il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

NON SI E’ TROVATO NESSUNO CHE TORNASSE INDIETRO A RENDERE GLORIA A DIO, ALL’INFUORI DI QUESTO STRANIERO

commento al vangelo della domenica ventottesima del tempo ordinario (9 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:

maggi20
Lc 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
E mentre essi andavano, furono purificati.  Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il capitolo 17 del vangelo di Luca, versetti 11-19, presenta un brano che esclusivo di questo evangelista. Per interpretarlo ci facciamo aiutare da quelle chiavi di lettura, da quelle cifre, da quelle indicazioni che l’autore, l’evangelista stesso pone nel testo per una retta comprensione. Vediamo allora questo brano.
Lungo il cammino verso Gerusalemme. Gerusalemme, nella lingua greca si scrive in due maniere. Una è Ierusalem, che è la traslitterazione del nome sacro ebraico Yerushalaym, che indica la città santa, l’istituzione. L’altro invece è il nome geografico, Jerozolima. Qui c’è il primo nome, Ierusalem, che indica che Gesù sta andando verso quella che è l’istituzione sacrale, il punto più importante della religione per il suo popolo. E sarà proprio là dove troverà la morte.
Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. E’ strano questo itinerario; per la comprensione del testo bisogna tener presente che, mentre la Galilea è la regione al nord della Palestina, al centro c’è la Samaria, e poi al sud la Giudea con la capitale Gerusalemme. Quindi l’evangelista avrebbe dovuto scrivere “attraversava la Galilea”, quindi al nord, “la Samaria per andare verso Gerusalemme”. Perché l’evangelista mette questo itinerario strano? Attraversava la Samaria e la Galilea… Perché vuole centrare l’attenzione sulla Galilea, cioè sul territorio di Israele. E’ lì che succede questo fatto.
Entrando in un villaggio… Questa è un’altra delle indicazioni che l’evangelista (tutti gli evangelisti in effetti) pone per la comprensione del testo. Il villaggio, anonimo, nei vangeli ha sempre il significato di incomprensione o addirittura di opposizione e ostilità a Gesù e alla novità che lui porta. Perché questo? Perché il villaggio – si sa – è il luogo dove le mode, le novità arrivano sempre in ritardo, ma poi attecchiscono e quando mettono radici diventano una tradizione che è difficile sradicare.
Quindi il villaggio nel vangelo significa il luogo del “si è sempre fatto così” e dove le novità vengono viste con sospetto. Questo villaggio è anonimo quindi indica questo tipo di ambiente.
Gli vennero incontro dieci lebbrosi. Questo è impossibile. E’ impossibile perché i lebbrosi, dal momento in cui veniva certificata l’esistenza, erano espulsi dal villaggio, dovevano vivere al di fuori del villaggio, in un luogo appartato. Come mai l’evangelista dice che “entrando in un villaggio gli vennero incontro dieci lebbrosi”? I lebbrosi non possono vivere in un villaggio. Luca ci sta dicendo che la lebbra, questa impurità, si deve proprio al fatto che dimorano in questo villaggio.
Chi dimora nella tradizione, chi rifiuta le novità che Dio propone, non ha più alcuna comunicazione con il Signore, poiché essere impuro significa non avere più alcuna comunicazione. Pertanto questa lebbra, questa impurità si deve al fatto che vivono in questo villaggio.
Che si fermarono a distanza… vivono nel villaggio, nel luogo della tradizione, e osservano la legge. Il libro del Levitico al capitolo 13, versetti 45-46, dà delle indicazioni precise su come si deve comportare il lebbroso. E dissero ad alta voce: “Gesù, maestro…” letteralmente lo chiamano “capo”, proprio come i suoi discepoli, “Abbi pietà di noi!”. Quindi da una parte vivono nella tradizione e dall’altra vedono in Gesù la speranza di salvezza che ci può essere.
Gesù non guarisce.  Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Perché? A quel tempo, sotto il nome lebbra, si intendeva qualunque malattia della pelle. E ci sono alcune malattie che, naturalmente, si possono guarire. Ma, per essere riammessi nel villaggio, bisognava andare dal sacerdote a Gerusalemme che certificasse la scomparsa di questa infezione, di questa malattia.
Quindi si otteneva una sorta di certificato per essere riammessi nel villaggio. Allora Gesù per questo dice “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. E’ uscendo dal villaggio che diventano purificati. Gesù non guarisce, uscendo dal villaggio i lebbrosi guariscono. Quindi è la prova che questa impurità era dovuta alla loro permanenza in questo ambiente di tradizione.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, atteggiamento tipico dei discepoli, per ringraziarlo. Dal verbo ringraziare deriva l’eucaristia che significa appunto “ringraziamento”. Ed ecco la novità, la sorpresa dell’evangelista,  Era un Samaritano.
E’ interessante che, mentre la malattia accomuna questi lebbrosi giudei, galilei e samaritani, poi dopo, una volta guariti, l’unico che mostra un sentimento di gratitudine e di riconoscenza non è uno appartenente al popolo d’Israele, ma quello che era considerato l’essere più lontano, peccatore, impuro fin dalla nascita, escluso comunque da ogni rapporto con Dio. Era un Samaritano.
E’ una caratteristica di questo evangelista vedere che i modelli della fede in questo vangelo sono sempre gli stranieri o sempre le persone più lontane. Gesù già aveva elogiato la fede del centurione, la fede della prostituta, dell’emorroissa e quella del cieco. Più le persone sono ritenute lontane da Dio e più in loro c’è questo sentimento di gratitudine; percepiscono subito i segni di Dio nella loro vita.
Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio…”; rendere gloria a Dio era il privilegio di Israele. Ebbene questo privilegio che era esclusivo di Israele, ora è per tutta l’umanità, compresi i samaritani.
“All’infuori di questo straniero?”. E’ l’unica volta che nel vangelo appare il temine straniero, e straniero indicava il nemico, il rifiutato, in maniera positiva.  E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Gesù, secondo Luca, continua questo insegnamento su che cos’è la fede. La fede non è un dono che Dio dà ad alcuni, ma la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutti.
Quelli che percepiscono questo amore e rispondono, questo si chiama fede. Qui abbiamo visto, Gesù stesso lo dice, tutti i dieci sono stati guariti, ma soltanto uno è tornato, ha risposto a questa guarigione. E questa è la fede. Quindi la fede non è un dono che Dio fa ad alcuni e ad altri meno, ma la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa. E che cos’è la fede? La fede è saper rispondere positivamente a quegli avvenimenti che la vita ci fa incontrare.

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per Chiara Saraceno quella di papa Francesco contro il ‘gender’ è una crociata

la crociata di Bergoglio contro la teoria gender

 


di Chiara Saraceno

I nemici del matrimonio non sono la povertà e più in generale le ristrettezze economiche che non consentono di fare progetti per il futuro, la disuguaglianza tra uomo e donna dentro e fuori la famiglia, un’organizzazione del lavoro che lascia poco spazio alla vita privata. Non lo sono neppure i matrimoni forzati e precoci, con il loro seguito di sesso imposto a quasi-bambine e gravidanze precoci.
Il nemico vero, che avrebbe addirittura scatenato una guerra mondiale contro il matrimonio, ha detto il pontefice ai fedeli georgiani probabilmente sbigottiti, è la “teoria del gender”.Saraceno

La tesi, per altro, non è nuova, anche se questa volta espressa con una violenza che di solito il papa riserva ai conflitti che affamano e uccidono popolazioni in diverse parti del mondo, e all’indifferenza che abbandona i migranti al loro destino.

Già nel documento Amoris Laetitia, infatti, il pontefice, riprendendo letteralmente quanto scritto nel documento finale del Sinodo sulla famiglia, denuncia la “teoria del gender” come perniciosa e afferma che “differenza e reciprocità naturale di uomo e donna” sono inseparabili, ancorché distinguibili, dai ruoli sociali e culturali maschili e femminili. In questa prospettiva, chi pretendesse separarli, “svuoterebbe la base antropologica della famiglia”. Lasciamo stare che non esiste una e una sola “teoria del gender”, ma diversi approcci analitici, inclusi quelli di alcune teologhe e teologi, che utilizzano il concetto di genere per distinguere l’appartenenza di sesso non solo dall’orientamento sessuale, ma dai ruoli sociali e dalle capacità attribuite agli uomini e alle donne.

Approcci e studi che mostrano come ciò che è definito maschile e femminile, ciò che ci si aspetta dagli uomini e dalle donne, lungi dallo stare in natura, cambia nel tempo, tra società e gruppi sociali e come queste definizioni siano spesso connotate da rapporti di potere asimmetrici tra i sessi ed anche entro uno stesso sesso. Esistono gerarchie del maschile come del femminile.

Se dobbiamo accettare la tesi del pontefice che non si possano separare appartenenza di sesso e capacità e ruoli sociali, tra appartenenza di sesso e destino sociale, allora dobbiamo smentire non solo intere biblioteche di studi antropologici e storici, ma anche vedere nelle battaglie delle donne per uscire da ruoli prescritti come destino “naturale” la vera minaccia al matrimonio, nella misura in cui si ritiene che questo possa esistere solo nella distinzione dei ruoli di genere. Una minaccia altrettanto, se non più grande, di quella che verrebbe dalla richiesta di matrimonio da parte di coppie dello stesso sesso.

Dietro l’ossessione per il “gender/genere” che affanna la gerarchia cattolica anche ai suoi livelli più alti, legittimando crociate contro ogni pratica educativa che aiuti i bambini e ragazzi a superare, appunto, gli stereotipi di genere per accettarsi e accettare nella propria individuale diversità, non sta infatti solo una ripugnanza nei confronti della omosessualità, vista come “contro natura” perché non si concepisce che il desiderio sessuale possa rivolgersi ad un corpo simile al proprio. Vi è proprio il terrore che se vengono meno le barriere dei ruoli sociali di genere (che nulla hanno a che fare con l’orientamento sessuale), in primis nella famiglia, e ciascuno è messo nelle condizioni di scegliere liberamente il proprio modo di essere maschio o femmina e trovare il proprio equilibrio nelle relazioni di coppia – etero o omosessuale – e di generazione – ci sia solo il vuoto, o meglio il caos.

Eppure, vi sono diversi segnali che suggeriscono come sia proprio la concezione e pratica di un matrimonio asimmetrico e fondato su una rigida separazione di genere a motivare molte violenze contro le donne e a tenere lontane molte giovani dal matrimonio. O comunque a suggerire loro di aspettare per consolidare la propria autonomia per meglio negoziare una divisione del lavoro flessibile. Se un tempo l’asimmetria dava incentivi a sposarsi e stabilità ai matrimoni e alle famiglie, non si sa a quale prezzo, oggi in molti paesi non è più così. E’ piuttosto l’eguaglianza, con quel tanto di intercambiabilità e fluidità dei ruoli necessaria a mantenerla, a dare una chance in più alla disponibilità a sposarsi e alla durata di un matrimonio.

Nessuna guerra contro il matrimonio da parte di chi desidera modificare i ruoli di genere, dunque, solo lo sforzo di cambiarlo per renderlo più vivibile e accessibile.

 

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papa Francesco ancora sul ‘gender’ … però attorno a lui c’è qualcuno che lo informa male

colonialismo culturale?

papa

Il «Gender» vuole abolire le differenze tra maschi e femmine? Il gender vuole distruggere la famiglia naturale? Il gender ci farà diventare tutti gay?

“Mi dispiace che abbia fatto questa affermazione, per lo meno leggera e infondata, ha detto la ministra dell’istruzione francese. Anche il papa è vittima della campagna di disinformazione portata avanti da ambienti reazionari…”Non insegniamo nessuna teoria del genere… ma l’educazione all’uguaglianza ragazze-ragazzi, nel quadro della lotta agli stereotipi e alle discriminazioni”

di seguito un pochino di Rassegna Stampa a proposito delle ultime dichiarazioni di papa Francesco sul ‘gender’, dichiarazioni che hanno trovato elogio per la chiarezza di affermazione, approvazione sul merito ma anche forte disapprovazione non senza una forte impressione che qualcuno lo stia informando male, per terminare con una intelligente riflessione di Michela Marzano pubblicata su Repubblica del 5 ottobre:

Bergoglio e la verità sul gender di Orazio La Rocca in Trentino del 4 ottobre 2016

La novità è la chiarezza di esposizione e, se vogliamo, la sorpresa. Specialmente da parte di chi confondendo la sua forza pastorale, cioè la scelta di stare da sempre accanto alle sofferenze degli ultimi, con le verità a cui non ha mai rinunciato. Verità che, comunque, non gli impediscono di dialogare con tutti, ascoltare chi soffre, chi vive nel disagio al di là di orientamenti politici, religioni, scelte sociali e orientamenti sessuali. Senza rinunziare ai princìpi cardine della tradizione cristiana.
Il «Gender» vuole abolire le differenze tra maschi e femmine? Il gender vuole distruggere la famiglia naturale? Il gender ci farà diventare tutti gay? Le domande della crociata, a cui si è associato Papa Francesco, hanno il paradossale pregio di indurci a ragionare sul «genere» prescindendo dalla distinzione che, di solito, si tende a stabilire tra il «sesso», l’«identità di genere» e l’«orientamento sessuale»
Educare all’identità come libertà e non come destino è il primo obiettivo che il dilagare dei fenomeni di femminicidio, omofobia e intolleranza impone alle istituzioni, sapendo che per incidere sul terreno dei pari diritti e delle pari opportunità bisogna intervenire fin dalla primissima infanzia
L’Italia, insieme alla Grecia, sono gli unici paesi europei a non avere una legge sull’educazione sentimentale nelle scuole. In un paese che registra un aumento continuo dei femminicidi e delle violenze sulle donne, dove è sensibili e ampiamente riconosciuto l’aumento delle discriminazioni di genere, l’omofobia, il bullismo qualcosa tuttavia si è mosso
Papa Francesco riprende un aneddoto su una supposta gender theory diffuso da anni dall’estrema destra per denigrare la scuola pubblica. La ministra: venga a sfogliare i manuali e a parlare con gli insegnanti Il papa è caduto in una trappola? E’ quello che pensano in molti in Francia, e non solo nel governo o a sinistra
“Mi dispiace che abbia fatto questa affermazione, per lo meno leggera e infondata, ha detto la ministra dell’istruzione francese. Anche il papa è vittima della campagna di disinformazione portata avanti da ambienti reazionari…”Non insegniamo nessuna teoria del genere… ma l’educazione all’uguaglianza ragazze-ragazzi, nel quadro della lotta agli stereotipi e alle discriminazioni”

se il ‘gender’ a scuola aiuta a combattere le discriminazioni

di M. MarzanoMarzano

Una cosa è la persona che ha una tendenza omosessuale o anche che cambia sesso», ha detto l’altro giorno Papa Francesco per spiegare quanto dichiarato in Georgia a proposito dell’ideologia gender. «Un’altra è fare insegnamenti nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità: io chiamo questo colonizzazione ideologica», ha concluso il Pontefice. Ma a quali insegnamenti si riferisce esattamente Papa Francesco? Che cosa vuol dire “cambiare la mentalità”? Cos’è questo benedetto “gender” di cui tanto si parla e che, di fatto, è solo il termine inglese per il quale esiste ovviamente una traduzione italiana, ossia l’espressione “genere”? Papa Francesco non fa altro che ripetere quanto già detto altre volte: il gender a scuola è un’ideologia pericolosa. Dando così credito a quanti sostengono che ormai, nelle scuole, si insegnerebbe ai più piccoli che possono scegliere se essere ragazzi o ragazze, cambiare sesso a piacimento, e decidere quali tendenze sessuali privilegiare o meno. Ma è questo che si insegna a scuola oggi? Se veramente fosse così, anch’io sarei molto preoccupata. Come potrebbero d’altronde raccapezzarsi un bimbo o una bimba se venisse detto loro che tutto si equivale, che non c’è alcuna certezza identitaria, e che si può essere di giorno ragazzi e di notte ragazze o viceversa? Il punto, però, è proprio qui: a nessuno passa oggi per la testa di colonizzare la mente dei bambini con tali fandonie, tali bugie, tali assurdità. Perché è di questo che si tratta quando si pretende che sesso, genere e orientamento sessuali siano solo il frutto di una scelta e che basterebbe quindi insegnare ai più piccoli il valore delle decisioni individuali affinché diventino omosessuali o trans, «giustificando e normalizzando ogni comportamento sessuale », come scrivono associazioni come ProVita, Giuristi per la vita o la Manif Pour Tous Italia. «Lasciate che le ragazze siano ragazze. Lasciate che i ragazzi siano ragazzi», recita lo slogan di un video prodotto proprio per spiegare «l’ideologia gender in meno di tre minuti», senza rendersi conto che, mischiando realtà, fiction e fantasmi, sono questo tipo di spot a creare confusione e paura. Ma procediamo con ordine. Cosa si sceglie nella vita? Cosa si costruisce o si decostruisce a piacimento? Di scelte, nel corso della propria esistenza, se ne fanno molte. Nessuna, però, riguarda il proprio essere donna o uomo, oppure la propria eterosessualità o la propria omosessualità. Il genere e l’orientamento sessuale non si scelgono, non si cambiano, non si curano. Sono elementi dell’identità di ciascuno di noi, quell’identità con la quale, prima o poi, tutti dobbiamo fare i conti, anche quando ci sono cose che vorremmo che fossero diverse, cose che magari non sopportiamo di noi stessi, cose con le quali, però, non possiamo far altro che convivere. E allora capita — perché la vita è anche questo — che un bambino, fin da quando è piccolo, sia profondamente convinto di essere un bimbo nonostante si ritrovi prigioniero di un corpo femminile, e allora sia costretto a passare anni ed anni a cercare di risolvere il divario drammatico e doloroso che vive tra la propria identità di genere e il proprio sesso biologico, senza alcuna volontà di sovvertire “l’ordine naturale delle cose”, al solo scopo di trovare una qualche armonia con se stesso. Esattamente come capita che, fin da quando è piccola, una bambina sia attirata dalle altre bimbe senza per questo essere meno bambina delle amiche o delle compagne attirate dai bambini. L’orientamento sessuale, esattamente come l’identità di genere, non è una “tendenza” che si può o deve contrastare; è un modo di essere e di amare il cui valore non cambia solo perché si è omosessuali invece che eterosessuali, e quindi si amano persone dello stesso sesso invece che persone dell’altro sesso. L’unica cosa che si può “costruire” o “decostruire” è la rappresentazione che ci si fa del proprio genere o del proprio orientamento sessuale, imparando o meno ad accettarsi per quello che si è, senza cedere alle pressioni di chi vorrebbe che fossimo diversi da come siamo. Qualcuno potrebbe a questo punto chiedersi che c’entra la scuola in tutto questo, e perché si dovrebbero affrontare tematiche legate al genere o all’orientamento sessuale con i più piccoli invece che, come ripetono in molti, limitarsi a insegnare loro a leggere, scrivere e contare. Ma lo scopo della scuola non è anche, e forse soprattutto, quello di aiutare le bambine e i bambini a trovare le parole giuste per qualificare quello che vivono, mettere un po’ di ordine nel mondo che li circonda e riuscire a non vergognarsi per quello che sono e quello che provano? Uno degli scopi della scuola non è anche quello di costruire i presupposti di un vivere- insieme in cui ci si accetta reciprocamente indipendentemente dalle proprie differenze? Non stiamo assistendo, proprio in questi ultimi mesi, a episodi di bullismo e di violenza verbale o fisica nei confronti dei “diversi”? È strano che proprio coloro che vogliono tanto difendere i propri figli non siano poi sensibili ai tentativi che si stanno cominciando a fare nelle scuole proprio per proteggere tutti i bambini e tutte le bambine, insegnando che essere una ragazza non significa né essere inferiore a un ragazzo né amare necessariamente le bambole o il colore rosa, oppure che un maschietto resta un maschietto anche se non è attirato dalle bambine. È strano che anche il Papa, che pure spiega che “la vita è vita e le cose si devono prendere come vengono”, prenda alla lettera le fandonie di chi ripete che a scuola si insegna a scegliere il proprio genere e il proprio orientamento sessuale, mentre di fatto si cerca solo di lottare contro le discriminazioni e il bullismo di cui sono vittime innocenti le persone omosessuali e trans, che non hanno scelto niente, appunto, esattamente come le persone eterosessuali.
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in punta di piedi senza clamore tra i terremotati

papa Francesco in punta di piedi tra le rovine

dopo le inutili passerelle dei politici

macerie

papa Francesco nelle zone devastate dal sisma senza annunciarlo, senza fare della visita un evento mediatico. Una lezione per quegli epifenomeni della politica italiana che a nemmeno un giorno dal disastro già si scannavano

la riflessione di un non credente ma colpito dalla presenza ‘in punta di piedi’, senza clamore, accanto alla sofferenza dei terremotati, scusandosi di non essere venuto prima e motivandolo con la necessità di ‘non disturbare’:

di Ciro Pellegrino

Non sono cattolico ma forse proprio per questo mi colpisce ancor di più la presenza di Papa Francesco nei luoghi devastati del terremoto nel centro Italia.  Le popolazioni di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto, Norcia hanno bisogno, per dirla con le parole del presbitero don Gino Rigoldi, di «ricostruire la speranza». Un capo carismatico come il Pontefice argentino può far molto in tal senso. Per un laico tutto ciò ha anche una “utilità”: non è solo fede e presenza di Dio, ma anche forza e sostegno psicologico nonché moral suasion.

papa-terremoto1 Già: il Capo della Chiesa Cattolica in quei luoghi aiuta a tenere accesi i riflettori su quel che sarà, ovvero sulla ricostruzione che in Italia tanto temiamo, viste le ruberie connesse ad altre calamità naturali nel corso degli anni. Qualche giorno fa, celebrando la Messa a un mese dal sisma, il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili, ebbe a dire: «Non uccide il sisma ma le opere dell’uomo».papa-terremoto

Ebbene la presenza di Bergoglio è rilevante anche per questo: camminare nella zona rossa di lacrime e rabbia e nera di morte e distruzione tiene altissima l’attenzione su quel disastro. È un dito puntato verso chi ha responsabilità: bisogna ridare una vita normale a questa gente. Subito.

«Sono venuto solo ora, non volevo disturbare» ha detto il Pontefice stamane. Se solo avesse saputo di quegli epifenomeni della politica che a nemmeno un giorno dal disastro già si scannavano sui social network, aspettando il momento per il selfie con l’hashtag giusto sarebbe probabilmente andato ancora più tranquillo.

 

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“Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri!” Dt 10,19; 24,17

“io sono stato straniero”

di Enzo BianchiBianchi

in “la Repubblica” del 2 ottobre 2016

un estratto del discorso che Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, pronuncerà in Senato in occasione della Giornata nazionale per la memoria delle vittime dell’immigrazione

Il titolo assegnato a questo mio intervento riecheggia una parola indirizzata a più riprese nella Bibbia al popolo di Israele: “Ricorda che sei stato straniero nel paese di Egitto”, oppure: “Tu agirai così perché anche tu sei stato straniero!”. Parole che sono un invito a sentirsi stranieri e assumere la responsabilità verso gli stranieri che giungono a noi nella loro irriducibile e di primo acchito insondabile diversità.

Per questo risuona il comandamento: “Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri!” (Dt 10,19; 24,17; Esodo 22,20; 23,9; Lev 19,34). Ecco il paradigma: ciascuno di noi è straniero rispetto ad altri e proprio per questo può comportarsi rispetto allo straniero come lui vorrebbe che altri si comportassero nei suoi confronti. Ma vorrei affrontare questo tema usando come chiave interpretativa il testo attribuito a Shakespeare che ci invita a “vedere gli stranieri”. Rievocando la minaccia di espulsione dal paese di persone “diverse” per religione e nazionalità, il Bardo invita a interrogarsi sui motivi di questa migrazione, poi esorta a immedesimarsi nei fuggiaschi per trarne le conseguenze a livello di comportamento etico. “Vedere gli stranieri” può allora declinarsi in diverse modalità — vederli da lontano, vedere se stessi, vederli da vicino, vederli come concittadini — e sfociare in una dimensione inattesa: gli stranieri come dono.

1. Vedere gli stranieri da lontano: la lungimiranza. Di fronte al fenomeno migratorio — antico quanto il mondo — e alla connotazione assunta in Italia appare fuorviante definirlo “emergenza”. Sarebbe più sensato considerarlo un’inevitabile conseguenza di fattori legati ai nostri comportamenti, a cominciare da guerre, sete di potere e sfruttamento iniquo delle risorse del pianeta. Da sempre è la fame che va verso il pane, non viceversa, e non ci sono né muri né mari capaci di fermare chi è talmente disperato da considerare un viaggio senza speranza preferibile alla certezza di una morte atroce nella propria terra. O pensiamo che se uno avesse un’aspettativa di sopravvivenza “a casa sua”, metterebbe a repentaglio la vita in un’avventura bestiale? “Vedere gli stranieri” da lontano significa lungimiranza sulle cause che li muovono. Significa capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, dai trafficanti di armi a quelli di esseri umani.

2. Vedere se stessi negli stranieri: immedesimazione e identità. Non dovrebbe essere difficile per noi applicare questo paradigma, la nostra “stranierità” è ancor oggi riscontrabile e vissuta. Lo straniero è lo specchio della stranierità che ci abita, è la faccia nascosta della nostra identità. Riconoscendo la stranierità in noi, possiamo compiere un cammino che non rimuove, non teme, non demonizza il forestiero. Scrive Julia Kristeva: “Lo straniero ci abita: è la faccia oscura della nostra identità. Riconoscendo lo straniero in noi, possiamo non detestarlo in lui”. E Edmond Jabès: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”. Questo atteggiamento eviterebbe il rischio di assolutizzare la propria identità, con arroccamenti difensivi dei valori. L’identità, sia personale che comunitaria, si costruisce attraverso l’incontro e la relazione con gli altri, diversi e stranieri. L’identità non è statica ma un divenire, non è monolitica ma plurale. I risorgenti localismi generano spinte xenofobe e razziste, tendono all’esclusione dell’altro. Lo straniero invece è portatore di una relazione che riguarda il nostro essere più profondo e ci fa cogliere il significato del monito biblico: “Ama lo straniero perché tu sei stato straniero” e continui ad esserlo rispetto a un orizzonte che non hai ancora attraversato.

3. Vedere gli stranieri da vicino: vincere le paure. Giunto da lontano, lo straniero è radicalmente altro. È altro da me: era lontano e ora mi è vicino. Ora compete a me farmi suo prossimo, avvicinarmi a lui. Ma proprio in questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure: la mia paura e quella dello straniero. Innanzitutto la sua paura, quella di chi è venuto in un mondo a lui estraneo, dove non è di casa e non ha casa. La mia paura, invece, è quella di ritrovarmi di fronte a uno sconosciuto entrato nella “mia” terra. Due paure a confronto. La paura va superata, ma per farlo è necessario affrontarla e non rimuoverla. Lasciata nelle mani degli imprenditori della paura, essa lievita fino a paralizzare ogni azione e a sprigionare mostri. Se la si nega, si rischia di idealizzare la differenza dello straniero. La paura va razionalizzata, assunta, così da trasformarla in stimolo e in ingrediente per soluzioni.

4. Vedere gli stranieri come concittadini. La razionalizzazione delle paure richiede che ci si interroghi su quali modelli di incontro tra stranieri e italiani attuare. Potremmo identificare quattro modelli: assimilazione, inserimento, integrazione, cittadinanza. Con una domanda di fondo: quando e fino a quando una persona è considerata straniera? È straniero l’immigrato giunto come tale, anche se infante, e lo rimane per tutta la vita? La con-cittadinanza è lo spazio comune in cui diviene impossibile continuare a parlare di “noi” e “loro” e in cui la logica dell’uguaglianza attiva diviene abito mentale e culturale dell’insieme della società.

5. Vedere gli stranieri per quello che portano in dono: la relazione. Ogni essere umano è razionale e relazionale, ed è grazie alle relazioni che può costruire se stesso e diventare un soggetto. Ma la relazione con gli altri non va da sé: si tratta di assumere comportamenti che rendano possibile l’incontro nel riconoscimento della dignità dell’altro. Il cammino è esigente e faticoso, ma senza l’altro non è possibile avanzare nella propria umanizzazione. Riconoscere l’altro nella sua differenza significa ammetterlo e, quindi, accettarlo. Il dialogo non può avere come fine l’uniformità, ma il fare cammino insieme, il ricercare un “consenso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. Nel dialogo si modificano i pregiudizi che abbiamo degli altri e di noi stessi. Senza affermare e vivere in primo luogo la fraternità, anche la libertà e l’uguaglianza sono fragili. Vedere gli stranieri come compagni di umanità restituisce pienezza al meglio di noi stessi e della società. Conclusione. In uno splendido libro sui lavoratori immigrati in Europa uscito negli anni ‘70, John Berger afferma: “Per mostrare la vita dei lavoratori ci occorrevano soprattutto le fotografie”. La fotografia è un mezzo potente per metterci di fronte al dolore degli altri. Ricordo una foto del 2009 su Paris Match: un immigrato respinto in Libia, inginocchiato, afferra implorante con le mani nude la mano coperta da un guanto azzurro di chi lo sta riportando là da dove lui voleva andarsene, foto che contiene più verità di ogni ragionamento. Ecco la verità che non andrebbe mai dimenticata, ecco il momento applicativo di una politica di respingimento colto nella fisicità del “no” a un disperato. Le affermazioni di principio devono confrontarsi con un volto preciso, entrare in un faccia a faccia con una persona che chiede asilo, futuro, accoglienza. Dietro alle decisioni sull’immigrazione vi è la sfida che il corpo del povero porta con sé: e la nostra risposta non può essere un piede che schiaccia la mano appesa a un barcone. La fotografia coglie l’elementare verità che sta dietro a ogni decisione: che interferirà con il corpo di un uomo, con il suo volto, dunque con la sua anima, la sua storia, la sua famiglia. Fino al punto di aiutare la vita o di farsi complice della morte. Scrive Edmond Jabès: “Avvicìnati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello che io sono”. Stiamo parlando di vedere gli stranieri, ma l’unica cosa seria è incontrarli nel faccia a faccia, ascoltare direttamente le loro storie, vederli nell’occhio contro occhio.

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ciò che pensano gli italiani degli zingari … ma tutti iniziano il discorso dicendo “io non sono razzista!”

la nostra fotografia di guerra contro gli zingari

siamo abituati, purtroppo, a sentire e leggere espressioni così cattive e razziste nei confronti degli zingari, ma ascoltarle e leggerle (vedi i il video ‘The Zen Circus – Zingara – il cattivista, qui sotto riportato) così di seguito senza tirare il fiato fa soffrire molto non tanto per gli insulti e le offese nei confronti del popolo zingaro il quale è abituato ad essere calpestato, ma per la bassezza e lo squallore di umanità che dimostrano

è una vera e propria  ‘fotografia (di guerra) del paese in cui viviamo’ -annotano gli autori del filmato strabiliati per quello che hanno raccolto da una semplice ‘chiave di ricerca’ – augurandosi che almeno serva ‘per guardrsi allo specchio’

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