papa Francesco sferza l’ipocrisia dei super cristianissimi anti immigrati

papa Francesco

è ipocrita chi difende Cristo e caccia i rifugiati

papa Lesbo
Iacopo Scaramuzzi

E’ ipocrita «dirsi cristiano e cacciare via un rifugiato» e c’è una «contraddizione» in coloro che «vogliono difendere il cristianesimo in Occidente e dall’altra parte sono contro i rifugiati e contro le altre religioni»

Nel giorno in cui viene pubblicato il suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, Papa Francesco torna sul tema delle migrazioni nel corso di un’udienza ad un pellegrinaggio ecumenico di luterani a due settimane dal viaggio in Svezia per i 500 anni della riforma di Lutero (31 ottobre – primo novembre).
Il proselitismo, ha detto Jorge Mario Bergoglio, è «il veleno più forte» contro l’ecumenismo. I più grandi riformatori sono «i santi». E la Chiesa va sempre riformata.migranti siariani

«Tu dicevi che nella Chiesa cattolica ci sono tante cose che ti piacciono, altre meno. Cosa piace a me della Chiesa luterana, cosa non mi piace?», ha detto il Papa rispondendo a braccio alle domande di cinque ragazzi tedeschi.
«A me piacciono tanto i luterani buoni, i luterani che seguono veramente la fede di Gesù Cristo. Invece non mi piacciono i cattolici tiepidi e il luterani tiepidi».

E’ una «contraddizione» «questi che vogliono difendere il cristianesimo in Occidente, d’altra parte sono contro i rifugiati e le religioni. E questa non è una cosa dei libri, è una cosa dei giornali, dei telegiornali di tutti i giorni. La malattia, si può dire anche il peccato che Gesù condanna di più è l’ipocrisia. Non si può essere cristiano senza vivere come cristiano. Non si può essere cristiano senza praticare le beatitudini.migranti-pedine-del-gioco-delloca

Non si può essere cristiano senza fare quello che Gesù ci insegna in Matteo 25.
E Gesù ammonisce ai suoi discepoli contro questo peccato, questo modo di fare dell’ipocrisia: “Guardatevi dal lievito della ipocrisia”.
E’ un atteggiamento ipocrita dirsi cristiano e cacciare via un rifugiato, un affamato, uno che ha bisogno di aiuto. Se io mi dico cristiano e faccio queste cose, sono un ipocrita.

Ho citato Matteo 25, questo è importante perché il protocollo col quale noi saremo giudicati. Ma Gesù ci ha insegnato la coerenza cristiana in quella bella parabola del buon Samaritano. Quel povero uomo era nel bisogno, passa un sacerdote guarda e se ne va, passa un peccatore sente misericordia si avvicina e medica.
Questo è il cammino che dobbiamo seguire, il cammino ecumenico fra noi: aiutare gli altri, i bisognosi, i fratelli e sorelle che sono fra noi. E pregare».

Nel discorso che, a inizio dell’udienza, aveva rivolto ai partecipanti al pellegrinaggio ecumenico luterano, Francesco – parlando in italiano tradotto in diretta in tedesco – aveva detto, tra gli applausi, «Quello che ci unisce è molto di più di quello che ci divide!», ed aveva poi ricordato che alla fine di questo mese andrà a Lund, in Svezia, per «fare memoria» della riforma di Lutero, dopo cinque secoli, insieme alla Federazione Luterana Mondiale: «La testimonianza che il mondo si aspetta da noi è soprattutto quella di rendere visibile la misericordia che Dio ha nei nostri confronti attraverso il servizio ai più poveri, agli ammalati, a chi ha abbandonato la propria terra per cercare un futuro migliore per sé e per i propri cari.
Nel metterci a servizio dei più bisognosi sperimentiamo di essere già uniti: è la misericordia di Dio che ci unisce», ha detto il Papa tra nuovi applausi.
«I teologi medievali dicevano, in latino, che la Chiesa va sempre riformata», Ecclesia semper reformanda sempre, ha detto il Papa suscitando gli applausi dei circa mille pellegrini luterani presenti in aula Paolo VI: «Questo è progredire, maturare e la Chiese progredisce, matura, e tante piccole e non tante piccole riforme della Chiesa vanno, volevano andare su questa strada, alcune riforme non sono state felici, esagerate, ma sempre, le cose umane non sono felici, ma il fatto di riformare è un fatto ecclesiale, è questo che voglio dire. La domanda – ha poi continuato riepilogando la domanda – diceva “per lei quali sono i più grandi riformatori della Chiesa o delle Chiese, della storia”: io dirò che i più grandi riformatori della Chiesa sono i santi, cioè gli uomini e le donne che seguono la parola del Signore e la praticano, andare, andare per quel cammino, questo riforma la Chiesa, e questi sono i grandi riformatori, forse non sono teologi, non hanno studiato, magari sono gente umile, ma questi che hanno l’anima bagnata, piena del Vangelo, sono quelli che riformano bene la Chiesa. Sia nella chiesa luterana che nella cattolica ci sono, ci sono stati e ci sono uomini e donne di questo genere, col cuore santo che seguono il Vangelo: questi riformano le Chiese.migranti

Il Papa ha anche ripreso quanto gli chiedeva una ragazza del Land, Sachsen-Anhalt, dove, spiegava la giovane, l’ottanta per cento degli abitanti non appartiene ad alcuna confessione cristiana: «Devo convincerli, questi compagni e compagne, buoni, felici, devo convincerli della mia fede?», ha detto Francesco echeggiando la domanda. «Cosa devo dirgli per convincerli? Senti – ha proseguito – l’ultima cosa che tu devi fare è “dire”. Tu devi vivere come cristiano, come cristiana, scelta, perdonata e in cammino.
Non è lecito convincerli della tua fede, il proselitismo è il veleno più forte contro il cammino ecumenico», ha sottolineato il Papa riecheggiando quanto detto di recente agli ortodossi nel corso di un viaggio in Georgia. «Tu devi dare testimonianza della tua vita cristiana, la testimonianza inquieta il cuore di quelli che ti vedono. E da questa inquietudine nasce la domanda: ma perché quest’uomo, questa donna vive così? E questo è preparare la terra perché lo Spirito santo, che è quello che lavora nei cuori, faccia quello che deve fare: ma lui deve dire, non tu. La grazia – ha continuato Bergoglio con un tema caro alla riforma protestante – è un dono, e lo Spirito santo è il dono di Dio dal quale viene la grazia, è il dono che ci ha inviato Gesù con la sua passione e resurrezione. Sarà lo Spirito santo a muovere quel cuore, con la tua testimonianza, e lì tu puoi, con molta delicatezza, dire il perché. Ma senza voler convincere».

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Bob Dylan un profeta di stampo biblico

LA BIBBIA DI BOB DYLAN

Brunetto Salvarani

“Bob Dylan è un vero profeta, sulla scia dei saggi dell’Antico Testamento”

Seth Rogovoy

È indubbio che il riferimento alla Bibbia rappresenti un punto di riferimento costante lungo tutto il cammino creativo di Bob Dylan, di famiglia ebraica e iniziato alla religione con la cerimonia del bar-mitzvà nel 1954.

Buona parte dei suoi primi successi, a partire dalla celebre Blowin’ in the Wind, s’ispira chiaramente a passaggi dei libri di Ezechiele e Isaia, mentre – secondo Alessandro Carrera – “la sua opera potrebbe essere letta come una sorta di ripetizione della Bibbia, una grande storia di ritorno al paradiso perduto”. Dai suoi ricordi giovanili (nasce a Duluth nel ’41) si può cogliere che il suo sentimento di appartenenza alla comunità ebraica è sfumato e debole. Ha un primo approccio col testo biblico in famiglia, che diventa più sistematico con la frequentazione del rabbino per la preparazione del bar-mitzvà, ma l’ambiente in cui cresce è tutt’altro che facile: con la post-adolescenza si registrano i primi conflitti col padre Abe, il cui carattere autoritario e i costumi borghesi mal si combinano col carattere del figlio, inquieto e ribelle al punto da eleggere a eroi gli interpreti della gioventù bruciata dell’epoca, i vari Dean e Brando.bob-dylan

Dylan non solo rigetta l’educazione familiare ricevuta, ma diverrà un dropout, svincolato da qualsiasi dovere nei confronti di famiglia e società. Ma la Bibbia, nonostante tutto, resta un testo di riferimento capitale e ricorrente nella sua produzione artistica: Dylan legge la Bibbia essenzialmente da poeta, come insuperabile repertorio di metafore e di parabole, o come grande codice della civiltà. Più un riferimento culturale che pietra d’angolo su cui si regge l’universo spirituale dell’artista.

Eppure, a un certo punto del suo percorso Bob praticherà la canzone come atto di fede: sa di avere un pubblico vasto davanti, di possedere un carisma capace di suscitare la massima attenzione possibile. Al riguardo è esemplare la famosa e controversa trilogia cristiana, gli album incisi dal 1979 al 1981, in un momento particolare della sua vita. A metà degli anni Settanta il rapporto con la moglie Sara inizia a deteriorarsi, tra infedeltà del marito, liti e incomprensioni, fino a sfociare in divorzio nel 1977: la crisi ha come esito la conversione alla religione cristiana e, in particolare, alla Vineyard Fellowship, una chiesa evangelica fondata dal pastore Ken Gulliksen, presso la quale passa qualche mese, per cinque giorni la settimana, a studiare la Parola di Dio.

Da qui nascono gli album – Slow train coming, Saved e Shoot of love – in cui Dylan non si risparmia nel cantare la nuova fede, utilizzando spesso le forme musicali del gospel, con brani nel complesso deludenti. Se oggi, al netto delle critiche che piovvero ai tempi sul capo del reborn, del rinato a Cristo, si può convenire sull’ottima cura degli arrangiamenti e sulle capacità vocali sfoggiate nell’occasione, certi testi sono lontani anni luce da precedenti prove: “Quando la distruzione arriverà improvvisa/ e non ci sarà tempo per un ultimo addio/ avete deciso da che parte stare?/ Col paradiso o con l’inferno?/ Siete pronti, siete pronti?”. La canzone, Are you ready?, è inserita in Saved, album con cui Dylan esce definitivamente allo scoperto, usando toni talmente perentori che rischiano di sconfinare nel fondamentalismo. Qui la Bibbia di Bob è implacabile, non fa sconti, richiede una fede “aggrappata a una solida roccia” (da Solid rock).dylan-baez

Per ritrovare canzoni dal sapore biblico ma anche efficaci artisticamente, conviene tornare al Dylan classico, quello degli esordi. Ad esempio, a A hard rain’s a-gonna fall (da Freewheelin’ Bob Dylan del ‘63), scritta al tempo della crisi dei missili a Cuba e che ha ispirato generazioni di musicisti: “Ho visto un bimbo appena nato con lupi selvaggi tutti intorno/ Ho visto un’autostrada di diamanti e nessuno che la percorreva/ Ho visto un ramo nero e sangue ne scorreva/ Ho visto una stanza piena di uomini con martelli insanguinati/ Ho visto una scala bianca tutta ricoperta d’acqua/ Ho visto diecimila persone parlare con lingue spezzate/ Ho visto armi e spade affilate nelle mani di bambini/ E una dura, e una dura, e una dura, e una dura/ e una dura pioggia cadrà”. Il pezzo, che fu letto in chiave di protesta contro la corsa agli armamenti e la paura per una terza guerra mondiale che sembrava prossima, trascende però il suo primo livello di lettura e acquista un significato universale, grazie alla presenza di diversi riferimenti biblici. Innanzitutto l’uso delle numerazioni, tipiche del Primo Testamento (dodici montagne nebbiose, sei strade contorte, sette tristi foreste, dodici oceani morti, diecimila miglia nella bocca di un cimitero, diecimila persone che parlavano, cento tamburini, diecimila persone bisbigliare); poi le immagini, simboliche o meno, degli eventi catastrofici. A hard rain’s a-gonna fall è il primo di una lunga serie di brani in cui Dylan userà toni profetici per dire della malvagità del mondo e della necessità di un cambiamento profondo. Anche nel terzo disco (The times they are a-changin’, ‘64) si trovano canzoni del genere: in When the ship comes in egli canta che “I mari si divideranno/ e le navi si scontreranno/ e le sabbie sulla riva tremeranno./ Poi la marea risuonerà/ e le onde scrosceranno/ e il mattino comincerà a sorgere/ …e le rocce sulla sabbia/ si ergeranno fiere,/ l’ora in cui la nave arriverà in porto/ …i nemici si alzeranno/ con il sonno ancora negli occhi/ e dai letti si scuoteranno…/ …Allora alzeranno le mani/ dicendo ‘Faremo ciò che volete’,/ ma noi dalla prua grideremo ‘i vostri giorni sono contati’./ E come il popolo del Faraone, saranno sommersi dalla marea, e come Golia saranno vinti”.

Curiosamente una delle migliori fra le sue ultime canzoni, del 2000, richiama The times they are a-changin’, sia per il titolo (Things have changed, Le cose sono cambiate) sia per l’approccio, anche qui, da fine del mondo: “Ho camminato sulla cattiva strada per quaranta miglia/ se la Bibbia dice il vero il mondo sta per esplodere”. Una lunga fedeltà, quella alla Bibbia, al di là delle giravolte esistenziali, per il menestrello di Duluth più volte candidato al Nobel per la letteratura(1).

(1) E oggi, 13 ottobre 2016, finalmente insignito di questo riconoscimento…

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“il comune” è sempre costituito da differenze irriducibili: l’insegnamento della ‘torre di Babele’

dare la parola all’Altro

di Massimo Recalcati

 Solo nell’ascolto della lingua dissidente si dà la possibilità di una comunità umana

Dare la parola e ascoltare l’Altro che disturba significa praticare una faticosa politica di inclusione che non cade nella tentazione del rigetto violento del dissenso.

L’immagine biblica della torre di Babele racconta, tra le altre cose, proprio l’origine della politica come arte della traduzione delle lingue. Nella sua vicenda non è in gioco solo il rapporto tra la superbia degli uomini e l’esigenza di Dio di ribadire contro di essa la sua sterminata potenza. In primo piano, come è stato notato da molti commentatori — da Benjamin sino a Derrida — è il grande tema della lingua e del nome proprio. Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? È quello di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio forte di identità: “un solo popolo” e “una sola lingua”. Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi.
I babelici sono animati da un desiderio autogenerativo: un solo popolo, una sola lingua, una sola Torre. L’opera incessante di edificazione sembra consegnarsi al culto idealizzato dell’immagine del proprio Io. Costruire la Torre è un modo per generarsi da sé inseguendo un miraggio di autosufficienza. Si tratta di una hybris che viola ogni processo di filiazione. L’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua esclude la lingua dell’Altro: l’architettura della Torre esige la compattezza uniforme di una sola lingua e l’idolatria del Nome che si fa da sé. Non è questa una delle cifre più evidenti del nostro tempo? Non viviamo immersi nello sforzo incessante di edificazione del nostro nome proprio? Farsi un nome non è l’imperativo egemone nella concezione occidentale della vita?
Il peccato dei babelici è non aver considerato che l’esistenza di una sola lingua sopprime altre possibilità linguistiche, ovvero altri possibili modi di essere. L’auto-nominazione dei babelici vorrebbe invertire l’atto della creazione attraverso il quale Dio genera gli esseri viventi ciascuno nella propria differenza. La loro spinta alla comunione vorrebbe cancellare il disturbo dell’Altro, il disturbo dell’Altra lingua, del dissenso dell’Altro come, invece, emerge bene dal racconto freudiano. E quando Dio discende per osservare più da vicino l’opera dei babelici, non può non notare che la loro impresa punta proprio a sopprimere l’esperienza della differenza sulla quale si fonda la Creazione. Per questo egli utilizza lo strumento della pluralità delle lingue confondendo gli uomini della Torre, correggendo la loro illusione della lingua unica. In questo modo costringe gli uomini, come si esprime Benjamin in Angelus Novus, alla «necessità della traduzione», al lutto per una “sola lingua” e un “solo popolo”.
Non si tratta di un semplice castigo ma di un riorientamento: la vita dell’uomo cresce e diviene generativa, capace di democrazia, solo se rinuncia al sogno colonialista di una lingua unica, solo se rispetta il pluralismo delle lingue e la fatica della traduzione. In primo piano non è il Dio geloso preoccupato nel preservare la sua onnipotenza di fronte all’assalto della superbia dell’uomo, ma l’indicazione preziosa che la vita insieme esclude la comunione, l’immedesimazione, la massificazione, perché “il comune” è sempre costituito da differenze irriducibili. Una comunità non può abolire, diversamente dalla illusione nefasta della comunione, le differenze tra le lingue e tra i nomi propri, non può tendere all’assimilazione uniforme, alla massificazione anonima.
Solo nell’ascolto della lingua dissidente si dà la possibilità di una comunità umana.
da repubblica.it
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un inno di non facile comprensione

 

che cosa significano le parole dell’inno di Mameli

tutti sono in grado di canticchiarne qualche strofa

ma pochi sanno “decodificarne” il testo

(anche perché usa un linguaggio arcaico ed è pieno di richiami al nostro passato)

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Quest’estate, tra Campionato Europeo di Calcio e Olimpiadi, abbiamo fatto una scorpacciata dell’Inno d’Italia, l’Inno di Mameli. Ma qual è la sua origine e quale il significato delle sue parole?

 

Dal 12 ottobre 1946, l’inno nazionale d’Italia è il Canto degli Italiani, scritto nell’autunno del 1847 dallo studente e patriota genovese Goffredo Mameli, e musicato a Torino da un altro genovese, Michele Novaro.

 

Nato in un clima di fervore patriottico che preludeva alla guerra contro l’Austria, l’inno presenta numerosi riferimenti storici del passato, che richiedono però una lettura attenta e circostanziata per una più corretta comprensione del testo. Ecco la spiegazione, strofa per strofa:

Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.

Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano (253-183 a. C.), fu il generale e uomo politico romano vincitore dei Cartaginesi e di Annibale nel 202 a. C. a Zama (attuale Algeria); la battaglia decretò la fine della seconda guerra punica, con la schiacciante vittoria dei Romani. L’Italia, ormai pronta alla guerra d’indipendenza dall’Austria, si cinge figurativamente la testa dell’elmo di Scipione come richiamo metaforico alle gesta eroiche e valorose degli antichi Romani.

Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.

Si riferisce all’uso antico di tagliare i capelli alle schiave per distinguerle dalle donne libere; queste ultime, per sottolineare il loro stato, erano solite tenere i capelli lunghi. La dea Vittoria rappresentata come una donna dai lunghi capelli, dovrebbe quindi porgere la chioma perché le venga tagliata in segno di sottomissione a Roma: il senso della quartina è la certezza di Mameli che, in caso di insurrezione contro gli austriaci, la Vittoria non potrà che essere degli italiani perché è il destino che così vuole.

Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

La coorte era un’unità da combattimento dell’esercito romano, composta da 600 uomini: era la decima parte di una legione. “Stringiamci a coorte” vuole dunque essere un’esortazione a presentarsi senza indugio alle armi, a rimanere uniti e compatti, disposti a morire, per la liberazione dall’oppressore straniero.


Leggi anche: qual è l’inno nazionale più antico del mondo?


Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Si tratta di un richiamo al desiderio di raccogliersi sotto un’unica bandiera: speranza (speme) di unità e di ideali condivisi per un’Italia, quella del 1848, ancora divisa in sette Stati (Regno delle due Sicilie, Stato Pontificio, Regno di Sardegna, Granducato di Toscana, Regno Lombardo-Veneto, Ducato di Parma, Ducato di Modena).

Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Mameli era un mazziniano convinto e in questa strofa interpreta il disegno politico del fondatore della “Giovine Italia”: quello di arrivare, attraverso l’unione di tutti gli Stati italiani, alla realizzazione della repubblica. “Per Dio” è un francesismo (e non un’imprecazione), che significa “attraverso Dio”, “da Dio”, qui inteso come sostenitore dei popoli oppressi.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,

La battaglia di Legnano, del 1176, è quella in cui la Lega Lombarda, al comando di Alberto da Giussano, sconfisse Federico I di Svevia, il Barbarossa. A seguito della sconfitta l’imperatore, sceso in Italia per affermare la sua autorità, fu costretto a rinunciare alle sue pretese di supremazia; scese dunque a patti con le città lombarde, con cui stipulò una tregua di 6 anni, a cui seguì nel 1183 la pace di Costanza in cui dovette riconoscere le autonomie cittadine.

Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,

Si fa riferimento all’eroica difesa della Repubblica di Firenze che tra il 12 ottobre del 1529 e il 12 agosto del 1530 venne assediata dall’esercito imperiale di Carlo V d’Asburgo. Nel corso dell’assedio, il capitano Francesco Ferrucci venne ferito a morte, e finito da Fabrizio Maramaldo, un capitano di ventura al soldo dell’esercito imperiale, il cui nome è diventato sinonimo di “vile” e al quale Ferrucci rivolse le parole “Tu uccidi un uomo morto”. Il 12 agosto i fiorentini firmarono la resa che li sottometteva nuovamente ai Medici.

I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,

Il richiamo a tutte le genti d’Italia è al valore e al coraggio del leggendario Balilla, il simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese: si tratta del soprannome del fanciullo, forse un certo Giambattista Perasso, che il 5 dicembre 1746 scagliò una pietra contro un ufficiale, dando l’avvio alla rivolta che portò alla liberazione della città

Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

“Il suon d’ogni squilla” significa “il suono di ogni campana”. L’evento cui fa riferimento Mameli è quello dei “Vespri Siciliani”: nome dato al moto per cui la Sicilia insorse dopo 16 anni di dominio angioino (francese) e si diede agli aragonesi (spagnoli). All’ora dei vespri del lunedì di Pasqua del 31 marzo 1282 tutte le campane si misero a suonare per sollecitare il popolo di Palermo all’insurrezione contro i francesi.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
  • L’Austria degli Asburgo (di cui l’aquila bicipite era il simbolo imperiale) era in declino (le spade vendute sono le truppe mercenarie di cui erano piene le file dell’esercito imperiale) e Mameli chiama un’ultima volta a raccolta le genti italiche per dare il colpo di grazia alla dominazione austriaca con un parallelismo con la Polonia. Tra il 1772 e il 1795, l’Impero austro-ungarico, assieme alla Russia (il “cosacco”) aveva invaso la Polonia. Ma il sangue dei due popoli oppressi, l’italiano e il polacco, può trasformarsi in veleno attraverso la sollevazione contro l’oppressore straniero.
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pregare fa bene all’anima e al corpo – parola di teologo

dimmi come preghi e ti dirò chi sei

 

 

di Vito MancusoVitoMancuso-981x540

in “la Repubblica”

La gran parte degli esseri umani prega (se prega) come la moglie di Montale, per esaudire i propri bisogni. La preghiera però insegna che l’uomo è qualcosa di più: sete di giustizia e libertà nella profezia, e parentela del proprio intimo sé con l’infinito nella mistica. Certo, è improbabile che questa esperienza faccia ritrovare gli oggetti smarriti, ma forse un’eccezione c’è: il proprio posto nel mondo. Per questo chi la vive ottiene la pace del cuore. Beve, come ricorda Florenskij, “l’acqua di guarigione e di pace”.

«“Pregava?”. “Sì, pregava sant’Antonio perché fa ritrovare gli oggetti smarriti”. “Per questo solo?”. “Anche per i suoi morti e per me”. “È sufficiente” disse il prete». Così Montale ricorda in “Satura” la moglie scomparsa, ma ciò che per il poeta è minimalismo della preghiera, in realtà ne è la causa prima: il bisogno e gli affetti. Lo mostra alla perfezione il libro di Friedrich Heiler, lo studio più ampio finora condotto a livello mondiale sulla preghiera, pubblicato a Monaco di Baviera nel 1918 ma ancora insuperato quanto a documentazione e vigore speculativo, e oggi finalmente disponibile per il lettore italiano: La preghiera. Studio di storia e psicologia delle religioni, a cura di Martino Doni, Morcelliana, 912 fittissime pagine. Assai curioso che negli stessi giorni arrivi in libreria un altro grande testo del 1918 sul medesimo tema: La filosofia del culto di Pavel Florenskij, a cura di Natalino Valentini, San Paolo, 600 pagine, prima traduzione mondiale fuori dalla Russia. Matematico, filosofo, teologo, storico dell’arte, sacerdote, denominato “il Leonardo da Vinci russo” per la poliedrica genialità, Florenskij risulterà assai scomodo all’ateismo comunista che equiparava religione a ignoranza e per questo sarà deportato nel gulag delle isole Solovki ed eliminato l’8 dicembre 1937 in uno di quei crimini di massa detti “purghe staliniane”. Sulla preghiera Heiler e Florenskij presentano idee molto diverse. Con un approccio fenomenologico lo studioso tedesco ne illustra l’universalità tramite una valanga di documentazione a partire dalle preghiere dei primitivi, di cui mostra l’origine per lo più da situazioni di malattia, fame, pericolo, e da sentimenti quali paura, angoscia, ansia. Come mostrano anche l’etimologia (preghiera viene dal verbo latino precor, infinito precari, da cui precarietà) e il linguaggio quotidiano (“ti prego!”), all’inizio c’è sempre un bisogno. Il bisogno esaudito genera il ringraziamento e la lode, quello non-esaudito il lamento e la supplica, fino a vere e proprie tecniche di persuasione, tra cui Heiler menziona gli insulti che talora venivano rivolti a san Gennaro, da lui accostati a fenomeni analoghi presso i tedeschi. E conclude: «In nessun altro luogo risulta altrettanto forte ed evidente l’irrazionalità della religione, anzi della vita in generale». Il punto infatti è proprio questo: l’irrazionalità della preghiera segue l’irrazionalità della vita. Heiler descrive anche la preghiera col corpo: a mani giunte, a mani alzate, inchinandosi, prosternandosi, in ginocchio, in posizione accucciata, scoprendosi o coprendosi il capo a seconda delle religioni e del sesso, con o senza scarpe. E illustra come si preghi verso l’alto dei cieli, ma anche al cospetto della natura: della cima di una montagna, di una sorgente, di un albero imponente, del vento e del fuoco, della pioggia e del fulmine, della potenza del sole e della dolcezza della luna: ovunque gli esseri umani hanno avvertito e riverito il mistero. A proposito delle civiltà classiche Heiler scrive: «Pressoché a ogni azione, dalla culla alla tomba, i greci facevano corrispondere una specifica divinità»; e quanto ai romani: «Ogni singola opera del lavoro agricolo è sotto il patronato di una specifica divinità». Presenta alcune delle preghiere più belle (tra cui l’Inno al sole del faraone Akhenaton, l’Inno assiro a Shamash, l’inno omerico a Gaia, due splendidi inni inca, i salmi di Israele) e analizza la preghiera dei grandi geni religiosi come Buddha, Geremia, Amos, Gesù, Paolo, Agostino, Maometto, Francesco d’Assisi, Caterina da Siena, Lutero, Teresa d’Avila. Non tralascia la preghiera di artisti, tra cui Goethe e Beethoven, e di filosofi come Pascal, Voltaire, Rousseau. E riporta questa frase di Kierkegaard: «Il senso religioso è qualcosa di così segreto, che se uno ci scorgesse mentre preghiamo, potremmo arrossire come una ragazzina». Secondo Heiler infatti la preghiera, che avvenga nel chiuso della propria camera come auspicava Gesù o nella natura come preferiva Rousseau, con un’intonazione mistica oppure profetica, nasce dalla solitudine e conduce alla solitudine. È di parere opposto Florenskij. La sua filosofia del culto sostiene che la forma più alta di preghiera non è quella intima e solitaria dei mistici, ma è la preghiera istituzionale della comunità, la liturgia fatta di formule e gesti prefissati, incensazioni, accensione di lampade e candele, canti, adorazione
della croce, baci delle icone. È nella liturgia che si percepisce al meglio «la presenza di realtà misteriose accanto a noi e davanti a noi, di esseri, eventi e forze misteriose; il che non può che essere terribile, ma è bene che lo sia». Per Florenskij il culto non produce un distacco dalla vita reale, ma al contrario ne è il più autentico approfondimento: «La cultura, come risulta chiaro dall’etimologia, è un derivato dal culto, ossia un ordinamento del mondo secondo le categorie del culto». Per questo secondo Florenskij le civiltà dotate di un culto hanno anche una cultura condivisa e risultano coese, mentre l’occidente secolarizzato si avvia verso l’assenza di una cultura condivisa. Florenskij scrive talora in modo aspro e radicale, ma reagiva così alla distruzione che si compiva sotto i suoi occhi: «Vorrei dare a queste riflessioni il peso delle pietre, vorrei che tutte le parole pesassero, 10, 100, 1000 volte di più». Il culto pubblico, che per Heiler è decadenza della preghiera, per Florenskij è il vertice. Scrive Heiler: «In origine la preghiera è un contatto intimo e personale con Dio, ma gradatamente diviene una forma di culto rigida e impersonale». Scrive invece Florenskij: «Il culto è il punto fermo dell’universo per il quale e sul quale l’universo esiste». Per Heiler l’uomo si compie nel mistero nella solitudine, per Florenskij è invece il culto liturgico comunitario «l’attività per eccellenza dell’uomo, dato che l’uomo è homo liturgicus ». Per Heiler la preghiera nasce dal basso dei bisogni umani, per Florenskij dall’alto della rivelazione divina e della tradizione ecclesiale. Heiler da cattolico divenne protestante, per Florenskij invece «il protestantesimo è nella sua essenza la negazione della centralità del culto e la sostituzione del centro della religione con il pensiero ». Le due prospettive convergono sull’essenziale: sul fatto cioè che chi prega ottiene quiete, fiducia, speranza. La gran parte degli esseri umani prega (se prega) come la moglie di Montale, per esaudire i propri bisogni. La preghiera però insegna che l’uomo è qualcosa di più: sete di giustizia e libertà nella profezia, e parentela del proprio intimo sé con l’infinito nella mistica. Certo, è improbabile che questa esperienza faccia ritrovare gli oggetti smarriti, ma forse un’eccezione c’è: il proprio posto nel mondo. Per questo chi la vive ottiene la pace del cuore. Beve, come ricorda Florenskij, “l’acqua di guarigione e di pace”.

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migranti vittime di un’enorme opera di deportazione

migranti

pedine del gioco dell’oca

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Leonardo Cavaliere

Decine di migliaia di richiedenti asilo saranno rispediti in Afghanistan dopo la firma dell’accordo tra Unione Europea e Afghanistan. Quest’ultima si è impegnata a riprendersi un numero illimitato di suoi cittadini emigrati, meglio fuggiti da violenze e guerra, da parte sua l’UE si è impegnata a versare 1 miliardo di euro all’anno a sostegno di questa enorme opera di deportazione.

L’accordo prevede anche la nascita di un Terminal dedicato presso l’aeroporto di Kabul che dovrà gestire almeno 80.000 persone che inizieranno ad essere deportate nell’immediato.

Questa notizia è passata in questi giorni un pò in secondo piano. Quest’accordo è un pericoloso precedente, un apripista dei prossimi accordi con altri stati considerati “Sicuri sulla carta”. Infatti, dietro corrispettivo s’impegneranno a riprendersi i propri cittadini o migranti transitati o forse transitati nel loro territorio, vedi il costituente accordo con l’Etiopia e il Niger.

Questo nuovo modus operandi mutuato dal “gioco dell’oca” è quando di più preoccupante si stia assistendo negli ultimi tempi.

Dove vogliamo inviarli? Afghanistan.   Si sconsigliano vivamente viaggi a qualsiasi titolo in Afghanistan, in considerazione della gravità della situazione di sicurezza interna nel Paese, dell’elevato rischio di sequestri e attentati a danno di stranieri in tutto il territorio nazionale, compreso Kabul e del ripetersi di gravi attentati in tutti i principali centri urbani ed anche nel centro della capitale. Le condizioni di sicurezza hanno subito un sensibile deterioramento in tutto il Paese, incluse le principali città (Kabul, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Kandahar, Kunduz). Restano critiche le aree meridionali e sud-orientali e sono peggiorate le condizioni di sicurezza anche nel nord e nell’ovest del Paese. (tratto dal sito Viaggiare sicuri della Farnesina) Niger. Alla luce del quadro generale d’insicurezza nell’intera area saheliana, interessata anche da fenomeni di matrice terroristica, si sconsigliano viaggi a qualsiasi titolo nel Paese. Nelle zone settentrionali è stata segnalata la presenza di mine. (tratto dal sito Viaggiare sicuri della Farnesina) Etiopia. Si registrano situazioni di violenza diffusa, soprattutto nelle zone in cui vivono gli Oromo.

Secondo l’accordo, anche donne e bambini potranno essere deportati, per i minori non accompagnati, si dovranno prima individuare i familiari e poi potranno essere reinviati a patto che vi siano dei programmi di accoglienza. Infine, sono previste misure di sensibilizzazione verso la popolazione “sul pericolo della migrazione irregolare”.

“Dopo di questo non ci sono più limiti”, afferma Cristhopher Hein, consigliere strategico del Consiglio italiano rifugiato ed esperto di diritto internazionale. Tra le prime voci critiche in Italia contro l’accordo, c’è quella di padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli che a Redattore Sociale rileva che “Si tratta dell’ennesimo colpo inferto dall’Ue alla dignità della vita umana, aggravato da uno spreco sproporzionato di risorse economiche che potrebbe essere destinato alla creazione di canali umanitari sicuri e ad un’accoglienza programmata e progettuale che impegni tutti gli Stati europei”.

Hein aggiunge che con l’abbandono dei principi guida della dottrina dei rimpatri si “abbandona la dottrina tradizionale sui rimpatri: essi dovrebbero avvenire in condizioni di sicurezza e dignità – spiega Hein – L’ultimo rapporto Easo di gennaio 2016 analizza la situazione afgana, provincia per provincia, e rileva come essa sia ancora molto critica. Inoltre, in un documento di maggio non pubblico, si dice che situazione deteriorata ulteriormente. Come si posso rimandare indietro richiedenti asilo in zone di conflitto armato?”.

 

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alla ‘marcia della pace’ c’eravamo anche noi … anche se nessuno se ne è accorto

centomila alla marcia per la pace da Perugia ad Assisi

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papa Francesco invia benedizione:

“la guerra distrugge tutto”


MARCIA PACE

 la Marcia della pace e della fraternità partita da Perugia è arrivata alla Rocca Maggiore di Assisi. Gli organizzatori hanno parlato di una partecipazione in linea con quella degli anni scorsi, con una presenza di circa cento mila persone

Sono le foto di Giulio Regeni e di Vittorio ‘Vik’ Arrigoni ad aprire la 21esima Marcia. Lungo il percorso di 24 chilometri i volti del ricercatore italiano torturato e assassinato in Egitto e del giovane attivista pro Palestina ucciso a 36 anni hanno sfilato appesi al furgone da cui si sono susseguiti gli interventi. “Vincere l’indifferenza” è stato lo slogan in testa alla manifestazione. “Un fiume umano di pace che inquieta e orienta la storia nella misura in cui anche i governanti sono capaci di accogliere le speranze del popolo” afferma padre Enzo Fortunato, direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi, “un’onda umana di pace che ‘travolge’ ogni cosa. San Francesco è per tutti faro luminoso ed esempio concreto di pace”.

Papa Francesco ha inviato un saluto e la sua benedizione ai partecipanti auspicando che “la manifestazione contribuisca a suscitare sempre più viva la consapevolezza che la guerra distrugge sempre e con essa si perde tutto”.assisi-2016

Tantissimi anche i gonfaloni di Comuni, Province e Regioni italiane ed i sindaci con le fasce tricolori. Molte le associazioni del volontariato e del mondo civile. In marcia anche un gruppo di ragazzi della Scuola superiore di Amatrice: “Siamo qui per guardare avanti” dicono gli studenti. È un messaggio contro “l’indifferenza delle istituzioni internazionali ma anche di tutti coloro che dicono io non c’entro”, afferma il coordinatore Flavio Lotti, secondo cui “se non ci assumiamo ciascuno la nostra responsabilità non sarà possibile avere una società di pace, senza conflitti. Vogliamo reagire al silenzio e all’indifferenza di chi ci governa”.

Nel suo messaggio, il capo dello Stato Sergio Mattarella scrive che “la pace è questione che non interpella solo i vertici delle Nazioni o ristrette classi dirigenti. I popoli subiscono le conseguenze delle guerre. E’ da loro che può venire una nuova stagione di cooperazione, di sviluppo sostenibile, di rispetto reciproco”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ha inviato un saluto e un ringraziamento a tutti i partecipanti alla marcia “contro la rassegnazione, il cinismo, l’indifferenza: per ricordare alle istituzioni sovranazionali e nazionali, ai governi e ai parlamenti, che non si possono chiudere gli occhi sui troppi conflitti che insanguinano il pianeta e che concorrono a provocare le migrazioni forzate di decine di milioni di persone disperate”.

“Dobbiamo osare di più. Imparare il coraggio di avere più coraggio” è l’appello di don Luigi Ciotti. “Se c’è una malattia veramente mortale – ha detto il fondatore di Libera -, anche rispetto ai problemi di casa nostra, credo sia la rassegnazione, la delega e l’indifferenza. Non basta commuoverci ma bisogna muoverci di più tutti. Sono 250 milioni i ragazzi che vivono per le strade. Ogni ora che trascorreremo circa 800 bambini muoiono di fame, stenti e malattie sulla faccia della terra. Abbiamo quindi bisogno di fermarci, di interrogarci. Di fare meno parole e più fatti. Abbiamo troppi cittadini a intermittenza nel nostro Paese mentre dobbiamo essere più responsabili. La pace ha bisogno di ciascuno di noi”.

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ma, modestamente, c’eravamo anche noi da Lucca ad attestare la nostra voglia di pace nel suo senso più globale, che significhi di fatto anche superamento e rimozione di ogni muro, barriera, separazione fra culture e popoli, superamento di ogni chiusura nazionalistica e populistica segni di egoismi di gruppo in un mondo che ogni giorno fa circolare liberamente e liberisticamente miliardi e miliardi di interessi economici e militari ma preclude possibilità ai disperati di mettersi in salvo dalla loro disperazione …

 

pace-marciala bandiera del popolo rom che queste sinte con orgoglio esibiscono è il segno del grande bisogno che anche questo popolo sente di trovare rispetto, riconoscimento dei propri diritti, accoglienza, inserimento vero che non si riduca, come da troppi è concepito, a rinuncia alla propria cultura, tradizioni, stile di vita …

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era presente anche un vero amico del popolo Rom, p. Agostino Rota Martir, che condivide la propria vita e quotidianità con una porzione di questo popolo in un ‘campo rom’ di Pisa; condividendo la propria vita con una parte di questo popolo da tanti anni ha avuto modo di condividere, nella disarmata impotenza  evangelica, la sofferenza, le discriminazioni che quotidianamente subiscono – anche da parte di amministrazioni di sinistra che si riempiono la bocca di belle parole di accoglienza – e che magari partecipano alla stessa marcia della pace – le quali finiscono sempre per imporsi come assimilazione violenta pena la privazione di diritti fondamentali …

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domani la marcia della pace Perugia – Assisi un bel ‘segno’ da ripensare

Perugia-Assisi: SI, ma non basta

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ci vorrebbe un antagonismo diretto e “rumoroso” nei confronti del sistema politico-militare che, anche nel nostro paese, contribuisce direttamente o indirettamente alla terza  guerra mondiale a pezzimarcia2

La Perugia-Assisi è di tutti, la Perugia-Assisi è un momento di partecipazione di massa che crea emozioni e muove energie soprattutto giovanili. E’ comunque e sempre un fatto positivo in una situazione del paese in cui alla persistenza  della crisi socioeconomica non corrisponde una adeguata mobilitazione dal basso ed anche sulle questioni della pace e della guerra il movimento è insufficiente. E’ questa una facile constatazione. Ciò premesso, mi pare che non basti chiamare alla marcia solo perché “la pace è bella”  e ci si scarica così la coscienza davanti a una situazione generale nel mondo  che si è aggravata negli ultimi due-tre anni. Bisogna qualificare la propria presenza, anche alla marcia, con qualche parola d’ordine specifica, intransigente, antagonista, che sia graffiante. La piattaforma, che è stata presentata in giugno quando la marcia è stata convocata dalla Tavola della pace e dalla Rete della pace, è meno che mediocre. Non dice quasi niente, meglio è piena di belle parole ma generiche che possono andare bene a tutti o a quasi tutti. 

marcia Anche Renzi, se non fosse distratto dalla sua campagna per il referendum,  potrebbe pensare a parteciparvi tra i suoi boyscout per fare un po’ di immagine e di demagogia a buon prezzo. Già ci tentò D’Alema quando era Presidente del Consiglio,  i vecchi della marcia se lo ricordano. Eppure un anno fa all’Arena di Verona le cose furono  diverse. Ci fu la proposta soprattutto  della campagna su “Un’altra difesa è possibile”, tra maggio e giugno ci sono state iniziative  vivaci. Ha fatto bene Pax Christi a pronunciarsi nel suo Consiglio nazionale di giugno e a voler qualificare la propria presenza alla marcia con  propri punti (stop agli F-35, no all’installazione delle nuove bombe nucleari B 61-12, blocco alle continue violazione della 185, no alla nuova presenza in Libia, sì alla difesa popolare non armata e non violenta…..). E mi paiono pesanti le osservazioni del Movimento nonviolento che ha deciso di non partecipare. Questa assenza dovrebbe pesare come un macigno perché sono essi , ben più di altri, gli eredi di Capitini  e sono  stati spesso tra i protagonisti della marcia. Ragionando su questa caduta in basso, che mi è sembrata a un primo momento  inspiegabile, mi è venuto il sospetto che la motivazione di fondo sia il freno, conscio o inconscio,  determinato dal fatto che al governo non ci sia più la destra nei confronti della quale è facile strillare ma una specie di governo considerato  “amico” o perlomeno non  nemico (cosa pensata ma non detta).

marcia1 Ma se questo non fosse solo un mio sospetto, bisognerebbe  ridiscutere tutto  perché ne verrebbe messo in discussione il senso stesso della marcia a partire dal fatto che non si vede nell’attività di questo governo alcuna benché minima iniziativa  nella direzione auspicata da tutte le proposte pacifiste. E ragionando da cristiano mi chiedo perché, mentre papa Francesco parla bene e spesso, i nostri vescovi stiano zitti su questioni che coinvolgono  così intensamente la coscienza cristiana.

              Vittorio Bellavite

coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa

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l’arcivescovo Tutu chiede di poter scegliere una «morte dignitosamente assistita».

l’arcivescovo Tutu e l’eutanasia

“lasciatemi la scelta”Tutu

di Michele Farina
in “Corriere della Sera” dell’8 ottobre 2016

nel mezzo del suo 85esimo compleanno, «più vicino al terminal delle partenze che a quello degli arrivi», Desmond Tutu chiede per sé il diritto di decidere come e quando andarsene da questo mondo

L’arcivescovo emerito anglicano di Città del Capo e Nobel per la Pace 1984, l’amico di Nelson Mandela che tutti in Sudafrica chiamano «The Arch», ora «più che mai sente» la necessità di «prestare la sua voce» alla causa della «morte dignitosamente assistita». Un occhio alla festa, l’altro alla cartella clinica: Tutu è reduce da uno dei suoi sempre più frequenti tour in ospedale, dove anche questa volta dopo un piccolo intervento chirurgico ha rintuzzato «le infezioni» che minano da qualche tempo la sua salute. Nessuno parla di una precisa malattia (vent’anni fa The Arch fu curato per un tumore alla prostata). È lui stesso a descriversi più vicino all’ultimo «gate». E così, mentre nel giorno del compleanno i ragazzi della sua Fondazione distribuiscono dolcetti nel centro di Città del Capo in nome della campagna #ShareTheJoy, assieme alla gioia The Arch ha deciso di condividere le sue riflessioni in «fine vita». Non c’è contraddizione tra l’inno alla gioia e la via dell’eutanasia, lascia intendere Tutu dalla tribuna del quotidiano americano The Washington Post : «Per tutta l’esistenza ho avuto la fortuna di lavorare appassionatamente per la dignità dei viventi. Così come ho lottato per la compassione e la giustizia nella vita, allo stesso modo credo che i malati terminali debbano essere trattati con giustizia e compassione davanti alla morte». The Arch non usa giri di parole: «I morenti dovrebbero avere il diritto di scegliere come e quando lasciare la Madre Terra». Tutu ricorda le recenti leggi sulla «dolce morte» entrate in vigore in California e in Canada. Ma sottolinea come «a migliaia di persone in tutto il mondo venga negato il diritto di morire con dignità». Su questo tema, l’incrollabile campione dei diritti umani ha cambiato idea da poco. «Per tutta la vita mi sono opposto all’idea della morte assistita. Due anni fa dissi che ci avevo ripensato. Ma sull’eventualità che io stesso potessi farvi ricorso, ero rimasto sul vago. “Non mi importa”, dicevo allora. Oggi che sono più vicino al terminal delle partenze, lo affermo con chiarezza: ci sto pensando, sto pensando a come vorrei essere trattato quando verrà l’ora». Il Sudafrica, che vanta una delle Costituzioni più avanzate del mondo, non ha una legge sulle scelte di fine vita. Nell’aprile 2015 un tribunale ha garantito a un malato terminale il diritto di morire, ma il Parlamento non ha colto questa occasione per discuterne in maniera approfondita. Anche il sasso lanciato da Tutu non sembra aver fatto grande rumore nello stagno dell’opinione pubblica, dominata com’è da altre emergenze e ricorrenze: le manovre del corrotto presidente Jacob Zuma, il declino dell’Anc, le storie di mazzette che avvolgono un ex pupillo di Nelson Mandela, Tokyo Sexwale; le proteste a petto nudo delle studentesse della Wits University contro l’aumento delle tasse scolastiche; l’economia sudafricana che non riparte, la violenza sulle donne… La dignità dei viventi è minacciata ogni giorno nella Nazione Arcobaleno, a oltre vent’anni dalla fine dell’apartheid. L’uomo che ha spiazzato i neri in pieno regime dell’apartheid («siate buoni con i bianchi, hanno bisogno di riscoprire la loro umanità», disse alla cerimonia del Nobel), il prete che ha inventato la meravigliosa definizione di Rainbow Nation, il vecchietto che negli ultimi anni ha tuonato mentre i potenti di turno imbrattavano la bandiera di Mandela, oggi si ritrova abbastanza solo a interrogarsi sulla dignità dei morenti. D’altra parte questa è sempre stata la sua specialità, come diceva Madiba: dare voce a chi non ha voce. Con un occhio ai dolcetti della vita, l’altro alla cartella clinica.

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dopo mezzo secolo gli italiani rifanno la valigia per emigrare

 

“torna l’Italia con la valigia”

intervista a Giancarlo Perego direttore della ‘Migrantes’

a cura di Giacomo Galeazzi
in “La Stampa-Vatican Insider” del 7 ottobre2016Perego

«Si grida all’invasione dell’Italia e invece siamo un paese di emigranti»

 


lo afferma monsignor Giancarlo Perego direttore generale di Migrantes, la Fondazione della Cei che si occupa di immigrati, rifugiati e profughi, commentando con Vatican Insider il rapporto «Italiani nel mondo», presentato ieri dalla stessa Fondazione della Conferenza episcopale italiana.

Sono quasi 5 milioni gli italiani all’estero, circa 110mila se ne sono andati soltanto nell’ultimo anno; dal 2006 al 2016 la mobilità italiana è aumentata del 54,9% passando da poco più di 3 milioni di iscritti all’Aire (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) a oltre 4,8 milioni.

Entrano in Italia meno persone di quante se ne vanno. Cosa significa?

“È uno dei segnali più importanti e misconosciuti della crisi economica e sociale dell’Italia. Numericamente gli immigrati non sostituiscono gli emigranti. L’Italia non è più attrattiva. I mass media si occupano di quelli che arrivano, ma non di chi se ne va. C’è una drammatica perdita di attrazione dell’Italia, soprattutto verso le nuove generazioni. Lo dimostrano i dati. Se noi guardiamo ai numeri di questo rapporto, dietro i quali ci sono delle persone, ci accorgiamo che queste ultime hanno in comune innanzitutto l’età: per il 50% sono giovani, per il 20% anziani. Molti sono senza lavoro e vivono la solitudine del cammino. Provengono dal sud Italia, dal sud Europa, dal sud del mondo anche se sono in ascesa le partenze da Veneto e Lombardia».

Quali sono gli altri indicatori di questa diminuita attrattività dell’Italia?

«Da anni si registra un costante calo di studenti stranieri iscritti nelle università italiane. L’Italia è al penultimo posto in Europa. Peggio dell’Italia solo la Grecia. Nel dopoguerra cinque milioni di italiani sono emigrati in Germania, ma poi ne sono tornati quattro milioni e mezzo perché nell’Italia dei decenni successivi trovarono quelle nuove opportunità che invece mancano oggi. Senza queste opportunità chi se ne va oggi dall’Italia, non tornerà domani».

Millennials in fuga?

«Esiste un mondo giovanile in movimento da intercettare. La cittadinanza premia i giovani in cammino, che cercano opportunità lavorative. In Italia il 39,6% è disoccupato e le università italiane sono tra le ultime nelle classifiche europee». In che modo la politica può correre ai ripari? «Va cambiata politica economica e sociale. L’Italia di oggi soffre di emorragia di talenti: i giovani migliori e più preparati se ne vanno e il Paese è incapace ad attrarne di nuovi. Il 75% della popolazione è convinto che l’emigrazione giovanile sia solo un impoverimento per la cultura italiana e non piuttosto utile per il confronto con altre culture. Bisogna rileggere la geografia urbana, che sta cambiando. Occorre investire in innovazione e cultura per rendere attrattiva l’Italia rispetto all’estero».

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