ancora sul burkini …

da Micromega:

Il burkini, la libertà delle donne e il ritorno del sacroburkini3

 di Cinzia Sciuto

Rivendicare il diritto a non dover esibire il proprio corpo non ha nulla a che vedere con l’accettazione dell’obbligo di coprirlo. Il velo rappresenta il ritorno del sacro anche in contesti dai quali lo avevamo faticosamente allontanato. Ma proibire non è la scelta migliore. Servono interventi legislativi contro chi discrimina, non contro chi è discriminato.

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RIVERA Il burkini, proiezione feticistica di un passato coloniale che non passa 

MARZANO Il no al burkini in nome dell’eguaglianza

MANTELLO Il burkini e la sharia in Occidente

POLONY Il velo sulle parole

FLORES D’ARCAIS Perché è giusto vietare il burkini

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il commento al ‘cantico delle creature’ di s. Francesco del filosofo M. Cacciari

 

il Cantico delle creature

di Massimo Cacciari

Il filosofo Massimo Cacciari spiega il Cantico delle creature di San Francesco ponendo particolare attenzione alla parola cum. Questo perché, secondo Cacciari, sono proprio le creature il mezzo tramite cui lodare il Signore, soprattutto tenendo conto del pensiero e dell’opera di San Francesco. L’intervista è stata rilasciata in occasione del Festival Francescano, svoltosi nel settembre del 2015.

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Dio non scaglia fulmini e non manda terremoti

 

la fede davanti al terremoto

“nessun castigo divino. Dio crea, non  distrugge”

di Alberto Maggi Maggi

 

 

“È una bestemmia pensare che Dio, che ha inviato il suo unico Figlio per salvare il mondo, poi lo voglia distruggere a forza di cataclismi. Gesù esclude tassativamente qualunque relazione tra le disgrazie che colpiscono gli uomini e il castigo divino”. Dopo la tragedia del terremoto nel Centro-Italia, su ilLibraio.it la riflessione del biblista Alberto Maggi

il castigo di Dio …

Puntuali, a ogni calamità emergono i tenebrosi necrofori. Sembra che non aspettino altro che le disgrazie, sono il loro abietto alimento. I necrofori sanno che le loro argomentazioni, tremende quanto ridicole, spietate quanto disumane, non hanno alcun fondamento, ma approfittano del momento in cui le persone sono stordite dal dolore e affogate nella disperazione per scagliare le loro inappellabili sentenze, e il verdetto è sempre quello: è il castigo di Dio! E di motivi a Dio per castigare l’umanità non ne mancano, ha solo da scegliere. C’è del sadico piacere in queste persone nell’affondare il coltello sulla piaga del dolore per rivendicare che avevano ragione: l’immoralità della società, la depravazione dei costumi, l’abbandono della pratica religiosa, che cosa altro potevano portare se non terribili castighi divini?

Pur rifacendosi a Dio questi beccamorti mostrano di non conoscerlo minimamente. Dio è Amore (1 Gv 4,8), e nell’amore non c’è alcuna parvenza di castigo. Nel ritratto di Dio che l’apostolo Paolo fa nella Lettera ai Corinti si legge che “l’amore non si adira, non tiene conto del male ricevuto”, che “tutto scusa” (1 Cor 13,5.7), e la buona notizia di Gesù non contiene alcuna minaccia di castighi divini. Il Padre non castiga, perdona, lui è un Dio che nel suo amore arriva a essere “benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). In nessun brano del vangelo si annunziano castighi per i peccatori, ma si afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”(Gv 3,17). È una bestemmia pensare che Dio, che ha inviato il suo unico Figlio per salvare il mondo, poi lo voglia distruggere a forza di cataclismi. 

Gesù esclude tassativamente qualunque relazione tra le disgrazie che colpiscono gli uomini e il castigo divino. Nel vangelo di Luca il Signore, commentando il crollo della torre di Siloe sotto le cui rovine morirono diciotto individui, e nel quale le persone religiose erano certe di aver visto il giudizio di Dio, afferma: “Credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?” (Lc 13,4). Ugualmente nell’episodio del cieco nato, Gesù esclude qualunque relazione tra la cecità e il peccato dell’individuo (Gv 9,3). A quanti vedono una relazione tra peccato e castigo, Gesù annuncia che l’azione di Dio con i peccatori non è punitiva, ma vivificante, e in polemica con Giovanni Battista che aveva annunciato sicuro che “ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco” (Lc 3,9), Gesù risponde che lui presta tutte le cure all’albero sterile, e zappa attorno per far prendere ossigeno alle radici, lo concima.

Dio crea, non distrugge …

Nel mondo primitivo ogni cataclisma era considerato sicuramente un castigo da parte della divinità offesa, e ogni dio aveva la sua specializzazione, c’era il dio dei fulmini (Zeus) e quello delle tempeste (Baal), il dio dei vulcani (Vulcano) e quello dei terremoti (Poseidone). Ma già nel Libro della Genesi viene smentita l’idea del castigo divino. Con la narrazione del diluvio, infatti,l’autore vuole correggere la credenza che metteva in relazione fenomeni atmosferici con l’ira divina, e il Signore stesso assicura che “Non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra”(Gen 9,12). A riprova della verità della sua dichiarazione, il Signore depone le armi: l’arco di guerra, lo strumento che serviva a Dio per lanciare le saette e punire gli uomini, viene definitivamente deposto. L’arco del Signore non solo non servirà più per punire le persone, ma diventerà il segno dell’alleanza tra Dio e l’umanità: “Pongo il mio arco sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra”(Gen 9,13).

Pertanto non c’è da temere alcun castigo da parte di Dio, ma collaborare con la sua azione creatrice per rendere il creato sempre più espressione del suo amore, ponendo il bene dell’uomo come unico valore supremo.

l’autore– Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

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il commento al vangelo della domenica

 

CHI NON RINUNCIA A TUTTI I SUOI AVERI

NON PUO’ ESSERE MIO DISCEPOLO

commento al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario (4 settembre 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 14,25-33

[In quel tempo] una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Nel vangelo di questa domenica Luca presenta le tre radicali condizioni che Gesù ha posto a quanti lo vogliono seguire. Il contesto qual è? Gesù sta andando verso Gerusalemme ed è seguito da tanta gente che, per un malinteso senso del messia, lo segue pensando poi di andare a spartirsi il potere e il bottino. Pensano che Gesù sia il glorioso messia, il figlio di Davide, che va a restaurare il defunto regno di Israele, e non  hanno compreso che Gesù è il figlio di Dio, quello che non va a togliere il potere, ma a donare la propria vita a Gerusalemme. E scrive l’evangelista, vangelo di Luca, cap. 14 versetti 25-33, che “una folla numerosa” – molta folla – “andava con lui”. Allora Gesù, sentendo questo equivoco, questa gente che lo segue per un malinteso senso, per l’interesse, “si voltò e disse loro …” – ed è la prima radicale condizione – “«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle, e perfino la propria vita…»” – in greco adopera il termine yuc» (psyché) che significa ‘se stesso’ – “«non può essere mio discepolo». Gesù in precedenza denunciando, al pranzo con il fariseo, i legami di interesse che legavano questa cricca, questa setta, e i legami dettati dall’amicizia, dalla parentela, dagli interessi; ebbene, nel gruppo di Gesù tutto questo deve essere sciolto. Talmente sciolto che l’adesione a Gesù deve andare al di là dei vincoli familiari, e, in particolare, c’è l’immagine della moglie perché nella parabola che Gesù in precedenza ha comunicato ai suoi, uno degli ostacoli che uno presenta per andare a questo banchetto del regno è “ho preso moglie perciò non posso venire”. Quindi la prima condizione radicale è che l’adesione a lui deve andare al di sopra dei vincoli familiari, tutto il contrario di quello della cricca, della setta dei farisei, dove tutto si faceva per l’interesse del gruppo. La seconda condizione radicale è l’accettazione del disprezzo della società e quindi la grande solitudine. Infatti, afferma Gesù, “«Colui che non porta la propria croce»” – letteralmente “chi non solleva la propria croce”  – “«E non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»”. E’ la seconda volta che appare il tema della croce, tema che, ricordo, non riguarda mai la sofferenza, i momenti tristi che la vita inevitabilmente fa incontrare, mai la croce nei vangeli ha questo significato, ma sollevare la croce significa accettare il disprezzo della società perché quelli che venivano condannati a questa infamia erano considerati la feccia della società. E, in particolare, Gesù si rifà al momento preciso in cui il condannato doveva lui sollevare l’asse orizzontale della croce. Da quel momento doveva andare verso il luogo dell’esecuzione circondato da ali di folla per le quali era un dovere religioso insultare e malmenare il condannato. Quindi la seconda condizione radicale è accettare la solitudine e il disprezzo da parte della società. Poi Gesù, con due esempi che riguardano la torre e la guerra, chiede di calcolare le proprie forze però – ed è questo l’importante – non vuole scoraggiare chi non ha forza, ma di mettere la propria forza nell’azione dello Spirito. Quindi sapere i propri limiti e proprio per questo contare su quella che è la potenza per eccellenza di Gesù, la forza dello Spirito. E lo shock, la sorpresa finale, a quanti lo seguono per spartirsi il bottino dichiara: “«Così chiunque di voi»” – e qui a chi si attendeva chissà quale consiglio spirituale, chissà quale norma ascetica, Gesù pone come condizione per essere discepolo, la terza – “«Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»”. La rinuncia a tutto quello che si possiede, non mettere la sicurezza in quello che si ha, ma mettere la propria sicurezza in quello che si dà, perché Gesù vuole al suo seguito soltanto persone libere. Infatti le tre condizioni per la sequela sono tutte scelte di libertà e per la libertà. In particolare questo fatto della rinuncia agli averi si rifà a quanto Gesù aveva detto in precedenza nella parabole, dove tra i pretesti per non partecipare a questo banchetto c’era quello che ha detto “ho comprato un campo” e l’altro “ho comprato cinque paia di buoi”. Quindi il possesso degli averi di quello che si ha è un impedimento. Bene, allora sono tre condizioni radicali, tutte quante all’insegna della libertà; soltanto chi è pienamente libero può seguire il Signore. Gli altri? Gli altri tutti a casa.

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cosa c’entra Dio con i terremoti? ma allora che fa?

il Dio “onnidebole” dei terremotati

Vitaliano Della Sala

Tratto da: Adista Notizie n° 30 del 10/09/2016

Vitaliano

Il teologo Karl Rahner giustamente affermava che la più grande eresia del nostro tempo è quella di riconoscere Dio solo in quei casi in cui ci aiuta.

Perciò, non so voi, ma io provo sempre un senso di disagio quando ascolto certe prediche e certe frasi demagogiche e di circostanza che, vescovi e preti, pronunciano con leggerezza dopo catastrofi come il sisma che ultimamente ha colpito alcune zone dell’Italia centrale. Più che al Vangelo, assomigliano alle parole che potrebbe pronunciare qualsiasi antico stregone o moderno mago.

La frase peggiore che si sente dire in queste tragiche circostanze è “Dio lo ha permesso”. Come se Dio fosse un burattinaio che si diverte a vederci soffrire e, anzi, ci mette alla prova, con dolori atroci, per saggiare la nostra fede in lui: gioca a mandarci le disgrazie per vedere come reagiamo noi poveri esseri umani; un dio sadico, prigioniero della sua onnipotenza, impotente perché onnipotente; un dio vampiro che vuole ancora sacrifici umani per placare un’ira provocata da non si sa bene cosa, sempre arrabbiato per causa nostra e non sappiamo perché, visto che è stato lui ad averci creati così.Amatrice

Uno degli interpreti di questo dio disincarnato e lontano è stato mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno e personaggio noto al grande pubblico per aver calcato le scene di alcuni programmi televisivi, finito al centro di inchieste giornalistiche sulla gestione dei fondi per la ricostruzione in un altro terremoto, quello dell’Aquila, dove ha svolto il proprio ministero pastorale prima di essere trasferito. Nell’omelia ai funerali delle vittime marchigiane, il monsignore ci ha proposto la domanda antica quanto l’essere umano, con quel pizzico di demagogia che non guasta mai – come insegnano i peggiori politici – «Signore, c’è chi ha perso tutto…. Dove stai? Apparentemente nessuna risposta, ma se guardate oltre scorgerete qualcosa di più profondo. Potete testimoniare che il terremoto può togliere tutto, tranne il coraggio della fede». Insomma una grande “supercazzola”, se non fosse per la tragicità del contesto in cui l’ha posta.Vitaliano della Sala

In alcuni momenti è consigliabile il silenzio. Ma se non si può fare a meno di parlare, noi cristiani dovremmo avere il coraggio di testimoniare evangelicamente il Padre, il Dio di Gesù e quindi dei “perdenti”; il Dio dei crocifissi e delle vittime; un Dio che ci “scandalizza” perché mentre noi ci ostiniamo a volerlo vedere e invocare come l’Onnipotente, lui ci disobbedisce e si presenta come l’“onnidebole”. Il Padre che Gesù ci svela disobbedisce all’idea tutta umana di Dio e, caparbiamente, continua a immedesimarsi nella nostra vita, testardamente si incarna nella storia reale, nelle storie piccole, quotidiane e concrete, tra le pieghe, nei frammenti e negli scarti della Storia.

Invece noi abbiamo addolcito e smussato la provocazione, lo “scandalo” del nostro Dio. Abbiamo tentato una conciliazione impossibile tra il Padre e la nostra idea di un dio magico. Abbiamo nascosto la provocazione evangelica del Dio incarnato e crocifisso, sotto le prediche fervorose e le elemosine di circostanza che spacciamo per condivisione. Che Gesù, figlio di straccioni, sia anche il figlio di Dio urta contro la nostra sensibilità pelosa e contro la nostra troppo unilaterale idea di Dio. In fondo è più comodo considerarci a “immagine e somiglianza” di un dio potente che del Dio Straccione e Terremotato, e forse proprio per questo facciamo tanta fatica a vedere Dio nel povero, nell’emarginato, nel sofferente, nell’escluso.amatrice1

Senza ipocrisia dovremmo ammettere che ci manca il coraggio di restituire il Padre alla gente, a quella gente povera, vittima del terremoto e delle speculazioni, senza casa, senza futuro, senza speranza; dobbiamo restituire il Padre a quelle persone che non sanno più o non sanno ancora che Dio appartiene soprattutto a loro, che sta dalla loro parte, terremotato come loro, schiacciato dalle tIl Dio “onnidebole” dei terremotati

Vitaliano Della Sala 02/09/2016

Tratto da: Adista Notizie n° 30 del 10/09/2016

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spunti per il commento al vangelo della domenica

 

CHI NON RINUNCIA A TUTTI I SUOI AVERI
NON PUO’ ESSERE MIO DISCEPOLO

commento al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario (4 settembre 2016) di p. José María CASTILLO:

Castillo

 

Lc 14,25-33

[In quel tempo] una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

1. Come è logico, l’affermazione posta dai vangeli in bocca a Gesù – secondo la quale dobbiamo “odiare” il padre, la madre, la moglie ed i figli, i fratelli e le sorelle e persino noi stessi – così come risuona, è una barbarie di cui non ci si capacita umanamente. Soprattutto se abbiamo presente che il verbo greco utilizzato nel testo originale è il verbo miséo, che significa letteralmente “odiare”, “disprezzare”, “sottovalutare” (H. Giesen, J. B. Bauer, H. Seebass). Ma come si può accettare una simile atrocità?
2. Per incominciare a chiarirci le idee, sarà bene ricordare che questo verbo è utilizzato nei vangeli quando si parla di “essere odiato a causa di Gesù” (Mc 13,13 par; Mt 24,9 s [10,22]; Lc 21,17; 6,22). Si tratta quindi di un sentimento molto forte (l’odio) che è provocato da una causa molto nobile (la causa di Gesù). Il problema sta nell’armonizzare l’uno con l’altro. La “fedeltà” a Gesù ci può portare a “odiare”? Che “fedeltà” è questa e che “odio” è questo?
3. Se il dilemma è scegliere tra l’”amore” a Dio e l’”odio” ai nostri esseri più amati ed a noi stessi, non resta altra via d’uscita che questa: crediamo in un Dio (Gesù) che, per amarlo, non abbiamo altra soluzione che odiare quello che è più umano, ossia Dio e l’umano sono incompatibili. Ci si può capacitare di tale conclusione? Non resta altra soluzione che accettare queste due convinzioni: 1) Dio in Gesù si è incarnato nell’umano, cioè si è umanizzato pienamente. 2) Noi siamo umani. Ma portiamo iscritta nella nostra umanità la disumanizzazione. Per questo le nostre relazioni con gli altri, incluse le relazioni di parentela, molte volte sono così inumane. Per questo il dilemma posto da Gesù non è il dilemma “amore-odio”, ma la contrapposizione tra l’”umano” e l’”inumano”. Perché sappiamo bene che molte volte negli amori più umani c’è molta inumanità. Questo capita frequentemente nelle relazioni familiari. Padri autoritari, madri castranti, fratelli egoisti…Seguire Gesù è superare queste manifestazioni dell’inumano.

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dopo un terremoto catastrofico possiamo ancora sperare?

dov’era Dio quando tutto crollavaAmatrice

di Luigi Sandri
in “Trentino” del 29 agosto 2016

Sandri

Anche il credente, di ogni religione, fatica a dire parole di senso di fronte ad un evento catastrofico come il terremoto che pochi giorni fa ha colpito l’ Italia centrale. Il cristiano stesso non sa dire “perché?” rispetto al terribile accadimento – e il grido senza risposta, “Dov’era Dio?”, è stato ripetuto in questi giorni; sa, però, dov’ era, e dov’ è l’uomo e, in proposito, alcune parole dette da Gesù, pur in altro contesto, ci appaiono illuminanti. Il capitolo XXV dell’Evangelo di Matteo anticipa le domande che il Signore farà nell’ultimo giudizio. Ai giusti dirà: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, sete e mi avete dato da bere”. “Quando mai – risponderanno costoro – ti abbiamo visto affamato, assetato?”. “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me. Venite, benedetti”. Poi dirà ai malvagi: “Avevo fame e non mi avete dato da mangiare, sete e non mi avete dato da bere”. “Quando mai?”. “Quello che non avete fatto al più piccolo dei miei fratelli non lo avete fatto a me. Andate via, maledetti”.

amatrice2Di fronte ai recenti disastri, è facile immaginare a chi il Signore dirà “maledetti”, e a chi “benedetti”. Dirà “maledetti” a quanti – impresari e tecnici – avessero violato (il se, il quando e il come sarà la magistratura ad accertare) le normative anti-sisma e, “mettendo in sicurezza” ad Amatrice una scuola lesionata da un precedente terremoto, per guadagnare sul sangue della gente avessero risparmiato il necessario cemento e abbondato con la sabbia. E, invece, il Signore dirà “benedetti” a quanti – volontari, pompieri, carabinieri e uomini e donne di tutte le forze dell’ordine – si sono prodigati con generosità esemplare, e con competenza, per salvare persone sepolte dalle macerie. Non è necessario essere cristiani, o seguaci di una qualsiasi altra religione, per avere il coraggio di rischiare perfino la propria vita per salvare chi è in pericolo di perdere la sua. Del resto, i cristiani sanno che tra le domande del Signore nell’ultimo giorno, non ve ne è nemmeno una riguardante il culto (“Sei andato al tempio?”).

amatrice1Essi, giustamente, ritengono importante partecipare alla messa – o Santa Cena, o divina liturgia – per nutrire la loro fede, ma tale scelta dovrebbe spingerli ad aprire il cuore ai bastonati dalla vita; sarebbe, infatti, una radicale distorsione dell’Evangelo, e un sacrilegio, celebrare l’Eucaristia e poi non farsi samaritani verso persone incappate nei ladroni o straziate dalla terribilità della natura. Al di là delle comprensioni del divino, e del rapporto Dio-mondo, questioni sulle quali i/le seguaci delle varie religioni spesso si contrappongono in modo invalicabile, e al di là delle diverse visioni filosofiche proprie di persone diversamente credenti, o agnostiche, o atee, l’esperienza mostra che quando, per amore dell’uomo, ci si unisce solidali con le vittime di eventi infausti, il mondo (non solo l’Italia, perché accade ovunque) offre il meglio di sé. Dunque, possiamo ancora sperare.

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