“Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali”

«La Chiesa non aiuta il cammino di noi donne»

intervista a Antonietta Potente

a cura di Luigi Accattoli


in “la Lettura” del 11 dicembre 2016

«Nei nostri otto secoli di storia c’è stato un progressivo accomodamento in una spiritualità che in realtà chiedeva di non “sedersi” mai, nata all’insegna dell’itineranza dello spirito e della mente e di un’umile ricerca del Mistero. Penso a Domenico di Guzman, il nostro fondatore, che percorreva il Sud della Francia indignato non perché c’erano degli eretici, ma perché il Vangelo si predicava con armi e ricchezze: “a cavallo”, disse lui. E poi penso a quanti di noi si sono fatti inquisitori della storia altrui, invece di vivere la propria in umile condivisione con tutti. La celebrazione degli 800 anni potremmo prenderla come occasione per il recupero di una complicità profonda con l’umano, superando i limiti di un esclusivo servizio alla Chiesa in quanto istituzione»

parla così Antonietta Potente, dell’Unione Suore Domenicane San Tommaso d’Aquino. Già docente di teologia morale all’Angelicum di Roma, Potente è critica con la storia dell’Ordine e con la componente maschile, ma rivendica l’attualità del carisma domenicano. Nel 1994 lasciò l’Italia per andare a vivere in Bolivia dove ha insegnato all’Università Cattolica Boliviana. Per un quindicennio ha vissuto insieme a una famiglia di etnia Aymara. Ha fatto parte della commissione teologica della Conferenza dei religiosi e religiose d’America Latina e ha appoggiato le riforme del governo boliviano di Evo Morales. Nel 2012 è rientrata in Italia e vive a Torino.

Una delle sue pubblicazioni è intitolata “Un bene fragile. Riflessioni sull’etica” (Mondadori, 2011).

L’abbiamo intervistata al telefono durante un viaggio di ritorno in Bolivia:

Che cosa vuol dire essere domenicani oggi e in particolare domenicane?

«Per me significa raccogliere ogni minimo respiro di vita anche là dove la storia è più dissestata, perché Domenico aveva questa grande passione per ciò che respirava. Per Domenico gli eretici erano persone assetate e non nemici della Verità. Con loro dialogava e da loro imparava. Raccogliere ogni minimo respiro di vita non significa porsi come benefattori, ma come compagni di sete. È così che percepisco come questa spiritualità possa essere viva oggi e aiutare la ricerca di quanti, credenti e non, hanno sete e avvertono che la realtà ha ancora possibilità trasformative».

E per le donne, che c’è di specifico?

«Quasi mai si parla di noi, anche in queste rievocazioni degli 800 anni, e penso che sia una perdita grave di memoria delle origini dell’Ordine, che furono plasmate con la vita delle donne. La prima comunità fondata da Domenico era femminile. Il momento attuale, per noi domenicane, è il più difficile, perché bene o male nei secoli passati persino i cronisti parlavano di noi. Si raccontavano aneddoti e si trasmetteva sapienza. Eravamo mistiche, audaci nell’ascolto del Mistero e impegnate nella cura dell’esistenza umana. Capaci di imparare a leggere e scrivere da sole o con altre donne. Oggi l’Ordine sembra essere dei soli frati, che in noi donne non riescono a vedere delle compagne di ricerca».

Che ci fa una donna nell’Ordine dei Predicatori dal momento che alle donne non è riconosciuto il «ministero» della predicazione?

«Non mi sono mai preoccupata di chiedere il permesso di predicare. Te lo danno coloro che frequenti, e non questa o quella norma. Inoltre mi è chiaro che la vera predicazione non è solo linguaggio parlato in pubblico, ma crescita di vita nell’incontro. Nell’Ordine non è gradito che, nel firmare articoli o libri, noi domenicane accompagniamo alla firma la sigla “op”, cioè: “Ordine dei Predicatori”. Mi dispiace, ma so che non significa niente rispetto alla possibilità che abbiamo di interpretare la vita e di comunicarla».

Lei ha fama di donna forte, missionaria in luoghi difficili: forse si ispira a Caterina da Siena
che era anche lei domenicana?

«Non so se sono una donna forte. Forse l’unica cosa che evoca la forza, nella mia vita, è il mio cognome. Ho percorso e continuo a percorrere molti cammini, ma il mio viaggio è più interiore che esteriore. È la mia mente che viaggia molto, nello studio o nell’elaborare scrittura. Mi piace conoscere religioni altre, sapienze e discipline altre. Non mi considero missionaria. Se per quasi vent’anni ho vissuto in Bolivia, è stato per conoscere gli aspetti del Mistero che non riuscivo a vedere in altri luoghi. Per missione intendo fare della vita una costante questio, per usare un termine caro a Tommaso d’Aquino. Una continua richiesta: dove vivi, come ti chiami, che vedi tu del Mistero? Caterina da Siena è una presenza preziosa per me. Prendo da lei la sete infinita e l’infinito desiderio. Ricordo il suo metodo che fa scaturire tutto dallo stare “nella cella interiore”, nonostante la costante itineranza».

Domenicano era Savonarola e c’è chi spera di vederlo riabilitato…

«Se lo riabilitano si potranno conoscere meglio i suoi scritti, le bellissime lettere dal carcere, le omelie, la sua profonda e vera indignazione. Ma domenicani erano anche Giordano Bruno, Bartolomé de Las Casas, Antón de Montesinos e tutta la sua comunità che diventò capace di rifiutare la politica degli spagnoli nel XVI Secolo. Domenicana era Caterina de Ricci al tempo del Savonarola. E prima di lei c’erano tutte quelle donne e uomini della scuola domenicana in Germania. Domenicano era frei Tito de Alencar, portato fino al suicidio dopo tanta tortura durante la dittatura militare brasiliana. Domenicane erano alcune delle suore nordamericane che affrontarono l’assurda politica ed ecclesiologia del Vaticano. Basterebbe riscattare uno di questi giusti per avviare il riscatto degli altri, delle altre, morti o vivi per passione d’amore».

Il suo è stato anche l’Ordine dei tribunali dell’Inquisizione…

«Per noi domenicani l’Inquisizione resta come una ferita che ci identificò per troppo tempo con le pratiche violente contro la dignità delle coscienze. Ci vedo un tradimento, tipicamente maschile, per questioni di prestigio, di incarichi nella Chiesa. Un tradimento per una paurosa immaturità, quella di chi non vuole perdere le sue sicurezze, forse anche solo quelle del suo immaginario intellettuale. E pensare che eravamo nati per stare sul confine che si trova più vicino agli inquisiti che agli inquisitori. Ma non tutti tra noi hanno accettato l’Inquisizione. Tanti e soprattutto tante non si riconobbero in quell’esercizio del potere sulle coscienze».

Da italiana che si è fatta boliviana come valuta il Papa latinoamericano?

«Nella sua elezione vedo una mossa strategica di una Chiesa incapace, in quel momento, di uscire da un grande groviglio e desiderosa di dare un’immagine diversa di sé. Ma non ne sono venute profonde trasformazioni. Credo che quella di Bergoglio sia una conversione molto personale e poco istituzionale. Il suo nuovo modo di porsi ha indotto la società a dialogare come non mai con i cristiani su ogni questione, dai gay alla crisi della famiglia. Ma da parte della Chiesa istituzionale, che nonostante Bergoglio resta troppo piramidale, c’è poco ascolto di questo “mondo adulto”, come lo chiamava Dietrich Bonhoeffer».

Anche il nuovo generale dei gesuiti è un latino-americano: è venuta l’ora di quel continente nella Chiesa cattolica?

«Non lo so, posso solo assicurarle che tornando in America Latina ho notato che nell’ambito teologico e pastorale non è successo proprio niente. Anzi, in certi casi — per esempio nell’ambito teologico istituzionale — il clima è ancora quello degli ultimi due pontificati, quando l’America Latina era duramente colpita».

Che si aspetta come donna sul fronte delle riforme bergogliane?

«I cambiamenti per le donne non possono venire dagli uomini, neanche dai più santi. Da domenicana potrei sognare che succeda a tante quello che capitò a Caterina da Siena: l’affidarono a fra’ Raimondo da Capua come confessore, ma il rapporto si capovolse e lui divenne discepolo di lei e suo compagno di ricerca. Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali. Credo che noi donne dobbiamo trovare altri modi e metodi per cambiare la partecipazione “politica”, visto che quella esistenziale non ce la può togliere nessuno e in fin dei conti è quella che serve all’umanità per respirare e immaginare altre forme di convivenza sulla terra».




il rischio dell’assuefazione di fronte alla guerra

“una grande voglia di piangere”

Sarajevo ’92.. e i Diritti Umani

di Renato Sacco
in “Paxchristi” – www.paxchristi.it

Ventiquattro anni fa la marcia a Sarajevo, promossa dai Beati Costruttori di pace: 500 persone, dal 7 al 13 dicembre 1992, nella città sotto assedio da nove mesi. Per celebrare, con gli abitanti di Sarajevo, la Giornata dei Diritti Umani, 10 dicembre. Don Tonino, Presidente di Pax Christi, c’era nonostante la malattia. Ripensare a quei giorni lascia spazio, inevitabilmente, a tanti ricordi ed emozioni… Nel cinema Radnik di Sarajevo, al lume di candela, la mattina del 12 dicembre ’92, don Tonino pronuciò parole che sono ancora oggi una grande luce per tutti: “Allora io penso che queste forme di utopia, di sogno dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi, terra nuova, aria nuova, mondi nuovi, tempi nuovi… “ Ma ricordare è anche una scossa per non rassegnarci oggi alle guerre, alla guerra a cui rischiamo di fare l’abitudine, senza più piangere e senza più indignarci! E che dire oggi – giornata dei Diritti Umani – di fronte alle tante guerre? Alla terza guerra mondiale a pezzi… Aleppo, Mosul, Yemen, Congo, Burundi, Ucraina, Libia, Afghanistan… Di fronte ai 23 miliardi per le spese militari del prossimo 2017? Il rischio dell’assuefazione o, peggio ancora, di ritenere che in fondo la guerra, quando è necessaria… Per questo ha ancora più valore l’appuntamento della Marcia per la pace, il 31 dicembre a Bologna, con il messaggio quanto mai significativo voluto da papa Francesco per la 50° Giornata mondiale per la pace: La non violenza: stile di una politica per la pace.

“Mai più la guerra!” lo diciamo con la bocca, ma intanto – afferma papa Francesco in un’intervista al al settimanale cattolico belga “Tertio”, il 7.12.2016 – fabbrichiamo armi e le vendiamo; e le vendiamo agli stessi che si combattono; perché uno stesso fabbricante di armi le vende a questo e a questo, che sono in guerra fra di loro. È vero. C’è una teoria economica che non ho provato a verificare, ma l’ho letta in diversi libri: che nella storia dell’umanità, quando uno Stato vedeva che i suoi bilanci non andavano, faceva una guerra e rimetteva in equilibrio i propri bilanci. Vale a dire, è uno dei modi più facili per produrre ricchezza. Certo, il prezzo è molto alto: il sangue.”
“Poi rimango solo – scrive don Tonino il 13 dicembre ’92 arrivato ad Ancona – e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere. Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? È possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati? (…) Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? (…) E qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza: le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono”.