per una spiritualità radicalmente nuova – la ‘mistica ribelle’ di M. Fox

per diventare mistici ribelli

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

è appena uscito il libro di Matthew Fox La spiritualità del creato. Manuale di mistica ribelle, (curato dal teologo anglicano Gianluigi Gugliermetto, pubblicato  dalla casa editrice Il Segno dei Gabrielli), celebre teologo statunitense, ex frate domenicano espulso dall’ordine nel 1993 per volontà dell’allora cardinale Ratzinger e fondatore dell’Institute of Culture and Creation Spirituality in California, autore, tra molto altro, del capolavoro Original Blessing, per l’appunto, “benedizione originale” (tradotto in italiano dalla casa editrice Fazi con il titolo In principio era la gioia), con cui il teologo ribaltava in maniera completa il tradizionale itinerario verso Dio del cattolicesimo ufficiale, il cui punto di partenza è il peccato, rimettendo all’origine e al centro il bene, la gioia, la grazia, la lode (C. Fanti).fox1

 

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LA NUOVA STORIA DELLA CREAZIONE DELL’UNIVERSOfox

La poetessa e vasaia M. C. Richards ha parlato di ciò che accade quando la scienza e la religione si separano, come è accaduto effettivamente tre secoli fa: «La disunione è palpabile, e questa frattura blocca la coscienza poetica, è una malattia caratteristica della nostra società […]. L’anima si ritira dentro di sé, si nasconde nel sottosuolo, si separa dalla parte che continua a camminare sulla superficie. La vitalità si rattrappisce, i disturbi psichici si fanno più acuti, i suicidi più frequenti».

Se questa descrizione della malattia della nostra cultura vi sembra appropriata, immaginate allora che cosa può accadere quando la scienza e la spiritualità si uniscono di nuovo insieme. Questa possibilità costituisce, di fatto, la notizia migliore e più rivitalizzante del nostro tempo. Oggi la scienza ci fornisce una nuova storia cosmica riguardo alle nostre origini. È una storia sacra che ci riempie di meraviglia quando la ascoltiamo. Nelle righe che seguono cercherò di raccontarla a modo mio. È una storia di doni, perché tutti noi proveniamo da una discendenza di doni cosmici:

All’inizio c’era il dono.

E il dono era con Dio, e il dono era Dio.

E il dono venne a porre la sua tenda in mezzo a noi,

dapprima nella forma della palla di fuoco primordiale,

che bruciò senza sosta per 750.000 anni

e nel suo immenso forno cosmico forgiò adroni e leptoni.

Questi doni riuscirono a stabilizzarsi abbastanza

per dare alla luce le prime creature atomiche:

l’idrogeno e l’elio.

Un miliardo di anni di rimescolamenti e ribollimenti,

e i doni dell’idrogeno e dell’elio

diedero alla luce le galassie – e queste galassie vive,

rotanti, vorticanti, crearono triliardi di stelle,

luci celesti e fornaci cosmiche,

che a loro volta crearono altri doni

esplodendo violentemente, enormi supernove,

brucianti di luce e più radiose di miliardi di stelle.

Un dono dopo l’altro, un dono che crea un altro dono,

doni che esplodono, doni che implodono,

doni di luce, doni di oscurità.

Doni cosmici e doni sub-atomici.

Tutto che gira e ruota in un vortice,

nasce e muore,

nell’ambito di un vasto piano segreto,

che era esso stesso un dono.

Una di queste supernove esplose a modo suo

e produsse nell’universo un dono unico

che più tardi, nel tempo, altre creature

avrebbero chiamato “Terra”,

la loro casa.

Anche la biosfera fu un dono,

che avviluppava la Terra di bellezza e dignità

fornendole il giusto livello di protezione

dalle radiazioni del sole

e dal freddo cosmico. E dalla notte eterna.

Questo pianeta speciale venne così incastonato

come un gioiello

nel suo posto preciso, un posto squisito,

alla distanza di 100 milioni di miglia

dalla sua stella madre, il sole.

Sorsero altri doni, mai visti prima nell’universo:

rocce, oceani, continenti,

creature multicellulari che si muovevano di forza propria.

Nasceva la vita!

I doni che prima avevano preso la forma

della palla di fuoco,

dell’elio, delle galassie e delle stelle, delle rocce e dell’acqua,

ora prendevano la forma della vita!

La vita era un nuovo dono dell’universo,

era un nuovo dono nell’universo.

Fiori di ogni colore e profumo, alberi che stavano diritti.

Foreste che offrivano possibilità di prosperare

a tutti i tipi di esseri.

Esseri che strisciano e che si arrampicano.

Esseri che volano, che saltano e che nuotano.

Esseri che corrono su quattro zampe.

E, alla fine, esseri che stanno in piedi su due zampe sole,

e che camminano. E che hanno pollici opponibili per creare

ancora di più, mettendo al mondo ancora altri doni.

L’essere umano stesso divenne un dono,

ma anche una minaccia,

perché il suo potere creativo era unico

sia nel suo potenziale distruttivo

come nel suo potenziale di guarigione.

Come avrebbero usato gli umani questi doni?

Che direzione avrebbero preso?

La Terra attendeva una risposta, e sta ancora aspettando.

Sta tremando.

Vennero diversi maestri e maestre, incarnazioni del divino,

che sorsero dalla Terra: Iside e Esiodo, Buddha e Lao Tzu,

Mosè e Isaia,

Sara e Ester, Gesù e Paolo, Maria e Ildegarda,

il capo Seattle e Buffalo Woman.

Vennero per insegnare le strade umane della compassione.

Ma la Terra continuò ad attendere

per vedere se l’umanità era un dono o una maledizione.

E tremava.

Vi è mai successo di donare qualcosa e poi pentirvene?

La Terra si meraviglia e aspetta,

perché il dono è stato fatto carne

e si trova in mezzo a noi, dappertutto,

ma noi perlopiù non ce ne accorgiamo.

Lo trattiamo non come un dono,

ma come un oggetto.

Un oggetto da usare, abusare, schiacciare sotto i piedi –

crocifiggere addirittura.

Ma a coloro che lo ricevono come un dono,

è promessa ogni cosa.

Saranno chiamati figli e figlie del dono,

saranno figli e figlie della grazia.

Per tutte le generazioni.

UNA SPIRITUALITÀ DI MERAVIGLIA

Che cos’è la spiritualità del creato?

Qualche anno fa mi trovavo in una camera d’albergo di New York con una giornalista del New York Times, una donna afroamericana che mi stava intervistando. La sua prima domanda fu questa: «Vede, io sono cresciuta nei quartieri poveri di Chicago e adesso vivo qui a Manhattan. Che cosa dice a me la spiritualità del creato? Si tratta di visitare parchi e di andare a vedere gli animali?». A quel punto la invitai a guardare fuori dalla finestra e a dirmi che cosa vedeva. Eravamo al diciottesimo piano e la finestra era incorniciata da mattoni. Ma che cos’è un mattone? È argilla che gli esseri umani hanno portato su fino al diciottesimo piano. E che cosa tiene su questi mattoni? Delle travi di acciaio, anch’esse dono del pianeta Terra. Andammo alla finestra e guardammo giù insieme. Sotto di noi c’erano moltissimi taxi, tutti fatti di acciaio, che correvano veloci su gomme (il cui materiale viene dall’albero della gomma) spinte dall’energia di un combustibile derivante da piante e animali morti centinaia di milioni di anni fa. Una città, per stupefacente che sia, è anche suolo, è materia naturale riciclata da esseri umani, i quali a loro volta sono terra, anche se stanno su due gambe, hanno pollici opponibili e un’immensa immaginazione.

La spiritualità del creato può essere un’esperienza urbana tanto quanto un’esperienza rurale, sempre che abbiamo voglia di accorgerci della provenienza delle cose e della relazione tra di loro. (…).

Che cos’è il creato?

Il creato siamo noi e tutte le cose. Siamo noi in relazione a tutto il resto. “Tutti i nostri parenti”, così dicono i Lakota nelle loro preghiere ogni volta che fumano la sacra pipa o entrano o escono dalla capanna sudatoria (un’antica pratica spirituale di purificazione e guarigione propria dei nativi americani, ndr). “Tutti i nostri parenti”: questo significa tutti gli esseri, tutte le cose, quelle visibili e quelle invisibili, le galassie rotanti e i soli sfrenati, i buchi neri e i microorganismi, gli alberi e le stelle, i pesci e le balene, i lupi e i delfini, i fiori e le rocce, la lava fusa e la neve che troneggia sulle cime dei monti, i figli che mettiamo alla luce e i loro figli, e i loro figli, e i loro figli.

La madre single che è disoccupata e lo studente universitario, il bracciante e l’imprenditore agricolo, la rana nello stagno e il serpente nell’erba alta, i colori di un’accesa giornata di sole e l’oscurità totale di una foresta pluviale di notte, il piumaggio brillante dei pappagalli e i colpi di un tamburo africano, i kiva (stanze rituali) degli Hopi e le meraviglie della cattedrale di Chartres, la frenesia di New York e la disperazione delle prigioni sovraffollate: ci sta dentro tutto.

Il creato è tutto lo spazio e tutto il tempo. Tutte le cose presenti, passate e future. Ma tra queste tre modalità di concepire il tempo, è la modalità del presente quella verso cui si concentra di più il creato, perché il tempo più significativo tra tutti è adesso, è quello che è stato definito “eterno presente”. Il passato influenza il futuro per mezzo delle scelte che noi compiamo nel momento presente. A che cosa decidiamo di dare vita in questo momento? Se il futuro porterà con sé maggiore bellezza oppure maggiore dolore, è un fatto che dipende dalle nostre scelte, a come rispondiamo al nostro ruolo di co-creatori all’interno di una creazione che continua a svilupparsi ed espandersi. Il passato e il presente convergono in noi per dare vita al futuro. (…).

Dunque il creato è, nella sua essenza, nient’altro che relazione. È l’atto sorprendente di relazionalità, di comunione, di risposta, di abbandono, è l’essere stesso che si muove a spirale, danzando, accovacciandosi, saltando in piedi. L’essere è relazione. Meister Eckhart dice che «la relazione è l’essenza di tutto ciò che esiste» e che «l’essere di per sé è Dio». Tutto il creato dunque è una traccia, un’orma, una realtà che discende dalla Divinità. Il creato non è altro che il passaggio della Divinità nella forma dell’essere. È l’ombra di Dio in mezzo a noi. Il creato è sacro. Tutte le nostre relazioni sono sacre. (…).  I cristiani e tutti gli altri credenti devono reimparare la sacralità del creato. Senza questo come “primo articolo di fede” siamo perduti. (…).

Il creato è, da molti punti di vista, ciò che la nostra specie fa di esso qui sulla terra. La Divinità ha giocato d’azzardo nel darci un così grande potere, divino e demoniaco allo stesso tempo. Ma noi che ne facciamo? Siamo spiritualmente pronti per questo compito meraviglioso che consiste nel fare giustizia, una giustizia che le scienze chiamano “omeostasi” cioè la ricerca di armonia che è già insita in tutte le cose, che consiste nel relazionarsi con ogni cosa al livello della giustizia e non del dominio, come se dovesse esserci sempre un vincitore che sconfigge un perdente? Abbiamo davvero superato la guerra, la guerra contro noi stessi, contro i nostri corpi, contro i giovani, contro il suolo, contro gli alberi? Gli esseri umani hanno una grande capacità di commettere peccati contro il creato, di fallire il bersaglio nel senso di non riconoscere qual è il loro compito su questo pianeta e nell’universo. In questo senso, il peccato è voltare le spalle al creato e al suo sommo Autore divino che dimora in ogni cosa. Alcune volte pecchiamo di omissione, quando non ci accorgiamo o non vogliamo ammettere che esistano i peccati contro la biosfera (giustamente definiti ecocidio) o contro le specie terrestri (biocidio) o contro il suolo (geocidio). Questi sono davvero peccati mortali, perché portano la morte alle generazioni che verranno.

Che cos’è il creato? È la novità che accade quando ci nasce una figlia o un figlio, è la resurrezione che sperimentiamo quando torniamo alla vita dopo le profondità del dolore e della disperazione, è la pace che è al di là di ogni comprensione quando una persona buona fa una buona morte, è il sorgere dello spirito comunitario, un evento che avviene quando la solidarietà si oppone alla paura e così la potenza della preghiera e della speranza si radicano di nuovo in noi.

Il creato è ciò che risveglia i mistici e ciò per cui lottano i profeti. Il creato è l’oggetto della ricerca scientifica e dell’impegno mistico, è la fonte di ogni celebrazione e lo scopo di ogni etica. (…). Il creato è il nostro comune progenitore, dove “nostro” indica tutte le cose. Il creato è la madre di tutti gli esseri ed è il loro padre, è generante e generatore. Il creato è santissimo, è colmo di stupore, dal più piccolo dei semi di cipolla alla sequoia troneggiante. Il creato è potentissimo e fa risorgere. Se una sola persona è risorta dalla morte, tutte lo sono, e il creato è l’erede di questa e altre sorprese divine. Il creato non è mai finito, non è mai soddisfatto, non è mai stufo, non è mai passivo. Il creato nasce sempre di nuovo e sempre si rinnova. (…).

Come è possibile che un così grande affresco drammatico venga messo a rischio come avviene oggi? Può accadere soltanto perché la nostra specie, con le sue religioni, i suoi sistemi educativi, le sue moralità, i suoi governi e le sue economie, ha perso il senso del creato. Quando questo avviene, niente più è sacro, niente sembra degno della lotta per la giustizia che è necessaria per preservarlo. La società muore, e le relazioni non esistono più.

La spiritualità del creato non è basata sulla psicologia, perché non riguarda l’umano separato da tutte le altre sue relazioni. Si concentra invece sulla benedizione, dove “benedizione” indica il dono che tutto il creato è per noi. (…). 

Il creato è la benedizione originaria, e tutte le benedizioni successive, quelle che impartiamo a coloro che amiamo e quelle che lottiamo per impartire attraverso la guarigione, la festosità e l’opera della giustizia, sono prefigurate nella benedizione originaria che è il creato stesso, una benedizione talmente incondizionata, talmente colma di grazia, che è difficile vivere senza accorgersene. (…).

Ciononostante, il creato è così follemente generoso che ha dato vita, nel suo sforzo di amore effusivo, a una specie che sta mettendo in pericolo la sua stessa casa. Nella sua umiltà, il creato si è reso esso stesso soggetto alle azioni di una delle sue creature, la specie umana. Quanto stravagante, quanto saggio, e tuttavia quanto fragile è il creato! Come risponderà al saccheggio umano della sua espressione terrestre?

Che cos’è la spiritualità?

Lo Spirito è vita, ruah, respiro, vento. (…). La spiritualità è un sentiero pieno di vita, un modo di vivere pieno di Spirito. (…). Tutti quelli che intraprendono un sentiero spirituale devono aver voglia di imparare e di lasciar andare; devono sapere che nessuno di noi ha tutte le risposte, e tuttavia che nessuno di noi è lontano dal divino; devono essere capaci di abbandonare l’amarezza o la rabbia prolungata. (…). Per camminare sul sentiero della spiritualità dobbiamo essere svuotati, e naturalmente è il camminare stesso che compie un sorprendente svuotamento.

(…). Ogni sentiero è una via di solidarietà, una via di condivisione della bellezza con gli altri che si trovano in cammino, e riguarda anche la condivisione del dolore e della lotta con tutti gli altri che sono in cammino.

Ciò che è comune a tutti i sentieri spirituali è, ovviamente, lo Spirito: il respiro, la vita, l’energia. È per questo che tutti i sentieri sono, essenzialmente, uno solo, perché c’è un solo Spirito, un solo respiro, una sola vita, una sola energia in tutto l’universo. Esso non appartiene a nessuno di noi perché appartiene a tutti. Tutti ne partecipiamo. La spiritualità non ci rende oltremondani, ci rende più pienamente vivi. Il sentiero che prende la spiritualità è un sentiero che lascia la superficialità per inoltrarsi nelle profondità; lascia la “persona esteriore” per entrare nella “persona interiore”; lascia il privato e l’individualistico per inoltrarsi in ciò che è profondamente comunitario. (…). 

La spiritualità del creato, un sentiero che decidiamo di intraprendere in quanto distinto da altri sentieri che ci vengono offerti, inizia dalla creazione e dal cosmo. Soltanto più tardi giunge alla storia umana, che a questo punto ci attrae come un gioiello incastonato nel vasto dramma della creazione stessa. Non ci può essere un’antropologia senza una cosmologia. L’essere umano non esiste senza le stelle. La storia umana non può essere separata dalla storia planetaria, dalla storia galattica, e da tutta la storia del creato che continua a svilupparsi. Gli elementi del nostro corpo, le sensazioni di tristezza e di dolore che proviamo e quelle di estasi e di gioia, che sono vaste e cosmiche, tutto questo è parte della storia e delle dimensioni dell’universo. Noi abbiamo dimensioni galattiche.

Una prova di queste nostre dimensioni si trova non solo nel fatto che siamo capaci di apprendere le enormi dimensioni dell’universo in cui viviamo, fatto di un miliardo di galassie, ma anche nel fatto che oggi sappiamo che era necessario che l’universo esistesse per 15 miliardi di anni e che si espandesse tanto da contenere un miliardo di galassie perché apparisse la nostra specie. Come lo sappiamo? Perché lo spazio e il tempo si sono evoluti insieme, e se la sequenza temporale è stata essenziale perché noi potessimo apparire, questo deve essere vero anche per le dimensioni spaziali dell’universo.




il coraggio e la lucidità di ‘Pax Christi Internazionale’

lettera ai governi degli USA e della Gran Bretagna per porre fine al coinvolgimento (attraverso la vendita di armi all’Arabia Saudita) nel conflitto nello Yemen

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Pax Christi International, di concerto con Pax Christi USA e Pax Christi Gran Bretagna, ha inviato una lettera al presidente Obama e al Primo Ministro May, in cui esprime preoccupazione per il protrarsi del conflitto nello Yemen, tra il governo, sostenuto dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, e la fazione Houthi, come pure per il coinvolgimento degli USA e della Gran Bretagna nell’esportazione di armi all’Arabia Saudita

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Un trattato firmato e ratificato da USA e Gran Bretagna vieta l’esportazione di armi quando vi sia un rischio molto probabile che il loro uso minacci la pace e la sicurezza e faciliti le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.
Nella lettera ai capi di stato vengono sollecitati entrambi i governi a sospendere le vendite di armi all’Arabia Saudita, a contribuire invece al ristabilimento dei negoziati di pace, che in atto sono stati sospesi, e a sostenere le azioni civili locali per la prevenzione dei conflitti e per la pace.

Di seguito il testo della lettera, tradotta in Italiano, e poi in originale per l’eventuale uso di Pax Christi Italia, indirizzata al nostro Primo Ministro Matteo Renzi, e con riferimento alle armi italiane esportate in Arabia Sauditayemen2

Onorevole Barack Obama
La Casa Bianca
1600 Pennsylvania Avenue
NW Washington, DC 20500
E-mail : president@whitehouse.gov

Bruxelles, 31 ago 2016
Oggetto: Lettera al Presidente Obama sulla situazione in Yemen e sulle vendite di armi all’Arabia Saudita

Caro Presidente Obama,

Pax Christi International e Pax Christi USA desiderano esprimere la loro profonda preoccupazione per il protrarsi del conflitto nello Yemen tra il governo – sostenuto dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita – e gli Houthi , così come per il coinvolgimento degli Stati Uniti con le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita.
Secondo il rapporto della scorsa settimana dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, tra il marzo 2015 e il 23 agosto 2016, si stima che siano stati uccisi 3.799 civili e che altri 6.711 siano rimasti feriti. Almeno 7,6 milioni di persone, di cui 3 milioni di donne e bambini, soffrono attualmente di malnutrizione, e almeno 3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case.yemen

Due settimane fa Medici Senza Frontiere (MSF) è stato costretto a evacuare il personale dagli ospedali a causa dei bombardamenti indiscriminati e delle inaffidabili rassicurazioni della coalizione guidata dai Sauditi. Il nostro movimento condanna fermamente gli attacchi agli ospedali e al personale medico perché sono protetti dal diritto internazionale e dai diritti umani. Siamo sempre più preoccupati che questo sia un esempio di come la campagna di bombardamenti della coalizione saudita si sia ulteriormente intensificata e come abbia avuto un impatto sui civili dopo la sospensione dei colloqui di pace.

Considerando le questioni di cui sopra, Pax Christi International ritiene inaccettabile che gli Stati Uniti esportino armi in Arabia Saudita, tanto più che la coalizione guidata da questo Paese ha preso di mira i civili. Alla seconda conferenza annuale degli Stati firmatari del Trattato sul Commercio delle Armi, che ha avuto luogo dal 22 al 26 agosto, la continua fornitura di armi all’Arabia Saudita attraverso esportazioni di armi americane è stata oggetto di una seria discussione. Ai sensi dell’articolo 7 del citato trattato – che gli Stati Uniti hanno firmato – non si devono esportare armi in presenza di un forte rischio che il loro uso minacci la pace e la sicurezza e faciliti le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.

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Esortiamo il governo degli Stati Uniti a porre fine all’esportazione di armi all’Arabia Saudita, che hanno permesso alla coalizione saudita di intensificare ulteriormente la campagna di bombardamenti in Yemen che ha causato vittime civili. L’esportazione di armi – pari a una vendita di armi per 1,5 miliardi di dollari, che è in attesa di approvazione da parte del Congresso e che includerebbe fino a 153 carri armati, centinaia di mitragliatrici, munizioni e altre attrezzature – dovrebbe essere immediatamente fermata; non solo è devastante per lo Yemen, ma comprometterà anche la sicurezza dell’intera Penisola Arabica e alimenterà le reti globali del terrorismo. Esortiamo invece il governo degli Stati Uniti a contribuire a ripristinare i colloqui di pace e ad approfondire l’impegno a sostegno di azioni civili locali volte alla prevenzione e mitigazione dei conflitti, alla costruzione della pace e al buon governo.

Distinti saluti,

Sr. Patricia Chappell, SNDdeN
Direttore Esecutivo Pax Christi USA

Marie Dennis
Co-presidente Pax Christi International

Vescovo Kevin Dowling, C.SS.R.
Co-Presidente

testo della lettera originale:

The Honorable Barack Obama
The White House
1600 Pennsylvania Avenue NW
Washington, DC 20500
Email: president@whitehouse.gov

Brussels, August 31, 2016

Re: Letter to President Obama on the Situation in Yemen and U.S.-Saudi Arms Deals

Dear President Obama,

Pax Christi International and Pax Christi USA wish to express their profound concerns about the continuing conflict in Yemen between the government—supported by the Saudi-led coalition—and the Houthis, as well as U.S. involvement with arms exports to Saudi Arabia. According to last week’s report of the United Nations Human Rights Office, between March 2015 and August 23, 2016, an estimated 3,799 civilians have been killed and 6,711 injured. At least 7.6 million people, including 3 million women and children, are currently suffering from malnutrition, and at least 3 million people
have been forced to flee their homes.

Two weeks ago Doctors Without Borders (MSF) was forced to pull out its staff from hospitals due to indiscriminate bombing and unreliable reassurances from the Saudi-led coalition force. Our movement strongly condemns the attacking of hospitals and medical personnel as they are protected under international human rights and humanitarian law. We are increasingly concerned that this is an example of how the bombing campaign of the Saudi-led coalition has further intensified and how it has impacted civilians following the suspension of the peace talks.

Considering the above issues, Pax Christi International finds it unacceptable that the United States has been exporting arms to Saudi Arabia, especially as the coalition led by the country has been targeting civilians. At the second annual Conference of States Parties to the Arms Trade Treaty that took place from the 22nd through the 26th of August, the continued arming of Saudi Arabia through U.S. arms deals was a matter of serious discussion. According to article 7 of the aforementioned treaty—which the U.S. has signed—arms should not be exported when there is an overriding risk that they would undermine peace and security and facilitate violations of international human rights and humanitarian law.

We urge the U.S. government to end arms deals with Saudi Arabia which have enabled the Saudiled coalition to further intensify the bombing campaign in Yemen which has victimized civilians. The export of arms—such as the $1.15 billion arms sale that is pending approval by Congress and would include up to 153 tanks, hundreds of machines guns, ammunition and other equipment—should be immediately stopped; it is not only devastating for Yemen, but it will also undermine the security of the entire Arabian Peninsula as well as feeding global terrorism networks. Instead we urge the U.S.
government to contribute to restoring peace talks and to deepen engagement in support of locallyand civilian-led conflict prevention, mitigation, peacebuilding and good governance.

Yours sincerely,

Sr. Patricia Chappell, SNDdeN
Executive Director Pax Christi USA

Marie Dennis
Co-president Pax Christi International

Bishop Kevin Dowling, C.SS.R.
Co-President




cataste di crocifissi di legno ma dagli ai crocifissi di carne …

 

la Lega Nord attacca i crocifissi di carne

ma vuole appendere quelli di legnocroce

Luca Kocci   

da: Adista Notizie n° 31 del 17/09/2016

Il crocefisso va esposto in tutte le aule scolastiche e in ogni ufficio pubblico. I deputati della Lega Nord rilanciano una loro tradizionale battaglia – anche se non ne parlavano da un po’, forse perché troppo impegnati a fare la guerra ai migranti, i crocefissi in carne ed ossa del nostro tempo – e presentano alla Camera una proposta di legge per regolamentare in maniera definitiva la questione.

«Il Crocifisso, emblema di valore universale della civiltà e della cultura cristiana, è riconosciuto quale elemento essenziale e costitutivo e perciò irrinunciabile del patrimonio storico e civico-culturale dell’Italia», recita l’articolo 1 della proposta di legge presentata a fine luglio da nove deputati e deputate leghisti e lo scorso 5 settembre assegnata per la discussione alla Commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Quindi, prosegue l’articolo 2, va esposto in tutti gli uffici pubblici per testimoniare «il permanente richiamo del Paese al proprio patrimonio storico-culturale che affonda le sue radici nella civiltà e nella tradizione cristiana». All’articolo 3 c’è il lungo elenco dei luoghi in cui il crocefisso va esposto «in luogo elevato e ben visibile»: non più solo nelle aule scolastiche, come indicavano i Regii Decreti del 1924 e del 1928 – Vittorio Emanuele III regnante e Benito Mussolini governante – ma anche nelle università e nelle accademie, negli uffici delle pubbliche amministrazioni e degli enti locali territoriali, nelle aule consiliari regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, nei seggi elettorali, nelle carceri, nei tribunali, negli ospedali, persino nelle stazioni, nelle autostazioni, nei porti e negli aeroporti. Infine, all’articolo 4, le sanzioni: da 500 a 1.000 euro per chi lo «rimuova in odio ad esso», ma anche per il dipendente pubblico che «rifiuti» di esporlo oppure «ometta di ottemperare all’obbligo» di esporlo.migranti bambini1

«Risulterebbe inaccettabile per la storia e per la tradizione dei nostri popoli, se la decantata laicità della Costituzione repubblicana fosse malamente interpretata nel senso di introdurre un obbligo giacobino di rimozione del Crocifisso», che «rimane per migliaia di cittadini, famiglie e lavoratori il simbolo della storia condivisa da un intero popolo», spiega il deputato leghista Roberto Simonetti, primo firmatario del provvedimento. «Cancellare i simboli della nostra identità, collante indiscusso di una comunità, significa svuotare di significato i principi su cui si fonda la nostra società. Rispettare le minoranze non vuole dire rinunciare, delegittimare o cambiare i simboli e i valori che sono parte integrante della nostra storia, della cultura e delle tradizioni del nostro Paese».

Se approvata dal Parlamento, la legge metterebbe il punto ad una questione che si trascina da quasi un secolo, ovvero dai Regii Decreti emanati durante il ventennio fascista che però, secondo alcune interpretazioni sostenute anche da una sentenza della Corte costituzionale (v. Adista Notizie n. 1/05), sarebbero stati superati dalla revisione del Concordato del 1984.

migranti siariani Nel 2006 il Consiglio di Stato – all’interno di un procedimento avviato da una coppia italo-finlandese perché fossero rimossi i crocefissi presenti nella scuola media frequentata dai figli –, pur non facendo alcun riferimento a leggi dello Stato, bensì solo a valori etici, stabilì che il crocefisso non doveva essere tolto dalle aule scolastiche, perché «è un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili» sebbene provengano da una religione (v. Adista Notizie n. 15/06). Parere confermato nel 2011 anche dalla Corte di Strasburgo, che diede torto alla coppia, stabilendo che non c’erano ragioni per rimuovere il crocefisso, in quanto simbolo culturale di valore universale. Tuttavia, nell’ordinamento italiano, ad oggi resta l’assenza di una legge che prevede l’obbligo di esporre il crocefisso. Una lacuna che i leghisti vorrebbero ora colmare.

* Immagine di cianghetta, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite




la Lega di Salvini preferisce i crocifissi di legno a quelli di carne

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La Lega Nord attacca i crocifissi di carne. Ma vuole appendere quelli di legno

la Lega Nord attacca i crocifissi di carne

ma vuole appendere quelli di legno

Il crocefisso va esposto in tutte le aule scolastiche e in ogni ufficio pubblico. I deputati della Lega Nord rilanciano una loro tradizionale battaglia – anche se non ne parlavano da un po’, forse perché troppo impegnati a fare la guerra ai migranti, i crocefissi in carne ed ossa del nostro tempo – e presentano alla Camera una proposta di legge per regolamentare in maniera definitiva la questione.

«Il Crocifisso, emblema di valore universale della civiltà e della cultura cristiana, è riconosciuto quale elemento essenziale e costitutivo e perciò irrinunciabile del patrimonio storico e civico-culturale dell’Italia», recita l’articolo 1 della proposta di legge presentata a fine luglio da nove deputati e deputate leghisti e lo scorso 5 settembre assegnata per la discussione alla Commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Quindi, prosegue l’articolo 2, va esposto in tutti gli uffici pubblici per testimoniare «il permanente richiamo del Paese al proprio patrimonio storico-culturale che affonda le sue radici nella civiltà e nella tradizione cristiana». All’articolo 3 c’è il lungo elenco dei luoghi in cui il crocefisso va esposto «in luogo elevato e ben visibile»: non più solo nelle aule scolastiche, come indicavano i Regii Decreti del 1924 e del 1928 – Vittorio Emanuele III regnante e Benito Mussolini governante – ma anche nelle università e nelle accademie, negli uffici delle pubbliche amministrazioni e degli enti locali territoriali, nelle aule consiliari regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, nei seggi elettorali, nelle carceri, nei tribunali, negli ospedali, persino nelle stazioni, nelle autostazioni, nei porti e negli aeroporti. Infine, all’articolo 4, le sanzioni: da 500 a 1.000 euro per chi lo «rimuova in odio ad esso», ma anche per il dipendente pubblico che «rifiuti» di esporlo oppure «ometta di ottemperare all’obbligo» di esporlo.

«Risulterebbe inaccettabile per la storia e per la tradizione dei nostri popoli, se la decantata laicità della Costituzione repubblicana fosse malamente interpretata nel senso di introdurre un obbligo giacobino di rimozione del Crocifisso», che «rimane per migliaia di cittadini, famiglie e lavoratori il simbolo della storia condivisa da un intero popolo», spiega il deputato leghista Roberto Simonetti, primo firmatario del provvedimento. «Cancellare i simboli della nostra identità, collante indiscusso di una comunità, significa svuotare di significato i principi su cui si fonda la nostra società. Rispettare le minoranze non vuole dire rinunciare, delegittimare o cambiare i simboli e i valori che sono parte integrante della nostra storia, della cultura e delle tradizioni del nostro Paese».

Se approvata dal Parlamento, la legge metterebbe il punto ad una questione che si trascina da quasi un secolo, ovvero dai Regii Decreti emanati durante il ventennio fascista che però, secondo alcune interpretazioni sostenute anche da una sentenza della Corte costituzionale (v. Adista Notizie n. 1/05), sarebbero stati superati dalla revisione del Concordato del 1984. Nel 2006 il Consiglio di Stato – all’interno di un procedimento avviato da una coppia italo-finlandese perché fossero rimossi i crocefissi presenti nella scuola media frequentata dai figli –, pur non facendo alcun riferimento a leggi dello Stato, bensì solo a valori etici, stabilì che il crocefisso non doveva essere tolto dalle aule scolastiche, perché «è un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili» sebbene provengano da una religione (v. Adista Notizie n. 15/06). Parere confermato nel 2011 anche dalla Corte di Strasburgo, che diede torto alla coppia, stabilendo che non c’erano ragioni per rimuovere il crocefisso, in quanto simbolo culturale di valore universale. Tuttavia, nell’ordinamento italiano, ad oggi resta l’assenza di una legge che prevede l’obbligo di esporre il crocefisso. Una lacuna che i leghisti vorrebbero ora colmare.

* Immagine di cianghetta, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite




una santità discussa

 

la polvere e gli altari

la controversa santità di Madre Teresamadre-teresa

Ludovica Eugenio   

da: Adista Notizie n° 31 del 17/09/2016

In un contesto di grande entusiasmo che ha attraversato trasversalmente credenti e non credenti è stata celebrata, il 4 settembre scorso, la canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta. Un evento atteso, auspicato, ma nella pratica già compiuto, si può dire, da prima che la religiosa morisse, il 5 settembre 1997, al quale si è giunti poi in tempi rapidi, con la beatificazione ad appena sei anni dalla morte, nel 2003.

Sulla opportunità della canonizzazione di Madre Teresa, tuttavia, le opinioni sono sempre state divise, perché controversa è stata la sua figura. Sono stati molti, infatti, anche in questa occasione, a ricordare «il lato oscuro» di Madre Teresa, già messo in evidenza in passato in alcune inchieste documentaristiche rimaste celebri.

Un lungo articolo di Maxime Bourdier sull’edizione francese dell’Huffington Post (4/9) ricorda l’articolo velenosissimo del giornalista anglo-americano Christopher Hitchens, che denunciò, nel 2003 sulla rivista Slate, la visione «ultrareazionaria, fondamentalista, anche in termini cattolici ortodossi» di Madre Teresa riguardo all’aborto (definita nel 1994 «la più grande minaccia per la pace»), alla contraccezione e al divorzio (nel 1996 si impegnò perché in Irlanda non passasse la legge che lo avrebbe consentito, ma poi si disse contenta del divorzio della sua amica principessa Diana d’Inghilterra, infelice nel suo matrimonio). La sua concezione del matrimonio e della famiglia, rilevò in un articolo del 2010 la rivista cattolica francese Témoignage chrétien, era fortemente in ritardo rispetto ai tempi: «La donna – questa l’idea di Madre Teresa – è stata creata per amare ed essere amata, è il centro della famiglia. Se oggi esistono problemi gravi, è perché la donna ha abbandonato il suo posto in seno alla famiglia».

A sollevare perplessità è anche l’approccio della religiosa alla sofferenza degli ultimi, che non doveva essere curata ma glorificata, come testimoniò una ex volontaria, dopo una permanenza nella comunità nel 2009: i malati non vengono curati (viene somministrata aspirina ai malati di cancro, il medico passa una volta alla settimana), l’igiene è carente, le religiose non hanno alcuna competenza medica e non inviano i malati gravi nelle strutture ospedaliere. Hemley Gonzalez, altro ex volontario, dichiarò alla CNN che quando propose di installare un boiler per lavare i malati con acqua calda, gli venne risposto: «Qui non si fa così. È la volontà di Gesù». Tutto ciò, rilevò anche un’inchiesta di Radio Canada del 2013, non per carenza di fondi (la congregazione ha risorse finanziarie enormi, passate su diversi conti correnti), ma per la concezione della sofferenza di Madre Teresa.

E proprio la gestione delle finanze è un altro capitolo oscuro. A partire dai donatori, sui quali la religiosa non battè mai ciglio: dal regime dittatoriale di Jean-Claude Duvalier di Haiti, che, milionario in un Paese ridotto all’estrema povertà e accusato di crimini contro l’umanità, le diede un grande sostegno, al finanziere miliardario, cattolico integralista americano Charles Keating, uno dei più grandi truffatori della storia americana, che ingannò più di 20mila piccoli risparmiatori e che Madre Teresa difese al processo nel 1992. Problematiche le sue amicizie con i potenti della Terra, come le immagini dei fiori portati sulla tomba del dittatore albanese Enver Hoxha. Le viene anche rimproverato di non aver mai attinto alle finanze della comunità per dare un aiuto alle popolazioni colpite in India dai disastri ambientali o dopo il disastro di Bhopal, ma di aver investito il denaro nella fondazione di conventi.

Le critiche, tuttavia, non vengono soltanto veicolati da ambienti laici. Il 3 e 4 settembre scorsi Tv2000, canale televisivo controllato dalla Conferenza episcopale italiana, ha mandato in onda – ne parla, ovviamente con toni indispettiti, la rivista Tempi, vicina a Comunione e Liberazione (7/9) – un documentario di produzione francese che descrive luci e ombre della santa, illustrando, tra l’altro, come le case delle Missionarie della Carità siano luoghi fatiscenti, dove le persone prossime a morire vengono assistite nella loro agonia, ma non curate né aiutate a non soffrire, e come Madre Teresa fosse ossessionata dalla sofferenza, oltre a avanzare dubbi sul destino delle donazioni.

Su questi elementi insisteva l’Huffington Post già nel marzo scorso (16/3), in un articolo della giornalista indiana Krithika Varagur che riportava i dati di una ricerca condotta dall’Università di Ottawa che “sfaterebbe” il mito della nuova santa. «Nonostante tutte le sue 517 missioni, che al momento della sua morte erano state organizzate in 100 diversi Paesi del mondo – spiegava l’Huffington – la ricerca ha scoperto che praticamente nessuno di coloro che vi si era recato alla ricerca d’assistenza medica l’aveva poi effettivamente ricevuta. Le condizioni che vi si potevano osservare erano non igieniche, “perfino inappropriate”, l’alimentazione inadeguata, e gli antidolorifici assenti, non certo per mancanza di fondi, nei quali l’ordine di Madre Teresa, famoso in tutto il mondo, in realtà sguazzava, ma in nome di quella che gli autori della ricerca definiscono la sua “peculiare concezione della sofferenza e della morte”. “C’è qualcosa di meraviglioso nel vedere i poveri accettare la propria sorte, sopportandola come se si trattasse della Passione di Cristo. Il mondo ha parecchio da guadagnare dalla loro sofferenza”: lo dichiarò Madre Teresa a un Christopher Hitchens tutt’altro che entusiasta».

L’accanimento che si registra nei confronti della suora, commenta Varagur, «potrebbe apparire meschino, se non fosse per quella che è stata l’incessante campagna condotta dalla Chiesa per renderla qualcosa di più di ciò che fu. Una campagna che partì quando lei era ancora in vita, all’epoca in cui il giornalista antiabortista inglese Malcolm Muggeridge si accollò la croce di curare l’immagine pubblica di Madre Teresa, prima con un documentario agiografico del 1969, poi con un libro pubblicato nel 1971. Fu lui ad avviare il movimento d’opinione per andare a collocarla nel “regno del mito” più che in quello della storia». «L’immagine di Madre Teresa – conclude la giornalista indiana – rappresenta un reperto della supremazia bianca occidentale. La sua glorificazione avviene a scapito della psiche collettiva indiana, della mia psiche indiana. E di un miliardo di indiani e della diaspora a cui è stato inculcato il concetto che quando sono i bianchi ad aiutarci è diverso, è meglio. A cui è stato insegnato che una conversione forzata non è poi questo gran problema ».

Al di là degli osanna e delle critiche, più o meno feroci, alla religiosa ormai santa, può essere utile ricordare quanto la teologa Adriana Zarri scrisse nel 1997, spiegando il fenomeno Madre Teresa: «Si ebbe un curioso incrocio tra orientalismo formale e occidentalità sostanziale. Le suore di Madre Teresa vestivano in sari e salutavano graziosamente a mani giunte e, nel contempo, sposavano la teologia vaticana. E Madre Teresa, decorata dal Nobel, veniva strumentalizzata senza scrupolo dai promotori delle campagne contro la legalizzazione del divorzio, dell’aborto e via dicendo. E la candida suora ci stava, probabilmente per ingenuità. Le missionarie della carità, nel frattempo si moltiplicano e si moltiplicano anche le onorificenze decretate alla sua fondatrice: dal Nobel in giù moltissime (troppe?) con finanziamenti offerti dai grandi di questo mondo. (…). E i grandi della Terra seguitano a vendere i loro capitalistici pesci, mettendosi in pace la coscienza con danaro ed onorificenze. Madre Teresa è probabilmente troppo candida per comprendere il gioco. E ringraziando Duvalier lo definiva “protettore dei poveri”. Alla sua ingenuità forse appariva tale. Si moltiplicano anche le amicizie prestigiose: come quella per Diana, di cui giustifica il divorzio, dopo averne osteggiato la legalizzazione nell’Irlanda del 1995. Incongruenze e ingenuità dei santi» (v. Adista Documenti n. 64/97).

* Immagine di thierry ehrmann. Tratta da Flickr, immagine originale e licenza.




la santità di madre Teresa di Calcutta fa discutere …

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La polvere e gli altari. La controversa santità di Madre Teresa

la polvere e gli altari

la controversa santità di Madre Teresa

da: Adista Notizie n° 31 del 17/09/2016

In un contesto di grande entusiasmo che ha attraversato trasversalmente credenti e non credenti è stata celebrata, il 4 settembre scorso, la canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta. Un evento atteso, auspicato, ma nella pratica già compiuto, si può dire, da prima che la religiosa morisse, il 5 settembre 1997, al quale si è giunti poi in tempi rapidi, con la beatificazione ad appena sei anni dalla morte, nel 2003.

Sulla opportunità della canonizzazione di Madre Teresa, tuttavia, le opinioni sono sempre state divise, perché controversa è stata la sua figura. Sono stati molti, infatti, anche in questa occasione, a ricordare «il lato oscuro» di Madre Teresa, già messo in evidenza in passato in alcune inchieste documentaristiche rimaste celebri.

Un lungo articolo di Maxime Bourdier sull’edizione francese dell’Huffington Post (4/9) ricorda l’articolo velenosissimo del giornalista anglo-americano Christopher Hitchens, che denunciò, nel 2003 sulla rivista Slate, la visione «ultrareazionaria, fondamentalista, anche in termini cattolici ortodossi» di Madre Teresa riguardo all’aborto (definita nel 1994 «la più grande minaccia per la pace»), alla contraccezione e al divorzio (nel 1996 si impegnò perché in Irlanda non passasse la legge che lo avrebbe consentito, ma poi si disse contenta del divorzio della sua amica principessa Diana d’Inghilterra, infelice nel suo matrimonio). La sua concezione del matrimonio e della famiglia, rilevò in un articolo del 2010 la rivista cattolica francese Témoignage chrétien, era fortemente in ritardo rispetto ai tempi: «La donna – questa l’idea di Madre Teresa – è stata creata per amare ed essere amata, è il centro della famiglia. Se oggi esistono problemi gravi, è perché la donna ha abbandonato il suo posto in seno alla famiglia».

A sollevare perplessità è anche l’approccio della religiosa alla sofferenza degli ultimi, che non doveva essere curata ma glorificata, come testimoniò una ex volontaria, dopo una permanenza nella comunità nel 2009: i malati non vengono curati (viene somministrata aspirina ai malati di cancro, il medico passa una volta alla settimana), l’igiene è carente, le religiose non hanno alcuna competenza medica e non inviano i malati gravi nelle strutture ospedaliere. Hemley Gonzalez, altro ex volontario, dichiarò alla CNN che quando propose di installare un boiler per lavare i malati con acqua calda, gli venne risposto: «Qui non si fa così. È la volontà di Gesù». Tutto ciò, rilevò anche un’inchiesta di Radio Canada del 2013, non per carenza di fondi (la congregazione ha risorse finanziarie enormi, passate su diversi conti correnti), ma per la concezione della sofferenza di Madre Teresa.

E proprio la gestione delle finanze è un altro capitolo oscuro. A partire dai donatori, sui quali la religiosa non battè mai ciglio: dal regime dittatoriale di Jean-Claude Duvalier di Haiti, che, milionario in un Paese ridotto all’estrema povertà e accusato di crimini contro l’umanità, le diede un grande sostegno, al finanziere miliardario, cattolico integralista americano Charles Keating, uno dei più grandi truffatori della storia americana, che ingannò più di 20mila piccoli risparmiatori e che Madre Teresa difese al processo nel 1992. Problematiche le sue amicizie con i potenti della Terra, come le immagini dei fiori portati sulla tomba del dittatore albanese Enver Hoxha. Le viene anche rimproverato di non aver mai attinto alle finanze della comunità per dare un aiuto alle popolazioni colpite in India dai disastri ambientali o dopo il disastro di Bhopal, ma di aver investito il denaro nella fondazione di conventi.

Le critiche, tuttavia, non vengono soltanto veicolati da ambienti laici. Il 3 e 4 settembre scorsi Tv2000, canale televisivo controllato dalla Conferenza episcopale italiana, ha mandato in onda – ne parla, ovviamente con toni indispettiti, la rivista Tempi, vicina a Comunione e Liberazione (7/9) – un documentario di produzione francese che descrive luci e ombre della santa, illustrando, tra l’altro, come le case delle Missionarie della Carità siano luoghi fatiscenti, dove le persone prossime a morire vengono assistite nella loro agonia, ma non curate né aiutate a non soffrire, e come Madre Teresa fosse ossessionata dalla sofferenza, oltre a avanzare dubbi sul destino delle donazioni.

Su questi elementi insisteva l’Huffington Post già nel marzo scorso (16/3), in un articolo della giornalista indiana Krithika Varagur che riportava i dati di una ricerca condotta dall’Università di Ottawa che “sfaterebbe” il mito della nuova santa. «Nonostante tutte le sue 517 missioni, che al momento della sua morte erano state organizzate in 100 diversi Paesi del mondo – spiegava l’Huffington – la ricerca ha scoperto che praticamente nessuno di coloro che vi si era recato alla ricerca d’assistenza medica l’aveva poi effettivamente ricevuta. Le condizioni che vi si potevano osservare erano non igieniche, “perfino inappropriate”, l’alimentazione inadeguata, e gli antidolorifici assenti, non certo per mancanza di fondi, nei quali l’ordine di Madre Teresa, famoso in tutto il mondo, in realtà sguazzava, ma in nome di quella che gli autori della ricerca definiscono la sua “peculiare concezione della sofferenza e della morte”. “C’è qualcosa di meraviglioso nel vedere i poveri accettare la propria sorte, sopportandola come se si trattasse della Passione di Cristo. Il mondo ha parecchio da guadagnare dalla loro sofferenza”: lo dichiarò Madre Teresa a un Christopher Hitchens tutt’altro che entusiasta».

L’accanimento che si registra nei confronti della suora, commenta Varagur, «potrebbe apparire meschino, se non fosse per quella che è stata l’incessante campagna condotta dalla Chiesa per renderla qualcosa di più di ciò che fu. Una campagna che partì quando lei era ancora in vita, all’epoca in cui il giornalista antiabortista inglese Malcolm Muggeridge si accollò la croce di curare l’immagine pubblica di Madre Teresa, prima con un documentario agiografico del 1969, poi con un libro pubblicato nel 1971. Fu lui ad avviare il movimento d’opinione per andare a collocarla nel “regno del mito” più che in quello della storia». «L’immagine di Madre Teresa – conclude la giornalista indiana – rappresenta un reperto della supremazia bianca occidentale. La sua glorificazione avviene a scapito della psiche collettiva indiana, della mia psiche indiana. E di un miliardo di indiani e della diaspora a cui è stato inculcato il concetto che quando sono i bianchi ad aiutarci è diverso, è meglio. A cui è stato insegnato che una conversione forzata non è poi questo gran problema ».

Al di là degli osanna e delle critiche, più o meno feroci, alla religiosa ormai santa, può essere utile ricordare quanto la teologa Adriana Zarri scrisse nel 1997, spiegando il fenomeno Madre Teresa: «Si ebbe un curioso incrocio tra orientalismo formale e occidentalità sostanziale. Le suore di Madre Teresa vestivano in sari e salutavano graziosamente a mani giunte e, nel contempo, sposavano la teologia vaticana. E Madre Teresa, decorata dal Nobel, veniva strumentalizzata senza scrupolo dai promotori delle campagne contro la legalizzazione del divorzio, dell’aborto e via dicendo. E la candida suora ci stava, probabilmente per ingenuità. Le missionarie della carità, nel frattempo si moltiplicano e si moltiplicano anche le onorificenze decretate alla sua fondatrice: dal Nobel in giù moltissime (troppe?) con finanziamenti offerti dai grandi di questo mondo. (…). E i grandi della Terra seguitano a vendere i loro capitalistici pesci, mettendosi in pace la coscienza con danaro ed onorificenze. Madre Teresa è probabilmente troppo candida per comprendere il gioco. E ringraziando Duvalier lo definiva “protettore dei poveri”. Alla sua ingenuità forse appariva tale. Si moltiplicano anche le amicizie prestigiose: come quella per Diana, di cui giustifica il divorzio, dopo averne osteggiato la legalizzazione nell’Irlanda del 1995. Incongruenze e ingenuità dei santi» (v. Adista Documenti n. 64/97).

* Immagine di thierry ehrmann. Tratta da Flickr, immagine originale e licenza.




la ‘carta di responsabilità’ di oltre trenta sacerdoti e religiosi impegnati contro le mafie

vangelo e legalità

denuncia e misericordia

Antonio Maria Mira

“Siamo sacerdoti, religiosi e religiose impegnati da anni con le nostre comunità e i nostri gruppi a far incontrare le fatiche degli uomini con la tenerezza di Dio”. «Sentiamo la responsabilità di ribadire insieme le nostre scelte, e con le nostre comunità, come Maria, vogliamo impegnarci a riconoscere e a essere strumenti dell’azione misericordiosa e capovolgente di Dio che ‘ rovescia i potenti dai troni e rimanda a mani vuote i ricchi’ ( Lc 1,52-53), perché anche noi come il profeta Geremia nello scrutare questi orizzonti incerti, con gli occhi pieni di speranza vogliamo sussurrare al mondo: ‘ Vedo un ramo di mandorlo’ ( Ger 1,11)»

Sono la frase iniziale e quella finale della «Carta di responsabilità e impegno. Scelte evangeliche per un cammino di liberazione» firmata da oltre trenta sacerdoti e religiosi che collaborano con l’associazione Libera, guidata da don Luigi Ciotti. Sono parroci, vicari espiscopali, direttori di Caritas, animatori di comunità. Vengono dal Sud e dal Nord, portano esperienze di lotta alle mafie ma anche storie di perdono. Per tre giorni hanno pregato e riflettuto nel bellissimo monastero benedettino olivetano di San Magno a Fondi, terra fortemente inquinata dalle mafie, ristrutturato e affidato a don Francesco Fiorillo, parroco attivissimo, che ne ha fatto un luogo di spiritualità. Perfetto per l’annuale incontro dei preti di Libera, quest’anno dedicato a «Misericordia e verità si incontreranno».monastero

Tre giorni di approfondimenti accompagnati dall’arcivescovo di Gaeta, Luigi Vari, dall’economista Leonardo Becchetti, dalla teologa Enrichetta Cesarale, dal direttore de Il Regno, Gianfranco Brunelli, e di riflessioni su fondamentali documenti della Chiesa italiana come Educare alla legalità (1991) e Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno (2010). E soprattutto riflessioni personali di pastori, storie di incontri e di fatiche. Partendo da chi ha messo in pratica la giustizia e la misericordia. «Il giudice Rosario Livatino aiutava le mogli di chi mandava in carcere. Rigido nell’applicare la legge ma pronto alla misericordia. Anche noi non abbiamo fatto sconti a nessuno ma anche immaginando percorsi di aiuto», ricorda don Luigi Ciotti. Così don Marcello Cozzi di Potenza racconta il suo cammino al fianco di tanti collaboratori di giustizia. «L’arma vincente contro le mafie è la ‘confisca’ del bene più prezioso, i loro uomini. Dobbiamo continuare a scommettere sempre di più su questo». Lo pensa anche per don Pino Demasi, parroco di Polistena (Rc): «La grande scommessa è la confisca dei loro affetti. Nel lavoro precedente abbiamo diviso buoni e cattivi, ora vanno raccontate storie di riscatto. Conciliare la chiara scomunica dei mafiosi pronunciata da papa Francesco con la misericordia. Tra Caino e Abele non c’è soluzione di continuità. Contribuisco a mandarli in carcere ma poi da lì mi scrivono di aiutare le loro famiglie».monastero1

Storie ed esperienze che diventano poi gli impegni della «Carta di Fondi» (il testo integrale della carta di Fondi è online sul sito di Avvenire). «Con lo stile di Maria, da figli del Risorto, insieme alle nostre comunità ci impegniamo a non tacere dinanzi alle ingiustizie e a ogni tipo di illegalità, a camminare al fianco delle vittime innocenti delle mafie e di quanti subiscono violenze e sopraffazioni, condividendo il loro dolore e la loro richiesta di giustizia e di verità, a contrastare ogni forma di corruzione perché cancro della civiltà e della democrazia, ad accompagnare il cammino di coloro che intendono pentirsi del male compiuto distinguendo il peccato dal peccatore». Impegni forti che si collegano alle forti parole del Papa. «Ci sentiamo sollecitati – si legge nell’introduzione della Carta – dal Magistero e dall’azione di papa Francesco a favore degli ultimi e degli emarginati, consapevoli che il momento attuale, portatore di grandi e profondi mutamenti, chiedendo la fatica della conversione, genera un diffuso clima di sospetto e spesso di chiusura e di indifferenza di fronte alla vita».

Non è un documento da ‘primi della classe’. E infatti, si legge ancora, «siamo certi che questi impegni già caratterizzano ogni credente radicato nel Vangelo e che tanti altri fratelli e sorelle, sacerdoti, religiosi e laici vogliano sottoscriverli insieme a noi». Non chiudendo le porte neanche ai mafiosi. «Serve un bagno di umiltà che non vuol dire fare silenzio – sottolinea il padovano don Giorgio De Checchi –. È annuncio di vita non all’acqua di rose, che riconosce limiti e fragilità, che il peccato ci appartiene ma l’amore ci redime».

«Dobbiamo distinguere, dire che il male è male, che la mafia è struttura di peccato ma volgendo lo sguardo a chi lo compie, salvando la sua humanitas », riflette don Ennio Stamile, responsabile calabrese di Libera e a lungo coordinatore delle Caritas regionali. Impegni concreti. Così don Ciotti ricorda come «in grande silenzio stiamo seguendo centinaia di ragazzi, ‘picciotti’, manovalanza dei mafiosi. Opportunità e incontri che spesso hanno cambiato la loro vita». Ma anche, aggiunge, «tante donne che vogliono rompere gli schemi mafiosi». Già tante parrocchie le stanno accogliendo ma, insiste don Luigi, «serve una norma, una ‘terza via’ per persone che non hanno commesso crimini, che vogliono iniziare una nuova vita e hanno bisogno di essere aiutate, anche cambiando nome per salvarle».

Richieste concrete e impegni anche di vita ecclesiale, contenuti nella Carta, «a evitare qualunque forma di religiosità ritualistica e alienante che deturpa il volto paterno di Dio, a vivere ogni manifestazione di pietà popolare nella logica della semplicità e della radicalità evangelica affinché non si trasformino in esaltazione di personaggi potenti e boss mafiosi, e in mortificazione di poveri ed ultimi». Un evidente riferimento ai noti casi di ‘inchini’ ai mafiosi durante le processioni e all’infiltrazione delle cosche nelle feste patronali.monastero2

Vengono poi altri impegni che si collegano direttamente al magistero di papa Francesco. Sul tema dell’immigrazione, «a realizzare luoghi nei quali trovino accoglienza uomini e donne senza nessun pregiudizio di tipo religioso, etnico e sociale, a vivere la misericordia come risposta a ogni tipo di violenza e come accoglienza agli ultimi, ai poveri, agli emarginati e ai migranti». Quello sull’ambiente, «a promuovere e ad affermare i princìpi di una cultura di ecologia integrale, a sentirci parte integrante dell’ambiente perché ogni aggressione a esso venga vissuta come una ferita inferta a ciascuno di noi, a denunciare ogni tipo di connivenza anche istituzionale che favorisce il degrado ambientale agevolando gli affari delle ecomafie». E poi ancora il rapporto con la politica «per non cadere nelle maglie di facili strumentalizzazioni», la promozione di «un’informazione che cerchi sempre la verità e tuteli gli ultimi», la denuncia di «quella finanza che uccide i poveri e crea disuguaglianze sociali su scala planetaria», orientando «le risorse economiche sempre verso il bene comune».

Centrale resta la Misericordia. «Il volto di Caino va rialzato’, dice il cosentino don Tommaso Scicchitano. Ricordando sempre, come sottolinea il friulano don Pierluigi Di Piazza, «che umiltà non è abbassare la testa ma riconoscere i propri limiti: non si abbassa la testa davanti ai soprusi». Pronti ad aprire le braccia al peccatore. Come don Giorgio Pisano, parroco di Portici, che celebra l’Eucaristia nella zona mercatale, «luogo di vita ma anche di profonda ingiustizia e illegalità», dove sta provando a far incontrare le famiglie degli assassini e quelle delle vittime.

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il commento di p. Maggi al vangelo della domanica

CI SARA’ GIOIA IN CIELO PER UN SOLO PECCATORE CHE SI CONVERTE 

commento al vangelo della domenica ventiquattresima del tempo ordinario (11 settembre 2016) di p. Alberto Maggi:

Lc 15,1-32Maggi

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete  il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi.
Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Mentre scribi e farisei avevano l’ambizione di portare il popolo verso Dio, e quindi portarlo attraverso l’osservanza di regole, precetti religiosi, Gesù sceglie una strada diversa. Lui non vuole portare gli uomini verso Dio, perché sa che se si vuole portare gli uomini verso Dio inevitabilmente qualcuno rimane indietro e qualcuno rimane escluso, ma Gesù porta Dio verso gli uomini e Dio verso gli uomini si porta attraverso una sola maniera: la comunicazione della sua misericordia e della sua compassione.
Ma proprio scribi e farisei, queste persone tanto pie e tanto devote, anziché essere contenti e collaborare con Gesù nella sua azione, gli sono contrari. Leggiamo il capitolo 15 del vangelo di Luca, dal primo versetto.
Si avvicinavano a lui (a Gesù) tutti i pubblicani e i peccatori, quindi la feccia della società, gli esclusi dalla religione e gli emarginati, che sentono nel messaggio di Gesù la risposta al desiderio di pienezza di vita che ogni persona ha dentro.
Per quanto la persona possa vivere in una direzione sbagliata della propria esistenza, per quanto sia immersa nel peccato, c’è sempre in lei un desiderio di pienezza di vita, un desiderio di felicità, che spesso purtroppo ha scelto in maniera sbagliata, lo ha sprofondato nella disperazione e nel dolore, ma questa voce è stata sempre sveglia. E quindi sene in Gesù la risposta al suo desiderio.
Per ascoltarlo. Mentre Gesù viene ascoltato dai pubblicani e dai peccatori, i farisei, cioè le persone pie, e gli scribi, cioè i teologi ufficiali, mormoravano dicendo…. E’ interessante come nei vangeli le autorità religiose, i maestri spirituali, gli scribi e i farisei, evitino di pronunziare il nome di Gesù. Gesù significa “il Signore salva”, e loro non hanno bisogno di questa salvezza da parte del Signore e si rivolgono a lui sempre con un termine abbastanza rozzo e dispregiativo, “questo, costui”.
Ed ecco lo scandalo, “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Non solo Gesù li accoglie, ma addirittura mangia con loro. Mangiare significa condividere la propria vita. Se si mangia con una persona che è infetta, inevitabilmente la sua impurità si trasmette a tutti gli altri. Non hanno compreso che con Gesù i peccatori, i miscredenti, gli impuri, non devono purificarsi per essere degni di mangiare con lui, ma è mangiare con lui quello che li purifica. Ma le persone religiose non lo capiscono.
Ed egli disse loro questa parabola.  Questa parabola, adesso vedremo non è rivolta ai discepoli di Gesù, ma a scribi e farisei, cioè ai suoi nemici. E’ una parabola che è composta di tre parti, nelle prime due si parla della gioia di Dio, e nella terza, conosciuta come quella del figliol prodigo, delle motivazioni di questa gioia.
Gesù dice, e lo dà per scontato: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?” Gesù dà per scontato quella che scribi e farisei reputano una follia. Nessuna persona sana di mente lascia novantanove pecore nel deserto in balia di animali, in balia di ladri, per andare in cerca di una che si è smarrita senza avere la certezza di trovarla. Ebbene la logica del mondo, che è la logica della convenienza, non è la logica di Gesù.
La logica di Gesù è quella che fa il bene dell’uomo. E quindi Gesù presenta se stesso come questo pastore che abbandona le novantanove per andare in cerca dell’unica che si era perduta. “Quando l’ha trovata”… scribi e farisei immaginerebbero che il protagonista le legasse una corda al collo e, a forza di calci, la conducesse nell’ovile, la chiudesse a chiave e non la facesse più uscire, rimproverandola e castigandola. Invece, quando la ritrova… “Pieno di gioia se la carica sulle spalle”.
Questa pecora che si è perduta – il perdersi nel vangelo di Luca è immagine del peccato – viene trattata meglio delle altre novantanove. E’ debole e il pastore le comunica la sua forza. Quindi arriva ad avere un rapporto col pastore che nessuna delle altre novantanove pecore avrà. Infatti il pastore se la carica sulle spalle e le trasmette la sua gioia.
“Va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi”! Ma, mentre il pastore della parabola invita gli altri a rallegrarsi, vediamo che qui invece scribi e farisei mugugnano.
“Perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa pecora non sarà più una pecora tra le altre, ma una pecora che ha un rapporto speciale con il suo pastore. E continua Gesù: “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte”. Ecco perché Gesù comunica vita ai peccatori, perché sa che la forza della sua parola, la comunicazione della sua vita, se accolta, può far lasciare il mondo del peccato e della trasgressione e mettere in sintonia la propria vita con il progetto che Dio da sempre aveva avuto sulla creature.
“Più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.”
Poi c’è la seconda parabola che mostra la delicatezza di Gesù. Tutte le volte che deve fare degli esempi, fa sempre un esempio al maschile, ma poi uno al femminile. Gesù non dimentica il mondo della donna, e se prima ha parlato di un uomo, il pastore, ecco che ora entra in scena la donna. Una donna che ha dieci monete e ne perde una.  “Quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?” E anche in questo caso la reazione è un’esplosione di gioia.
“E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. E di nuovo la sentenza di Gesù.  “Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Dio gioisce, i peccatori si convertono, il pastore e i suoi vicini gioiscono, la donna e le sue amiche si rallegrano. Chi mugugna? Gli scribi e i farisei.
Ecco allora che nella terza, che è rivolta a scribi e farisei, viene presentato il figlio maggiore, quello che viene rappresentato caricaturalmente, come la persona religiosa che ha sempre servito suo padre, come un servo il suo signore, ha sempre obbedito ai suoi comandi, ma proprio per questo il servizio e il comando non gli hanno fatto comprendere il cuore del Padre. Allora, mentre il Padre gioisce per il ritorno del figlio che “era morto ed è tornato in vita”, il fratello maggiore, anziché rallegrarsi, lui che giudica tutto con i parametri religiosi della morale, si indigna, si arrabbia ed è lui che non vuole entrare nella casa.

 




il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica

 

 


“Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!” 

11 settembre 2016 
XXIV domenica del tempo Ordinario anno C  
commento al vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Lc 15,1-32 Bianchi


In quel tempo si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
Il brano evangelico di questa domenica è molto lungo: contiene infatti le tre parabole della misericordia che Luca raggruppa al capitolo quindicesimo del suo vangelo. Avendo già commentato nel tempo quaresimale (IV domenica) la parabola dei due figli (Lc 15,11-32), rifletto oggi sulle due parabole gemelle pronunciate da Gesù per giustificare il suo comportamento criticato da scribi e farisei. Sì, perché Gesù durante il suo viaggio verso Gerusalemme continua a insegnare, registrando però reazioni, contestazioni e più spesso mormorazioni da parte di quelli che, professandosi religiosi e volendosi custodi della Legge, non riescono ad accettare il suo stile e sentono il dovere di recriminare contro di lui.

I primi versetti del capitolo mettono proprio in evidenza due comportamenti opposti nei confronti di Gesù e della sua predicazione. Pubblicani e peccatori si sentono attirati da Gesù e vengono a lui per ascoltarlo, mentre i pretesi giusti, gli osservanti legalisti, denunciano con un certo disprezzo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!”. Il tema della contestazione è significativo: la comunione che si instaura a tavola. Su tale argomento – non lo si dimentichi – la chiesa nascente ha giocato la sua fedeltà a Gesù, ha dovuto scegliere tra ciò che lui aveva insegnato e ciò che veniva dalla venerabile tradizione, ciò che si era sempre fatto (cf., in particolare, At 10): si doveva scegliere se accostare i peccatori e lasciarsi accostare da loro fino ad andare alla loro tavola e ad accoglierli alla propria, oppure rifiutare la comunione della tavola con uomini e donne segnati dal peccato, a maggior ragione da un peccato pubblico e noto a tutti, perché non era lecito instaurare la comunione tra puri e impuri, tra giusti e peccatori.

Nei vangeli Gesù è sovente a tavola, invitato da farisei o da peccatori, e nessuno è mai escluso dalla sua tavola. Mangiare insieme a tavola doveva essere per Gesù un evento carico di significato, una possibilità feconda di comunione, di conversione, di riconciliazione: lo mostra anche solo la moltiplicazione dei pani nel deserto (cf. Lc 9,10-17 e par.), segno profetico di un banchetto nuziale a cui tutti saranno chiamati e nessuno escluso. Gesù vuole raggiungere i peccatori là dove sono e farsi raggiungere dai peccatori dove lui è. A tavola accade qualcosa: attraverso la comunione del cibo passa una comunione non solo di parole, ma di pensieri e di sentimenti, nei quali può operare lo Spirito di conversione e di rinnovamento. Proprio per questo Gesù non è restato nel deserto con il suo maestro Giovanni il Battista, ma ha scelto di entrare nelle città e nei villaggi, nelle case della gente, per sedersi a tavola con gli uomini e le donne che incontrava sul suo cammino di annunciatore del Regno. La sua libertà, il suo stringere le mani di gente “perduta” secondo la Legge, il suo mettersi accanto a gente smarrita, scartata e condannata dall’opinione pubblica: tutto questo scandalizzava!

Per spiegare e rivelare la vera intenzione sottesa al suo vivere la comunione con i peccatori a tavola, Gesù consegna dunque alcune parabole. La prima si apre con una domanda: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?”. Accade a volte che una pecora che, insieme alle altre, forma il gregge e pascola guidata dal pastore, si smarrisca, resti sola, cada in un dirupo, senza poter più raggiungere le altre. È una pecora perduta che può solo conoscere la morte ad opera di bestie selvagge, o delle ferite, o della fame. Allora il pastore lascia le altre novantanove nel deserto e va a cercarla con grande cura, finché non l’ha trovata.

Perché il pastore fa questo, perché si affatica per una sola pecora, quando ne ha altre novantanove? Il vangelo apocrifo di Tommaso riporta questa parabola con una significativa aggiunta: “la pecora più grossa si perse” (detto 107), quasi a giustificare la ricerca da parte del pastore di una pecora più preziosa, dunque più amata. Secondo Luca, invece, il pastore non fa preferenze, ma piuttosto ama tutte le pecore personalmente, perché di ognuna conosce la voce e il nome (cf. Gv 10,3-4.14): questa pecora, dunque, è semplicemente perduta, va verso la morte, e ciò spinge il pastore a cercarla! Quando si ama, non si seguono i calcoli dell’aritmetica! Il pastore non si accontenta di aspettare che la pecora torni, ma va alla sua ricerca, perché ogni pecora, se è amata, va cercata. Come non pensare qui alla strofa del Dies irae: “Quaerens me sedisti lassus”; “Signore, a forza di cercarmi ti sei seduto stanco”? Sì, il pastore della parabola è Dio, che continua a pensare a chi si è perduto, a chi l’ha abbandonato per scelta o per errore, e non si dà pace finché la pecora amata non ritorni nella sua intimità. E così Dio “abbandona” le altre pecore per salvare quella perduta…

Noi conosciamo invece pastori che non hanno questo stile indicato da Gesù. Hanno anche loro cento pecore, ma quando una di loro si perde, assaliti dalla paura ammoniscono le altre: “State attente, restate nel recinto, perché fuori ci sono i lupi, i nemici del gregge. Io vi proteggo stando qui con voi, ma voi non ripetete l’errore della pecora che si è perduta!”. E così il giorno successivo un’altra pecora si smarrisce, ma loro ripetono gli stessi ammonimenti e restano a guardia del recinto. Poi un’altra se ne va, poi un’altra ancora… ma il pastore che vuole proteggere le pecore non va a cercarle. Così resta pastore di una sola pecora, mentre le altre novantanove se ne sono andate, perdute perché il pastore aveva paura, perché era geloso del suo gregge, perché non aveva coraggio né audacia.

Il pastore della parabola di Gesù, invece, cerca, cerca e non si arrende finché non trova la pecora perduta. Allora, caricatala sulle spalle, per evitarle la stanchezza e l’angoscia della solitudine patita, la porta a casa e convoca gli amici e i vicini per fare festa: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa festa è profezia, segno della festa che avviene in cielo, perché anche Dio si rallegra quando un perduto è trovato, un morto torna in vita, un peccatore si converte. E attenzione: si converte perché Dio lo cerca, lo trova, se lo carica sulle spalle e lo porta a casa. La pecora resta passiva, è l’azione di salvezza di Dio, sempre preveniente, a salvarla!

Segue poi una parabola parallela, in cui Gesù narra di una donna che ha dieci monete e ne perde una. Allora cosa fa? Si dà da fare, accende la lampada, spazza la casa e cerca con cura, finché non trova la moneta che pensava fosse perduta per sempre. Poi chiama le amiche e le vicine e fa festa insieme a loro. Qui non c’è un animale, che con il pastore ha relazioni, ma solo una piccola moneta. Per capire bene la parabola bisogna però cogliere dove cade il suo accento, ovvero sulla gioia del ritrovamento da parte della donna, evento in cui è inscritta la dinamica pasquale: il perduto è ritrovato, il morto è risuscitato.

Insomma, Dio è sempre alla ricerca del peccatore, non è un Dio dei giusti, dei puri, che ama solo quelli che gli rispondono coerentemente. Dio sa che in verità tutti gli esseri umani sono peccatori, in un modo o nell’altro, e allora cerca di far sentire a tutti e a ciascuno il suo amore fedele e mai meritato. Ci porge questo amore, ce lo offre, ma se noi non sentiamo il bisogno di un Dio che ci renda giusti, se non sappiamo, o non vogliamo sapere, di essere peccatori, allora impediamo a Dio di venirci a cercare. Preghiamo dunque di discernere colui che “cercandoci, si è seduto stanco”, e non pensiamoci nell’ovile, perché siamo pecore perdute!




l’eterno scontro tra religione e vangelo

adista

la chiesa divisa tra la dottrina e la memoria di Gesù

Claudia Fanti    

da: Adista Documenti n° 29 del 03/09/2016

Vi è un colossale fraintendimento all’origine di tutti i problemi della Chiesa: la sovrapposizione della religione al Vangelo, se non una vera identificazione tra i due, ignorando o volendo ignorare il fatto elementare che Gesù non intese affatto fondare una religione, con la quale, al contrario, visse un conflitto radicale e dalla quale venne brutalmente respinto e assassinato. Un conflitto, quello tra il progetto di Gesù e il progetto dei sacerdoti, in cui la Chiesa ha finito per schierarsi con la religione, costituendosi in religione, e quindi scegliendo la via del potere, del privilegio e della sicurezza al posto di quella pericolosa e sovversiva del Vangelo. Cosicché, per dirla con il teologo francese Alfred Loisy, «Gesù annunciò il Regno, ma quello che è venuto è stata la Chiesa». Una posizione, questa, ampiamente condivisa nell’ambito della teologia progressista, e ultimamente ripresa dal teologo spagnolo Evaristo Villar, nell’intervento pronunciato durante l’incontro organizzato il 25 aprile dal Caum (Club de Amigos de la Unesco de Madrid) proprio sul tema “Si può essere cristiani e difensori della laicità?” (pubblicato da Redes Cristianas il 4 maggio), di cui vi proponiamo alcuni stralci, in una nostra tradizione dalllo spagnolo.

Cristiani e laici

Cristiani e laici

Evaristo Villar    

da: Adista Documenti n° 29 del 03/09/2016

 

(…). Si può essere cristiani senza difendere la laicità? E si può essere laici senza essere cristiani?

Poiché questa seconda domanda può apparire provocatoria, intendo partire da questa. (…). Non è una domanda ingenua o priva di senso. La mia generazione, le nostre generazioni, sono cresciute in Spagna in una cultura cristiana, nazionalcattolica. Tutti noi, volontariamente o forzatamente, abbiamo una certa cultura cristiana. (…).

In più, diversi autori, non solo spagnoli, hanno affermato esplicitamente che “la laicità ha radici cristiane”. Uno scrittore al di sopra di ogni sospetto, Fernando Savater – il quale attribuisce al cristianesimo due grandi contributi alla storia delle idee: la concezione della persona e la separazione tra religione e Stato – afferma espressamente che «i cristiani hanno inventato la laicità». E già prima Max Weber (storico, filosofo e sociologo) aveva disseppellito le radici giudaico-cristiane della secolarizzazione. (…).

Su questa linea, il filosofo tedesco di origine ebrea Ernst Bloch, che non era credente, scrive nel 1968 un libro assai interessante dal titolo Ateismo nel cristianesimo. Chi vede me vede il Padre, in cui afferma che «la cosa migliore della religione è il fatto di creare eretici» (…). E afferma, inoltre, riguardo al nostro tema, che «solo un ateo può essere un buon cristiano», completando così la frase: «sebbene solo un cristiano possa essere un buon ateo».

A sostegno di tali affermazioni, in un certo modo, si pone la posizione assunta 50 anni prima dal leader socialista francese Jean Jaurés, in risposta alla richiesta di suo figlio, nel 1919, di essere esentato dallo studio della religione. Tra le ricche motivazioni su cui fonda il suo rifiuto, voglio evidenziare queste: «Ho assunto l’impegno a garantire che la tua istruzione e la tua educazione siano complete, e non potranno esserlo senza uno studio serio della religione… (Perché) la religione è intimamente legata a tutte le espressioni dell’intelligenza umana; è la base della civiltà… Sono realmente liberi di non essere cristiani solo coloro che hanno la facoltà di esserlo, in quanto in caso contrario, l’ignoranza li obbligherà all’irreligione». Riconosco che la risposta alla domanda sulla possibilità di essere laici senza essere cristiani, in virtù della galoppante secolarizzazione attuale, non può avere oggi la stessa eco che in decenni passati. Ogni giorno può risultare più irrilevante; ma ciò non deve cancellare la storia.

SI PUÒ ESSERE CRISTIANI SENZA DIFENDERE LA LAICITÀ?

Uno sguardo alla storia del cristianesimo ci darà risposte contraddittorie. Ma la risposta, per essere corretta – e questa è la tesi tesi principale che intendo sostenere -, ha a che vedere con la visione che si ha di Gesù di Nazareth, che è il riferimento principale o la fonte essenziale dell’ispirazione cristiana. Il cristiano costruisce la propria identità come seguace della persona, del messaggio e delle cause di Gesù. Ma di che Gesù si tratta? Se si considera Gesù come il fondatore di una religione, di una Chiesa, avremo una risposta; se si vede in lui l’origine di un movimento sovversivo, rivoluzionario, alternativo, fonte di una società alternativa, ne avremo un’altra ben diversa. (…).

1. Partendo dal riferimento a Gesù, dalla sua identità 

Fino al XVIII secolo non c’è stato problema: a Gesù si arrivava attraverso i Vangeli, in base alla convinzione che fossero racconti autentici, tali da riflettere fedelmente il Gesù della storia (…). Lo scetticismo si diffuse quando, a partire dal XVIII e dal XIX secolo, diversi esegeti e scienziati dimostrarono il vuoto di quasi 40 anni che esiste tra i fatti narrati e il Vangelo di Marco, considerato il più antico. R. Bultmann giunse a sostenere che, per quanto non si potesse negare l’esistenza storica di Gesù, era impossibile arrivare ad essa partendo dalle fonti evangeliche. (…).

L’ermeneutica attuale sta collocando finalmente il Gesù della storia laddove viene indicato dal contesto socioculturale, politico e religioso che emerge dai Vangeli e dalle poche testimonianze antiche al di fuori di essi. In definitiva, potremmo concludere che, se c’è qualcosa che risulta chiaro, dopo l’esaustivo studio esegetico condotto negli ultimi due secoli, è questo: Gesù non ha fondato alcuna religione, né ha fatto parte della classe dirigente del paese; apparteneva al popolo ed era laico. E laico è il termine che hanno utilizzato i traduttori della Bibbia ebraica (secoli III-II a.C.) per tradurre in greco la parola “am”, che si riferisce al popolo, cioè alla gente che non è di classe sacerdotale o levitica.

È interessante, per il nostro scopo, approfondire un po’ di più questo aspetto. Gesù era un laico, e si mostrava assai critico nei confronti della religione e delle istituzioni del suo tempo. Il suo messaggio delegittimava la teocrazia di Israele (Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, Mc 12,17), il fondamentalismo religioso ebraico (I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio, Mt 21,31), l’etnicismo e l’etnocentrismo di un popolo che si considerava eletto (Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare, Mt 21,43) e il nazionalismo escludente (Lasciate che i bambini – e gli stranieri, i poveri, gli infermi – vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio, Mc 10,14). In virtù di tali posizioni e delle sue “cattive compagnie”, venne scomunicato dalla sinagoga. La sua condotta e il suo discorso destarono scandalo rispetto a quelle che erano considerate colonne intoccabili per le istituzioni religiose e sociopolitiche degli ebrei: violò il sabato (Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!, Mc 3,1 e ss.), venne meno al rispetto sacro del tempio (Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta, Mc 13,2 ed espulse i mercanti, Gv 2,16), considerò sorpassata  la legge (La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi, Lc 16,16). Da qualunque parte lo si guardi, lo scontro di Gesù con le istituzioni ebraiche fu diretto e frontale. (…). È ciò che lo condusse alla morte.

Quello che è avvenuto dopo lo sappiamo: «Gesù annunciò l’avvento del regno di Dio – ha detto Alfred Loisy – ed è venuta la Chiesa». Per prima cosa ci fu la teologizzazione del Nuovo Testamento da parte di Paolo e degli altri scrittori, più preoccupati per il destino delle comunità che per la storia di Gesù. La Chiesa dei secoli successivi formulò tutto ciò in concetti, ripresi particolarmente dalla filosofia greca, creò una dottrina e una religione e la impose in forma dogmatica. (…).

È a partire da qui che si può intendere la tensione dialettica che scorre nelle vene della storia cristiana tra la memoria e il ricordo di Gesù e la dottrina che la Chiesa ha accumulato su di lui. Questa tensione possiamo immaginarla perlomeno su due piani alternativi o due forme di comprensione di ciò che è cristiano dopo Gesù: una si conforma meglio alle risposte date, alla cultura delle certezze; l’altra nasce dalle domande, da ciò che si sta facendo e scoprendo. Una, come il mito, considera la sua origine ab initio, in illo tempore, ritenendosi depositaria di una rivelazione chiusa, di un’eredità da conservare; l’altra va sorgendo a partire dalla prassi, dal qui e ora, configurandosi più che come un’eredità, come una perpetua novità, una continua scoperta. Una comporta la sottomissione a una dottrina; l’altra implica sempre una decostruzione, una liberazione da tutto ciò che è assimilabile a un’ideologia, da tutto ciò che rende schiavi. Una è sacra, rituale e dogmatica; l’altra è profana, storica, creativa, sempre in cerca della verità. Una, come Ulisse, è sempre un ritorno alla sicurezza del focolare (eterno ritorno); l’altra, come Prometeo, è sempre una lotta per superare i limiti dell’umano. Una è una religione, un potere; l’altra è un Vangelo, con la debolezza di una poesia che sta nascendo. (…).

2. Partendo dal riferimento alla storia dei cristiani/e

Il cristianesimo non è mai stato esente dalla tensione tra il tentativo di trasformarsi in una religione pronta all’uso – in competizione o complicità con la forma politica dominante – e la difesa di una alternativa umanista, rispettosa della dignità e dei diritti dell’essere umano. (…). Mi riferisco, in particolare, a tre momenti a mio giudizio determinanti (…).

1º La tensione tra il cattolicesimo e il cristianesimo, che sorge in Spagna già nel XVI secolo e va avanti, con varie sfumature, durante il XVII e il XIX secolo, tra i difensori di una linea dogmatica, imperiale e sostenitrice dell’antico regime e gli intellettuali, gli scrittori e i teologi favorevoli a una linea umanista: i seguaci di Erasmo, quelli di Bartolomé de las Casas e i mistici (Teresa di Gesù e Giovanni della Croce). (…).

2º La tensione tra religione e cristianesimo (…), che ha sullo sfondo la condanna del modernismo, del liberalismo e del socialismo da parte della gerarchia ecclesiastica, come pure il Concilio Vaticano I (quello dell’infallibilità) e il Giuramento Antimodernista di Pio X. La esplicita, in modo quasi drammatico, Miguel de Unamuno: «Il cattolicesimo attuale è uno spazio impraticabile per un’esperienza religiosa e per la coerenza tra fede e ragione» (…). Una persona così sensibile alla modernità e all’esperienza religiosa come Unamuno inorridisce constatando l’alleanza stabilita tra il trono e l’altare e la perdita del filone mistico che, a partire dal XVI secolo, attraversava la cultura spagnola. (…).

3º La tensione attuale tra una società pluriculturale e multireligiosa e l’immobilismo strutturale della Chiesa cattolica. La pulsione laica (…) torna ora con forza, riprendendo la migliore tradizione emancipatoria che, dal XVI secolo, ha attraversato in una linea di continuità la storia di questo Paese.

Se intendiamo la laicità come un diritto essenziale, sociale e politico il cui obiettivo è instaurare (…) l’autonomia dello Stato e la libertà di coscienza, i modi di accedere a questi nobili fini sono differenti. Ma al di là delle divisioni (…) questa nuova spinta laica si contrappone al monolitismo della Chiesa gerarchica, incapace di superare il nazional-cattolicesimo alimentato da gruppi fondamentalisti e anacronistici (…). Di fronte a questo immobilismo gerarchico si va consolidando, con forza sempre maggiore, un discorso critico e liberatore, di impronta laica, tanto all’interno della Chiesa quanto nella società civile. (…).

All’interno della Chiesa, i movimenti liberatori affondano le loro radici non solo nel Gesù della storia e nella tradizione eterodossa e anche eretica del cristianesimo storico, ma anche in fonti più recenti come il Vaticano II e le Teologie della Liberazione. La lista di questi gruppi, generalmente messi a tacere, sarebbe interminabile. (…).

ALCUNE QUESTIONI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

1. Ogni giorno va crescendo l’evidenza dell’incapacità delle grandi istituzioni (UE, Stati nazionali, ecc.) di mantenere la promessa di uguaglianza e benessere per i cittadini. Di fronte a tale realtà (…), la gente cerca la propria identità in istituzioni minori, legate all’etnia o alla religione. È il caso allora di domandarsi quali trasformazioni dovrebbe compiere il movimento laico democratico per assicurare alla popolazione la possibilità di continuare a vivere insieme. O, detto diversamente, come far sì che il diritto alla differenza possa trasformarsi in principio di appartenenza.

2. (…). Una volta separato il trono e l’altare, stabilita la laicità con tutto ciò che questa deve superare (gli accordi con la Santa Sede, il finanziamento della Chiesa, la religione confessionale nella scuola pubblica, i simboli religiosi nei luoghi pubblici, la presenza ufficiale in atti religiosi, ecc.), resterà ancora in sospeso il problema dello Stato. Come dovrà essere lo Stato laico per offrire un’identità a tutte quelle persone che oggi non ce l’hanno: nuovi e vecchi poveri, disoccupati e pensionati, giovani precari e senza tetto (…), emigrati, immigrati, rifugiati