l’amore per la politica: riaffermare la corresponsabilità, la centralità delle persone e del legame sociale

Ciotti

“le mafie sono forti in una società diseguale, dove i privilegi hanno preso il posto dei diritti e le persone più fragili vengono lasciate ai margini, quando non colpevolizzate e penalizzate

 

“una cosa è certa: non si possono contrastare le mafie se, contestualmente, non si rafforza lo Stato sociale; se non vengono promosse forti politiche sul lavoro; se non vengono costruite opportunità per le persone più deboli, per le famiglie più bisognose, se non si dedica un’attenzione autentica ai giovani.”

Costruire insieme: per interrogarci e interrogare, nel rispetto reciproco, nell’attenzione alle parole. Le parole sono importanti. Possono avvicinare o allontanare, incoraggiare o ferire, accogliere o emarginare. È importante allora parlare, anche denunciare, ma con rigore, competenza, spirito costruttivo.

Non per colpire le persone ma per rafforzare la ricerca di verità. Guai ad alimentare il disorientamento, la rassegnazione. Nel nostro cammino contano anche lo stile e il metodo.

La credibilità e l’autorevolezza di un progetto non vengono misurate dalla risonanza pubblica o dall’attenzione mediatica, ma dalla capacità di lasciare un segno duraturo nel tempo.

C’è un’Italia che ha compreso come il fenomeno mafioso sia un problema nazionale, non solo: internazionale. Da affrontare certo con l’intervento dei magistrati e delle forze dell’ordine. Ma che pretende, per essere risolto, una mobilitazione collettiva, un investimento educativo e culturale.

Ce lo ricordava sempre anche il caro Nino Caponnetto quando diceva: «La mafia teme la scuola più della giustizia. L’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa». Educazione, cultura, informazione. Sono da sempre i pilastri del nostro impegno contro l’individualismo insofferente delle regole, l’indifferenza al bene comune, la crescita della corruzione, degli abusi, dell’illegalità.

Le mafie sono forti in una società diseguale, dove i privilegi hanno preso il posto dei diritti e le persone più fragili vengono lasciate ai margini, quando non colpevolizzate e penalizzate. Essere contro le mafie significa soprattutto riaffermare la corresponsabilità, la centralità delle persone e del legame sociale.

Significa esserci per riaffermare che l’io è per la vita, non la vita per l’io.  Sono i valori della Dichiarazione universale dei diritti umani, della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, della Carta dei diritti del fanciullo. Sono i valori della nostra Costituzione.

Noi questo “dovere” lo abbiamo preso sul serio. […] la nostra Costituzione va vissuta e fatta vivere. Quei doveri e quei diritti non possono restare sulla carta, devono diventare “carne”, vita concreta delle persone.

«Una democrazia si fonda su buone leggi e buoni costumi» diceva un grande filosofo della politica, Norberto Bobbio. Noi abbiamo bisogno di buone leggi, quindi abbiamo bisogno di una buona politica. Una politica vicina ai bisogni fondamentali delle persone, capace di dare dignità e opportunità a tutti, di non lasciare indietro nessuno. Una politica consapevole che solo includendo – riconoscendo e valorizzando le diversità – si costruisce un mondo più sicuro, più giusto, più umano. Una politica che sappia incontrare la partecipazione dei cittadini e farsene arricchire. Nella cittadinanza ci deve essere sempre più politica e nella politica sempre più cittadinanza.

Una cosa è certa: non si possono contrastare le mafie se, contestualmente, non si rafforza lo Stato sociale; se non vengono promosse forti politiche sul lavoro; se non vengono costruite opportunità per le persone più deboli, per le famiglie più bisognose, se non si dedica un’attenzione autentica ai giovani.

Non si può fare lotta alle mafie senza veri interventi economici mirati alla diffusione e alla tutela dei diritti, senza un’efficace tutela dell’ambiente contro chi lo inquina e lo saccheggia.

Vorrei fosse chiaro che muoviamo questi rilievi non “contro” la politica ma per amore della politica. Perché intendiamo spenderci per una politica migliore insieme a chi la vive nel senso più alto del termine: come servizio agli altri, come contributo al bene comune, come doppia istanza etica che lega l’impegno verso la propria coscienza a quello verso la collettività, nella coerenza tra comportamenti pubblici e comportamenti privati.

da “www.liberainformazione.org”

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drammatica migrazione dall’Italia verso la Scandinavia … e se tra non molto si realizzasse davvero?

Rifugiati climatici, non è soltanto un romanzo

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di Telmo Pievani

Nel suo ultimo bel libro Bruno Arpaia immagina una drammatica migrazione dall’Italia verso la Scandinavia, dovuta all’impazzimento del clima nell’ultimo quarto di questo secolo. Lo scenario e le sue fonti hanno generato un interessante dibattito con gli esperti sull’entità e sui tempi di manifestazione degli effetti del riscaldamento climatico.

Quando un problema è grande, grande come il nostro pianeta intero, si fa fatica ad affrontarlo, a prenderlo sul serio, finché all’improvviso non si manifesta. Ma quando ciò accade, la sua manifestazione è così grande, appunto, che già non c’è più niente da fare, bisogna soltanto scappare. L’ultimo appassionante romanzo di Bruno Arpaia[1] è dedicato all’impossibilità della lungimiranza, e alla speranza nonostante tutto. E’ ambientato in un futuro non troppo lontano, e dunque sufficientemente realistico, negli anni che saranno dei nostri nipoti, cioè l’ultimo quarto del XXI secolo in cui ci stiamo inoltrando. Per la precisione, è un futuro non abbastanza prossimo per fare previsioni scientificamente precise, e non abbastanza remoto per darsi alla fantascienza. Se ne sta in una dimensione temporale di mezzo, nella dimensione della possibilità.

Il problema troppo grande di cui sopra è il riscaldamento climatico, e nella finzione narrativa il peggio è già arrivato. L’Europa mediterranea è diventata invivibile e una colonna di migliaia di disperati si mette in cammino verso nord, guidata da un manipolo di guardiane armate, al soldo di una società privata che promette il miraggio di salvezze scandinave. Il mare ha sommerso la pianura padana e le città abbandonate bruciano in mano ai predoni. Dalla Lombardia trasformata in deserto, senza più laghi né fiumi, il serpentone dei nuovi migranti attraversa a fatica il confine svizzero (non prima di aver pagato salato pedaggio), scorge le residue comunità di sopravvissuti in cime alle montagne protette da milizie armate fino ai denti, si infila nello stretto corridoio umanitario che porta al deserto della Germania centrale. Tra stenti e assalti di bande assassine, l’obiettivo agognato è arrivare sulle rive del Baltico dove si torna a scorgere qualche tenue indizio di vita vegetale e animale, e fa persino capolino la pioggia…

Il protagonista è Livio Delmastro, un neuroscienziato italiano di vaglia emigrato a Stanford nel 2038, ecologista ancorché disilluso, costretto con la famiglia a rientrare a Napoli nel pieno della carriera a causa delle discriminazioni crescenti subite in suolo statunitense nel 2056. Livio studia le modalità con cui il cervello ricostruisce e talvolta ricrea a modo suo la realtà, quel “qualcosa, là fuori” (il titolo del romanzo è un omaggio al compianto storico della scienza Enrico Bellone e al suo omonimo libro[2]) che viene necessariamente filtrato e interpretato dai nostri neuroni, al punto da farci sospettare che il tempo che scorre, lo spazio tridimensionale, l’io personale, i ricordi e il mondo con i suoi colori e sapori siano soltanto illusioni narrative frutto dell’evoluzione del cervello.

E invece quel qualcosa là fuori si rivelerà a Livio in tutta la sua rocciosa e cocciuta esistenza reale. Nell’alternanza dei flashback narrativi che interrompono lo scorrere del presente post-apocalittico alla Cormac McCarthy, Arpaia racconta di come si era arrivati fino a quel punto di non ritorno, attraverso le vicende di Livio e di sua moglie Leila, figlia di rifugiati siriani, anch’ella scienziata a Stanford, fisica di grandi speranze. Dal 2015 in poi altre conferenze sul clima si erano succedute, tra speranze malriposte e fallimenti. Tutti a parole si professavano ambientalisti, e nessuno lo era per davvero. L’acqua (quella reale) diventava un bene sempre più prezioso e combattuto. Nessun politico aveva avuto il coraggio di prendere decisioni impopolari e costose, per timore di perdere le elezioni successive, in attesa che fossero sempre gli altri a fare la prima mossa. In assenza di veri statisti, le nazioni erano andate in ordine sparso difendendo i propri egoistici interessi energetici e geopolitici. Nel frattempo l’acqua (quella metaforica) in cui era immersa la rana dell’umanità era andata scaldandosi lentamente, così lentamente che alla fine la rana si era ritrovata bollita senza accorgersene.

Fu così che le peggiori previsioni si avverarono con rapidità crescente. I paesi poveri furono i più colpiti, riversando maree di profughi ambientali su tutti gli altri. Tra eventi meteorologici sempre più estremi e conflitti sociali deflagrati, gli stati delle fasce equatoriali e tropicali saltarono uno dopo l’altro. L’impatto sociale sull’Europa meridionale, già economicamente piegata dal clima inclemente, fu sempre più incontrollabile, finché l’Unione Europea non andò in frantumi. I paesi nordici crearono l’Unione europea del Nord, abbandonando quelli del sud al loro destino di anarchia, guerra civile, carestie e desertificazione. Improbabili esperimenti di ingegneria climatica peggiorarono ulteriormente la situazione. Era troppo tardi per intervenire. I paesi rimasti in piedi, i più vicini ai poli, si militarizzarono sempre di più e le paure millenariste rinfocolarono ogni sorta di fondamentalismo religioso xenofobo, al punto che venne eletto come Presidente degli Stati Uniti (nel frattempo anch’essi quasi del tutto evacuati) un predicatore integralista. Un incubo perfetto (anche se sul profilo di chi potrebbe diventare Presidente degli Stati Uniti già adesso non ci stupiamo più di nulla). Per sapere il resto, tocca leggere il libro.

Fatto insolito e interessante, il romanzo è stato recensito sul più autorevole sito italiano dedicato ai cambiamenti climatici (www.climalteranti.it)[3]. Pur apprezzandone le doti letterarie, gli esperti hanno criticato Arpaia perché nella finzione narrativa e poi nell’Avvertenza finale l’autore sposa la tesi secondo cui il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU (IPCC) e l’agenzia europea per l’ambiente starebbero sottovalutando la gravità della situazione, non considerando le interferenze moltiplicative tra i fattori di rischio e proponendo misure di contenimento insufficienti (e per giunta comunque disattese dai più). Minimizzando i reali rischi che stiamo correndo, le agenzie internazionali starebbero fornendo un alibi per l’inazione della politica. L’ipotesi alquanto preoccupante, ventilata da alcuni scienziati più radicali in questi anni e adottata dal romanziere, è che gli effetti già presenti del riscaldamento climatico (innalzamento dei mari, scioglimento del permafrost con liberazione di gas serra, acidificazione degli oceani, versamento massiccio di acqua dolce dalle calotte polari, riduzione dell’albedo, e così via) inizino a un certo punto a interagire fra di loro moltiplicandosi a vicenda e accelerando il processo in pochi decenni. Si tratta di una dinamica di effetti di retroazione combinati che può scatenare un cambiamento critico, rapido e complessivo, impossibile da controllare una volta superata una certa soglia poiché si auto-alimenta come una valanga. Questo scenario di “criticità autorganizzata” è previsto in astratto dai modelli dei sistemi complessi e non lineari, ma non è detto che si verifichi in questo caso perché nei sistemi altamente complessi esistono altrettanto potenti inerzie e meccanismi di auto-regolazione e di omeostasi. Soprattutto, non è dato sapere quando e con che ritmi possa mai innescarsi.

Inoltre, fanno notare su Climalteranti, le previsioni più pessimistiche di un innalzamento della temperatura già a fine secolo intorno ai sei gradi, con i mari sollevati di dodici metri e gli oceani irreversibilmente acidificati, non sono suffragate da dati scientifici fondati e non compaiono nemmeno negli scenari peggiori contemplati dalla letteratura scientifica accreditata. Secondo i calcoli, aumenti di quelle entità sono possibili, se non riduciamo le emissioni climalteranti, in due o tre secoli. L’ambiguità nasce forse dal fatto che l’accusa di sottostima del rischio compare non soltanto nel romanzo, dove ovviamente è protetta dalla licenza poetica dell’autore e dalla finzione narrativa, ma anche nell’Avvertenza finale dove si citano come fonti alcuni scienziati. Ma se Arpaia avesse ambientato la sua storia tra due secoli, anziché a fine XXI secolo, avrebbe centrato anche una parte dei modelli scientifici più accreditati (quelli più pessimistici), il che non è molto consolante. Ciò che conta infatti è ricordare che anche un aumento del livello dei mari di un metro a fine secolo sarà un grande problema (soprattutto nell’area pacifica, ma non solo), e questo è previsto dai modelli correnti.

Al di là del grado specifico di attendibilità degli scenari immaginati, a riprova dell’utilità dell’esercizio di consapevolezza culturale proposto da Arpaia è giunta la notizia che il Dipartimento della Difesa statunitense considera ora ufficialmente il riscaldamento climatico, per il periodo 2015-2018, un “acceleratore di instabilità” e un “moltiplicatore di minacce” (perché produce disastri, crea instabilità e aggrava i conflitti), tanto da richiedere misure concrete di contenimento in diverse aree del mondo (soprattutto in Africa, Asia e Artico), ovviamente per tutelare gli interessi statunitensi[4]. La necessità di contrastare e di adattarsi ai cambiamenti climatici in corso è data ormai per scontata, anche se la parte più conservatrice del mondo repubblicano continua a negarne persino l’esistenza. Nel 2015 le analisi della rivista PNAS hanno confermato che il riscaldamento climatico, rendendo inusitatamente lunga e grave una siccità regionale, ha avuto il ruolo di concausa nell’inizio della guerra civile siriana[5].

Due dettagli della pregevole narrazione di Arpaia valgono da soli la lettura. Nella colonna dei migranti ambientali partita dall’Italia, con la morte per dissenteria e disidratazione sempre dietro l’angolo, si fa quanto possibile per mantenere nonostante tutto un barlume di umanità. Livio finché gli reggono le gambe tiene lezioni serali ai bambini, sudati, impolverati, stanchi ma pur sempre attenti. In molti si rifiutano di lasciar morire sul ciglio della strada i malati e i feriti. Livio si affeziona a una sua ex allieva, alla figlia di lei e ad altri compagni di viaggio. C’è qualcosa là fuori, ed è un grumo di irriducibile umanità.

Ma il punto più forte del libro è la descrizione di quanto accade sulla costa meridionale del Baltico, diventata protettorato scandinavo. Chiunque arrivi da sud è automaticamente clandestino, uno degli ultimi degli ultimi. Le ronde pattugliano le spiagge, le motovedette il mare. Quando i migranti che premono sono troppi, sparano e bombardano. In caso di cattura, per i profughi ci sono la prigione, le torture, lo sfruttamento, i lavori forzati nei campi, i respingimenti verso il nulla e la morte. A meno che non si abbia qualche soldo e un parente dall’altra parte: in tal caso si può tentare di corrompere uno scafista e provare la perigliosa traversata notturna in gommone verso la Svezia. E’ esattamente ciò che accade oggi sulla costa meridionale del Mediterraneo, dove per molti la prima “Svezia” in cui approdare si chiama Italia. In questa storia invece i migranti verso nord siamo noi, e gli svedesi proprio non ci vogliono, così il rovesciamento della prospettiva genera un catartico sentimento di immedesimazione. Al di là di quel mare livido e senza più vita, nonostante tutto, c’è un qualcosa là fuori da raccontarsi, da immaginare, da sperare.

NOTE

[1] Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda, Milano, 2016. Dello stesso autore ricordiamo anche: L’energia del vuoto (Guanda, Milano, 2011), giallo intessuto tra le vicende di un gruppo di ricercatori del CERN di Ginevra.

[2] Enrico Bellone, Qualcosa, là fuori. Come il cervello crea la realtà, Codice Edizioni, Torino, 2011.

[3] http://www.climalteranti.it/tag/arpaia/

[4] Andrew Holland, “Prevenire le guerre del clima”, Le Scienze, n. 576, agosto 2016, pp. 75-79.

[5] Kelley, C.P. et al., 2015, “Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought”, PNAS, 112(11): 3241–3246.

(16 settembre 2016)

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‘fede’ e ‘dubbio’ fanno sempre a pugni?

Quel patto segreto tra fede e dubbio che ci rende umani

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 17 settembre 2016

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Comunemente si ritiene che fede e dubbio siano opposti, nel senso che chi ha fede non avrebbe dubbi e chi ha dubbi non avrebbe fede. Ma non è per nulla così. L’opposto del dubbio non è la fede, è il sapere: chi infatti sa con certezza come stanno le cose non ha dubbi, e neppure, ovviamente, ha bisogno di avere fede.

Così per esempio affermava Carl Gustav Jung a proposito dell’oggetto per eccellenza su cui si ha o no fede: «Io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste» (da “Jung parla”, Adelphi, 1995). Chi invece non è giunto a un tale sapere dubita su come stiano effettivamente le cose, non solo su Dio ma anche sulle altre questioni decisive: avrà un senso questa vita, e se sì quale? La natura persegue un effettivo incremento della sua organizzazione? Quando diciamo “anima” nominiamo un fenomeno reale o solo un arcaico concetto metafisico? Il bene, la giustizia, la bellezza, esistono come qualcosa di oggettivo o sono solo provvisorie convenzioni? E dopo la morte, il viaggio continua o finisce per sempre? Dato che i più su tali questioni non hanno un sapere certo, generalmente si risponde “sì” all’insegna della fede oppure “no” all’insegna dello scetticismo, in entrambi i casi privi di sapere, al massimo con qualche indizio interpretato in un modo o nell’altro a seconda del previo orientamento assunto. Così, sia coloro che hanno fede in Dio sia coloro che non ce l’hanno, fondano il loro pensiero sul dubbio, cioè sull’impossibilità di conseguire un sapere incontrovertibile sul senso ultimo del mondo e della nostra esistenza. La fede, in altri termini, positiva o negativa che sia, per esistere ha bisogno del dubbio. La tradizionale dottrina cattolica però non la pensa così. Per essa la fede non si fonda sul dubbio ma sul sapere che scaturisce da una precisa rivelazione divina mediante cui Dio ha comunicato se stesso e una serie di ulteriori verità dette “articoli di fede”. Tale rivelazione costituisce il depositum fidei, cioè il patrimonio dottrinale custodito e trasmesso dalla Chiesa. Esso conferisce un sapere denominato dottrina che illumina quanti lo ricevono su origine, identità, destino e morale da seguire. Non solo; a partire da tale dottrina si configura anche una precisa visione del mondo: l’impresa speculativa delle Summae theologiae medievali, di cui la più nota è quella di Tommaso d’Aquino, vive di questa ambizione di possedere un sapere certo su fisica, metafisica ed etica, di essere quindi generatrice di filosofia. Tale impostazione regnò per tutto il medioevo ma venne combattuta dalla filosofia moderna e dalla rivoluzione scientifica. Il fine non era negare la fede in Dio bensì il sapere filosofico e scientifico che si riteneva discendesse da essa, per collocare la fede su un fondamento diverso, senza più la presunzione che fosse oggettivo: Kant per esempio scrive di aver dovuto «sospendere il sapere per far posto alla fede» ( Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, 1787), mentre più di un secolo e mezzo prima Galileo aveva dichiarato che «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo » (Lettera a Cristina di Lorena del 1615). Non furono per nulla atei i più grandi protagonisti della modernità, tra cui filosofi come Bruno, Cartesio, Spinoza, Lessing, Voltaire, Rousseau, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, o scienziati come Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Il loro obiettivo era piuttosto di ricollocare la religiosità sul suo autentico fondamento: non più un presunto sapere oggettivo, ma la soggettiva esperienza spirituale. A tale modello di fede non interessa il sapere, e quindi il potere che ne discende, ma piuttosto il sentire, e quindi l’esperienza personale. Non è più l’obbedienza a una dottrina dogmatica indiscutibile a rappresentare la sorgente della fede, ma è il sentimento di simpatia verso la vita e i viventi. In questa prospettiva, ben prima di creden- za, fede significa fiducia. Quando diciamo che una persona è “degna di fede”, cosa vogliamo dire? Quando alla fine delle nostre lettere scriviamo “in fede”, cosa vogliamo dire? Quando un uomo mette l’anello nuziale alla sua donna e quando una donna fa lo stesso con il suo uomo, cosa vogliono dirsi? C’è una dimensione di fiducia che è costitutiva delle relazioni umane e che sola spiega quei veri e propri patti d’onore che sono
l’amicizia e l’amore. Se non ci fosse, sorgerebbero solo rapporti interessati e calcolati: nulla di male, anzi tutto normale, ma anche tutto ordinario e prevedibile. Solo se c’è fiducia-fede nell’altra persona può sorgere una relazione all’insegna della gratuità, creatività, straordinarietà, e può innescarsi quella condizione che chiamiamo umanità. E la fede in Dio? Quando si ha fiducia-affidamento nella vita nel suo insieme, percepita come dotata di senso e di scopo, si compie il senso della fede in Dio (a prescindere da come poi le singole tradizioni religiose concepiscano il divino). Nessuno veramente sa cosa nomina quando dice Dio, ma credere nell’esistenza di una realtà più originaria, da cui il mondo proviene e verso cui va, significa sentire che la vita ha una direzione, un senso di marcia, un traguardo. Credere in Dio significa quindi dire sì alla vita e alla sua ragionevolezza: significa credere che la vita proviene dal bene e procede verso il bene, e che per questo agire bene è la modalità migliore di vivere. Ma questa convinzione è razionalmente fondabile? No. Basta considerare la vita in tutti i suoi aspetti per scorgere di frequente l’ombra della negazione, con la conseguenza che la mente è inevitabilmente consegnata al dubbio. In tutte le lingue di origine latina, come anche in greco e in tedesco, il termine dubbio ha come radice “due”. Dubbio quindi è essere al bivio, altro termine che rimanda al due: è vedere due sentieri senza sapere quale scegliere, consapevoli però che non ci si può fermare né tornare indietro, ma che si è posti di fronte al dilemma della scelta. Ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’un l’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (dal discorso introduttivo alla Cattedra dei non credenti). Ragionando si trovano elementi a favore della tesi e dell’antitesi, e chi non è ideologicamente determinato è inevitabilmente consegnato alla logica del due che genera il dubbio. Il dubbio però paralizza, mentre nella vita occorre procedere e agire responsabilmente. Da qui la necessità di superare il dubbio. Il superamento però non può avvenire in base alla ragione che è all’origine del dubbio, ma in base a qualcosa di più radicale e di più vitale della ragione, cioè il sentimento che genera la fiducia che si esplicita come coraggio di esistere e di scegliere il bene e la giustizia. Ma perché alcuni avvertano in sé questo sentimento di fiducia verso la vita e altri no, rimane per me un mistero inesplicabile.

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in preparazione al 50° anniversario della pubblicazione dell’enciclica Humanae Vitae

È tempo di rivedere l’Humanae Vitae. Un appello dal mondo teologico e accademico

è tempo di rivedere l’Humanae Vitae

un appello dal mondo teologico e accademico

 
da: Adista Notizie n° 31 del 17/09/2016

«Né la Bibbia né le leggi biologiche che regolano la riproduzione umana offrono alcuna prova che i rapporti sessuali debbano essere aperti in tutte le occasioni alla procreazione, o che usare contraccettivi “artificiali” sia sempre immorale o “intrinsecamente sbagliato”. Al contrario, prove abbondanti dalla Bibbia stessa, dalla biologia evolutiva e dalla sociologia indicano che le persone si impegnano in un rapporto sessuale per una varietà di motivi e scopi legittimi, di cui la procreazione è solo uno, e che né la capacità biologica, né l’intenzione di procreare sono intrinseche a ogni atto sessuale. Di conseguenza, l’uso di contraccettivi per la pianificazione familiare o a uso profilattico può essere una scelta di responsabilità»

È questo, in sintesi, il nucleo del documento redatto da un nutrito gruppo di teologi e studiosi su sollecitazione del John Wijngaards Catholic Research Centre (fondato nel 1983 dal teologo inglese John Wijngaards al fine di promuovere la «formazione a una fede adulta») che, in preparazione al 50° anniversario della pubblicazione dell’enciclica Humanae Vitae, ha voluto riunire una task force interdisciplinare di esperti allo scopo di rivedere la dottrina in materia di contraccezione e di «incoraggiare la gerarchia cattolica a modificare la sua posizione sui cosiddetti contraccettivi “artificiali”». Diffuso in forma ridotta nel mese di agosto e aperto alla sottoscrizione (già un centinaio le firme aggiunte in calce), il documento sarà presentato ufficialmente a New York, presso la sede delle Nazioni Unite, il 20 settembre prossimo.

La legge naturale

«Il divieto di usare contraccettivi “artificiali” nell’ottica di una pianificazione familiare si basa sugli argomenti contenuti nella Humanae Vitae di papa Paolo VI», ricorda il documento in apertura. «Argomentazioni ripetute spesso, e mai sostanzialmente modificate, in successivi pronunciamenti magisteriali degli ultimi 50 anni. Questa dichiarazione – annunciano i firmatari – valuta la loro correttezza».

Riguardo agli argomenti fondati sulla legge naturale – la quale, stabilita da Dio, vuole che ogni atto sessuale abbia un “significato” procreativo e che quindi sia «intrinsecamente sbagliata» qualsiasi azione volutamente contraccettiva – i teologi non hanno dubbi: «Non sono supportati da prove rilevanti». «L’argomentazione contenuta nell’Humanae Vitae è che, poiché le leggi biologiche del concepimento rivelano che il rapporto sessuale ha una “capacità di trasmettere la vita”, ogni rapporto sessuale ha un significato e una finalità procreativa e un’intrinseca relazione con la procreazione. Ma ciò travisa le prove biologiche. La relazione causale tra l’inseminazione e la fecondazione, l’impianto, e, infine, la procreazione è statistica, ma non necessaria. La stragrande maggioranza dei rapporti sessuali non ha la capacità biologica, né l’intenzione, di procreare. Non è quindi corretto affermare che ogni singolo atto del rapporto sessuale debba sempre “significare” o intendere la procreazione, o che le persone impegnate in un rapporto sessuale debbano essere sempre aperte alla procreazione per agire in modo morale».

Inoltre, per i firmatari, affermare «che gli esseri umani non possono interferire con le leggi biologiche che regolano la riproduzione umana perché sono state stabilite da Dio è in contraddizione con l’evidenza empirica di come gli esseri umani interagiscono con l’ordine creato»: «Gli esseri umani hanno una capacità unica di modificare intenzionalmente il calendario delle probabilità inerenti le leggi biologiche, fisiche e chimiche della natura. Questa è una realtà della vita quotidiana: per esempio, qualsiasi tipo di intervento medico, da qualcosa di così insignificante come prendere un antidolorifico a qualcosa di importante come un intervento di chirurgia cardiovascolare, influenza le probabilità di guarigione, di sopravvivenza, di morte, ecc. Inoltre, anche la decisione di non intervenire nei processi naturali influenza quelle probabilità, così come la scelta di intervenire. La questione morale – è l’opinione dei firmatari – non riguarda il modificare o meno il calendario delle probabilità all’interno dei processi naturali, ma piuttosto se, quando e come farlo conduce o meno alla prosperità umana e al fiorire di tutta la creazione».

L’infallibilità del magistero

Un’altra argomentazione che il documento smonta è quella fondata sull’immodificabilità della dottrina in materia. «Secondo la teologia cattolica, affinché una dottrina, anche morale, possa essere definita infallibile e quindi irriformabile, è necessario che sia rivelata o indispensabile per la difesa o la spiegazione della verità rivelata. Se non lo è, allora non può essere definita infallibile. L’insegnamento che l’utilizzo della contraccezione “artificiale” è un male intrinseco sempre e comunque non è rivelato, né è stato mai dimostrato che sia essenziale per la verità della rivelazione cristiana. Di conseguenza, non può essere definito infallibile». Quindi, concludono i teologi, «l’appello a una presunta costante tradizione di insegnamento magisteriale sul tema non può da sola risolvere la questione e chiudere la discussione perché i requisiti per la definizione di infallibilità non sono soddisfatti».

Considerazioni morali

«La moralità di ogni azione umana è determinata dalle motivazioni e dalle intenzioni di chi la pone in essere, dalle circostanze e dalle conseguenze di tale azione», prosegue il documento. «L’utilizzo di contraccettivi moderni ha molti vantaggi comprovati: tra le altre cose, rende molto più facile per gli uomini e le donne la pianificazione di una famiglia e riduce notevolmente la mortalità materna e infantile nonché il ricorso all’aborto. L’evidenza suggerisce anche che la pianificazione familiare comporta miglioramenti sostanziali in materia di istruzione e di contributo al bene comune delle donne». «A causa della eccezionale ampiezza dei suoi potenziali benefici – ricordano poi i firmatari – la promozione della pianificazione familiare attraverso contraccettivi moderni è stata considerata come un elemento essenziale per tutti gli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio» stabiliti dall’Onu. «La decisione di utilizzare contraccettivi moderni – concludono – può quindi essere presa per una serie di motivi moralmente degni e può quindi essere etica».

Quanto poi all’uso di contraccettivi fisici a scopo profilattico – vale a dire al fine di ridurre la probabilità di diffusione del virus HIV o di altre malattie sessualmente trasmissibili – questa, secondo i firmatari, «può essere non solo una scelta responsabile, ma anche un imperativo morale».

E quindi?

Insomma, concludono i teologi, «non ci sono motivi per sostenere l’attuale insegnamento della Chiesa cattolica in materia». Per questo il documento, data l’entità dell’epidemia di HIV/AIDS e considerato che il 25% delle scuole e dei centri sanitari a livello mondiale è costituito da strutture cattoliche, raccomanda alle competenti autorità di invertire la rotta emanando un documento magisteriale in cui si affermi che «l’uso di contraccettivi moderni non abortivi per uso profilattico può essere moralmente legittimo e persino moralmente obbligatorio». Di più: «La dichiarazione – prosegue il documento – potrebbe includere una esplicita disposizione che consenta la distribuzione di tali contraccettivi moderni per fini profilattici da parte delle strutture sanitarie cattoliche».

Circa l’uso dei sistemi contraccettivi a scopo di pianificazione familiare, i firmatari raccomandano alla Chiesa di porsi in ascolto dei teologi cristiani esperti in materia. «Si consiglia inoltre – proseguono – di richiedere il loro parere su altri aspetti di etica sessuale cattolica, che saranno probabilmente interessati da una revisione dell’attuale insegnamento sull’uso di contraccettivi per la pianificazione familiare, vale a dire la valutazione negativa della masturbazione, dei rapporti omosessuali e della fecondazione in vitro».

«Qualora le prove e gli argomenti addotti nella presente relazione siano accettati, il documento magisteriale ufficiale raccomandato dovrebbe revocare il divieto assoluto di uso di contraccettivi “artificiali” e consentire l’uso di contraccettivi non abortivi moderni per scopi sia di pianificazione familiare che profilattici. In seguito, non appena possibile, le Conferenze episcopali nazionali dovrebbero raccomandare che le strutture di assistenza sanitaria a conduzione cattolica rendano disponibili tali contraccettivi». «L’accettazione dell’Humanae Vitae come prova di ortodossia – proseguono – deve essere cancellata da tutte le procedure di selezione, compresa quella dei vescovi e del personale docente delle istituzioni accademiche cattoliche. Ove possibile, i danni alla carriera di studiosi cattolici che sono stati censurati per aver parlato in difesa dell’uso etico dei contraccettivi moderni dovrebbero essere annullati».

Autorità e verità

Non è la prima volta che il John Wijngaards si fa promotore di iniziative di questo tipo. Già nel 2013, in vista del Sinodo dei vescovi sulla famiglia indetto da papa Francesco per l’anno successivo, il Centro di ricerca teologico aveva diffuso un manifesto in cui evidenziava come l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la sessualità sia basato sulle «nozioni astratte e ormai superate della legge naturale» o su concezioni non fondate scientificamente, risultando quindi incomprensibile alla maggioranza dei fedeli (v. Adista Documenti n. 45/13).

Anche stavolta, come avvenuto tre anni fa, il documento ha raccolto numerose adesioni di personalità del mondo teologico e accademico: da Maria Pilar Aquino, docente della San Diego University e cofondatrice dell’Academy of Catholic Hispanic Theologians, a Gregory Baum, della McGill University di Montreal; da Tina Beattie, docente all’University of Roehampton di Londra, a John F. Haught, del Woodstock Theological Center della Georgetown University; dal teologo di origine vietnamita Peter Phan al vescovo emerito di Sidney Geoffrey Robinson, per finire con Charles E. Curran, già docente di Teologia Morale alla Catholic University of America.

«Il documento – spiega quest’ultimo nella sua dichiarazione di sostegno – mostra in modo chiaro, conciso e convincente perché la contraccezione artificiale allo scopo di pianificazione familiare può essere una scelta moralmente buona e finanche obbligatoria per le coppie. Si riconosce il ruolo del Magistero gerarchico nella Chiesa cattolica, ma con precisione si sottolinea che l’insegnamento che condanna la contraccezione artificiale non è un insegnamento infallibile. La dichiarazione – prosegue Curran – si basa implicitamente sull’approccio di Tommaso d’Aquino alla comprensione del rapporto tra autorità e verità. Aquino sollevò la questione: è qualcosa di buono perché è comandato o è comandato perché è buono? Per Tommaso d’Aquino, qualcosa è comandato perché è buono. L’autorità – conclude – deve conformarsi a ciò che è buono».

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il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

NON POTETE SERVIRE DIO E LA RICCHEZZA 

commento al vangelo della venticinquesima domenice del tempo ordinario (18 settembre 2016) di p. Alberto Maggi: Maggi

Lc 16,1-13

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:  «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Il denaro per Gesù è uno strumento che serve per star bene e per far star bene, quindi è uno strumento per gli altri, ma è uno strumento. Quando cessa di diventare uno strumento diventa un idolo che sacrifica le persone. Leggiamo questa sconcertante, imprevedibile parabola che ha soltanto l’evangelista Luca nel capitolo 16, nei primi tredici versetti. Perché è sconcertante? Perché Gesù propone come esempio di comportamento una persona disonesta. E questo veramente è alquanto strano.
Scrive l’evangelista Diceva anche ai discepoli, quindi è un insegnamento di Gesù per la sua comunità. “Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi”. Beh, da che mondo è mondo si sa. C’è il proverbio che dice: “Chi ministra minestra”. Da sempre molti degli amministratori, dei fattori e dei mediatori hanno fatto i propri interessi a scapito dell’interesse del padrone e a scapito dei lavoratori. Ebbene quest’uomo se ne accorge.
Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. Quindi il padrone gli chiede i conti. “Fammi vedere un po’ i conti”. Ed ecco l’amministratore che cosa fa?
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza”; (quindi l’impossibilità fisica) “mendicare, mi vergogno.” (l’impossibiltà morale), ed ecco l’astuzia e la furbizia che Gesù loda.   “So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione,…” quindi questo amministratore disonesto è sicuro di essere cacciato via, “ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Cioè si fa amici i debitori del padrone.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. E’ una cifra enorme, sono l’equivalente di mille denari. Un denaro era la paga quotidiana, indicativamente per quell’epoca il frutto di 146 piante di ulivo.
Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”, cioè gli dimezza il debito. Non è chiaro, – gli studiosi non sono arrivati ancora ad un parere unanime – quello che l’amministratore fa. Cosa fa? Rinuncia alla sua commissione, che è probabile, perché dimezza il debito, o è una semplice frode? Questo non è chiaro. Comunque decurta, dimezza il debito.
Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. E qui è un importo ancora più grande. Cento misure di grano a quel tempo facevano 2.500 denari, ricordo che un denaro era la paga quotidiana di un operaio, indicativamente sono come 275 quintali di grano.  Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Qui abbassa un po’ di meno.
Ebbene, stranamente il risultato è che Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. Ed ecco allora la morale di Gesù.
I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Cioè la gente che agisce per interesse, per la convenienza ne inventa tante pur di guadagnare sempre di più. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta.
I rabbini al tempo di Gesù distinguevano tra la ricchezza onesta e la ricchezza disonesta. Per Gesù la ricchezza è sempre disonesta. Se sei ricco è perché sei disonesto. Se non sei disonesto non sei generoso, perché se fossi generoso non saresti ricco.
Perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Cioè impiegate il denaro a favore degli altri di modo che quando sarà il momento del bisogno questi vi accolgano.
E Gesù continua. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Torna importante il tema della disonestà. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, … e Gesù insiste, la ricchezza è sempre disonesta. Se non sei disonesto tu che sei ricco, è stato disonesto tuo padre, se non è stato disonesto tuo padre, sarà stato tuo nonno o il tuo bisnonno, ma alla base di ogni ricchezza c’è sempre la disonesta, almeno questo per Gesù. Chi vi affiderà quella vera? E poi la sentenza finale: Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza»
Il termine ricchezza è l’aramaico “mamon” che significa “la convenienza”, quindi Gesù è chiaro: o il proprio interesse e la propria convenienza, la ricchezza, o Dio. Non si possono mettere insieme le due cose.
Ebbene l’evangelista scrive che Gesù appena fatta questa dichiarazione sente sghignazzare alle sue spalle. Chi sarà? Saranno gli avidi pubblicani? Saranno i peccatori? Sono proprio i pii farisei. I farisei, tanto pii e devoti, tra il canto di un salmo e un regolamento di conti non mettevano alcuna differenza.

 

 

 

 

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Dio è innocente di fronte alla grande sofferenza del mondo? qualche spiegazione comunque ce la dovrà dare – intanto è utile affrontare in altro modo il problema

oltre il mito di un mondo senza male

 

la realtà della sofferenza e la bontà di Dio

adista

Claudia Fanti   

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

È una domanda – forse “la” domanda – a cui non è dato sfuggire: come conciliare l’esistenza di un Dio d’amore con la presenza del male e della sofferenza nel mondo? Una domanda che, per esempio, ha indotto il grande teologo Karl Rahner ad affermare che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale» o che ha spinto un altro celebre teologo, Romano Guardini, a confidare, sul letto di morte, che avrebbe avuto anche lui qualche domanda da porre al Giudice divino: «domande sul dolore dei bambini innocenti».

Ed è proprio a questo tema capitale – “La sofferenza e Dio” – che è dedicato l’ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium (3/2016), edita dalla Queriniana di Brescia, nella convinzione, espressa dai curatori (Luiz Carlos Susin, Solange Lefebvre, Daniel FranklinPilario e Diego Irarrázaval) sulla scia del filosofo Paul Ricoeur, che «la sofferenza è divenuta la più grande e quasi l’unica sfida alla teologia e alla filosofia contemporanee». Ma anche nella consapevolezza che «si tratta di un oscuro mistero al quale non è bene accostarsi dando risposte» e che «solo con un’attenzione e una fiducia radicale possiamo avvicinarci alla sofferenza, sia la nostra che quella altrui».

Una riflessione, quella della rivista, che non a caso inizia con il racconto di una perdita, di un dolore radicale e di un difficile perdono, riportato dalla teologa presbiteriana Pamela R. McCarroll: il percorso interiore di sofferenza e rinascita di Nora Melara-López, moglie del giornalista e attivista per i diritti umani honduregno José Eduardo López, arrestato e selvaggiamente torturato nel 1981, fuggito dal Paese un anno più tardi ma costretto a farvi ritorno dopo il rifiuto da parte del Canada della sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato («non essendovi timore fondato di persecuzione») e nuovamente sequestrato nel 1984 dalle forze di sicurezza, torturato per giorni, giustiziato e sepolto in un cimitero clandestino. È l’esperienza di una «disconnessione da Dio che li aveva abbandonati, che aveva dato via libera al male e aveva punito il bene», di un disorientamento disperato rispetto all’evidenza di qualcosa di profondamente sbagliato nel mondo: «le brave persone minacciate, torturate, assassinate, messe a tacere e il male che può accrescersi incontrollato». L’esperienza degli immancabili “perché” che, come commenta McCarroll, frantumano «i concetti dell’inevitabilità della giustizia, del bene e del senso della vita», scagliandosi «contro la fede in un Dio onnipotente che ci ama», al punto da generare a volte un «ateismo rabbioso», ma che possono anche aiutare a far emergere «una conoscenza più vera della presenza divina e del suo operato», una «Presenza santa che piange e il cui potere è sempre e soltanto riconoscibile nel potere dell’amore di trasformare dal di dentro le vite umane e le relazioni». È la transizione dal “Dio onnipotente”, morto dinanzi all’evidenza schiacciante del male e dell’ingiustizia, al “Dio piangente”, presente «proprio nel mezzo della vita vera, richiamandola ad azioni redentrici e a vedere di nuovo la bellezza dell’esistenza»: la stessa transizione che segna il percorso umano di Nora, indotta dalle parole del marito dopo il primo sequestro – «Non possiamo odiare i miei aguzzini. Sono solo dei prodotti di questa società» – a perdonare i torturatori di suo marito, accettando anche di incontrare uno di loro, forte della convinzione che l’eredità lasciata dalla vita di Eduardo «valesse molto più della sua morte». E che è possibile cogliere anche nella vicenda del giornalista Antoine Leiris, il quale, dopo aver perso la moglie Hélène nell’attentato terroristico al Bataclan, il 13 novembre 2015, ha scritto una lettera, dal titolo “Non avrete il mio odio”, in cui, rivolgendosi agli assassini, afferma: «Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore». Una vicenda da cui parte la teologa brasiliana Maria Clara Bingemer per evidenziare come, «in mezzo al male e alla violenza, l’amore non può vendicare o rispondere al male con il male: può soltanto soffrire, morire, resistere». E come pertanto, «davanti alla sofferenza dell’innocente, non c’è altro luogo per l’amore, e pertanto per Dio, se non immergersi dentro la sofferenza, al fianco del più debole e oppresso, soffrendo con lui».

Ma, più ancora che la morte del Dio onnipotente, è il superamento del presupposto mitico premoderno di un mondo-senza-male la chiave che consente di accostarsi in modo nuovo al problema della sofferenza nel mondo, sfuggendo alla trappola del paradosso di Epicuro – se Dio non vuole impedire il male, non è buono; se non può, non è onnipotente -, una trappola che si ripropone ad ogni catastrofe naturale e ad ogni disgrazia individuale. Solo interpretando la presenza del male e della sofferenza come conseguenza inevitabile dell’autonomia di un mondo finito, infatti, Dio non apparirà più, come mostra mirabilmente in questo numero di Concilium il teologo Andrés Torres Queiruga, chi permette quando potrebbe evitare o chi non vuole intervenire potendo farlo (quando non, addirittura, chi causa direttamente il male): «Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio». Ed è solo così che si riscatta in maniera piena «la tenerezza infinita della bontà divina»: «Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariamente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio». E se l’unica questione diventa allora quella di «creare o non creare», è facile rispondere che, se ha deciso di farlo, «è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente» vincere il male. È qui, infine, che si incontra il significato autentico della croce, in quanto «in Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti, per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci».

Cosicché, come sottolinea il teologo brasiliano Alberto da Silva Moreira, «la grande domanda per i cristiani non è sapere dov’è Dio nella sofferenza, ma perché mai le persone non si ribellano contro l’ingiustizia e il male che le colpiscono, poiché avrebbero Dio dalla loro parte».

proponiamo ampi stralci dell’intervento di Torres Queiruga.

Ripensare la teodicea

ripensare la teodicea 

Andrés Torres Queiruga 

 

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

 

La teodicea attuale non può evitare il duro interrogativo della sofferenza. Ma, prigioniera com’è del suo retaggio culturale, sembra incapace di dare risposte. Il suo orizzonte è confuso, fino alla contraddizione. Di fronte alla sfida moderna, essa condivide con la critica atea un presupposto mitico, premoderno: dare per scontata la possibilità di una creazione senza sofferenza, di un mondo-senza-male. Nascosto nel dilemma di Epicuro, tale presupposto continua ad alimentare la sua forza devastatrice. Una volta smascherato criticamente, diventa evidente il suo anacronismo, viene disciolta la sua logica e smontata la sua validità.

Allora risulta possibile una teodicea veramente attuale, che a) colloca il problema all’interno delle esigenze e delle possibilità della cultura laica o secolare, b) preserva il “mistero”, mostrando il suo vero posto nella risposta religiosa, c) riscatta la coerenza della fede in un Dio buono e onnipotente e d) recupera l’intenzione centrale del messaggio biblico e la logica profonda che, nonostante tutto, ha sempre abitato la teologia tradizionale.

I/ IL DILEMMA DI EPICURO, UNA SFIDA PREMODERNA

Il dilemma di Epicuro – «Se Dio può evitare il male e non lo fa perché non vuole, allora non è buono; se vuole e non lo fa perché non può, allora non è onnipotente …» – è antico quasi quanto la filosofia e ha rappresentato sempre una dura sfida per la religione. È sorto in una cultura precedente la rivoluzione della Modernità. Allora era normale dare per scontati tanto la possibilità mitica di un mondo paradisiaco e senza male, quanto i continui interventi divini o demoniaci. La scoperta dell’autonomia del mondo, che obbliga a studiare i problemi analizzando la sua struttura e il suo funzionamento, mostra che la finitudine (…) implica due fondamentali conclusioni: 1) che il paradiso è impossibile, per la stessa ragione per cui lo è un cerchio-quadrato o un triangolo-rettangolo-equilatero su una superficie piana; 2) che è necessario cercare all’interno del mondo le cause di quanto in esso avviene. La conclusione fondamentale risulta evidente: il dilemma contiene un pregiudizio che lo rende assurdo. Sarebbe come argomentare che Dio non è buono perché, potendo, non vuole fare cerchi-quadrati; o che non è onnipotente perché, volendo, non può fare ferri-di-legno (l’esempio del triangolo dimostra che vedere il non senso può risultare difficile all’interno di realtà complesse; per cui può passare inosservato che un mondo-senza-male sarebbe un mondo-finito-infinito).

L’Antichità ha potuto fare suo quel dilemma, perché il pregiudizio non era avvertito culturalmente e in quel contesto la fede religiosa era pacificamente accettata: il pagano Epicuro, che lo ha proposto, continuava ad ammettere gli dèi; e Lattanzio, che lo ha divulgato, rimaneva cristiano. Nella Modernità invece la situazione risulta paradossalmente ambigua. La sensibilità culturale moderna percepisce con forza la contraddizione; Bayle e Voltaire, pur non divenendo atei, hanno preannunciato la crisi; Hume si è spinto oltre, e Büchner pronuncerà infine la sentenza: la sofferenza è la “roccia dell’ateismo”. Anche la sensibilità religiosa percepisce la contraddizione, e nasce la “teo-dicea”.

Lasciare irrisolto il dilemma costituisce una evidente incongruenza. Di più per la fede, che lo accetta, ma cerca di eluderne la logica: come credere che Dio sia infinitamente buono e potente, se, essendo possibile, non vuole o non può creare un mondo-senza-male? Incongruente lo è parimenti per l’ateismo moderno: con quale logica quest’ultimo dà per scontata la possibilità di un mondo-senza-male? E come fa a rispettare l’autonomia del mondo, se nega Dio a motivo del fatto che non interviene interrompendo le leggi fisiche durante il terremoto di Lisbona oppure annullando la libertà umana durante la Shoah?

II/ UNA PARTENZA GIUSTA, FATALMENTE SPRECATA

È curioso: proprio all’apice della sfida si è intuito l’inganno e si è cominciato a dare la vera risposta. Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) e il vescovo William King (1650-1729) – costui ingiustamente poco studiato, sebbene già elogiato da Leibniz – hanno percepito la contraddizione e hanno proposto un’impostazione culturalmente laica. Prima di andare a cercare la spiegazione in cielo, hanno cominciato a osservare la terra: il male è inevitabile a motivo della costituzione finita del mondo. Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio. Essi hanno denunciato, pertanto, un’impossibilità essenziale e costitutiva. Nell’Essai de Théodicée Leibniz argomenta che il male nasce da una impossibilità creaturale: «Dio attribuisce tanta perfezione alle creature, quanta ne può ricevere l’universo» (§ 335); «Dio infatti non poteva darle [alla creatura] tutto senza fare di essa un Dio» (§ 31).

All’epoca era inevitabile la contaminazione teologica del linguaggio. Oggi invece risulta possibile – ed ermeneuticamente obbligato – riscoprire, al di là dei limiti del testo, la forza laica del significato, che avviava – anche assegnando il nome di teodicea – una nuova tappa. Purtroppo, la critica di ciò che era accessorio ha impedito la percezione di ciò che era fondamentale: la teologia ha continuato a rimanere ancora prigioniera del fondamentalismo biblico e tradizionale (…). È stata un’autentica catastrofe culturale: sprecata questa occasione, il presupposto mitico del rnondo-senza-male ha continuato a rimanere vigente.

Non del tutto però (…). Sono apparse teorie che, come quelle ireneane (dal filosofo e teologo del II secolo Ireneo,  secondo cui la crescita spirituale richiede il libero arbitrio e l’esperienza del male, ndr), difese da John Hick (1922-2012), e quelle del processo, a partire da Alfred North Whitehead (1861-1947), ne riconoscono l’“impossibilità” e cercano nuove strade. Significativamente, Whitehead, senza far riferirnento a Büchner, parla del male come “roccia” del problema, anziché dell’ateismo. E Schubert M. Ogden (n. 1928) arriva a definirlo “pseudoproblema”, poiché «nasce soltanto sul presupposto di alcune premesse del teismo cristiano classico, che sono incoerenti anche al di fuori del problema del male».

Il compito attuale consiste nel rendere tematicamente esplicita la portata di questa intuizione fondamentale, evitando che la persistenza implicita del fantasma del mondo-senza-male continui a contaminare il problema.

III/ LA TEODICEA NEL MARASMA DELLE INCONGRUENZE

Come il rivelatore in un processo chimico, non appena si scopre il presupposto del mondo-senza-male, si chiarisce il quadro teodiceico: la confusione appare come conseguenza inevitabile. Schematizzando, bisogna distinguere due orientamenti fondamentali: teorie che riconoscono espressamente la logica del dilemma e teorie che, pur senza dirlo, la presuppongono.

Le prime, per rigettare l’ateismo, modificano radicalmente l’idea di Dio. Tre casi riferiti all’Olocausto lo dimostrano in modo esemplare, e la loro chiarezza logica ci risparmia tanti discorsi. Hans Jonas nega l’onnipotenza, poiché Dio non ha potuto impedirlo; David Blumenthal nega la bontà, poiché, potendo, non volle impedirlo (è buono, ma crudele e non “onnibenevolente”); Jean-Pierre Jossua, evitando conclusioni tanto estreme, nega la comprensibilità. (…).

Il secondo orientamento, meno radicale, evita conseguenze così drastiche. Ma il suo disagio risulta evidente: nega la conseguenza, ma non può spezzarne la logica. E le risposte manifestano la tipica ambiguità delle “soluzioni insoddisfatte”: tendono logicamente verso uno dei poli estremi, ma rimangono a metà strada.

Al suo interno, la reazione più emotiva riconosce l’impasse, negando la legittimità della teodicea in tre modi. 1) È impossibile e non necessaria, per inconsistenza logica e perché Dio non ha bisogno di difesa (senza avvertire che non si tratta di giustificare la realtà di Dio, ma la nostra idea: non si giustifica il sole quando si rifiuta il geocentrisrno). 2) È smobilitante, poiché la comprensione “giustifica” il male e paralizza l’azione (mentre la diagnosi, lungi dal giustificare la malattia, incoraggia a lavorare per la terapia). 3) È nociva e anche “eretica”, “blasfema” e “diabolica”, insistendo su ciò che conduce a una visione teista, complice o colpevole delle disgrazie naturali e dei crimini umani (rendendo tale concetto una caricatura realmente offensiva per coloro che continuano – per noi che continuiamo – a parlare di un Dio creatore, libero, amorevole e salvatore).

Più numerosa è la posizione di chi, sforzandosi di mantenere integra la fede biblica, modifica i termini della questione senza arrivare alla negazione. Ma glielo impedisce il presupposto del mondo-senza-male.

1) Si afferma l’onnipotenza, ma si parla di un Dio “sofferente”: posizione rispettosa e corretta, quando nega l’impassibilità divina; ma inconsistente, quando cerca di giustificare il male, includendo Dio in esso. Poiché, in tal caso, o si trascendentalizza ed eternizza il male in Dio, come è stato argomentato contro Moltmann, oppure si include Dio nella nostra miseria, rendendolo incapace di salvarci, come hanno evidenziato Rahner e Metz. Il ricorso, così antico, alla kénosis incorre nella stessa ambiguità (se è funzionale, implicherebbe “non vuole”; se ontologica, porterebbe al “non può”). Lo stesso avviene quando si argomenta con la croce (non sempre distinguendo dovutamente tra Gesù e Dio), esponendosi all’accusa cinica che non ha senso condividere il dolore che era possibile evitare in precedenza.

2) Mettere in discussione la bontà risulta più difficile; ma, con un certo sostegno fondamentalista, si può arrivare a parlare del “lato oscuro” di Dio o a mantenere categorie come “ira” o “castigo”; come pure si cerca un equilibrio impossibile, affermando energicamente la bontà e l’onnipotenza nel momento in cui, prendendo alla lettera determinati testi biblici, si attribuisce a Dio anche causalità diretta nel male.

3) La incomprensibilità è un argomento frequente e molte volte giustificato, ma non sempre sfugge al rischio di coprire con il “mistero” divino contraddizioni logiche molto umane. Inoltre, permane latente l’influenza di un biblicismo diffuso che, basato soprattutto sul libro di Giobbe, tratta con lo stesso valore testi di epoche diverse. Talvolta serve da argomento per delegittimare la teodicea, interpretando come definitivo il “silenzio” finale di un libro che si sviluppa negando certamente il retribuzionismo deuteronomico, ma che non raggiunge ancora la pienezza evangelica.

Forse però niente spiega l’enorme influsso del pregiudizio meglio di due esempi che, provenendo da grandi teologi come reazioni profondamente rispettose, risultano dei sintomi molto rivelatori. Il primo, citatissimo, è di Romano Guardini, che sul proprio letto di morte confidò a un amico: «Sono pronto a presentarmi al cospetto del Giudice divino e a rispondere alle sue dornande sulla mia vita; ma anch’io avrei da porre alcune domande al Giudice: domande sul dolore dei bambini innocenti». Il secondo è di Karl Rahner che, ponendo espressamente la domanda: «Perché Dio permette (lässt) che soffriamo?», finiva col rispondere che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale».

IV/ ATTUALIZZARE LA TEODICEA

Partire dall’impossibilità di un mondo-senza-male non solo chiarisce le difficoltà, ma ci permette anche di rinnovare l’impostazione.

Prima di tutto, situa la domanda al suo giusto livello, eliminando il falso problema (Ogden) di porla immediatamente all’interno della religione. Ripeto: sarebbe come mettere in discussione la bontà o l’onnipotenza di Dio perché non vuole o non può fabbricare ferri-di-legno. L’unica dornanda sensata non è: perché Dio non elimina il male? Bensì: perché crea il mondo nonostante il male inevitabile? Detto più concretamente: vale la pena esistere? Hanno senso la storia e il mondo? Come si vede, è una domanda pre-religiosa, radicalmente umana, perché il male – fisico o morale, attivo o passivo – costituisce una sfida per tutti, credenti o non credenti.

Questo ci obbliga a compiere un ulteriore passo, che ristruttura l’intero approccio: prima della teodicea propriamente detta, tutti dobbiamo affrontare la sfida comune. Allora ogni posizione appare come risposta particolare a una domanda universale. Il discorso teodiceico esige così una triplice struttura.

1) La ponerologia (dal greco ponerós, “male”), una trattazione sull’origine del male, che elabora sistematicamente la conclusione, qui solo indicata: la finitudine rende impossibile un mondo-senza-male, svelando il carattere inevitabile della sua apparizione, come sfida per tutte le risposte.

2) La pistodicea (da pístis, “fede” in senso ampio, e dikein, “giustificare”) è il riconoscimento della comunità generica di tutte le posizioni, trasformate in risposte specifiche, che devono “rendere ragione” di se stesse (…). Tutte sono discutibili e “misteriose”; propriamente chiamate ad affrontare insieme la sfida comune, sostituendo lo spirito di polemica con quello di dialogo, critica e collaborazione.

3) La teodicea tradizionale appare nella sua specificità di “pistodicea cristiana”: una tra le altre, con uguale onere di prova e identico diritto di difesa. Ritengo che allora, debitamente attualizzata, non solo può negare il “fallimento” sentenziato ed evitare il marasma reale; ma può anche garantire la sua logica, senza rinunciare al mistero, e può ripensare la tradizione, recuperandone i valori.

V/ LA LOGICA DELLA TEODICEA

Nel constatare la fattualità assoluta del male come possibilità inerente alla finitudine, essendo la condizione (…) della stessa esistenza, l’interrogativo posto alla religione non può essere perché Dio non elimina il male – significherebbe negare il mondo -, ma come Dio lo affronta e lo combatte. Si chiariscono così questioni estremamente decisive.

1) Si ristabiliscono nella loro piena luce tutti gli attributi divini: lungi dal metterli in discussione, il male – smascherato come inevitabile – sottolinea la tenerezza infinita della bontà divina, basata sulla fedeltà incrollabile della sua onnipotenza. Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariarnente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio. Sostenuta dall’onnipotenza, la creazione smentisce l’obiezione superficiale di una qualche “irresponsabilità” divina, poiché fonda una speranza realista la quale, rispettando l’autonomia creaturale e supportando il lavoro della storia, assicura che Dio ha l’ultima parola: la stessa morte è vinta… (1Cor 15,26). (…).

Ciò non significa che il ristabilimento della coerenza dispensi la pistodicea cristiana – come pure quella atea o agnostica! – dall’affrontare le sue difficoltà specifiche. (…). Come (…) l’obiezione radicale: se la liberazione piena risulta possibile escatologicamente, perché non ora? (…). La fede deve affrontarla. E io credo che possa farlo mostrando come, dopo la rottura della “finitudine-storica” dopo la morte, si possa realizzare pienamente la dialettica dell’amore, dove il “tuo” di Dio si fa “mio” della creatura. La teodicea trova qui – come tutta la teologia – il mistero della pienezza escatologica.

2) Quando l’impossibilità del mondo-senza-male viene presa realmente sul serio, si produce una specie di kehre o capovolgimento di tutta la questione. Di fronte alla “logica-per”, si instaura una rigorosa “logica-nonostante”: nonostante le apparenze, Dio è presente; nonostante il male, il mondo vale la pena. Segnaliamo tre conseguenze di particolare rilievo.

a) Permette di eliminare la tenace “contaminazione teleologica” che tocca anche le teodicee che, come quella “ireneana”, pur riconoscendo la inevitabilità del male, tendono a ricadere nella logica-per: per rendere possibile la libertà o la realizzazione umana (…).

b) Risponde all’obiezione dei mali “orrendi” o senza-senso (grandi catastrofi, morte di bambini innocenti). La sua umanissima forza emotiva è indubitabile, ma essa poggia su un’occulta congiunzione tra il presupposto del mondo-senza-male e la contaminazione teleologica. (…). Ogni male è ingiustificabile e privo di senso, non per questo o quell’aspetto, ma in se stesso, semplicemente come male: una crepa nella creazione (Büchner), alla stregua di un genocidio. Se fosse possibile, nessun male dovrebbe esistere; e certamente Dio non potrebbe volerlo. Dio vuole il mondo per se stesso, unicamente per il suo bene e nonostante il male. Il male, qualunque male, è pura fattualità senza giustificazione esterna; compare solo perché la sua possibilità coincide con la possibilità stessa del mondo. Creare o non creare: questa è l’unica questione. Poiché ha creato per amore, ogni azione di Dio è salvifica, di lotta contro il male. E se ha deciso di creare, è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente vincerlo.

c) Chiarisce il fenomeno particolarmente grave della denuncia contro Dio. Partendo dal giustissimo principio che nella preghiera si può esprimere di tutto, esiste – a volte quasi come una moda teologica – una diffusa tendenza a giustificare la denuncia e la protesta, non solo “di fronte” a Dio, ma anche “contro” Dio. La giustezza dell’indignazione, però, non deve nascondere – per quanto si invochi Giobbe – la sua profonda ambiguità, non solo perché logicamente svia e spreca contro “Dio” l’energia della protesta contro il male, ma soprattutto perché sul piano teologico risulta insopportabilmente ingiusta di fronte all’infinito amore divino. Protesta il bambino contro la madre che passa notti al suo capezzale o l’adulto ammalato contro il medico che si sacrifica cercando di curarlo? L’espressione con cui Karl Barth, per temi meno delicati, deplorò in Silesius alcune «pie insolenze (frommen Unverschämtheiten)», rappresenta un sano avvertimento di fronte a espressioni che possono oscurare l’unica certezza: che Dio è sempre al nostro fianco contro qualsiasi tipo di male. La liturgia del Venerdì santo contiene la migliore teologia: «Popolo mio, che male ti ho fatto? In che ti ho provocato? Dammi risposta!».

VI/ RECUPERARE I VALORI DELLA BIBBIA E LA TRADIZIONE

I rinnovamenti possono essere visti come negazione o sottovalutazione del passato. Non è sempre così, e certamente non lo è in questo caso. Al contrario: quanto da noi proposto permette di recuperare valori che, essendo, propriamente evidenti nella Bibbia e nella tradizione, sono rimasti nascosti a causa di fattori culturali.

1) Anzitutto,  fa risplendere l’intenzione più evidente ed elementare della Bibbia, il cui filo rosso è la compassione divina per le sofferenze umane, con l’appello – di Dio a noi, non di noi a Dio! – a collaborare contro il male: «Non è forse questo che significa conoscermi?» (Ger 22,16), dicono i profeti; «Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste» (Lc 6,36), dice Gesù. In effetti, l’ipotesi che Dio, se volesse, potrebbe eliminare il male, non risulta soltanto incongruente: è qualcosa di molto più grave, poiché priverebbe di senso il nucleo del messaggio biblico, puntandolo tutto su qualcosa che si sarebbe potuto conseguire semplicemente volendolo prima.

2) Precisa il significato autentico della croce, troppe volte interpretata “al rovescio”, isolando il destino di Gesù dal nostro, come se il suo fosse un mezzo per dimostrare la compassione divina. La verità è più semplice e più divinamente realista. In Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti: per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci. Le teologie che parlano di “castigo”, “pagamento del riscatto” o di “conflitto tra Dio e Dio” dimostrano un’ambiguità pressoché teologicamente intollerabile.

3) Riscopre e legittima la logica implicita della tradizione quando confessa la bontà e l’onnipotenza, nonostante il dilemma irrisolto accompagni come un’ombra d’insoddisfazione logica la teodicea tradizionale. Lo ha potuto fare perché la (sub) coscienza di una logica più profonda perpetuava la certezza che “doveva pur esistere” una spiegazione. Questa logica esiste ed è rigorosa, poiché poggia sulla fiducia: se Dio è amore infinito, profondamente compassionevole verso la nostra sofferenza, il male “dev’essere” inevitabile, sebbene (ancora) non sappiamo spiegarlo. Vedere una madre curva sul suo bambino malato dimostra, con logica rigorosa, che lo curerebbe se solo fosse possibile. (…). Isaia lo ha intuito: anche se la madre dimenticasse il suo figlio, Dio no (Is 49,15). (…).

Ho chiamato tale processo “via corta della teodicea”. L’astrazione del ragionamento non dovrebbe dimenticare la sua umanissima profondità, che ha alimentato e continuerà ad alimentare le valli oscure della vita (Sal 22). Quando vengono meno i ragionamenti, rimane sempre lo sguardo verso la croce; quando l’angoscia o la colpa minacciano, vi è la fiducia, poiché (…) quando la sofferenza sembra prevalere, né morte né vita, né altezza né profondità… potranno separarci dall’amore di Dio (Rm 8,35-39). (…).

Confesso che questa via mi stupisce ogni giorno di più, e sicuramente sarà sempre l’ultima risorsa nelle grandi crisi. A differenza del passato, però, il crollo dell’evidenza socio-culturale e la comparsa dell’obiezione atea obbligano oggi a completarla con la “via lunga”. Questo lavoro è in corso, incoraggiando numerosi tentativi. (…).

4) Il recupero di valori non si limita a questo aspetto fondamentale, ma permette di rivisitare temi assai decisivi. Cominciando dalla struttura stessa della storia della salvezza. Tradizionalmente, suppone una cosa fondamentale: il male non viene da Dio. Ma la possibilità del “paradiso” svia l’interpretazione, (…) presentando il Dio del perdono come un giudice ingiustamente e smisuratamente implacabile, che castiga una mancanza umana con tutto l’orrore del male.

Avendo più spazio, si potrebbero riesaminare temi del tutto decisivi, come (…) il modo di interpretare la provvidenza, l’elezione, il miracolo, la preghiera di domanda. Quest’ultima, in particolare, proprio per i grandi valori a cui si associa, possiede un’efficacia terribile nell’alimentare l’immaginazione che Dio può, ma non sempre vuole; che abbiamo bisogno di ricordarglielo, di convincerlo, a volte con sacrifici e per mezzo di intercessori… e non sempre otteniamo. La conseguenza è un’immagine rimpicciolita di Dio e, spesso, culturalmente scandalosa (mentre scrivo queste righe, leggo di una convocazione di preghiera per chiedere la pioggia).

VII/ DIO CONTRO LA SOFFERENZA: DALLA “ROCCIA DELL’ATEISMO” AL DIO ANTI-MALE

(…). Dal momento che il grande volto del male è la sofferenza, una teodicea viva deve educare la sensibilità, plasmando le reazioni emotive e le abitudini linguistiche, per imprimere nelle coscienze e nella cultura il volto vero di Dio: sempre a nostro fianco contro la sofferenza. Deve eliminare i fantasmi blasfemi di un “dio” che determina la morte, manda o permette la malattia (ha senso dire che una madre “permette” la malattia di suo figlio?) o anche le catastrofi o i genocidi: non solo gli atei hanno domandato dov’era Dio ad Auschwitz e perché ha taciuto o consentito! Ricordare queste cose è ingiusto per molti credenti, e certamente duro per tutti; ma più duro e ingiusto sarebbe continuare senza affrontare tali questioni che toccano il cuore stesso della fede.

La teologia è oggi in condizioni di farlo. Interrotta l’ipoteca premoderna (…), è possibile una teodicea religiosamente autentica e culturalmente legittima. Dio è il go’el, l’avvocato della causa umana in un mondo tormentato dalla sofferenza individuale e dalla tragedia collettiva. La teodicea deve mostrare che la sofferenza, dall’essere “roccia dell’ateismo”, può trasformarsi in rivelazione di Dio come l’Anti-male.

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Dio si è sbagliato? un bel problema!

Dio non fa errori

l’identità transgender vista da una prospettiva cristianatrans

by Giacomo

Riflessioni di H. Adam Ackley* pubblicate sullo Huffington Post (Stati Uniti) il 10 giugno 2014, liberamente tradotte da Silvia Lanzi

L’imminente proposta di proibire il riconoscimento dell’identità transgender (inclusa quella intersessuale) da parte della Convenzione Battista del Sud, sebbene avanzata da un collegio di professori di etica, non è educativa né comprensiva della complessa biologia del genere, né tanto meno etica. Le persone transgender o intersessuali spesso sono accusate falsamente – semplicemente perché esistono – di sottintendere che Dio ha fatto un errore riguardo al loro genere.trans1
Queste angherie portano spesso le mie sorelle e i miei fratelli transgender e intersessuali non alla “conformità di genere” ma semplicemente all’ateismo o all’isolamento dagli altri “credenti”. Tutto ciò si basa non solamente su una scienza fallace (molti di noi hanno una condizione medica verificabile, che rende il nostro genere più complesso di quello della maggioranza) ma, ancora peggio, su una teologia imperfetta. Come pastore cristiano, teologo e professore universitario io stesso (intersessuale, ma a cui non è stato permesso di vivere apertamente fino ai recenti cambiamenti nelle diagnosi mediche e psichiatriche e nei trattamenti per persone come me) voglio correggere tutti questi fraintendimenti della teologia del genere, che sono fin troppo comuni.

Le persone transgender non sono un “errore di Dio”! Sebbene altre forme di diversità umana siano state ingiustamente portate all’oppressione dalla maggioranza privilegiata (differenze di razza, etnia, classe socio-economica), esse non sembrano causare l’indignazione morale/teologica che causano le persone dal gender diverso: come se solamente con la loro esistenza bestemmiassero Dio. Ma essere nati fuori dal genere binario non è per niente differente dall’essere nati con un’altra forma di diversità. Spiegare agli altri che siamo transgender non suggerisce intrinsecamente che Dio ha fatto qualche errore creandoci così. Anche se cerchiamo qualche trattamento medico che ci aiuti a superare la disforia di genere (che in molti casi è una reazione alle aspettative di conformità alle regole eteronormative del genere binario maschile/femminile) non stiamo suggerendo che Dio ha fatto un errore creandoci, come chiunque altro si sottoponga ad un trattamento medico a causa di una certa condizione.trans2
Per esempio, molte persone religiose non pensano di costringere chi nasce con la palatoschisi, che ha bisogno della chirurgia correttiva, a difendere a livello teologico la loro vita, come se la loro esistenza sul pianeta fosse una specie di ammissione blasfema dell’incompetenza di Dio. Gli attacchi religiosi, che sono ormai una routine, attaccano appunto le persone transgender non solo sulle basi del genere ma anche come eretici, cosa che molti di noi considerano assai doloroso.

Alcune persone sono chiaramente ambigue e non è un ossimoro. “Chiaramente ambiguo” piuttosto può essere una descrizione accurata di alcuni di noi transgender, abbastanza da fare un discorso senza ignorare la grande diversità della differenza delle identità trans* o costringere tutti a rendere nota la loro storia clinica (Janet Mock, LaVerne Cox e gli altri ci ricordano che non è giusto aspettarsi una cosa simile), che le identità transgender, qualunque sia la loro origine, sono reali.
Le esperienze di chi ha un genere ambiguo della malasanità e dell’emarginazione sociale pongono domande significative riguardo al trattamento sbagliato di tutte le persone transgender, perché, per esempio, come si è discusso a spese della mia carriera e della mia capacità di aiutare i miei figli, è stato visto come più “naturale” costringere un uomo intersessuale a prendere ormoni femminili dalla pubertà all’età matura per femminilizzarlo, anche quando facendo in questo modo lo si rendeva cronicamente depresso e portato al suicidio, in modo che terapie e medicine non potevano nulla per farlo stare meglio.

Per amore della mia Chiesa e della mia famiglia umana transessuale mi spaventa che letteralmente nessun cristiano abbia dubitato dei trattamenti medici di femminilizzazione che hanno ritardato la mia naturale pubertà maschile fino all’età matura per motivi teologici o morali. Chiaramente la transfobia non ha nulla a che vedere con il fatto che si prendano o meno ormoni sessuali, come se prendere estrogeni o testosterone implichi la mancanza di controllo di Dio sul corpo di qualcuno ed Egli avesse fatto un errore permettendo a qualcuno di invecchiare in modo naturale o funzionare per la riproduzione. (Sono abbastanza certo che alcuni uomini cristiani cisgender – cioè a loro agio con il proprio sesso – possano aumentare il loro testosterone per varie ragioni e che donne cristiane cisgender facciano terapie sostitutive a base di ormoni o usino metodi di controllo delle nascite sempre a base ormonale)

Il fatto che esisto sicuramente non implica che Dio abbia fatto un errore nel crearmi quando mi sono reso conto che, sebbene fin dall’infanzia esternamente apparissi una bambina, la mia particolare configurazione transgender è tale che durante la pubertà ho sviluppato qualità fisiche di entrambi i generi e ci sono voluti trentacinque anni di trattamenti con dosi massicce di ormoni femminili per funzionare passabilmente come una donna cisgender e che la mia ambiguità fisica si è riaffermata quando mi è stato permesso di vivere come me stesso, un uomo, dai recenti cambiamenti in campo medico, diagnostico e dei trattamenti.
Senza il trattamento ormonale sono ambiguo, complesso, androgino e capisco di essere maschio. Credo davvero che Dio mi abbia creato così, spaventosamente, meravigliosamente e con propositi infinitamente e incondizionatamente amorevoli e non ho rimpianti. Ciò di cui mi rammarico è la transfobia delle altre persone, un odio e una paura indescrivibili e incomprensibili verso ciò che non capiscono essere la gloriosa e creativa immaginazione di Dio quando ci ha creati sessuati: le molte espressioni di genere e di sessualità che troviamo tra gli uomini ci sono in tutte le specie. La diversità nella creazione è divina e negarlo è mettere in dubbio il potere dello Spirito Santo, che Gesù una volta ha insegnato essere il solo peccato imperdonabile (Matteo 12:31-32).trans3

Come pastore ed educatore cristiano cerco di usare ogni occasione per insegnare, predicare, scrivere o parlare per aiutare le persone a capire che nulla nella Bibbia nega l’esistenza dei transgender o li qualifica moralmente o teologicamente (come “peccato”). Infatti, i passaggi sugli “eunuchi nati così” in Isaia, Matteo e Atti, come l’originario essere umano bigenere (ha-adam) che Dio dichiara buono (il genere binario non è creato fino al versetto 22 del secondo capitolo della Genesi) sembrano suggerire l’accettazione di Dio delle identità transgender, sebbene esse non siano poi così comuni.
In entrambi i casi sono sicuro che Dio non odia né mette in dubbio l’esistenza di qualcuno o qualcosa che ha creato, non importa quanto possa essere inusuale tale creazione. Come mi ha ricordato recentemente un amico transgender, noi sappiamo che un albero con un un ramo innestato non è odioso perché “innaturale” o blasfemo; per esempio, quando innestiamo insieme un lime e un limone, entrambi possono fare frutti. Questa diversità, sebbene insolita, può essere un dono grande e gradito. Così mi sento come un uomo che ha partorito e allattato due bambini. Cos’altro posso vedere se non che la creazione di me e degli altri con un genere poco comune, che altro non è se non un dono prezioso di Dio, per quanto strano possa essere?

* H. Adam Ackley, attualmente è responsabile della formazione per una hotline di aiuto per persone transgender ed è un agente di sicurezza privata. Un tempo era un professore di Studi Religiosi e ministro ordinato, attualmente insegna yoga. Prima di ritirarsi dal lavoro universitario, era un professore ordinario, direttore di dipartimento e di una facoltà. E’ stato politicamente impegnato ed ha pubblicato diversi libri, capitoli e articoli con editrici universitari e in riviste accademiche, ed è un blogger sullo Huffington Post USA per la sezione Religione e Voci gay dal 2013.

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nei nostri Cara migliaia di persone trattate come bestie

basta con l’orrore di Foggia

il governo fermi lo scandalo del centro per i migranti cara-di-foggia

di Eugenio Scalfari
in “la Repubblica”

Sul nostro Espresso uscito domenica scorsa, insieme a molti articoli, reportage e inchieste ce n’è una che fa rabbrividire. L’autore è il nostro collega Fabrizio Gatti, il titolo dice “Sette giorni all’Inferno” e l’inchiesta si svolge in un centro di accoglienza per immigrati. Le poche parole di presentazione dicono tutto: sono entrato clandestino nel Cara di Foggia, dove mille esseri umani sono trattati come bestie e per ciascuno di loro le coop percepiscono 22 euro al giorno.

cara Nelle undici pagine che seguono, Gatti visita ogni stanza fingendo di essere un rifugiato di lingua inglese entrato in quel luogo d’angoscia per puro caso. Qualche volta alcuni abitanti di quell’inferno sospettano che sia un investigatore. Quelli che vivono in quel luogo sono persone di varia provenienza, per lo più africani che si dividono in diverse camarille e si disputano i cibi e i luoghi e le pochissime provvidenze che la gestione delle coop gli fornisce. Tra di loro ci sono anche donne, fanciulle, ragazzetti tra i 10 e i 12 anni che spesso vengono stuprati da gruppi di nigeriani che poi li fanno prostituire fuori dal campo. La notte molti riescono ad uscire da quell’inferno circondato da fil di ferro e da ringhiere, con buchi che i più esperti varcano per poi ritornare dopo aver fatto sporchi giochi con controparti locali. Ai cancelli del campo la sorveglianza è compiuta da numerosi militari e agenti di polizia che però non entrano mai dentro i locali.

cara1 Chi vi entra sono le persone che prestano servizio nelle coop e forniscono ai rifugiati pasti che, a quanto il nostro autore ha verificato, piacciono più ai cani randagi che entrano in massa in quel caseggiato e ai topi che ne traggono graditissimi alimenti. Questa è la situazione. I contatti col mondo esterno sono limitati agli incaricati delle coop, i quali forniscono anche qualche medicina se vedono malati e bisognosi di soccorso. I medici naturalmente non sono mai arrivati anche quando ci sarebbe stato urgente bisogno di loro. In un brano dedicato alle porte, Gatti così scrive: «Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi, il loro movimento comunque va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi e a non agevolarne la fuga. Infatti se scoppia un incendio questa è una trappola». Ma c’è dell’altro, c’è il caporalato nigeriano. «I ragazzi sono tornati ieri sera alle dieci. Hanno mangiato la pasta della mensa tenuta da parte da qualche compagno di stanza e a mezzanotte sono andati a dormire. Dopo tre ore di sonno hanno preso la bicicletta fornita dai nigeriani sfilando uno dietro l’altro per recarsi sui luoghi di lavoro.

I braccianti che vivono in questo ghetto di Stato lavorano fino a 14 ore al giorno e guadagnano 16 euro, poco più di un euro all’ora e una mensa che piace soprattutto ai cani». So bene che il nostro presidente del Consiglio ha molte cose da fare in Italia e in Europa, ma a nome dei nostri giornali, e credo di tutti i nostri lettori che tra carta e web sono oltre cinque milioni, gli chiedo di far ispezionare immediatamente quel Centro che accoglie all’Inferno un migliaio di persone e chiedo anche alla Procura di Foggia di disporre indagini sulle coop che dovrebbero gestire con competenza e amicizia quei rifugiati ed invece ignorano, direi volutamente, l’inferno che sta sotto i loro occhi.

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la vita è in pericolo anche per quelli che fuggono dai disastri della natura

i rifugiati fantasma senza diritto d’asilo “salviamo chi fugge dai disastri naturali”

I rifugiati fantasma senza diritto d’asilo: "Salviamo chi fugge dai disastri naturali"
popolazione in fuga dopo un’inondazione 
Ogni anno sei milioni di persone emigrano a causa dei disastri ecologici. Gli esperti: “Saranno 250 milioni nel 2050, è l’emergenza del secolo”

di VLADIMIRO POLCHI

Sei milioni di persone fuggono ogni anno dalle proprie case. Sono profughi “fantasma” senza tutele, né protezioni. Li chiamano “rifugiati ambientali”: uomini e donne invisibili alle leggi e alle convenzioni internazionali, vittime di calamità naturali e cambiamenti climatici. Entro il 2050 saranno 200-250 milioni. Peccato che la Convenzione di Ginevra non riconosca loro lo status di rifugiato: così oggi chi scappa dalla guerra può chiedere asilo, chi fugge da fame o sete resta senza diritti.

I numeri sono impressionanti: secondo il Centre for research on the epidemiology of disasters, negli ultimi 20 anni sono state distrutte da catastrofi climatiche 87 milioni di case. Le migrazioni ambientali sono in gran parte migrazioni interne: solo nel 2015 il numero di sfollati per calamità naturali è stato 19,2 milioni in 113 diversi Paesi. L’ultimo caso è quello della Lousiana: nelle alluvioni del mese scorso sono state distrutte 60mila case. E i senzatetto sono stati più di 7mila.

I rifugiati ambientali sono stati di recente anche al centro dell’attenzione del Papa: “I cambiamenti climatici contribuiscono alla straziante crisi dei migranti forzati. I poveri del mondo, i meno responsabili dei cambiamenti climatici, sono i più vulnerabili e ne subiscono gli effetti “, ha detto Francesco due settimane fa in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato.

Lo straordinario aumento di sfollati e profughi, fra l’altro, è dovuto anche a conflitti scatenati da politiche di appropriazione di risorse. Dal dopoguerra a oggi, ben 111 conflitti nel mondo avrebbero tra le proprie radici cause ambientali.

A questo popolo invisibile è dedicato il convegno internazionale “Il secolo dei rifugiati ambientali?”, organizzato da Barbara Spinelli, a Milano il 24 settembre (registrazione su rifugiatiambientali@ gmail.com). “Sono rifugiati ambientali quelli che sono costretti a fuggire da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche – spiega Spinelli – come lo sono coloro che fuggono dalla desertificazione e dal collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema attribuibili a cause naturali o attività umane: land grabbing, water grabbing, processi di “villaggizzazione” forzata, che negli anni Ottanta causarono la morte di un milione di persone per carestia in Etiopia, e ancora inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici, scorie radioattive risultanti da bombardamenti”.

L’appello per una nuova Europa

Il pericolo? È che questo popolo resti “trasparente” agli occhi delle leggi internazionali: né la Convenzione di Ginevra, né il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status di rifugiato a chi fugge a causa di catastrofi ambientali. Svezia e Finlandia sono gli unici Paesi europei ad aver incluso i profughi ambientali nelle rispettive politiche migratorie nazionali. Secondo le principali ong, tra le azioni da intraprendere resta centrale il riconoscimento giuridico. “Questi flussi si aggiungono a quelli causati da guerre, persecuzioni politiche, religio- se o etniche, e talvolta vi si sovrappongono in modo inestricabile – sostiene ancora Spinelli – è pretestuoso e miope considerare queste popolazioni in fuga da condizioni invivibili alla stregua di migranti economici, tuttavia è esattamente ciò che fa la Commissione europea con il cosiddetto “approccio hotspot”, che istituisce due categorie di migranti: i profughi di guerra, ai quali viene riconosciuto il diritto di chiedere protezione internazionale, e i migranti economici da rimpatriare automaticamente senza aver seriamente esaminato le eventuali loro legittime domande di asilo e senza concedere loro la possibilità di ricorso in caso di respingimento”.

Per il politologo francese, François Gemenne (tra i relatori del convegno), “che le migrazioni indotte dal clima costituiscano in futuro un fallimento o un successo, dipenderà non solo dall’impatto climatico, ma soprattutto dalle scelte politiche che facciamo oggi”.

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