

in “silenzio per la pace”

con i Rom e i Sinti

nella ricorrenza del Porrajmos

Auschwitz – Birkenau

 2 agosto 1944ricordo

Sotto la scritta “Arbeit macht frei” del cancello di ingresso di Auschwitz, centinaia di ragazzi rom avanzano a passo lento con gli occhi verso il basso. Sarà il sole accecante di una mattina tersa d’azzurro che impedisce di alzare gli occhi, o sarà invece che nessuno riesce a reggere lo sguardo di fronte alla “fabbrica della morte”. È il 2 Agosto, giorno della memoria del genocidio dei Rom e Sinti. La storia che non si trova sui libri di testo: ad Auschwitz, il 16 maggio 1944 , le SS decidono di chiudere il “campo degli zingari” e sterminare l’ultimo gruppo di 4 mila internati, tra uomini, donne e bambini. Dovevano essere condotti nelle camere a gas e bruciati nei forni crematori. Ma trovarono la forza di ribellarsi, con pietre, mattoni e un coraggio sovrumano, che trassero dai loro corpi esili, sui 30 chili circa. Eroicamente arrivarono al 2 Agosto, stremati senza cibo né acqua. Nei racconti dei rom, c’è chi assicura che le famiglie riuscirono a salutarsi per il Pasomilaj, la festa di mezz’estate del 2 agosto. Ma quella stessa notte, le loro voci scomparvero. Per sempre. I nazisti assassinarono tra la notte del 2 e 3 agosto, nelle camere a gas, 2897 persone. Domenica Chancano

( Domenica Chancano 2 agosto 2013)

PORRAJMOS    Auschwitz – Birkenau 2 agosto 1944
ZINGARI UN’ESTATE
Dalle baracche del Zigeuner Camp vedevamo gli ebrei
colonne incamminate diventare colonne verticali di fumo dritto al cielo,
erano lievi
andavano a gonfiare gli occhi e il naso del loro Dio affacciato.
Noi non fummo leggeri.
La cenere dei corpi degli zingari non riusciva ad alzarsi al cielo di Alta Slesia.
In piena estate diventammo nebbia corallina.
Ci tratteneva in basso la musica suonata e stracantata intorno ai fuochi degli accampamenti,
siepe di fisarmoniche e di danze, la musica inventata ogni sera del mondo non ci lasciava andare.
Noi che suonammo senza uno spartito, fummo chiusi dietro le righe a pentagramma del filo spinato.
Noi zingari di Europa, di cenere pesante
senza destinazione di oltre vita da nessun Dio chiamati a sua testimonianza
estranei per istinto al sacrificio bruciammo senza l’odore della santità
senza residui organici di una pietà seguente,
bruciammo tutti interi, chitarre con le corde di budello.
Erri De Luca  erri de luca

Unisciti ai Rom e ai Sinti la notte del 2 agosto e tieni accesa una candela alla finestra

Gruppo In silenzio per la pace                                                                                                                                               Mantova

nel video seguente un documento drammatico e shokkante per ricordare quell’assoluta disumanità chiamata porrajmos

Pharrajimos, il genocidio rom

di Katalin Barsony*
in “il manifesto”

Uno stato d’animo cupo era palpabile fra la folla radunata ieri intorno al memoriale dell’Olocausto di Londra, una pietra posta nel cuore di Hyde Park. A mezzogiorno, circa un centinaio di persone, soprattutto rom ed ebrei provenienti da tutto il paese, si sono riunite per commemorare il Pharrajimos – l’uccisione di oltre mezzo milione di persone, circa un quarto di tutta la popolazione rom e sinti dell’epoca – avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale. In piedi, sono rimaste in silenzio per ricordare sotto la pioggia battente e un cielo plumbeo. Qualcuno teneva in mano uno striscione blu con la scritta: «Stop al razzismo contro i rom». Una manifestazione commemorativa si è tenuta anche a Berlino, di fronte al Reichstag dove c’è il monumento ai rom e ai sinti sterminati dai nazisti. Tuttavia, tra molti rom c’è la sensazione che la loro sofferenza sia stata aerografata dalla storia – un’amnesia che rende oggi le comunità rom più vulnerabili alla discriminazione e all’aggressione. È stata scelta la data del 2 agosto perché quel giorno del 1944, nel campo di Auschwitz-Birkenau, furono uccisi gli ultimi tremila rom internati nello speciale zigeunerlager. Era il «lager degli zingari», che fu la prigione di oltre ventimila persone uccise nelle camere a gas, mentre i bambini venivano sottoposti a esperimenti terrificanti da parte del medico del campo Joseph Mengele. Il 16 maggio di quell’anno i seimila rom rinchiusi lì vennero a sapere che era in programma il loro sterminio per fare spazio a un gruppo appena arrivato di lavoratori internati. Quando le guardie irruppero per condurli al massacro, i rom, anche se indeboliti dalla prigionia, furono pronti a reagire con qualunque strumento potessero trovare a disposizione – pietre, tubi, pezzi di legno. Il comandante del campo richiamò le guardie per impedire che la rivolta si diffondesse oltre lo zigeunerlager. Noi ricordiamo questo atto di ribellione come «il Giorno della Resistenza rom». Nei mesi successivi, le autorità del campo ridussero la popolazione dello zigeunerlager mandando 1.000 dei prigionieri più giovani al campo di Buchenwald e 1.000 donne a Ravensbruck. Lo sterminio, però, era stato solo rimandato: la notte tra l’1 e il 2 agosto le ss rientrarono nel lager e lo fecero con una forza soverchiante. All’interno c’erano tremila rom – prevalentemente giovani, anziani e malati – che furono sopraffatti e immediatamente mandati a morire nelle camere a gas. Ogni anno che passa, la necessità di riconoscere questi eventi si fa più urgente e i mezzi con cui farlo più difficili. Non c’è quasi più nessuno ormai che può ricordarli in prima persona. Non dobbiamo permettere che il 2 agosto 1944 sia relegato alla polvere degli archivi storici. L’ultima testimone oculare conosciuta era Erzsébet Szenesné Brodt, morta poco fa, che fu deportata all’età di 17 anni da Kaposvár, in Ungheria, ad Auschwitz con la madre e la sorella di dieci anni mandate alla camera a gas appena scese dal treno. Intervistata nel 2012 dalla Romedia Foundation, Brodt, che viveva in una baracca vicina allo zigeunerlager, ha ricordato chiaramente quella notte, quando le ss attaccarono con lanciafiamme e cani da assalto. Per il resto della sua vita, ogni volta che ha visto un cane di grossa taglia, ha sentito un brivido per la paura. La commemorazione del 2 agosto come Giorno della Memoria del genocidio dei rom e dei sinti sta avendo qualche riconoscimento istituzionale negli ultimi anni. La Giornata è riconosciuta in Polonia, Ungheria e Ucraina (i sinti fanno parte dell’esodo rom che si è stabilito principalmente in Europa centrale). Ma il processo è faticosamente lento. Il governo della Germania dell’Ovest non riconobbe l’Olocausto dei rom fino al 1982; la Germania riunificata dedicò un monumento ai rom e ai sinti vittime del nazionalsocialismo solo nel 2012. Nell’aprile del 2015, il parlamento europeo ha approvato una risoluzione che istituisce ufficialmente il 2 agosto come il Giorno della memoria dell’Olocausto rom e ha esortato gli stati membri a fare lo stesso ricordando l’attuale situazione di difficoltà dei rom in Europa ed
esprimendo «profonda preoccupazione per l’aumento di un sentimento anti-rom in Europa accompagnato spesso da violente aggressioni». Più di settant’anni dopo il Pharrajimos, i dodici milioni di rom d’Europa sono la minoranza etnica più grande del continente e la più discriminata: l’86% degli italiani, il 73% dei danesi e il 60% dei francesi vedono i rom sfavorevolmente. Il 71% dei rom che vive nell’Europa dell’Est è in profonda povertà ed è minacciato da una parte all’altra del continente dal ritorno di una ideologia violenta e di estrema destra. Per onorare correttamente l’oltre mezzo milione di vittime dell’Olocausto rom e sinti, i rom dovrebbero vedere riconosciuto il loro diritto ad esistere come cittadini europei a pieno titolo e liberi. Quando davanti ai suoi occhi donne e bambini rom venivano spinti nelle camera a gas dalle ss, Erzsébet Brodt promise a se stessa che sarebbe sopravvissuta. «Il mio dovere sarà quello di raccontare a tutti», disse l’ultima testimone di quella tragedia, «È responsabilità di tutti i sopravvissuti battersi perché queste cose non accadano mai più».

*attivista e regista rom, direttore esecutivo della Fondazione Romedia con sede a Budapest

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nelle chiese 23 mila musulmani: un abbraccio straordinario che dovrebbe diventare quotidianità

“Non si uccide in nome di Dio”islam12

di Pierangelo Sapegno
in “La Stampa” del 1° agosto 2016

Nella foto di gruppo in un interno che ci ha lasciato questa domenica di Sant’Ignazio da Loyola c’erano 23 mila musulmani dentro le Chiese d’Italia a pregare assieme ai cristiani. Ma fuori probabilmente ce n’erano molti di più che non erano troppo convinti, ad ascoltare almeno i silenzi e le accuse ai «francesi che bombardano i bambini in Siria», raccolti nelle vie e negli angoli di Porta Palazzo a Torino, o registrando anche solo il rifiuto di partecipare a questo abbraccio simbolico espresso da Aia Eldin al Ghobasny, l’imam della Grande Moschea di Roma, secondo cui si trattava di «una manifestazione spettacolare più adatta alla stampa» che alla fratellanza.

islam7 Eppure c’è qualcosa di storico in questa foto di gruppo che ha messo insieme ieri, fra le navate delle Chiese, i sacerdoti e gli imam con i loro abiti tradizionali e le barbe nere seduti accanto ai fedeli cristiani, come nel ritratto un po’ agiografico di un presepe, dentro a quei riti svuotati dal tempo. L’immagine che si ricava alla fine è abbastanza contraddittoria. Se anche a Lecce gli imam hanno disertato l’invito, a Ventimiglia sono entrati tutti alla Messa delle 10 e 30 a San Nicola da Tolentino, in preghiera di fronte a padre Francesco Marcoaldi, che il 29 maggio aveva aperto le porte della sua Chiesa agli immigrati in fuga. E alla fine della funzione hanno preso la parola per condannare il terrorismo, fra gli applausi e gli abbracci dei fedeli.

islam2Mahatma Gandhi sosteneva che «Dio non ha una religione», ma nella domenica del Signore Islam e cattolicesimo hanno cercato almeno di capirsi, in onore a Papa Francesco che a Natale aveva invocato «il dialogo come contributo di pace». Se ci siano riusciti, è un altro discorso. All’uscita di Santa Maria in Trastevere, a Roma, i fedeli intervistati da Sky, rivelavano le stesse sensazioni opposte che ha lasciato questa domenica. Una signora diceva che «abbiamo usato lo stesso linguaggio, le stesse parole. È stato importante vederli in Chiesa assieme a noi. Siamo chiamati alla condivisione, all’amicizia». Un altro fedele annotava invece che «può essere un primo passo. Ma adesso questa comprensione non c’è». E un terzo signore rimarcava la sua diffidenza: «Per forza che c’è. I diritti dell’uomo sono oscurati nei loro Paesi e qui da noi la Grande Moschea ha detto di no a questo invito». Lo scrittore Camillo Langone è stato ancora più duro e sulla sua pagina Facebook ha postato con altre 45 persone che «per la prima volta ho dei dubbi sull’andare a Messa.

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Andrò verso sera, in una Chiesa defilata per correre meno rischi, ma se ci saranno maomettani o se il sacerdote dal pulpito tradirà Cristo onorando Maometto dovrò uscire». Cosa avrebbe fatto a Bari, dove musulmani e cattolici nella cattedrale di San Sabino hanno letto insieme la Bibbia e il Corano, prima in italiano e poi in arabo?isla1

A Firenze, Izzedin Elzir, il presidente dell’Ucoii, l’organizzazione sospettata in passato di essere troppo tenera con gli estremisti, è arrivato al Duomo di Santa Maria del Fiore con tutta la sua famiglia. E Ahmed El Balazi, imam di Vorbano, alla messa di Brescia ha avuto parole durissime definendo i terroristi dei «criminali e dei falliti. Questa gente sporca la nostra religione». Abn al Gaffour, presidente del Coreis per l’Italia, ha detto che «quell’Allah u Akbar che pronunciano sempre, mi ricorda tanto il Gott Mit Uns dei nazisti.

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islam11 Ma non si uccide in nome di Dio». L’impressione però è che questa giornata della pace abbia avuto l’adesione dei vertici, ma non siamo così sicuri che la base fosse tutta così d’accordo. A Porta Palazzo, a Torino, la maggior parte si rifiutava di commentare e quelli che lo facevano ripetevano con ossessione che anche noi uccidiamo donne e bambini musulmani, «ma non vi ho mai sentito chiedere scusa». A Roma, un signore marocchino di 40 anni con la barba nera che dice di fare il macellaio, sostiene che «la maggior parte di noi non ci è andata. Voi dite che sono tanti 15mila? A me non sembra. Siamo molti di più». Dall’altra parte, don Michele Babuin, parroco nella Barriera di Milano del capoluogo piemontese, aveva dichiarato che lui «gli imam in Chiesa» non li vuole, «Chi mi garantisce che non siano dei terroristi?», affermando anche che «abbiamo un Dio diverso, checché se ne dica». Un altro prete ha scritto a Rete4 dicendo che non bisogna fidarsi, «se io fossi andato in una Moschea non mi avrebbero fatto entrare».

islam10E Magdi Allam afferma che «è inconcepibile questa partecipazione degli  imam alle nostre messe, recitando versetti del Corano all’interno delle Chiese». La verità forse è che come diceva Jonathan Swift «abbiamo religioni per farci odiare, ma non per farci amare l’un l’altro». Eppure, non possiamo nascondere che questa domenica abbia finito per regalarci anche una speranza, negli abbracci commoventi a Ventimiglia fra musulmani e cristiani, nelle promesse di Abdullah Cozzolino recitate dentro la Cappella del Tesoro di San Gennaro a Napoli, quando ha garantito che «adesso il nostro dialogo proseguirà in modo più intenso», in tutti i segni di pace scambiati nelle tante chiese, fino alle parole di Sami Salem che hanno chiuso la Messa a Trastevere: «Che la pace sia su di voi, come diciamo noi. Perché il nostro saluto è un patto di pace».

islam4 Poi è sceso dal pulpito e i fedeli sono andati ad abbracciarlo. Perché ieri le nostre religioni avevano bisogno di credere questo, che possiamo vivere in pace. È difficile vivere una religione. Forse aveva ragione Abramo Lincoln: «Ho imparato che quando faccio il bene, mi sento bene. E quando faccio il male, mi sento male. È questa la mia religione».

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