una teologia per continuare a sperare nonostante tutto

per una teologia della speranza

breve ritratto di Jürgen Moltmann

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Jürgen Moltmann, teologo tuttora vivente, è nato nel 1926 ad Amburgo in una famiglia protestante liberale alquanto secolarizzata, nella quale, a suo dire, Lessing, Goethe e persino Nietzsche erano più letti della Bibbia. I suoi interessi culturali adolescenziali erano focalizzati sulla fisica.

Prima però di potersi iscrivere all’università viene arruolato nella Wehrmacht e nel luglio 1943 visse, come addetto a una batteria contraerea, il violento bombardamento di Amburgo. Il commilitone che gli era accanto cadde, ucciso. Dopo una breve esperienza al fronte, venne fatto prigioniero nel 1945 e trascorse tre anni in prigione, prima in Belgio e poi in Scozia. In questi tre anni di prigionia nacque e si approfondì in lui l’interesse per la fede cristiana. Lesse intensamente la Bibbia, dialogò con compagni di prigionia e, perlopiù cristiani britannici, maturando una vocazione cristiana.moltmann1

Rientrato in Germania nel 1948, si iscrisse alla facoltà di teologia di Gottinga e prese la decisione di diventare pastore evangelico, pur non avendo alle spalle la educazione ecclesiastica e la frequentazione della chiesa allora necessari per i candidati al ministero. A Gottinga conobbe Elizabeth Wendel, come lui studentessa in teologia che diventò sua moglie, nonché partner decisiva del suo itinerario teologico.

Tra i docenti sono particolarmente importanti le figure di Otto Weber, discepolo di Karl Barth, e di Hans Joachin Iwand, esponente di rilievo della cosiddetta chiesa confessante negli anni del nazionalsocialismo. Diventato pastore, Moltmann prestò servizio nella comunità di Bremen-Wasserhorst. I cinque anni da pastore determinarono la sua attenzione nei confronti di quella che egli chiamò ‘teologia del popolo’, cioè l’interesse per le esigenze spirituali della cosiddetta ‘gente comune’, allora particolarmente provata dalla guerra e dalle sue conseguenze economiche.

Moltmann sottolineò spesso che la sua successiva produzione teologica è rimasta legata a questa esperienza pastorale. Egli non ha mai ritenuto di appartenere a quel tipo di teologi che intendono separare la cattedra dal pulpito, il che non è senza rapporto col dato di fatto che i suoi sono tra i testi teologici, senza alcun dubbio, più letti in assoluto in tutto il mondo. Il lavoro pastorale non gli impedì di conseguire il dottorato in teologia e, nel 1958, egli accettò l’incarico di docente nella facoltà riformata di Wuppertal. Qui nacque l’opera per cui è noto: ‘Teologia della speranza’.moltmann2

In quegli anni Moltmann si confrontò con la ‘teologia dell’Antico Testamento’ di Gerhard Von Rad, Walther Zimmerli, Hans Walter Wolff, Hans-Joachim Kraus e, naturalmente, con il pensiero di Rudolf Bultmann, allora dominante. Ma è soprattutto nel discepolo e critico di Bultmann, Ernst Käsemann, che egli trovò le idee esegetiche fondamentali per la sua opera teologica. Decisivo fu poi l’incontro con il pensiero del filosofo marxista Ernst Bloch.

Nel 1963 accettò la cattedra all’università di Tubinga, dove vi rimase fino al termine dell’insegnamento. Il suo lavoro accademico, che si condensò soprattutto nelle due opere ‘Il Dio crocifisso’ (1972) e ‘La chiesa nella forza dello Spirito’ (1975) era nutrito da una serie di esperienze culturali e spirituali. Menzioniamo anzitutto il dialogo tra cristiani e marxisti, nel quale veniva approfondita la valenza politica della fede cristiana, tema al quale Moltmann è rimasto molto sensibile. In questo quadro si colloca anche l’incontro con Johann-Baptist Metz, cattolico e allievo di Karl Rahner: insieme a lui elaborano una ‘teologia politica’ europea.moltmann4

Molto importante inoltre fu il confronto interconfessionale, condotto anche in quanto membro della commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC). In tale sede e in tale veste Moltmann incontrò e approfondì, oltre a quella cattolica, la teologia ortodossa (in particolare nella persona del rumeno Dumitru Stǎniloae), che influenzò profondamente la seconda fase della sua produzione. Importante anche il dialogo con il pensiero ebraico (Franz Rosenzweig e Gershom Scholem soprattutto), in vista dell’elaborazione di una teologia ‘dopo Auschwitz’.moltmann3

Nel 1980 prese avvio quella che possiamo definire la seconda fase del pensiero moltmanniano. Se fino ad allora il teologo aveva svolto ‘l’intera teologia in un punto focale’ (di volta in volta: l’escatologia, la croce, un’ecclesiologia pneumatica), ora egli propose una ‘teologia in movimento, in dialogo, in conflitto’, percorrendo alcuni punti nodali della dogmatica cristiana nell’opera dal titolo ‘Contributi sistematici di teologia’, una serie di sei volumi dedicati rispettivamente: alla dottrina trinitaria, alla creazione, alla cristologia, alla pneumatologia, all’escatologia e al metodo teologico.

Si tratta di opere al tempo stesso molto dense e assai leggibili, non destinate soltanto al pubblico degli addetti ai lavori, come testimonia l’enorme successo editoriale dei suoi libri. La produzione scientifica del teologo fu accompagnata anche da un’intesa attività di conferenziere e dall’appassionata partecipazione alle vicende del proprio tempo: dalla contestazione studentesca, durante la quale egli criticò la legislazione di emergenza introdotta in Germania, alle lotte di liberazione, all’evoluzione dei rapporti Est-Ovest fino al crollo del muro di Berlino, fino all’imporsi del movimento delle donne e del femminismo.




il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 

  commento al vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (29 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Gesù, nel suo insegnamento ha presentato Dio come un Padre il cui amore non è attratto dai meriti delle persone, ma dai loro bisogni. E’ quanto esprime l’evangelista Luca nel capitolo 18, versetti 9-14. Leggiamo.
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola. E la parabola ha un indirizzo ben preciso, per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. Quindi Gesù rivolge questo messaggio a coloro che si sentono giusti. Giusti significa – da un punto di vista religioso – coloro che si ritengono completamente a posto con Dio in base alla loro pratica religiosa, in base alla loro situazione, e per questo motivo disprezzano gli altri. E’ tipico delle persone religiose. 
Quanto uno si sente tanto a posto con Dio, si permette poi di giudicare, condannare e poi disprezzare gli altri. Ed è a questo tipo di persone, quindi le persone molto pie, molto religiose, che Gesù rivolge questa parabola.
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.” Gesù presenta gli opposti della società religiosa e civile dell’epoca. Il termine fariseo significa separato. Chi erano i farisei? Erano laici che si impegnavano ad osservare nella vita quotidiana tutti i precetti, le leggi e le osservanze prescritte nella legge.
Ne avevano estrapolate addirittura ben 613. Erano attenti a non mangiare nulla di impuro, erano scrupolosi osservanti del riposo del sabato. Erano i santi per eccellenza. Quindi il fariseo è la persona che si ritiene – ed è ritenuta – la più vicina a Dio.
All’opposto il pubblicano. Pubblicano viene da publicum, la cosa pubblica. Erano gli esattori del dazio; erano considerati ladri di professione, al servizio spesso dei dominatori pagani, erano considerati i trasgressori di tutti i comandamenti e avevano come un marchio di impurità per il quale per loro non c’era speranza alcuna di salvezza.
Anche se un domani un pubblicano si fosse convertito, lui non avrebbe più potuto cambiare mestiere e poi per lui non c’era nessuna speranza di salvezza.
Quindi Gesù presenta i due opposti. Il più vicino a Dio, e non il più lontano, ma addirittura l’escluso da Dio.
“Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé…” Letteralmente l‘evangelista scrive “pregava verso se stesso”. La preghiera del fariseo non è rivolta a Dio, ma lui ha fatto di se stesso il proprio Dio, il proprio idolo. La sua è un inutile sbrodolamento delle inutili virtù che Gesù non richiede, che Dio non richiede. Ed ecco la sua preghiera: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”. Ecco la preghiera di questa persona che si ritiene giusta, che si ritiene un modello di santità, porta subito al giudizio e al disprezzo degli altri uomini. “Ladri, ingiusti, adùlteri, e (qui c’è proprio una punta di disprezzo) neppure come questo pubblicano.”
Cos’è che lo fa sentire tanto a posto con Dio, cos’è che lo fa ritenere tanto santo, tanto giusto? Quello che Dio non richiede. Le cose inutili. Infatti ora vedremo che questo fariseo elenca tutte azioni superflue, inutili e per questo nocive.
“Digiuno due volte alla settimana …” Il digiuno era comandato una volta all’anno, il giorno del perdono, ma le persone pie, come i farisei, digiunavano due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, in ricordo della salita di Mosè sul monte Sinai e poi della sua discesa. Erano i giorni di digiuno.
“E pago le decime di tutto quello che possiedo”. La decima era una tassa che si pagava su certe derrate alimentari ma non su tutto. Lui, per scrupolo, offre tutto e paga tutto quanto. Notiamo che non elenca nessun atteggiamento benevolo e favorevole ai bisogni degli altri, tutto rivolto a se stesso e a Dio. C’è un fariseo che dice che come lui nessuno osservava la legge e che quando si è poi pentito – è San Paolo di Tarso – dirà che “Tutte queste prescrizioni hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità, e umiltà e mortificazione del corpo, ma il realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare l’egoismo, la carne”. San Paolo, che pure aveva sperimentato questo, dice che non servono a niente. Tutte queste devozioni, tutte queste pratiche religiose, non solo sono inutili, ma sono nocive perché non fanno altro che soddisfare il proprio io.
Nella lettera ai Filippesi San Paolo arriverà a dire che quando ha conosciuto il messaggio di Gesù tutte queste devozioni e pratiche che gli sembravano tanto importanti le ha considerate un escremento.
“Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”. Si sente in colpa, sa che è un escluso da Dio. “Ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, letteralmente “sii benevolo, mostrami la tua misericordia”. Il pubblicano mostra di avere fede. Lui sa che è in una situazione disperata, per lui non c’è perdono, per lui non c’è salvezza, ma nonostante questo – e qui sembra di sentire l’eco del Salmo 23 dove il salmista dice “anche se vado in una valle oscura tu sei con me” – dice “mostrami la tua misericordia”.
“Tu vedi Signore che vita faccio, non posso cambiare, questa è la mia situazione, tu la conosci. Ebbene, nonostante questo, mostrami il tuo amore e la tua misericordia”.
La conclusione di Gesù è sconcertante. “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”. All’inizio l’evangelista ha presentato quelle persone che si ritenevano “giusti” e ora parla di “giustificato” cioè a posto con Dio, in sintonia con Dio. Ma che cosa ha fatto? Non si è pentito. Non ha detto che cambia il suo comportamento, non ha detto nulla di tutto questo, ma ha chiesto al Signore di mostrargli la sua misericordia.
E il Dio di Gesù, il suo amore non lo dirige a chi lo merita, ma a chi ne ha bisogno.
“Perché chiunque si esalta (letteralmente si innalza) sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Quindi Gesù rovescia i paradigmi della società, quello che si riteneva più vicino a Dio per le sue pratiche religiose, per Gesù è il più lontano, perché non fa nulla per gli altri. Quello che conta per Gesù non è quello che si rivolge alla divinità, ma gli atteggiamenti di bene, di benessere che si fanno nei confronti degli altri. E soprattutto, a conclusione, Gesù ricorda che l’amore di Dio non è concesso come un premio per i propri meriti, ma come un regalo per i propri bisogni.

 

 




la bellissima omelia che il vescovo di Trento ha pronunciato al funerale di p. Fabrizio Forti

“cara chiesa di Trento la sua testimonianza sia per te incoraggiamento a metterti il grembiule e passare a servire”lauro

 

“Cara Chiesa di Trento, investi in misericordia: nessuna donna, nessun uomo siano per te estranei o stranieri, non ti è permesso chiudere le porte a nessuno. Ricordati che una sola è la condizione per essere libera: intrecciare le mani, contaminarti con le ferite e le piaghe dei tuoi fratelli. La tua voce non si alzi mai per condannare e giudicare. Non lasciarti mai rubare la speranza, sappi infondere coraggio e fiducia”. Così ha parlato il vescovo di Trento, monsignor Lauro Tisi, nell’omelia della Liturgia funebre per padre Fabrizio Forti, questa mattina in cattedrale. “La sua lezione di frate povero, servo dei poveri, è un regalo – ha ricordato il vescovo – per tutta la nostra comunità diocesana. La fecondità della sua vita, attestata dalle tante volontarie e dai tanti volontari, che con lui e grazie a lui hanno toccato e toccano la carne viva di Cristo che sono i poveri, m’interpella per primo, come vescovo, e interpella tutta la nostra Chiesa”. “La testimonianza di padre Fabrizio – ha aggiunto – sia per te incoraggiamento a metterti il grembiule e passare a servire. Non attardarti solamente nell’ammirarlo, prova a imitarlo. Più di una volta questo tuo figlio, cara Chiesa di Trento, ti ha pungolato, ti ha invitato a muoverti, ti ha rivolto delle critiche. L’ha fatto perché ti voleva bene, ti amava e sentiva che non poteva fare a meno di te, non voleva andare dai poveri senza di te. Ora che è nella luce del Risorto, domandagli di chiedere per te al Padre di non essere permalosa! Lasciati scuotere dai profeti! Il tuo unico interesse sia il Regno di Dio e la sua giustizia!”.lauro1

 

Liturgia funebre per padre Fabrizio Forti 

omelia dell’arcivescovo Lauro

(cattedrale di Trento, 19 ottobre 2016)fabrizio2

La Chiesa di Trento è contenta di ospitare in cattedrale le esequie di padre Fabrizio. La sua lezione di frate povero, servo dei poveri, è un regalo per tutta la nostra comunità diocesana. La fecondità della sua vita, attestata dalle tante volontarie e dai tanti volontari, che con lui e grazie a lui hanno toccato e toccano la carne viva di Cristo che sono i poveri, mi interpella per primo, come vescovo, e interpella tutta la nostra Chiesa.

Dove traeva, padre Fabrizio, la sua forza per servire e amare i poveri e quanti in questa vita così selettiva segnano il passo?

Il nome di Dio, come per Giobbe, anche per lui era Redentore, Liberatore, Riscattatore. A questo Dio si appassionava, questo Dio conosceva e voleva comunicare. Chiesa di Trento, a cominciare dal tuo vescovo, quale Dio accrediti? Quale Signore fai conoscere ai tuoi figli? Dove pianti la tua tenda? Dove hai le tue dimore?

Spesso i poveri vengono chiamati “senza fissa dimora”, ma presso di loro ha dimora il Dio di Gesù Cristo. Cara Chiesa, lì con certezza lo trovi, come ti ha ricordato il Vangelo che hai appena ascoltato. La testimonianza di padre Fabrizio sia per te incoraggiamento a metterti il grembiule e passare a servire. Non attardarti solamente nell’ammirarlo, prova a imitarlo.

Più di una volta questo tuo figlio, cara Chiesa di Trento, ti ha pungolato, ti ha invitato a muoverti, ti ha rivolto delle critiche. L’ha fatto perché ti voleva bene, ti amava e sentiva che non poteva fare a meno di te, non voleva andare dai poveri senza di te. Ora che è nella luce del Risorto, domandagli di chiedere per te al Padre di non essere permalosa! Lasciati scuotere dai profeti! Il tuo unico interesse sia il Regno di Dio e la sua giustizia!

Ero in carcere e sei venuto a trovarmi: prendi parte alla gioia del Tuo Signore”. La beatitudine evangelica ben si addice a padre Fabrizio, perché tra i tanti poveri che egli ha servito, un posto tutto particolare hanno avuto le nostre sorelle e i nostri fratelli carcerati; significativamente, hanno voluto salutarlo prima di questo congedo. Per loro è stato prezioso strumento di misericordia, come ho potuto personalmente sperimentare. Una misericordia che di volta in volta sapeva alternare i colori caldi della tenerezza, con quelli forti di chi guarda in faccia i problemi e cerca di risolverli. Una misericordia che investiva in fiducia e con stupore e gioia riusciva a trovare in ogni persona il tesoro del bello e del buono. E così sapeva essere vicino ai detenuti, come alla polizia penitenziaria e al personale del carcere.

Cara Chiesa di Trento, investi in misericordia: nessuna donna, nessun uomo siano per te estranei o stranieri, non ti è permesso chiudere le porte a nessuno. Ricordati che una sola è la condizione per essere libera: intrecciare le mani, contaminarti con le ferite e le piaghe dei tuoi fratelli. La tua voce non si alzi mai per condannare e giudicare. Non lasciarti mai rubare la speranza, sappi infondere coraggio e fiducia!image-jpgfabrzio3

Umilmente, infine, alla nostra Chiesa e a tutti gli uomini e donne di buona volontà, credenti e non, del nostro Trentino, provocato dai gesti di profezia di padre Fabrizio, vorrei fare una proposta: assumiamoci, come comunità, la responsabilità di farci carico dei poveri, i suoi poveri anzitutto, e i carcerati del nostro Trentino. La sua profezia diventi la profezia dell’intera Chiesa e dell’intera comunità trentina. Facciamoci carico, tutti insieme, della mensa e del carcere. Sarebbe il regalo più bello che possiamo fargli!

La grande sofferenza per la morte di padre Fabrizio potrebbe portarci a pensare al declino inesorabile di un ciclo di uomini e donne profetici nella nostra Chiesa. Quasi come avessimo ammainato la vela. Non dobbiamo cedere a questa tentazione. La fede nel Risorto, che ha alimentato la testimonianza di vita di padre Fabrizio, ci ricorda che egli è approdato alla pienezza.

E tu, caro Fabrizio, dal tuo approdo di luce, aiutaci a riconoscere la tua grande eredità: una Chiesa che frequentando i poveri, servendo i poveri e gli sconfitti dalla vita, sappia aprire spiragli di futuro in questa storia tanto bisognosa di coraggio.




o si cambia o si muore dice L. Boff

 

la chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore

intervista a Leonardo Boffboff

Claudia Fanti 

 

Una vita intera al servizio della causa della liberazione: quella dei poveri e quella del “grande povero” che è il nostro pianeta devastato e ferito. È il loro duplice -– e congiunto – grido, infatti, a occupare il centro della riflessione di Leonardo Boff, tra i padri fondatori della Teologia della Liberazione e massimo esponente del nuovo paradigma ecoteologico, di quel percorso, cioè, che si sviluppa nell’ascolto del nuovo racconto sacro trasmesso dalla scienza, con la sua rivelazione della natura profondamente olistica e relazionale del cosmo (un cammino di ricerca di cui i libri Grido della Terra, grido dei poveri e Il Tao della Liberazione rappresentano indiscutibilmente le espressioni più alte, ma che è possibile seguire anche in molti suoi interventi settimanali, disponibili ogni venerdì nel portale Servicios Koinonia: http://www.servicioskoinonia.org/boff/).

Una riflessione, quella di Boff, che, nell’attento ascolto della profezia contenuta nella stessa voce dell’universo, prende enormemente sul serio le tante minacce di distruzione lanciate contro Gaia, il pianeta vivente che è la nostra casa comune, ma nello stesso tempo è attraversata da un potente soffio di speranza: la speranza che l’evoluzione sia plasmata in modo tale da convergere verso livelli di complessità e di autocoscienza sempre maggiori e che dunque il caos attuale sia generatore di nuove possibilità, l’annuncio di un livello più elevato nella storia dell’essere umano e del pianeta, di quell’unica entità indivisibile Terra-umanità che gli astronauti per primi hanno colto, con emozione e reverenza, guardando il nostro pianeta azzurro e bianco dallo spazio esterno. Cosicché lo scenario attuale, pur così drammatico, non sarebbe una tragedia, ma una crisi, una crisi che mette alla prova, purifica e spinge al cambiamento, annunciando un nuovo inizio per l’avventura umana.

Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Leonardo Boff, in visita in Italia per un ciclo di incontri, a partire dalle prospettive della Chiesa sotto il pontificato di Francesco, su cui il teologo brasiliano, tra i più duramente perseguitati dal Vaticano, ha scommesso fin dalla sua nomina (v. Adista Documenti, n. 18/13), considerandolo l’espressione di un nuovo progetto di mondo e di un nuovo progetto di Chiesa. Di seguito l’intervista.

Una buona novella per i nuovi tempi

Intervista a Leonardo BoffBoff L.

 

Qual è la tua lettura dell’attuale fase della Chiesa?

Penso che papa Francesco rappresenti un progetto di mondo e un progetto di Chiesa. Rappresenta un progetto di mondo che è antitetico rispetto alla parola d’ordine imperiale “un solo mondo, un solo impero”, a cui l’enciclica Laudato si’ risponde con la sua proposta di “un solo mondo e un solo progetto collettivo”, esprimendo la possibilità di dialogo, di incontro tra i popoli, di rinuncia all’uso della violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti (perché non basta essere a favore della pace, bisogna essere anche contro la guerra). E rappresenta un progetto di Chiesa che è riconducibile a Francesco d’Assisi, caratterizzato dalla rivoluzione della tenerezza, dalla misericordia, dalla vicinanza agli esseri umani. Un progetto le cui opzioni di base non sono date, fondamentalmente, dalla dottrina, ma dall’incontro personale, sia con Cristo che con le persone. Si tratta di una visione di Chiesa assolutamente diversa da quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali concepivano la Chiesa come una fortezza assediata dai nemici, contro i quali era necessario difendersi: è la visione di una Chiesa come casa aperta, ospedale da campo, impegnata ad accogliere tutti, indipendentemente dalle loro connotazioni morali, con misericordia e con comprensione, riscattando con ciò la tradizione di Gesù che è anteriore ai vangeli e che è fatta di amore incondizionato. Penso che questo rappresenti una novità nella Chiesa, una rottura. Roma non ama questa parola. Ma è una realtà: papa Francesco ha de-paganizzato la figura del papa, considerato finora un faraone (è significativo che abbia rinunciato alla mozzetta, il simbolo del potere assoluto dell’imperatore). E ha affermato di voler guidare la Chiesa nell’amore e non nel potere. Con il potere, l’amore svanisce. Quando c’è l’amore, c’è vicinanza, comprensione, misericordia. Questa, per me, è la grande rottura operata da questo papa.

E intorno al papa cosa si sta muovendo?

Papa Francesco si trova dinanzi a due tipi di opposizione. Il primo è quello della vecchia cristianità di cultura europea, con tutti i simboli del potere sacro. Il papa si è spogliato dei simboli del potere, se ne è andato ad abitare a S. Marta, si mette in fila per mangiare (così, come ha detto scherzando a un’amica comune, Clelia Luro, è più difficile avvelenarlo!). Il secondo tipo è dato dall’opposizione laica di chi, specialmente negli Stati Uniti, non vuole saperne niente di dialogo o di ecologia, sposando la prospettiva della dominazione occidentale, quella dell’attuale globalizzazione, che in realtà è l’occidentalizzazione del mondo secondo lo stile di vita nordamericano, una sorta di hamburgerizzazione di tutte le culture.

Il papa inaugura un altro modello di cristiano. Io credo che la sua visione sia centrata sulla consapevolezza che Gesù non è venuto per creare una nuova religione, ma è venuto per insegnare a vivere. A vivere nell’amore e nella misericordia. Il nucleo del messaggio di Gesù, la sua intenzione originaria, è l’unione del “Padre nostro” e del “pane nostro”. Il Padre nostro, Abbà, è un volo verso l’alto, l’insopprimibile fame di trascendenza, e il pane nostro esprime la fame reale di milioni di persone, quella che occorre saziare perché abbia senso parlare di Padre nostro e di Regno di Dio. È a questo messaggio che si oppongono quanti vogliono un cristianesimo dottrinario, dogmatico, sistematizzato, tutto disciplina e ordine e potere.

La rottura di cui parli si esprime soprattutto su un piano simbolico. Sul terreno della dottrina, però, non si vedono né si prevedono molte novità…

Io penso che anche su questo terreno il papa abbia operato una rottura. Prima, ad esempio, i temi legati alla morale familiare erano tabù: nessuno poteva parlarne, né i vescovi, né i teologi. E uno dei criteri per le nomine episcopali era dato proprio dall’assenza di una qualsiasi critica relativa al celibato o alla dottrina morale. La novità è che Francesco ha aperto il dibattito su questi temi: non era mai successo che un papa consultasse le basi. Inoltre, sta dando molto valore alla collegialità. Nella sua enciclica, per esempio, egli cita diversi episcopati, anche privi di una grande tradizione teologica, come quelli del Paraguay o della Patagonia. Ed è un fatto estremamente singolare e rivoluzionario che egli abbia invitato a Roma i rappresentanti dei movimenti popolari di tutto il mondo – riunendosi poi nuovamente con loro a Santa Cruz, in Bolivia – per analizzare le cause delle attuali sofferenze: non ha chiamato sociologi, politologi, scienziati, ma quanti sentono il dolore sulla propria pelle. E ha evidenziato due aspetti essenziali: la centralità della terra, del lavoro e della casa e il fatto che non bisogna aspettare che i cambiamenti vengano dall’alto, perché, ha spiegato il papa, la salvezza viene dal basso: sono i poveri organizzati i veri profeti del cambiamento. Tutto ciò era inimmaginabile a Roma prima di papa Francesco.

Non c’è il rischio che tutto questo finisca con il prossimo pontificato?

Il rischio esiste. Ma la mia tesi è che, dal momento che in Europa vive solo il 25% dei cattolici e che la parte restante si trova nel Terzo Mondo, questo papa inaugurerà una genealogia di papi del Sud del mondo, dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, provenienti, cioè, da altri ambienti culturali ed ecclesiali, più liberi dal peso delle tradizioni e più legati alle esperienze popolari di lotta per i diritti umani, per la terra, per la dignità. Io penso che si sia chiuso il ciclo della Chiesa europea e occidentale e che sia cominciato quello di una Chiesa planetaria. E ora la Chiesa è chiamata a de-occidentalizzarsi, a de-patriarcalizzarsi, a decentrarsi. Poiché il mondo è uno solo, io sostengo che i ministeri dovrebbero essere collocati in diverse regioni del pianeta: quello per i diritti umani in America Latina, quello per l’inculturazione in Africa, quello per il dialogo interreligioso in Asia. E che qui debba restare solo un piccolo gruppo incaricato dell’amministrazione generale, lasciando che tutto si svolga attraverso skype, per teleconferenza. Perché la Chiesa deve adeguarsi alla nuova fase dell’umanità. Questa esigenza di decentramento è uno dei due punti che ho evidenziato in una lettera che ho scritto al papa. L’altro punto è la richiesta di convocazione di un’assemblea delle religioni con l’obiettivo di comprendere quale debba essere il contributo delle diverse tradizioni spirituali per la salvezza della vita sul pianeta e della civiltà umana. Ma, per prima cosa, occorre realizzare una riforma interna della Chiesa.

Su questo terreno, tuttavia, non si registrano molti passi avanti…

Penso che il papa non abbia voluto adottare un approccio frontale. A questo proposito, credo che sia stato un errore scegliere per il Sinodo un tema controverso come quello della morale familiare. Perché è un tema che divide. Sono cause universali come l’ecologia, la pace, la lotta alla fame e alla devastazione della biodiversità che possono unire la Chiesa. Questo tema, invece, sembra fatto apposta per mettere il papa alle corde. Quello che Francesco sta facendo è conservare la dottrina tradizionale, ma aprendo il dibattito e lanciando segnali rispetto alla possibilità che questa dottrina cambi. E io, nella lettera che gli ho scritto, gli chiedo di usare a favore dei diritti e della giustizia quella «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» che gli riconosce il Codice di Diritto Canonico.

Ma come può conciliarsi questo con una dimensione di collegialità?

L’obiettivo è il cambiamento della Chiesa. Non bastano le riforme, ci vuole una vera rivoluzione. La collegialità è un ottimo strumento per governare la Chiesa, ma non per cambiarla. La funzione del papa è quella di essere il grande protagonista del cambiamento: dispone degli strumenti necessari, se vuole può usarli. E sarà forse obbligato a farlo, per far capire ai cardinali ribelli che lo stanno sfidando che la Chiesa sarà diversa, perché è chiamata a fare i conti con la nuova fase della Terra e dell’umanità. Il tempo delle nazioni è giunto al termine. Inizia il tempo dell’umanità “planetizzata”, della casa comune. E per questo tempo la Chiesa non è preparata. Perché è eccessivamente occidentale, eccessivamente clericale, eccessivamente dottrinaria, eccessivamente centrata su un paradigma ellenistico. Quello che serve è il modello di una Chiesa veramente globalizzata, un’immensa rete di comunità che si incarnano in molte culture e assumono molti volti e in cui il ruolo del papa è quello del pellegrino che anima le Chiese alla fede e alla speranza, strumento di comunione e non di governo, il quale dovrà essere invece affidato alle Conferenze episcopali nazionali e continentali.

Cosa è possibile attendersi dal Sinodo sulla famiglia?

Penso che il Sinodo sarà un fallimento e aumenterà la polarizzazione tra le diverse posizioni. Probabilmente il papa lascerà aperta la discussione, perché, se la chiudesse, dividerebbe la Chiesa. Penso che sia necessario includere le persone che sono più toccate da questi temi, cioè i laici, uomini e donne. Perché il Sinodo è fatto appena da una frazione clericale e celibataria della Chiesa: finché non saranno coinvolte le persone direttamente interessate, non potrà esserci convergenza. E una delle riforme che il papa ha annunciato, ma che fino ad ora non ha realizzato, è proprio l’inclusione delle donne nei centri decisionali. Non si tratta di incrementarne la partecipazione: questa c’è sempre. Si tratta del fatto che siano loro a decidere. Le donne nella Chiesa non contano. E ciò malgrado vi siano a loro favore tre aspetti che sono più forti degli argomenti episcopali: non hanno mai tradito Gesù (gli uomini lo hanno fatto); sono state le prime testimoni dell’evento più grande della fede, che è la resurrezione; e senza una donna non ci sarebbe stata l’incarnazione. E se la Chiesa non ha mai preso sul serio questa centralità, le donne devono lottare per ottenerla e noi teologi dobbiamo dare il nostro aiuto.

Una delle più avanzate frontiere teologiche è quella impegnata nel compito di riformulare la fede cristiana in un linguaggio che sia più accessibile agli uomini e alle donne contemporanei e più compatibile con tutte le recenti acquisizioni scientifiche. Non credi che tra ciò che accettiamo come verità scientifica e ciò che afferma la dottrina tradizionale della Chiesa si sia aperto un fossato che rischia di essere incolmabile?

Io penso che sia necessario tradurre la fede in un nuovo paradigma, perché la Bibbia e l’intera teologia sono state elaborate all’interno di un paradigma occidentale che oggi non è più adeguato alle esigenze planetarie. E il paradigma che oggi sta guadagnando più terreno è quello della nuova cosmologia. Ho tentato di portare avanti questo compito nel mio libro Cristianismo. O mínimo do mínimo (apparso in italiano con il titolo Al cuore del Cristianesimo, Emi, 2013; ndr), pensando il cristianesimo all’interno del processo evolutivo e riformulando il messaggio cristiano in un linguaggio che dovrebbe divenire coscienza collettiva, il linguaggio quotidiano del nuovo paradigma. È questo il grande compito che la Chiesa intera è chiamata a svolgere, coscientemente e collegialmente. Un grande lavoro collettivo di traduzione della fede nel nuovo paradigma che viene dalla fisica quantistica, dalle scienze della vita e della Terra. È la sfida che ho cercato di cogliere scrivendo insieme al cosmologo Mark Hathaway il libro The Tao of Liberation: Exploring the Ecology of Transformation (tradotto in italiano con il titolo Il Tao della Liberazione, Fazi Editore, 2014; ndr): un libro che ha richiesto 13 anni di ricerca e di riflessione e che è il tentativo di utilizzare questa base scientifica per ripensare il concetto di Dio, i concetti di Spirito, di Grazia, di Resurrezione.

Qual è il principale messaggio di speranza che ci trasmette la nuova cosmologia?

Che tutto ha a che vedere con tutto, in tutti i momenti e in tutte le circostanze: tutto è in relazione, come ha riconosciuto lo stesso papa nell’enciclica. La materia non esiste, è solo energia altamente condensata, e tutti abbiamo lo stesso cammino e lo stesso destino. E malgrado tutte le crisi, tutte le traversie, tutte le devastazioni, l’universo va sempre auto-organizzandosi e autocreandosi in direzione di una sempre maggiore complessità. Teilhard de Chardin è stato profetico: esistono tante contraddizioni, si passa attraverso tanta devastazione e a volte sembra che il male prevalga, eppure la vita non è mai stata distrutta. Come ha evidenziato Edward Wilson, la vita non è né materiale, né spirituale: la vita è eterna ed è immersa nel processo dell’evoluzione. Ed è quello che afferma il cristianesimo: che tutto è relazionato e che esiste un fine buono per l’umanità e per l’universo. In altre parole, non andremo incontro alla morte termica, ma a forme sempre più complesse e più alte.

Eppure la teoria della morte termica dell’universo, lo scenario in cui l’espansione accelerata provocherebbe un universo troppo freddo per sostenere la vita, è sostenuta da molti fisici e cosmologi…

Io penso che questa tesi sia stata superata da Ilya Prigogine, il quale ha vinto il Premio Nobel per la chimica per le sue scoperte sulle strutture dissipative, mostrando come l’evoluzione si realizzi nello sforzo di creare ordine nel disordine e a partire dal disordine, cioè come il caos si riveli altamente generativo, trasformandosi in un fattore di costruzione di forme sempre più alte di complessità e di ordine. In contraddizione con la visione lineare propria della fisica classica, ci si muove qui sul terreno della fisica quantistica, con il suo procedere per salti, per accumulazioni di energia. Oggi, pertanto, disponiamo delle basi scientifiche per elaborare una visione che è più adeguata al messaggio di speranza del cristianesimo, quella di un universo come corpo della divinità, un universo che non terminerà con una grande catastrofe, ma con un nuovo cielo e una nuova terra, un salto immenso nella linea di Theilard de Chardin, un’implosione ed esplosione all’interno di Dio. Non un’altra terra, ma questa stessa terra trasfigurata. È come la morte umana, che non è la fine della vita, bensì un luogo alchemico in cui la vita si trasforma e passa a un altro livello, fuori dallo spazio-tempo, ma restando vita.

Al tentativo di articolare Teologia della Liberazione ed ecologia hai dedicato trent’anni di lavoro: un lavoro condotto per tanto, troppo tempo in pressoché totale solitudine, davvero vox clamans in deserto, finché la gravità della crisi ambientale non ha costretto anche la teologia latinoamericana ad assumere la questione tra le proprie priorità. Com’è ti appare ora la situazione?

Negli anni ’80, ho preso consapevolezza della questione ecologica nei seguenti termini: il marchio registrato della TdL è l’opzione per i poveri, contro la povertà e a favore della liberazione e della giustizia sociale. E chi è, oggi, il grande povero? È la Terra! Pertanto, all’interno dell’opzione per i poveri, occorre collocare la Terra, devastata e aggredita. Ma bisogna pensare la Terra non secondo il vecchio paradigma, come una cosa inerte e inanimata, bensì all’interno della nuova cosmologia, come un superorganismo vivo, come Gaia, secondo la teoria di James Lovelock, come la Madre Terra, secondo quanto hanno riconosciuto le stesse Nazioni Unite, che hanno proclamato il 22 aprile come Giornata internazionale della Madre Terra. Mi sono allora dedicato, per alcuni anni, allo studio della cosmologia e ne è nato il libro Ecología: grito de la Tierra, grito de los pobres (tradotto in italiano con il titolo Grido della terra grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, Cittadella, 1996). Un’opera che all’epoca non ha praticamente suscitato alcuna reazione tra i teologi, anche se, più tardi, alcuni l’hanno considerata ancor più importante del libro Teologia della liberazione di Gustavo Gutierrez, l’opera che ha segnato l’inizio della TdL, ma che è ancora legata al vecchio paradigma. Io penso che la grande maggioranza dei teologi della liberazione si muovi ancora all’interno del vecchio paradigma. Le difficoltà, è vero, sono molte, perché bisogna studiare le scienze della vita, la fisica quantistica, la nuova antropologia, ma in questo modo si può fare una teologia molto migliore dell’altra, e comprendere assai più in profondità il messaggio cristiano. Io penso che questo sia un compito che va anche oltre la nostra generazione: è il cammino che il cristianesimo è chiamato a percorrere per essere una buona novella per i nuovi tempi. Vino nuovo, otri nuove. Musica nuova, orecchie nuove.

Come ti spieghi che in Brasile molti movimenti popolari, pur facendo propria la lotta contro il riscaldamento globale, difendano progetti ecologicamente devastanti come il pre-sal, l’enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane?

È una contraddizione legata ai Paesi in via di sviluppo. I Paesi del Nord del mondo, infatti, potrebbero mirare alla prosperità rinunciando alla crescita e approfondendo maggiormente dimensioni come quella della spiritualità, dell’arte, ecc. I nostri Paesi, invece, hanno ancora bisogno di crescita, perché il livello di vita dei nostri popoli è molto basso: manca l’acqua, la casa, l’elettricità; occorre investire nella salute e nell’educazione. Così, in Brasile, c’è molta attenzione per questi temi, mentre si trascura la problematica ecologica. Esistono solo piccoli gruppi di ecologisti. Eppure il Brasile potrebbe prescindere totalmente dal petrolio sfruttando l’immensa energia prodotta dal sole. E invece si punta a un progetto come il pre-sal che avrà un impatto devastante sull’oceano, in termini di contaminazione delle acque e di distruzione della biodiversità. Ho discusso varie volte con Lula di tutto questo, ma a suo giudizio è sufficiente che piova due giorni di seguito perché tutto rifiorisca nuovamente. In realtà, però, è il sistema globale che è in crisi e che rischia il collasso. Forse la nostra coscienza si risveglierà quando sentiremo sulla nostra pelle le conseguenze della catastrofe. Come diceva Hegel, l’essere umano non apprende niente dalla storia, ma impara tutto dalla sofferenza. Anche se preferisco Sant’Agostino, il quale riteneva che fossero due le scuole: la sofferenza, che ci offre severe lezioni, e l’amore, che produce gioia e trasformazione. Io penso che trarremo insegnamento dall’amore e dalla sofferenza. Di fronte a noi ci sono solo due strade: o cambiamo o moriremo. Quella che stiamo attraversando è una grande crisi, ma la crisi purifica, obbliga a cambiare strada, prepara forse il terreno per l’avvento di una nuova civiltà centrata sulla vita umana e sulla vita della Terra, una biociviltà, la Terra della buona speranza.

Ma sarà necessario passare per quella che è stata già definita come la sesta estinzione di massa…

Siamo nel pieno dell’Antropocene, l’era in cui l’essere umano – e non un meteorite, né un qualche cataclisma naturale di dimensioni colossali – è diventato la più grande minaccia contro la vita. Edward Wilson ha calcolato che stiamo perdendo ogni anno da 20mila a 100mila specie viventi. È davvero la sesta estinzione di massa e potrebbe anche colpire una buona porzione dell’umanità, soprattutto quella povera e sofferente. In questo caso, spetterà ai sopravvissuti riorganizzare il pianeta su nuove basi. Mikhail Gorbacev, il coordinatore delle attività della Carta della Terra, paragona la situazione della Terra e dell’Umanità a quella di un aereo sulla pista di decollo: arriva un momento critico in cui l’aereo deve decollare, se non vuole schiantarsi in fondo alla pista. E, a suo giudizio, abbiamo già oltrepassato il punto critico e non ci siamo alzati in volo. Ma gli esseri umani sono sorprendenti e capaci di cambiamento. L’evoluzione non è lineare, procede per salti, ed è possibile che l’umanità acquisti consapevolezza e operi il salto necessario, abbracciando una nuova visione che abbia al centro l’intera comunità di vita, anche le piante e gli animali che sono nostri compagni nella casa comune. Dopotutto, l’essere umano ha in sé energie divine, di quel Dio che è sovrano e amante della vita e che non permetterà che la vita scompaia.

Come interpreti l’attuale situazione del Brasile? Ritieni che il governo di Dilma avrà la forza di superare la crisi?

È una situazione molto critica. Strappando alla povertà 40 milioni di brasiliani, il Pt ha commesso l’errore di trasformarli appena in 40 milioni di consumatori, trascurando quel lavoro di coscientizzazione necessario per restituire loro il senso di cittadinanza. Il consumatore, si sa, mira a consumare sempre di più. E se non è possibile si genera un grande malessere collettivo. E questo è un errore che viene sfruttato dall’opposizione. La nostra disgrazia è che non esiste un’alternativa. Nessuno tra le fila dell’opposizione possiede autorità morale e un progetto diverso dal neoliberismo e dall’allineamento agli Stati Uniti. E purtroppo il governo Dilma, venendo meno alle promesse della campagna elettorale, sta scaricando sugli operai e sui pensionati i costi della crisi, risparmiando le grandi imprese e le banche. Occorre tener presente che il Brasile, in virtù dei suoi immensi spazi geografici e delle sue grandi ricchezze naturali, è uno dei luoghi del pianeta che fa più gola al capitale. Siamo in un vicolo cieco. Non esiste in questo momento alcuna soluzione ragionevole. L’unica speranza viene dalla nascita di una grande articolazione dei movimenti di base, i quali si sono recentemente incontrati con Dilma con l’obiettivo di creare una base non parlamentare, ma popolare, per far fronte all’offensiva dell’opposizione, in maniera che su tale base Dilma possa portare avanti progetti sociali in una prospettiva realmente educativa, creando una nuova coscienza di cittadinanza. Ciò permetterebbe al governo di andare avanti, in attesa forse di una nuova candidatura di Lula nel 2018. Anche se per il Pt sarebbe meglio restare un po’ di tempo fuori dal potere, per fare autocritica e riformulare un progetto di Paese.

È difficile pensare che Lula possa rappresentare il futuro del Brasile…

Lula immagina il Brasile come un’immensa fabbrica da sud a nord in cui tutti lavorano, consumano, comprano casa e macchina. Ma si tratta di un progetto più adatto al XIX secolo che al XXI. Lula è un grande leader, ma la storia ha oggi bisogno di un’altra forma di leadership. E purtroppo non c’è alcuna figura che esprima questa coscienza nuova. A mio giudizio, il Brasile è sia espressione della tragedia dell’umanità – basti pensare all’assassinio sistematico dei giovani neri (ne vengono assassinati 60 al giorno) e alla devastazione della natura – sia laboratorio di speranza, promessa di un’altra forma di abitare il pianeta, secondo una prospettiva bioregionalista – la vera alternativa ecologica alla globalizzazione omogeneizzante – che integra e valorizza i beni e i servizi di ogni ecosistema insieme alla sua popolazione e alla sua cultura.

* Immagine di Valter Campanato (Agência Brasil), tratta dal sito Commons Wikimedia, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata, le utilizzazioni in difformità della licenza potranno essere per




il mondo migliora non con la competizione ma con la solidarietà

Bauman:

«cari top manager, siate più solidali

esce in questi giorni da Città nuova il libro Il destino della modernità con testi del sociologi Zygmunt Bauman, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti a partire dalla domanda «Quale società dopo la crisi economica?» (pagine 100, euro 12).

alcuni brani firmati da Zygmunt Bauman
L’anelito di libertà ha attraversato tutta la storia dell’umanità, dando vita a movimenti politici, ordinamenti giuridici e sistemi economici. Oggi la società occidentale è autenticamente libera? Partendo da tale interrogativo, Zygmunt Bauman, il teorico della società liquida, e i sociologi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi indagano sull’esito paradossale del poderoso sviluppo economico degli ultimi 40 anni. Il progresso ha aumentato le potenzialità di scelta dell’uomo, ma lo ha ingabbiato in una concezione radicalmente individualista dell’esistenza umana, prigioniero del consumismo, degli apparati tecno-economici e della volontà di affermare se stesso.

Ritengo che la questione centrale che investe la libertà nel mondo contemporaneo sia rappresentata dall’alternativa tra il concetto di competizione e quello di solidarietà.

La competizione è, di fatto, una concorrenza che spinge ogni essere umano a portare avanti la propria posizione e che porta a sostenere: «Io voglio che le cose siano come io le desidero». La solidarietà, invece, presuppone l’idea che tutti gli uomini e le donne possano vivere insieme in modo collaborativo e possano cercare di diventare, tutti, più felici.

Nella società odierna, mi sembra di poter rilevare che ci sono alcuni elementi della libertà umana che sono quanto meno in discussione se non addirittura in pericolo. Le capacità di scelta che sono nella disponibilità degli uomini si stanno, infatti, progressivamente restringendo; la responsabilità decisionale, inoltre, viene negata a molte persone; e la speranza, infine, per molti giovani, di poter realizzare e mettere in pratica ciò che è stato insegnato loro dalla scuola, dalla famiglia e dalla società sembra venir meno. Una percentuale molto alta di questi giovani, infatti, dopo aver completato la loro istruzione – anche solo quella superiore – è molto felice della formazione che ha ricevuto e dell’impegno che ha profuso per raggiungere determinate competenze. Tuttavia, una volta concluso il ciclo scolastico, essi si trovano a entrare in un mercato del lavoro estremamente difficile, dove è molto complicato trovare un’occupazione. Molto spesso non riescono a trovare il tipo di lavoro per cui si sono preparati, per cui hanno investito il loro tempo, che rispecchi i loro desideri e che dia un senso alla propria vita, rendendo la propria esistenza più gratificante possibile.

La società attuale, infatti, sta lentamente e costantemente diventando una società oligarchica in cui la classe politica – sempre più autoreferenziale – invece di farsi carico dei problemi della società e di interessarsi di coloro che hanno più bisogno di aiuto e di assistenza, continua a garantire la possibilità che la ricchezza si accumuli nelle mani di poche persone. E questo non solo è da condannare a livello morale ed etico, ma è anche pericoloso per i valori della democrazia e della meritocrazia.

Cosa significa meritocrazia? I principi della meritocrazia sono stati definiti già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il cui primo articolo afferma che «le distinzioni socia- li non possono fondarsi che sull’utilità comune». Cioè su quanto una singola persona può dare allo sviluppo del benessere di tutta la società. Oggi, però, sta accadendo esattamente il contrario. Thomas Piketty, a questo proposito, ha messo bene in evidenza come l’aumento delle disuguaglianze rifletta ampiamente una esplosione ‘senza precedenti’ dei più alti redditi da lavoro e la separazione sociale che esiste, di fatto, tra la vita dei top manager delle grandi aziende e il resto della popolazione. I più importanti dirigenti aziendali, infatti, avendo il potere di stabilire i propri compensi, si sono attribuiti delle retribuzioni che in moltissimi casi – e ‘senza alcun contegno’, scrive sempre l’economista francese – non hanno un evidente rapporto con la loro ‘produttività individuale’.

Se siamo d’accordo con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ovvero che la distinzione sociale può essere basata soltanto sull’utilità alla comunità, allora dovremmo declinare il criterio di utilità con quello di solidarietà: ovvero con il proposito di condividere il miglioramento della vita umana con tutti gli altri membri della comunità.




p. Fabrizio è stato importante nella mia vita

è morto padre Fabrizio Forti

il vescovo: colonna della Chiesa dei poveri

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lutto nel mondo della chiesa e del volontariato trentino: si è spento padre Fabrizio Forti

Il frate è stato trovato privo di vita nella sua stanza del convento di Trento. Se n’è andato in silenzio, stroncato nella notte tra sabato e ieri da un malore che lo ha strappato ad un’esistenza dedicata agli altri, alle persone in difficoltà, agli ultimi.

Il religioso, che avrebbe compiuto 67 anni il prossimo 20 ottobre, era nato a Gardolo dove nel 1949.

Padre Fabrizio ieri mattina, come ogni domenica, avrebbe dovuto salire al carcere di Spini, per celebrare la messa per e con i detenuti. Teneva molto a questo suo impegno, per questo quando dal carcere hanno telefonato per chiedere come mai padre Fabrizio non fosse ancora arrivato, in convento a Trento hanno subito capito che poteva essere successo qualcosa di grave.

Quando i confratelli hanno notato la sua auto nel piazzale, hanno subito deciso di intervenire, forzando la porta della sua camera.

Purtroppo, però, non c’era ormai più nulla da fare: il religioso era nel suo letto, privo di vita ed ogni soccorso è stato vano.

Al convento e alla mensa dei Cappuccini, ricordano che da un paio di giorni padre Fabrizio sembrava stare meno bene del solito: piccoli segnali, di fronte ai quali però, per il religioso, gli altri avevano la priorità: «Sei matto? C’è la mensa, c’è da fare: sto già meglio», rispondeva a chi gli chiedeva se non fosse il caso di fermarsi un attimo e riposare.

Padre Fabrizio Forti, gardolòto classe 1949, fin da quando aveva risposto alla «chiamata» vocazionale aveva iniziato a cogliere il messaggio evangelico nel sostegno dei fratelli in difficoltà: «Bisogna innamorarsi: innamorarsi di un Dio che vedi dentro ogni uomo, con le sue diverse povertà. E ogni sera in verità mi sembra di riscoprirmi innamorato», raccontava sette anni fa al collega Diego Andreatta.

Il percorso seguito da padre Fabrizio prima di dedicarsi alla «mensa della Provvidenza» alla Cervara, è stato lungo e sempre segnato dall’attenzione agli ultimi, tra gli altri ed ai percorsi di vita segnati dalle difficoltà. Era stato tra i più convinti sostenitori delle esperienze di comunità di cui era stato tra le anime in Valle di Cembra – a Piazzo prima e Faver poi, con Valle Aperta, realtà alla quale l’allora trentaquattrenne religioso si dedicò intensamente – ed in Valle dei Laghi.

Le parole del vescovo

La scomparsa di padre Fabrizio Forti ci addolora molto. Con lui se ne va prematuramente una colonna di quella Chiesa capace di incarnare il Vangelo dei poveri e il volto misericordioso di Dio Padre Fabrizio si è speso per restituire dignità alle persone, fossero piegate dall’indigenza o condannate al carcere. Ha narrato un Dio che non emette giudizi, ma si prende cura di chi fa più fatica. Dio lo ha chiamato durante il Giubileo della misericordia, quella che lui ha esercitato per tutta la vita con fede tenace. Prego perché le opere e le idee dell’amico Fabrizio possano continuare a portare frutto.

Il dolore di Ugo Rossi

La comunità trentina perde un pilastro, un esempio e un punto di riferimento. Un grande uomo, che ha dedicato la propria vita a dare ristoro e soccorso ai più deboli. Ricorderemo padre Forti come il simbolo di un Trentino umile, solidale, ma anche caparbio ed instancabile nell’impegno verso gli altri. La storia di quest’uomo rappresenta una fulgida testimonianza di vita cristiana, di fede e di generosità, un insegnamento per tutti noi che non dovremo mai dimenticare, aiutando e sostenendo coloro che proseguiranno nella sua opera.

Fu una delle persone più contrarie alla realizzazione dell’inceneritore

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L’intervista

 




in memoria di padre Fabrizio Forti, un profeta dei nostri giorni che ho avuto la fortuna di sentire amico

padre Fabrizio un missionario a casa nostra

di Paolo Mantovan fabrizio2
in “Trentino” del 17 ottobr 2016

padre Fabrizio Forti, nella sua semplicità e nel calore della sua accoglienza, era un profeta dei nostri giorni, un uomo dalla voce profonda e robusta, ma dalla parola rotonda, semplice. Era un uomo che credeva nella radicalità e che la incarnava nell’azione, senza fronzoli, col grembiule, preparando il pasto per i poveri

image-jpgfabrzio3 Ed era anche l’uomo del sorriso, genuino, semplice. Padre Fabrizio Forti ci lascia all’improvviso, dopo aver trascorso tutta la vita come un missionario dentro casa sua: perché il mondo per lui era ovunque e anche qui c’era il prossimo, c’erano i poveri. Padre Fabrizio Forti era anche una voce scomoda. Soprattutto negli anni della gioventù. A fine anni Ottanta, quando decise di fare del convento di Segonzano un luogo di grande intensità, portò con sé anche il bagaglio della protesta. Una “protesta” speciale, di chi vorrebbe attorno a sé una chiesa più vicina a quel “poveraccio di Francesco” come diceva lui. Perché tanti condividevano e perfino cantavano o pregavano con le parole di San Francesco, ma poi metterle in pratica era un’altra musica. E così Fabrizio, con padre Giorgio Butterini, là a Segonzano sembrava che coltivasse un luogo di impegno e un pochino di “contestazione”. Fu un tratto che non abbandonò mai: lo spirito critico nei confronti delle istituzioni. Erano gli anni del vescovo Giovanni Maria Sartori e per Fabrizio Forti non furono facili, perché erano anche i suoi anni bollenti, quelli della gioventù e della prima maturità. E a pensarci bene furono davvero anni formidabili per la chiesa trentina. Perché c’era una straordinaria squadra di sacerdoti degli ultimi.

fabrizio1 C’era don Valerio Piffer che prese in mano quel luogo di frontiera che era Casa Bonomelli, e poi c’era don Clauser, indimenticabile don Dante, che inventò il Punto d’Incontro, e padre Fabrizio Forti che, dentro il convento dei cappuccini di Trento, alla Cervara, quando divenne “guardiano” (ossia il “capo” pro tempore dei frati del convento), decise di aprire le porte accogliendo gli ultimi nel corridoio che dava sul chiostro per dar loro un piatto di minestra: e lo fece anche se alcuni frati lo guardarono un po’ storto. Qualcuno dei confratelli disse che era esagerato, che se i poveri non fossero esistiti lui li avrebbe inventati. E invece inventò la mensa dei poveri, che poi divenne una delle sue “missioni per sempre”. Una mensa che è riuscita a coinvolgere tantissime persone come volontari, che ha allargato il cuore a tanti trentini, soprattutto quando prendevano dei pacchi viveri o un piatto di minestra ben impacchettato da padre Fabrizio che diceva loro: «Vai là, a quel numero civico, e non dire mai che hai consegnato questo pacco a quella famiglia». Era la regola della discrezione, «la consegna del segreto», la sua capacità di tutelare chi era povero e viveva nella vergogna. Che erano e sono tanti, molti di più di quanto non si creda. E lui conosceva tutti i veri poveri, perché a lui tutti si rivolgevano, di lui tutti si fidavano. Padre Fabrizio Forti è stato un missionario di casa nostra che ha vissuto la radicalità del grembiule, quella di cui parlava don Tonino Bello. E chi ha conosciuto padre Fabrizio sa bene che la sua accoglienza era talmente calorosa da far venire i brividi: quando ti salutava sembrava che tu fossi la persona che aspettava da sempre.

fabrizio Perché padre Fabrizio aveva il dono, diversamente da altri preti e frati degli ultimi, di sapersi avvicinare a tutti, aveva quell’empatia che lo rendeva speciale. Aveva il dono della semplicità e insieme della profondità con cui riusciva ad aprire porte impensabili del cervello e del cuore di chi lo ascoltava. E poi era anche bravo a sorridere, ridere e far ridere. Aveva fatto ridere anche i confratelli a cena, sabato sera, prima di dire: «Mi ritiro in stanza un po’ prima, voglio preparare presto l’omelia di domani». Ed è morto in silenzio, nella sua cameretta. Con padre Fabrizio Forti se ne va uno degli ultimi sacerdoti trentini di frontiera in casa nostra. Ma soprattutto un uomo che ha vissuto in intensità e pienezza ciò che ha cercato per tutta la vita.




cattolici uniti solo dalla guerra contro papa Francesco

quei cattolici contro Francesco che adorano Putin

di Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 16 ottobre 2016

papa Lesbo1

A tenerla unita è l’avversione a Francesco. La galassia del dissenso a Bergoglio spazia dai lefebvriani che hanno deciso di «attendere un Pontefice tradizionale» per tornare in comunione con Roma, ai cattolici leghisti che contrappongono Francesco al suo predecessore Ratzinger e lanciano la campagna «Il mio papa è Benedetto»Socci

Ci sono gli ultraconservatori della Fondazione Lepanto e i siti web vicini a posizioni sedevacantiste, convinti che abbia ragione lo scrittore cattolico Antonio Socci a sostenere l’invalidità dell’elezione di Bergoglio soltanto perché nel conclave del marzo 2013 una votazione era stata annullata senza essere scrutinata. Il motivo? Una scheda in più inserita per errore da un cardinale. La votazione era stata immediatamente ripetuta proprio per evitare qualsiasi dubbio e senza che nessuno dei porporati elettori sollevasse obiezioni. Ancora, prelati e intellettuali tradizionalisti firmano appelli o protestano contro le aperture pastorali del Pontefice argentino sulla comunione ai divorziati risposati e sul dialogo con il governo cinese.
Il dissenso verso il Papa unisce persone e gruppi tra loro molto diversi e non assimilabili: ci sono le prese di distanza soft del giornale online «La Bussola quotidiana» e del mensile «Il Timone», diretti da Riccardo Cascioli. C’è il quasi quotidiano rimprovero al Pontefice argentino messo in rete dal vaticanista emerito dell’«Espresso», Sandro Magister.

magister Ci sono i toni apocalittici e irridenti di Maria Guarini, animatrice del blog «Chiesa e Postconcilio», fino ad arrivare alle critiche più dure dei gruppi ultratradizionalisti e sedevacantisti, quelli che ritengono non esserci stato più un Papa valido dopo Pio XII. La Stampa ha visitato i luoghi e incontrato i protagonisti di questa opposizione a Francesco, numericamente contenuta ma molto presente sul web, per descrivere un arcipelago che attraverso Internet ma anche con incontri riservati tra ecclesiastici, mescola attacchi frontali e pubblici a più articolate strategie. In prima linea sul web contro il Papa, lo scrittore Alessandro Gnocchi, firma dei siti Riscossa cristiana e Unavox: «Bergoglio attua la programmatica resa al mondo, la mondanizzazione della Chiesa. Il suo pontificato è basato sulla gestione brutale del potere. Uno svilimento della fede così capillare non si è mai visto».putin
Cabina di regia Tra le mura paleocristiane della basilica di Santa Balbina all’Aventino, accanto alle terme di Caracalla, la Fondazione Lepanto è uno dei motori culturali del dissenso a Francesco. Tra libri pubblicati, l’agenzia di informazione «Corrispondenza romana» e gli incontri tenuti nel salone del primo piano qui opera una delle cabine di regia del fronte anti-Bergoglio. «La Chiesa vive uno dei momenti di maggiore confusione della sua storia e il Papa è una delle cause – afferma lo storico Roberto De Mattei che della Fondazione Lepanto è il presidente -. Il caos riguarda soprattutto il magistero pontificio. Francesco non è la soluzione ma fa parte del problema». L’opposizione, aggiunge De Mattei, «non viene solo da quegli ambienti, definiti tradizionalisti, ma si è allargata a vescovi e teologi di formazione ratzingeriana e wojtyliana». Più che di dissenso, De Mattei preferisce parlare di «resistenza», la stessa che si è recentemente espressa attraverso la critica all’esortazione apostolica «Amoris Laetitia» di 45 teologi e filosofi cattolici e la dichiarazione di «fedeltà al magistero immutabile della Chiesa» di 80 personalità, divenute poi alcune migliaia, tra cui cardinali, vescovi e teologi cattolici. Tra gli italiani c’è il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna. Uno dei principali centri di resistenza, sottolinea ancora lo storico, «è l’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia, i cui vertici sono stati recentemente decapitati dal Bergoglio». Nel mirino dei tradizionalisti c’è anche il «contributo che la
politica migratoria di Francesco fornisce alla destabilizzazione dell’Europa e alla fine della civiltà occidentale».
Fronda politico-teologica L’attacco a Bergoglio è globale. «Nella galassia del dissenso a Francesco c’è una forte componente geopolitica – osserva Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all’Università Cattolica ed esperto di dialogo con la Cina -. Accusano Bergoglio di non annunciare con sufficiente forza le verità di fede, ma in realtà gli imputano di non difendere il primato dell’Occidente. È una opposizione che ha ragioni politiche mascherate da questioni teologiche ed ecclesiali». La Cina ne è l’esempio. «C’è un’alleanza fra ambienti Hong Kong, settori Usa e destra europea: rimproverano a Francesco di anteporre alla difesa della libertà religiosa l’obiettivo di unire la Chiesa in Cina – continua -. Sono posizioni che trovano spazio spesso nell’agenzia cattolica Asianews. Il Papa, secondo questi critici, dovrebbe affermare la libertà religiosa come argomento politico contro Pechino, invece di cercare il dialogo attraverso la diplomazia». A dar voce al dissenso, che ha innegabili sponde interne alla Curia, sono anche ecclesiastici con entrature vaticane, come il liturgista e teologo don Nicola Bux, consultore delle Congregazioni per il Culto divino e per le Cause dei Santi. «Oggi, non pochi laici, sacerdoti e vescovi si chiedono: dove stiamo andando?- spiega alla Stampa -. Nella Chiesa c’è sempre stata la possibilità di esprimere la propria posizione dissenziente verso l’autorità ecclesiastica, anche se si trattasse del Papa. Il cardinale Carlo Maria Martini, notoriamente esprimeva spesso, anche per iscritto, il suo dissenso dal pontefice regnante, ma Giovanni Paolo II non l’ha destituito da arcivescovo di Milano o ritenuto un cospiratore». Il compito del Papa, continua Bux, è «tutelare la comunione ecclesiale e non favorire la divisione e la contrapposizione, mettendosi a capo dei progressisti contro i conservatori». E «se un Pontefice sostenesse una dottrina eterodossa, potrebbe essere dichiarato, per esempio dai cardinali presenti a Roma, decaduto dal suo ufficio». In un crescendo di bordate, con un’intervista al Giornale nei giorni scorsi è sceso in campo anche il ricercatore Flavio Cuniberto, autore di un libro critico col magistero sociale del Papa, studioso di René Guenon e del tradizionalismo vicino alla destra esoterica. Ha dichiarato che «Bergoglio non ha aggiornato la dottrina, l’ha demolita, si comporta come se fosse cattolico ma non lo: l’idea stravolta di povertà eleva alla sfera dogmatica il vecchio pauperismo». Il Papa elogia la raccolta differenziata e così «le virtù del buon consumatore tardo-moderno diventano le nuove virtù evangeliche».
Teorie sui due Papi Nella sua pagina ufficiale su Facebook, Antonio Socci sostiene che Benedetto XVI non si sia voluto davvero dimettere ma si consideri ancora Papa volendo in qualche modo condividere il «ministero petrino» con il successore. Interpretazione che lo stesso Ratzinger ha smentito seccamente a più riprese a partire dal febbraio 2014 fino al recente libro-intervista «Ultime conversazioni», dichiarando pienamente valida la sua rinuncia e manifestando pubblicamente la sua obbedienza a Francesco. La teoria ha tratto nuova linfa dall’interpretazione da alcune parole pronunciate nel maggio scorso dall’arcivescovo Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e segretario di Benedetto XVI. Don Georg, intervenendo alla presentazione di un libro, aveva affermato: «Non vi sono dunque due papi, ma di fatto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo». Socci pubblica a fine settembre, una accanto all’altra, le foto di Bergoglio e Ratzinger sotto la scritta «quale dei due?». E scrive: «C’è chi si oppone l’amore alla verità (Bergoglio) e chi le riconosce unite in Dio (Benedetto XVI)». Tra i tanti commenti in bacheca, Paolo Soranno risponde: «Francesco I sembra che sia messo al servizio del Dio Arcobaleno (quello che non impone obblighi religiosi e morali) e non del Dio Cattolico». È nella Rete che il dissenso a Bergoglio assume i toni più accesi, con persone che dietro il paravento del computer si lasciano andare a furiose invettive, come si legge nei commenti sotto gli articoli postati sui social. Sul sito «messainlatino», che si dedica a promuovere la liturgia antica, ma ospita spesso anche commenti al vetriolo sul Papa, si parla di «noiosa monotonia ideologica dell’attuale pontificato». In rete si  leggono commenti sulla Chiesa che «sarà spinta a sciogliersi in una sorta di Onu delle religioni con un tocco di Greenpeace e uno di Cgil», dato che «oggi i peccati morali sono derubricati e Bergoglio istituisce i peccati sociali (o socialisti)». Sul blog ipertradizionalista di Maria Guarini, «Chiesa e Postconcilio», si leggono titoli tipo questo: «Se il prossimo papa sarà bergogliano, il Vaticano diventerà una succursale cattomassonica». Il dissenso viene dall’area più conservatrice, ma trova sponde anche in qualche ultraprogressista deluso. È il caso del prete ambrosiano don Giorgio De Capitani, che attacca senza tregua Francesco da sinistra, e dunque non è assimilabile ai gruppi finora descritti. Sul suo sito web non salva nulla del pontificato. «Quante parole inutili e scontate – inveisce -. Pace, giustizia e bontà. Il Papa ci sta rompendo le palle con parole e gesti strappalacrime. Francesco è vittima del proprio consenso e sta suscitando solo illusioni, butta tanto fumo negli occhi, stuzzica qualche applauso manda in visibilio i giornalisti ignorantotti sulla fede». Giuseppe Rusconi, il giornalista ticinese curatore del sito «Rossoporpora», si chiede: «il nostro Pastore è veramente in primo luogo “nostro” o non mostra di privilegiare l’indistinto gregge mondiale, essendo così percepito dall’opinione pubblica non cattolica come un leader gradito ai desideri espressi dalla società contemporanea? Lo farà per strategia gesuitica o per scelta personale? E quando il Pastore tornerà all’ovile, quante pecorelle smarrite porterà con sé? E quante ne ritroverà di quelle lasciate». Questa composita galassia del dissenso ha eletto come suoi punti di riferimento alcuni vescovi e cardinali. Magister sul suo blog ha lanciato la candidatura papale del cardinale guineano Robert Sarah, attuale ministro per la liturgia di Francesco, amato da conservatori e tradizionalisti e molto citato nei loro siti e nelle loro pubblicazioni.
Rischio scisma? Tra coloro che vengono considerati stelle polari da parte di questo mondo ci sono soprattutto il porporato statunitense Raymond Leo Burke, patrono dei Cavalieri di Malta, e il vescovo ausiliare di Astana, Athanasius Schneider. Ma al di là dell’amplificazione mediatica offerta dalla rete, non sembra proprio che vi siano all’orizzonte nuovi scismi, dopo quello compiuto dal vescovo Marcel Lefebvre nel 1988. Ne è convinto il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Cesnur: «I vescovi cattolici nel mondo sono più di cinquemila, il dissenso riesce a mobilitarne una decina, molti dei quali in pensione, il che mostra appunto la sua scarsa consistenza». Introvigne sostiene che questo dissenso «è presente più sul web che nella vita reale ed è sopravvalutato: ci sono infatti dissidenti che scrivono commenti sui social sotto quattro o cinque pseudonimi, per dare l’impressione di essere più numerosi». Per il sociologo è un movimento che «non ha successo perché non è unitario. Ci sono almeno tre dissensi diversi: quello politico delle fondazioni americane, di Marine Le Pen e di Matteo Salvini che non sono molto interessati ai temi liturgici o morali – spesso non vanno neppure in chiesa – ma solo all’immigrazione e alle critiche del Papa al turbo-capitalismo. Quello nostalgico di Benedetto XVI, che però non contesta il Vaticano II. E quello radicale della Fraternità San Pio X o di de Mattei e Gnocchi, che invece rifiuta il concilio e quanto è venuto dopo. Nonostante vi sia qualche ecclesiastico che fa da sponda, le contraddizioni fra le tre posizioni sono destinate a esplodere, e un fronte comune non ha possibilità di perdurare». Introvigne fa notare una sorprendente caratteristica comune a molti di questi ambienti: «È l’idealizzazione mitica del presidente russo Vladimir Putin, presentato come il leader “buono” da contrapporre al Papa leader “cattivo”, per le sue posizioni in materia di omosessuali, musulmani e immigrati. Con il dissenso anti-Francesco collaborano fondazioni russe legatissime a Putin».




per p. Maggi i testi di Dario Fo sono profondamente spirituali e di valore teologico

Dario Fo, il ricordo del biblista A. Maggi

“altro che blasfemi. I testi suoi e di Franca Rame erano spirituali”

di Alberto Maggi


Ho una certezza: in futuro, il tanto bistrattato “Mistero Buffo”, sarà testo di spiritualità nelle Facoltà Teologiche. Questa rivisitazione dei vangeli apocrifi e tradizioni popolari su Gesù, più il talento geniale di Dario Fo, ne fanno un testo così intriso di profonda spiritualità e di grande ricchezza umana che fa del premio Nobel, e della moglie Franca Rame, non solo quei grandi attori che tutti conoscono, e le cui opere sono rappresentate in tutto il mondo, ma dei maestri di vita, d’arte e di teologia.

 

“Da giovane volevo farmi suora… La mia è una vocazione materna, samaritana, stronza…”. Così mi disse Franca Rame, aggiungendo, “sto sempre dalla parte delle cause perse, ma è più forte di me”. Fu un privilegio conoscere la Rame, e lei nella sua generosità accettò di presentare il mio libro “Nostra Signora degli Eretici” con il monologo di Maria presso la croce, creando un’atmosfera carica di emozione. Alla fine della sua rappresentazione c’era in sala un incredibile silenzio e tanti occhi lucidi.

Poi la Rame mi volle anche sul palcoscenico, durante un suo spettacolo teatrale a Firenze, per un collegamento televisivo. Avevo scritto infatti un articolo nel quale la difendevo dagli attacchi degli ultrà cattolici, affermando che i suoi testi anziché essere blasfemi erano intrisi di spiritualità. Infatti Franca Rame aveva una profonda spiritualità, che manifestava, insieme a Dario Fo, nella sua incredibile generosità a favore degli ultimi. Quando le chiesi, dopo averla rivista nel suo monologo di Maria presso la croce, come mai avesse cambiato il rantolo del Cristo agonizzante, lei rispose: “È stato assistendo i malati terminali di AIDS, all’ospedale Sacco (di Milano)”. Era il tempo in cui i malati di AIDS mettevano paura, si temeva il contagio del tremendo virus, venivano isolati ed evitati, nella Chiesa qualcuno arrivò a definirli castigati da Dio per i loro peccati, e quando le domandai: “E che fai, in che modo li assisti?”, lei rispose “Niente, tengo la loro mano, tutta la notte”.

E grazie a lei conobbi poi suo marito, l’incredibile Dario Fo. Stava scrivendo “Johan Padan a la descoverta de le americhe”, e mi chiese di portargli tutti i libri della teologia della liberazione che fossero stati pubblicati. Glieli portai nella loro casa estiva a Sala di Cesenatico, e rimasi sorpreso dall’enorme tavolo di lavoro tutto ricoperto di libri sulla fauna e la flora del sud America… Dario si stava documentando in maniera scrupolosa e attenta per fare, magari, poi solo una battuta nella sua opera.

Compresi che non era solo talento, ma anche disciplina, non solo un genio, ma anche rigore. Dario Fo fu gentilissimo e generosissimo. E credo fosse profondamente sincero quando, prendendo in mano il mio libro Nostra Signora degli Eretici, quello che Franca aveva presentato, mi disse: “È il più bel libro che abbia mai letto!”.

Dario Fo e Franca Rame (lei diceva: lui è il monumento, ma io sono il piedistallo!), erano straordinariamente generosi. Non aspettavano che venisse loro richiesto un aiuto, lo precedevano, e con tanto altruismo hanno aiutato, sostenuto, incoraggiato, tutto di tasca propria.

Molti anni fa, nel presentare Dario Fo a un convegno presso la Pro Civitate Cristiana di Assisi, affermai che “il Dio di Fo è talmente umano da essere quasi divino”. Con il suo genio teatrale Fo riusciva a disincrostare secoli di sovrastrutture che avevano finito per oscurare l’umanità del Cristo, l’Uomo-Dio. Certo, Dario Fo lo faceva attraverso la tecnica del graffio, ma anche il graffio, se fatto ad arte, serve per ripulire!

Da Dario Fo ho imparato l’arte di presentare il Vangelo senza necessariamente far addormentare le persone, con le pause, la mimica, la gestualità, le sorprese, per rendere vivo e attuale un testo antico.

Come ringraziamento per il contributo librario alla sua opera teatrale, Dario si mise a disegnare, dicendo “Ora sono ispirato: questo sei tu che liberi la parola…”, e ora conservo questo suo prezioso disegno, dove Fo mi rappresenta come un frate che libera una colomba, quale compito da proseguire, con rinnovato entusiasmo, l’annuncio della buona notizia.

alberto maggi dario fo

 

L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.




il vangelo della domenica commentato da padre Maggi

DIO FARA’ GIUSTIZIA AI SUOI ELETTI CHE GRIDANO VERSO DI LUI 

commento al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario (16 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi
Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Il capitolo 18 del vangelo di Luca si apre con un insegnamento di Gesù che non riguarda la preghiera, ma la fede. Non una preghiera insistente, ma la fede. Cosa significa la fede? Avere fiducia, credere profondamente, che Dio realizza il suo progetto. E qual è il progetto di Dio? Il suo regno. Sulla preghiera Gesù già nel capitolo 12 ed altri aveva ampiamente parlato ai suoi discepoli, aveva presentato Dio come un Padre che si prende cura del bene dei suoi figli, un Padre che non va incontro ai loro bisogni, alle loro necessità, ma addirittura li precede. Un Padre che, come aveva detto Gesù, sa ciò di cui avete bisogno.
Quindi non c’è la necessità di elencargli le nostre richieste, perché il Padre già le sa. E Gesù, concludendo questo insegnamento sulla preghiera, aveva detto “Cercate piuttosto il suo regno e queste cose vi saranno date in aggiunta”.

Il regno è l’oggetto della preghiera. Tanto è vero che Gesù nella preghiera del Padre Nostro lo inserirà con la richiesta “Venga il tuo regno”. Cos’è questo regno? Una società alternativa. Allora questo brano che adesso leggiamo – capitolo 18 i primi otto versetti del vangelo di Luca – non è un insegnamento sull’insistenza della preghiera verso un Dio che è sordo e va supplicato. Questo è il Dio dei pagani, non è il Padre di Gesù.
E’ un insegnamento sulla certezza delle promesse di Dio che vengono realizzate, anche se all’apparenza può sembrare il contrario. Scrive l’evangelista: Diceva loro, quindi Gesù si sta rivolgendo ai discepoli, questi discepoli che hanno dimostrato di non avere un minimo di questa fiducia, una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Ecco l’insegnamento non è sulla preghiera, la preghiera è un mezzo, ma l’insegnamento è sulla giustizia.
Infatti il termine giustizia in questo vangelo comparirà per ben quattro volte. E’ la giustizia del regno, questa società alternativa che Gesù è venuto a proporre.
“In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno.” Il ritratto che Gesù fa del giudice è quello di una persona potente e superba. E ci richiama subito l’annunzio che aveva fatto Maria in questo vangelo con il suo canto, di quello che è il progetto di Dio sulla creazione, ma progetto che, per realizzarsi, ha bisogno della collaborazione delle persone. Maria aveva detto che Dio ha disperso i superbi, rovesciato i potenti dai troni – e qui abbiamo un potente che è superbo – innalzato gli umili, ricolmato di beni gli affamati, rimandato i ricchi a mani vuote. Questo è il progetto di Dio. Ed è su questa fiducia che Gesù insiste. E’ questa la fede che devono avere i suoi discepoli e per la quale devono attivarsi, collaborare.
In quella città c’era anche una vedova. L’immagine della vedova nella Bibbia rappresenta la persona che, non avendo un uomo che pensa a lei, è alla mercé di tutti, è la persona emarginata, senza protezione, la più bisognosa. E Dio nella Bibbia viene chiamato “il difensore delle vedove”, perché Dio ha a cuore queste creature che sono emarginate. Che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Ecco per la prima volta appare il termine giustizia, che apparirà per ben quattro volte in questo brano.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio… “, ecco riconosce di non temere Dio, “… e non ho riguardo per alcuno.. “, il ritratto che Gesù fa del potente è atroce, “… dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”. Letteralmente “fare un occhio nero” perché fa un danno alla mia reputazione.
E il Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto.” Ed è un invito ai suoi discepoli. Ed ecco la lezione che Gesù dà. “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte (gridare giorno e notte nei salmi dell’Antico Testamento è immagine del grido degli oppressi) verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.” Quindi Gesù garantisce che quel progetto di Dio sull’umanità, il regno, una società alternativa dove ai falsi valori dell’avere, del comandare e del salire, si contrappongano i valori giusti, quelli che creano la fraternità, cioè la condivisione, lo scendere e il servire. Questo è il regno di Dio, la società alternativa. Gesù assicura che questo si realizza. Ma per farlo bisogna che i suoi discepoli collaborino con lui rompendo con questi valori falsi della società. Se non lo fanno questo regno non si può realizzare.
Ecco perché poi Gesù conclude con un’espressione che sembra carica di amarezza, “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà…”. Il Figlio dell’Uomo, cioè Gesù, viene con la distruzione di Gerusalemme. Quando si distrugge Gerusalemme ecco che si annuncia la venuta del Figlio dell’Uomo. “Troverà la fede sulla terra?” E infatti non la trova. Il vangelo di Luca finisce amaramente con i discepoli che, nonostante tutto l’insegnamento di Gesù, nonostante tutto quello che Gesù ha detto, continuano ancora a frequentare il tempio.
Quel covo di ladri che Gesù aveva denunciato e del quale aveva annunciato la distruzione, per il discepoli ancora rappresenta un valore, cioè non hanno rotto con il passato, con l’istituzione ed il potere. E allora se non rompe con questo il regno di Dio, questa società alternativa, non può emergere.