abiamo impoverito sfacciatamente l’Africa per secoli e ora ergiamo muri per difenderci dal grido dei suoi disperati

così dopo secoli di sfruttamento l’Europa sbarra le porte all’Africa

di Antonio Maria Costa
in “La Stampa” del 24 ottobre 2016

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Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse – umane, minerarie, agricole – inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a Oriente verso il Golfo e l’Asia, e a Occidente verso le Americhe. Schiavi tre su quattro

Da tempo l’Italia sollecita solidarietà in Europa per condividere l’onere dell’immigrazione. La richiesta, senza successo, è motivata da comunanza d’interessi di fronte a violenza e povertà in Africa. In effetti, l’esodo attraverso il Mediterraneo non è solo il risultato di miserie attuali. È conseguenza del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles – e che ora continua con il concorso di Pechino. Un crimine che ha causato, dice l’ex capo Onu Kofi Annan, oltre 250 milioni di morti (neri): per farsi un’idea, il doppio dei morti (bianchi) nelle due guerre mondiali. Storia e giustizia motivano la richiesta italiana, non solo solidarietà. Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse – umane, minerarie, agricole – inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a Oriente verso il Golfo e l’Asia, e a Occidente verso le Americhe. Schiavi tre su quattro Nel ’600 tre africani su quattro sono intrappolati in una qualche forma di servitù. Inglesi e francesi si distinguono per un lucroso commercio triangolare: trasportano cargo umano nelle Americhe, dove usano le acque fredde del Nord per disinfettare navi purulente di sangue e infestazioni.

antonio-maria-costa Poi caricano zucchero, cotone e caffè che trasportano in Europa (a Liverpool e Nantes). Quindi riempiono le stive di manufatti, alcol, armi e polvere da sparo che barattano in Africa con altre vittime. La razzia accelera quando, come risultato della guerra di successione spagnola (i trattati di Utrecht del 1713), Londra ottiene il quasi monopolio del traffico di schiavi attraverso l’Atlantico. Il picco è raggiunto alla fine del ’700 per un totale di 100 milioni di vittime (stima incerta, ma realistica). All’inizio dell’800 due mutamenti storici convergono. Dopo decenni di lotta, il movimento antischiavista prevale: nel 1807 il Regno Unito decreta la fine del traffico internazionale di esseri umani; l’anno successivo aderiscono gli Usa. (Non è la fine della schiavitù, ma la fine del trasporto nell’Atlantico). Al contempo, e per recuperare reddito, inizia l’esplorazione del cuore dell’Africa: David Livingstone, H. M. Stanley e più avanti Richard Burton, mappano i fiumi del Congo, scoprono i grandi laghi e trovano le sorgenti del Nilo. Lo spirito d’avventura anima gli esploratori. La ricchezza delle risorse africane motiva i loro governi, afflitti da problemi economici: una lunga depressione in Francia e Germania (1873-96), un continuo disavanzo commerciale in Inghilterra. L’Africa è ritenuta la soluzione della crisi, grazie alle sue grandiose risorse: rame, diamanti, oro, stagno nel sottosuolo; cotone, gomma, tè e cocco in superficie. L’occupazione Entrano anche in gioco interessi individuali – anzi, personali. L’inglese Cecil Rhodes chiama Rhodesia (oggi Zimbabwe) il Paese del quale s’impossessa. Il re del Belgio Leopoldo II dichiara il Congo proprietà personale e passa dal furto delle risorse umane all’esproprio di quelle naturali. «Quando, dopo 200 anni, traffici umani, mutilazioni e mattanze terminano, inizia la razzia di avorio e caucciù», scrive Stephen Hoschchild, biografo di Leopoldo. In una storia di avidità e terrore, l’African Company (di proprietà del re) causa 10 milioni di morti ed espropria risorse per decine di miliardi attuali. Venti-trentamila elefanti sono abbattuti annualmente. E il Belgio emerge come il Paese più ricco in Europa. Inevitabilmente la corsa a derubare l’Africa diventa ragione di scontro tra le potenze coloniali. Intimorito, il Kaiser Guglielmo II convoca la conferenza di Berlino (1884), durante la quale le potenze europee si spartiscono il continente: un accordo che dura fino al 1914. La demarcazione dei
confini coloniali decisa a Berlino violenta le realtà africane: racchiude etnie, religioni e lingue in confini artificiali, al solo fine di perpetuare il saccheggio delle risorse. In breve, i confini tracciati dagli europei allora pongono le basi per la violenza e la povertà di ora. La II guerra mondiale Dopo la seconda guerra mondiale l’Africa diventa indipendente, con risultati non meno devastanti. In vari Paesi il potere passa nelle mani della maggiore etnia, che raramente coincide con la maggioranza della gente: chi è fuori dal clan è oppresso, spesso fisicamente. Imitando gli oppressori coloniali, i nuovi despoti gestiscono le risorse come proprietà personale. Rubano quanto possibile. Il resto finisce nelle tasche di amministratori corrotti, finanzia milizie a sostegno del potere e, soprattutto, compra la correità degli investitori esteri – inglesi, francesi e belgi. Nel primo mezzo secolo d’indipendenza africana gli interessi economico-finanziari europei (a volte americani) mantengono al potere dittatori sanguinari in nazioni artificiali. Rivolte e fame hanno un costo umano drammatico. Una seconda liberazione si delinea dopo il 1990. Grandi despoti scompaiono, e con essi gli immensi patrimoni da loro saccheggiati. Il comunista Mengistu fugge dall’Etiopia, Mobutu muore in Congo, il nigeriano Abacha spira nelle braccia di una prostituta: questi due ultimi accusati di aver rubato almeno 5 miliardi di dollari a testa. Soldi impossibili da recuperare: all’Onu ho identificato parte dei fondi di Abacha in banche anglo-svizzere, che gli avvocati dei figli del dittatore hanno subito congelato. Inevitabilmente le risorse rubate ai cittadini africani finiscono con l’arricchire le banche di New York, Londra e Lussemburgo.

migranti bambini1La situazione oggi Oggigiorno, a distanza di un quarto di secolo, furti e violenza continuano, dal Sudan di Al-Bashir (2 milioni tra morti e rifugiati), al Congo di Kabila (6 milioni di morti); dallo Zimbabwe di Mugabe, al Sud Africa di Zuma. In Guinea equatoriale il presidente Obiang, al potere da 35 anni, nomina vicepresidente il figlio Mangue – un vizioso che colleziona auto di lusso, tra esse una Bugatti da 350 mila dollari che raggiunge i 300km/h in 12 sec. Il settimanale inglese «The Economist» elenca 7 Paesi africani su 48 come liberi e democratici: tra essi Botswana, Namibia, Senegal, Gambia e Benin. Altrove gli autocrati perpetuano il potere modificando la costituzione (in 18 Paesi), oppure ignorandola (Congo). Il vincitore «piglia tutto», dice Paul Collier di Oxford: ruba per ripartire le spoglie con quanti l’aiutano a preservare il potere. Nulla sfugge al suo controllo: parlamento, banca centrale, commissione elettorale e media. A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltan, niobio, tantalio e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica.

migranti bambini Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti. Fuga verso l’Occidente A questo punto la gente africana ha una misera scelta: morire di violenza e povertà in patria, oppure rischiare la vita nel Mediterraneo, in un esodo dalle dimensioni bibliche – decine di migliaia di persone negli ultimi mesi, decine di milioni negli anni a venire. Papa Francesco parla di carità. Il governo italiano di solidarietà. Certamente. Soprattutto il mondo riconosca che Londra, Parigi e Bruxelles hanno causato il dramma africano, derubando dignità e risorse a gente già povera. È tempo di risarcimento – com’è avvenuto dopo la prima guerra mondiale, dopo l’Olocausto, e a seguito di disastri naturali. Risarcimento in termini di assistenza allo sviluppo (per fermare la migrazione) e in termini d’integrazione (per assistere gli immigrati). L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea.




Dio non si manifesta solo nell’amore eterosessuale ma in tutto ciò che è vero amore

La relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa al plurale . Nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.

una riflessione della pastora valdese Lidia Maggi:Lidia Maggi

Che cosa distingue il legame che unisce una coppia sposata da una che sceglie di convivere? Oltre al rapporto giuridico che tutela l’una invece dell’altra, confesso che, qualche volta, fatico a cogliere la differenza sostanziale nella qualità della relazione, soprattutto sui lunghi tempi.

E’ la mancanza del contratto matrimoniale a rendere meno sacro quel legame? La convivenza è una forma di amore di seconda scelta?

Ho incontrato coppie di sposi e di conviventi che vivono il loro rapporto d’amore nella dedizione più profonda. Difficile distinguere. E se non sono in grado di comprendere appieno la differenza del legame, come spiegarla a chi legge e, soprattutto, alle generazioni future, ai miei stessi figli?

Non sono la persona giusta per fare un’apologia del matrimonio, nonostante sia ministro di una chiesa. Un tempo non la pensavo così, ero convinta che, attraverso quel rito celebrato davanti a Dio e alla comunità riunita, si stabilisse un legame unico, irripetibile, che nessuna altra forma di unione poteva eguagliare. Sentivo la differenza tra sposati e conviventi non solo legata all’aspetto giuridico dell’unione.

La vita e l’esperienza mi hanno resa più cauta nei facili distinguo. Mi capita di sposare giovani coppie, di accompagnarle nella preparazione alla celebrazione, così come ascolto fatiche e gioie di coppie che non sono legalmente sposate.

L’amore è amore

E’ proprio nell’ascolto delle storie più diverse che inizio a maturare la convinzione che l’amore è amore, che ci piaccia o no, anche se questo si esprime in una modalità diversa da quella convenzionale. Questo significa pure che può essere considerato vero amore anche quello che unisce due persone dello stesso sesso, l’amore omosessuale.

Mi rendo conto che rifletto su questo tema leggendo la realtà con le mie lenti protestanti: nelle chiese luterane e riformate il matrimonio non è un sacramento. Ciò non significa che non sia sacro l’amore che unisce due persone. Sacra è infatti la relazione, perché questa è metafora del legame che unisce Dio all’umanità.

Il Dio biblico si rivela come un TU che chiama, che si lega ad una storia particolare. E’ sempre il Dio di qualcuno: il Dio di Abramo e di Sara, di Isacco e di Rebecca, di Giacobbe e di Lia e Rachele, il Dio di Gesù: il mio e il tuo Dio. Il rapporto con Dio può essere molto intimo, ma non può mai diventare fusionale, altrimenti Dio si riduce a un idolo.

Dio è l’Altro che cammina con l’umanità senza (con)fondersi in essa. Questo gioco di intimità e alterità noi lo conosciamo in modo particolare nella relazione affettiva.

Il sacramento dell’amore

In questo senso la relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa “al plurale”. Il “singolare” della scelta matrimoniale finora è stato difeso in quanto scelta definitiva, legame indissolubile. Ma nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.

Non sono una sociologa; ma dal mio limitato osservatorio pastorale vedo che la tenuta del legame di coppia, come pure la sua rottura, si verifica sia per gli sposati che per i conviventi.

La definitività non appare più prerogativa esclusiva del matrimonio. Si dice anche che solo il matrimonio sarebbe in grado di esprimere il risvolto pubblico della scelta di coppia, non relegandolo a faccenda privata. Il problema è reale e, a mio giudizio, va inquadrato nella questione di più ampio respiro che oggi non abbiamo più momenti simbolici che dicano i passaggi decisivi dell’esistenza.

Sono venuti meno nella nostra società i cosiddetti riti di iniziazione. Ma anche in questo caso, non è detto che il matrimonio sia in grado di assolvere a questa funzione. O meglio, che sia l’unico modo per esprimere il momento pubblico della vita di coppia.

Chissà se le chiese, in futuro, saranno in grado di proporre un gesto che conferisca senso “iniziatico” e valore pubblico alla relazione amorosa della coppia, non necessariamente col linguaggio giuridico del “io prendo te, io mi impegno per sempre”, ma anche con quello differente del “io inizio con te un cammino”.

Dai frutti vi riconosceranno

In fondo, anche per le coppie vale il doppio sguardo che i credenti accendono sull’esperienza della fede cristiana. Ovvero: osservandola dalle “radici” oppure dai “frutti”.

Se finora la preoccupazione delle chiese si è concentrata sulle radici, sul porre un gesto pubblico, ufficiale, sacramentale quale la celebrazione del matrimonio, perché non provare a guardare anche ai frutti?

Ci sono persone sposate che hanno trasformato la loro unione in una prigione eppure continuano a rimanere assieme; coppie che, invece, hanno trovato nel matrimonio il terreno fertile per far crescere la relazione d’amore. Lo stesso vale anche nelle convivenze. Ho incontrato persone che, pur non essendo legalmente sposate, non riescono a separarsi anche quando ormai la convivenza è usurata e l’antico terreno fertile dell’amore è diventato un campo di battaglia. Da questo punto di vista lo sguardo si posa sia su convivenze riuscite che su quelle malate, sia sui matrimoni di interesse che su matrimoni che tengono e testimoniano una ricca relazione affettiva.

Ogni storia d’amore è originale

Tutto ciò per affermare: le storie sono singolari e difficilmente giudicabili a priori. Alla scuola delle Scritture impariamo non il giudizio sui principi ma l’ascolto attento e non giudicante, capace di discernere ogni singola storia, evitando le semplificazioni generiche.

Su questo tema ho molto apprezzato gli interventi comparsi su queste pagine di coloro che mi hanno preceduto. Mi interpella l’acutezza di Battista Borsato che ci propone, in controtendenza, una possibile lettura positiva della convivenza come “segno dei tempi”. Egli vede in questo fenomeno la possibilità che la Chiesa si interroghi su come ha gestito la ministerialità degli sposi, considerandoli di fatto persone immature, da governare con istruzioni chiare su come gestire la sessualità, la procreazione, l’educazione dei figli.

Chi sceglie di convivere, consapevolmente o meno, si sottrae a questo controllo rivendicando totale autonomia su scelte così intime come la gestione della sessualità.

Ho trovato poi stimolante la riflessione di Luisa Malesani Benciolini sul rapporto tra matrimonio e sessualità. Le convivenze mettono a nudo le debolezze di alcuni automatismi legati all’immaginario religioso sul matrimonio, come l’indissolubilità e il sesso. Mi riconosco pienamente nelle riflessioni e nelle domande che i due articoli sollevano.

Convivenze sì, convivenze no

Ciò che più ho apprezzato di questi due autori è il tentativo di uscire fuori dai grandi modelli interpretativi del fenomeno delle convivenze per proporre i necessari distinguo e mettersi in ascolto delle singole storie.

Esiste ancora oggi una campagna negativa sulle convivenze che tende a semplificare colpevolizzando i giovani, accusati di non essere in grado di fare scelte per la vita. Tale propaganda viene arginata da chi prova a cogliere il positivo in chi convive, mettendo in luce quei cambiamenti dei modelli sociali e culturali (come l’emancipazione della donna) che hanno portato a mutamenti nella struttura familiare, fino alla necessità di parlare di famiglie al plurale.

Convivenze sì, convivenze no. Ciò che trovo stretto in questo gioco di schieramenti è che, in fondo, i modelli interpretativi affrontano la questione in modo generico, non riuscendo ad essere validi per tutti. Ogni convivenza ha una sua motivazione.

Oltre ai modelli interpretativi ci sono le singole storie.

Le crociate etiche delle chiese

In Italia, su temi etici, sulle questioni fondamentali della vita, quelle su cui dovremmo muoverci con estrema cautela, richiamando innanzitutto ad un ascolto prolungato (come recita il sottotitolo della rivista), le chiese hanno ingaggiato una battaglia sui principi, dove l’ascolto viene giudicato quale giustificazione di un pericoloso atteggiamento relativista.

Queste chiese, portatrici di una sapienza delle relazioni d’amore, secondo la quale la fede si esprime col linguaggio della relazione d’amore, rischiano di non saperla più dire. E i giovani, che non odono più un discorso sapienziale ma solo divieti e lacci, si ritrovano a staccare l’audio di fronte ad una parola giudicante, che pretende di controllare ed incasellare la relazione amorosa.

Di fatto, le chiese, preoccupate di definire lo status della coppia, di catalogarla sotto una precisa voce del registro parrocchiale, si dimostrano succubi dell’attuale clima culturale, dove tutto è messo in discussione e alle agenzie etiche religiose viene assegnato il compito di fornire punti fermi. La presunta fedeltà all’evangelo si riduce così alla reazione emotiva di fronte ad uno scenario nuovo e sfuggente.

Come cambierebbe il discorso se le chiese sapessero dire: ti ascolto, per me tu sei un volto, un nome, la tua storia è singolare; invece che preoccuparsi di iscrivere in una categoria (sposati/conviventi) le diverse storie affettive!

Guarda e ascolta: noi siamo storie!

Oggi, in Italia, assistiamo ad uno scontro ideologico sulla pelle delle coppie. Ma la Scrittura ci insegna a smarcarci da queste semplificazioni, non prive di secondi fini, e a guardare in faccia le persone. Il pastore di cui parla l’evangelo chiama per nome le sue pecore; non le divide per categorie.

L’evangelo può tornare a risuonare per le coppie solo se chi l’annuncia recupera uno sguardo non giudicante ed è capace di un ascolto prolungato. E’ lo sguardo che Gesù posa sul giovane ricco: “fissatolo lo amò”; è l’ascolto in profondità che ha segnato il dialogo con la samaritana e con i tanti che si sono sentiti interpellare da parole di vita.

Forse, alla luce di un serio riconoscimento delle forme di amore al di fuori del matrimonio, è tempo di interrogarci su come parliamo del matrimonio, di fare i conti con l’ambiguità di un “sacramento” troppo spesso celebrato da una religione civile.

Le persone oggi possono scegliere di vivere l’amore attraverso un gesto iniziale pubblico, solenne, sacramentale oppure no, perché le alternative al matrimonio esistono e sono percorribili.

Questa nuova libertà, invece di paralizzarci e allarmarci, può spingere a maturare una maggiore consapevolezza nella forza simbolica e nella pluralità delle forme espressive con cui si sceglie di accogliere e amare l’altro davanti a Dio, alla società e alla comunità riunita.

Segni che non rendono immuni dai possibili fallimenti; ma, pur nella fatica, possono dare vigore e offrirsi come memoriale, soprattutto quando le motivazioni iniziali vengono meno e l’alba di un nuovo giorno sembra troppo lontana.

tratto da “Matrimonio” (15/06/2011)