la “questione omosessualità” è una delle grandi sfide teologiche e pastorali della Chiesa di questo secolo

 

Nuove frontiere della pastorale e della teologia Lgbt

nuove frontiere della pastorale e della teologia Lgbt

Damiano Migliorini  

da: Adista Documenti n° 43 del 10/12/2016
È sotto gli occhi di tutti, ormai, che la “questione omosessualità” è una delle grandi sfide teologiche e pastorali della Chiesa di questo secolo. Basti pensare all’acceso dibattito del Sinodo 2014-2015 sulla famiglia, che ha visto emergere una realtà ecclesiale divisa a tutti i livelli, o almeno decisamente “in cammino”. È la questione, d’altro canto, che crea maggiori incomprensioni tra Chiesa, laici e società civile (incline a legittimare per via legislativa le unioni omoaffettive), ben più di altre, come la contraccezione o il sacerdozio femminile, che avevano acuito lo scontro nei decenni passati.
Sugli esiti del Sinodo e i suoi silenzi è stato detto molto
1. Amoris Laetitia è un testo – su questa tematica – sostanzialmente conservatore
2. ma l’accidentato percorso sinodale «ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali»
3. L’amore omosessuale è uno di questi, lo si voglia o no. E se non è cambiata la dottrina, è almeno cambiato il metodo con cui affrontare le controversie su alcuni temi. Il che fa ben sperare.
Questo articolo s’inserisce nella consapevolezza di questo nuovo atteggiamento e in questa sfida: tratteggerò lo “stato dell’arte” a livello teologico, per poi focalizzarmi sulla pastorale. Procedo per punti.

Stato d’avanzamento in esegesi e teologia

Se l’esegetica ha sciolto buona parte delle difficoltà legate all’interpretazione intransigente dei versetti biblici, più complessa è la situazione della sistematizzazione teologica. L’antropologia cristiana fatica ancora a confrontarsi con il concetto di orientamento sessuale (o.s.), ed è per questo motivo che le istanze del mondo omosessuale sono diventate un problema test per la teologia cattolica (e per la filosofia4), poiché implicano di andare alle radici dei propri dispositivi teologici in morale sessuale. Senza pretendere di fare un resoconto delle questioni aperte5, è noto, ad esempio, che il conflitto con il paradigma scientifico – e la conseguente cultura sessuale – nasce dall’acquisizione moderna secondo cui l’o.s. non ha a che fare solo con la funzionalità degli organi, ma col desiderio, un fenomeno psicologico la cui evoluzione non è intrinsecamente eterosessuale, perché non è orientata (primariamente) alla procreazione6.

Accettare l’esistenza di un o.s. che si scopre (non si sceglie), allora, costringe a rivedere in parte l’insieme delle inclinazioni naturali che ci permettono di individuare i beni che rientrano nella legge morale naturale. Il fine (o bene) procreativo necessita o di un’interpretazione più ampia o di essere esigito solo in determinati contesti.

La difficoltà di pensare a uno sviluppo diverso da quello lineare “sesso biologico-identità di genere-orientamento eterosessuale-procreazione” sta dunque alla base dell’incapacità di concepire l’esistenza di più identità sessuali, di varianti sane della sessualità; e risiede in una rigida interpretazione teleologica, nella quale il desiderio sessuale (e quindi l’uso degli organi genitali) ha come unico fine la procreazione biologica7. Ecco perché, come si diceva in apertura, oggi il “tema omosessualità” è diventato il punctum dolens della teologia, ed è percepito dai più – a ogni di livello di discussione – come “la questione” con cui la Chiesa dovrà fare i conti se vorrà, finalmente, chiudere con un passato di modelli teologici carichi di pregiudizi e di pre-comprensioni pseudo-scientifiche, oltre che inserirsi in un modello democratico laico e liberale.

Nonostante le difficoltà teologiche (e disciplinari), non sono poche ormai le proposte interne al mondo cattolico che cercano d’armonizzare le acquisizioni scientifico-culturali con la morale sessuale cristiana8 (anche di solida impostazione tommasiana9). Certo, ciascuno può esprimere le sue perplessità, ma senza dubbio, pensare teologicamente l’orientamento sessuale è il compito dell’attuale “teologia delle sessualità”. Sforzo che si traduce nel comprendere perché il disegno di Dio preveda che ci siano minoranze sessuali (sarà necessario formulare una fenomenologia dell’amore omosessuale) e quale sia il Suo progetto su tanta diversità: forse è più ampio del previsto, forse rimarrà un mistero.

Se abbiamo l’umiltà di riconoscerlo, sarà fondamentale sondare se la recente teologia dell’unità duale, dell’una caro, il mistero nuziale e la teologia della famiglia come immagine della Trinità siano realmente consistenti10. La mia ipotesi è che ciascuna di esse sia valida (con non pochi accorgimenti!) quando è utilizzata per descrivere la bellezza di una realtà e non – come avviene oggi – per screditarne un’altra11. Le teologie che nascono “contro” qualcuno, raramente sono equilibrate. Faccio un esempio spicciolo: considerare il mistero nuziale come un destino all’eterosessualità riproduttiva – e considerare ogni azione che non attui quel destino come una negazione del mistero-progetto trinitario di Dio – crea dei cortocircuiti teologici, soprattutto riguardo alla scelta di vivere la sessualità in forma celibataria.

Come avanzare ancora?

Se la precarietà teologica (attuale) e l’approvazione ecclesiale (futura) hanno tempi di maturazione lunghi, quelli della vita reale sono brevi: che fare, dunque nel frattempo? Un’operazione che può sembrare banale – ma non lo è affatto – è cominciare a conoscere questa diversità: incontrandola, per sperare di comprenderla. Va bene l’ideale, ci ricorda papa Francesco, ma questo non può renderci ciechi di fronte alla realtà. E quest’ultima, oggi, è fatta anche della quotidianità degli amori delle minoranze sessuali. I teologi non possono più far finta che non esistano, pena il vivere in un mondo avulso da quello dei fedeli. Del resto, i ritardi nella teologia sono dovuti proprio a un “non voler vedere”, un “non voler incontrare”. Ecco perché scorgo all’orizzonte – nell’era di (più) libera discussione aperta da Francesco – due sfide per i cristiani Lgbt.

La prima è di contribuire al rinnovamento dottrinale: le persone omosessuali desiderano restare nella Chiesa, e questo prezioso legame con l’istituzione è espresso proprio nella richiesta di riconoscimento, non di semplice compassione. Le coppie cristiane Lgbt credono fermamente che in una razionalità condivisa possa trovare una sistemazione (teo)logica anche il proprio amore; ecco perché sostengono un rinnovamento dottrinale che non passi per l’abbandono di tutte le categorie etiche.

La seconda è quella della testimonianza: è il compito primario di andare dai pastori delle proprie Chiese e porsi in dialogo con loro. Consapevoli che per la maggioranza dei presbiteri, dei vescovi, l’omosessualità è un tema lontano, che li imbarazza e li mette in seria difficoltà pastorale (dovuta anche allo strabismo dottrinale); in pochi hanno la fortuna di parlare con credenti omosessuali che mostrino loro un percorso di fede e di amore; e se la verità si coglie nelle relazioni12, non possiamo sottrarci dal compito d’instaurarle con parresia e apertura di cuore. Questa è la pastorale che le persone omosessuali possono svolgere nei confronti della Chiesa13, sapendone accettare con pazienza e tenerezza le lentezze.

Come alcuni autori testimoniano nelle pagine seguenti, i cristiani Lgbt italiani stanno promuovendo ottime campagne di sensibilizzazione. E bisogna riscontrare una nuova sensibilità da parte dei media cattolici moderati; per la prima volta dopo secoli di silenzio, il mondo dei cristiani Lgbt trova la possibilità di testimoniare fiduciosamente la propria esistenza, positiva in quanto esistenza, comunità di persone raccolte nel nome di Gesù. Seppur con delle riluttanze interne, la Chiesa italiana sta trovando la forza di mettersi in ascolto (fa parte del suo compito, della sua essenza!) e va sostenuta in questo cammino; i frutti di bene non tarderanno a venire.

L’approfondimento proposto da Adista va in questa direzione narrando storie e progetti. Un incontro vivo con la diversità: gli autori testimoniano percorsi molto differenti, fatti di fatiche e gioie, protesta e proposta, cedimenti e rilanci. Ascoltiamoli senza pretendere di giudicarli, e sappiamone cogliere la buona volontà che li ha spinti a mettersi in gioco, qui come nella vita di tutti i giorni.

Le esigenze pastorali

In attesa di una visione teologica d’insieme è importante offrire alle persone omosessuali, qui e ora, un realistico percorso di vita (anche di coppia) cristiana – spirituale14 – conforme al bene possibile nella condizione data. Amoris Laetitia, da questo punto di vista, dà un piccolo segnale: quando si parla di famiglia bisogna parlare della possibilità che al suo interno vi siano persone gay. È una situazione comune, e perché tale va presa in considerazione con una certa serenità. Un genitore che legge AL è messo di fronte (si “prefigura”) alla possibilità di avere un figlio (o un parente) omosessuale, e la strada indicata è una sola: accoglienza serena prima di tutto, e poi discernimento. Riuscirà, questo, a ridurre i drammi di rifiuto che oggi si consumano nelle famiglie? Ho fiducia che la risposta possa essere affermativa. Da AL emerge che il figlio Lgbt non è (più) un lebbroso15, né una catastrofe: è un dono di Dio che può compiere la sua vita cristiana.

Questa accoglienza, a livello di comunità ecclesiale, saprà tradursi in azioni concrete volte a smontare cognitivamente i pregiudizi, attraverso processi di formazione in parrocchia? La speranza è che la risposta sia di nuovo affermativa; sarebbe la più coerente con l’invito generico all’inclusione di AL. C’è davvero un urgente bisogno di una nuova narrazione delle minoranze sessuali (e dei loro amori) nelle Chiese, con un linguaggio e una concettualità che la sappia “dire” con rispetto, superando quella latente omofobia che ancora c’impedisce un incontro sincero. È la speranza che – nonostante le nostre comunità non perderanno mai il vizio atavico d’escludere il presunto peccatore – Gesù tornerà continuamente a ricordarci che «anche lui», come Zaccheo, «è figlio di Abramo» (Lc 19,9).

Per concludere con uno sguardo di contesto: oggi assistiamo alla lenta e faticosa attuazione della rivoluzione dolce del Vangelo, riguardo alla visione della donna, della laicità, della democrazia, delle minoranze religiose, etniche e sessuali. Tolleranza, libertà e uguaglianza di dignità sono i Suoi frutti, che le nostre comunità stanno ora facendo maturare, assieme alle energie della società civile. Allora forza, «sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12,54-59).

Le testimonianze raccolte ci aiutano a guardare a questo tempo presente, con sguardo critico, accettando “il dolce gioco” dell’imprevedibilità della diversità. Per poterlo giudicare con ponderatezza non c’è davvero una via migliore. Prima o poi, ne sono convinto, si passerà dai silenzi al canto (Sal 30,13). Con coraggio, Adista cerca di aggiungere qualche nota allo spartito che si va via via componendo.

Note

1 L. Eugenio, “Le parole che non ti ho scritto”, in Adista Notizie 38/2015; D. Migliorini, “Sinodo, sull’omosessualità un silenzio rumoroso”, in Micromega-online, 2015.

2 Una mia più articolata analisi: “Amoris Laetitia e pastorale per le persone omosessuali”, in Confronti.net, 2016.

3 Amoris Laetitia, n. 2.

4 Per uno sguardo filosofico: J. Finnis e M. Nussbaum, “Is Homosexual Conduct Wrong?”, in The New Republic, 15\11\1993; M.J. Perry, “The Morality of Homosexual Conduct”, in Notre Dame Journal of Law 41 (1995), 41-74; J. Corvino ed., Same Sex: Debating The Ethics, Rowman-Littlefield 1997; J. Corvino e M. Gallagher, Debating Same-Sex Marriage, Oxford Univ. Press 2012; E. Feser, Michael Rea Owes Swinburne An Apology, in edwardfeser.blogspot.com, 26\09\2016.

5 Cf. A. Autiero, “Omosessualità: uno sguardo nuovo?”, Il Regno Doc, 32 (2015), 12-18.

6 N. Bonetti, “Intervista al moralista Schockenhoff”, in Ilregno-blog.blogspot.it, 2015; X. Thévenot, “Nuovi sviluppi in morale sessuale”, in Concilium 10 (1984) 3, 148-159.

7 Di qui la persistenza, nella Chiesa, della promozione delle “teorie riparative” (cf. P. Rigliano et al., Curare i gay?, Cortina 2012).

8 Oltre al nostro libro, qualche altro titolo: S.L. Cahill, Sesso, genere ed etica cristiana, Queriniana 2003; E. Chiavacci, “Omosessualità. Cercare ancora”, in Vivens Homo 11 (2000) 2, 423-457; K. Mertes, “La rimozione dell’omofobia nella Chiesa”, in Gionata.org, 2016; M. Vidal, Omosessualità, scienza e coscienza, Cittadella 1983; V. Tombolato, Omosessualità. Un oggettivo disordine morale?, Brigo 2008; C. Demur e D. Müller, L’omosessualità. Un dialogo teologico, Claudiana 1995; J. Gafo, Omosessualità, un dibattito aperto, Cittadella 2000; Aa.Vv., “Le omosessualità”, in Concilium 1 (2008), 13-147; G. Piana, Omosessualità. Una proposta etica, Cittadella 2010; G. Robinson, Le strade dell’amore, Piagge 2015; T. Salzman e M. Lawler, The Sexual Person, Georgetown Univ. Press 2008; M. Farley, Just Love, Bloomsbury 2006; P. Gamberini, “Coppie omosessuali”, in Il Regno Attualità 2 (2015) pp. 129-13. Più dirompente: M. Althaus-Reid, Il Dio Queer, Claudiana 2014.

9 A. Oliva, L’amicizia più grande, Nerbini 2015.

10 Tra le poche voci critiche, segnalo: S. A. Ross, “The Bride of Christ and the Church Body Politic”, in Verifiche 42 (2013) 1-3, 215-230.

11 Mi sembra questo il vizio di fondo, ad es., di S. Belardinelli e L. Melina (eds.), Amare nella differenza, Cantagalli 2012; cf.: S. Girgis et al., “Che cos’è il matrimonio?”, Vita&Pensiero 2015.

12 Consiglio: G. Findlay, “Wolterstorff Says ‘Yes’ To Same-Sex Marriage”, 2016, in www.calvin.edu.

13 Ho proposto questa prospettiva al IV Forum dei Cristiani Lgbt (Cf. “Omosessualità. Pensare e sognare una pastorale per la Chiesa”, 2016, in Gionata.org). È il messaggio anche del documento finale, “In cammino nella Chiesa” (Gionata.org, 6 nov. 2016).

14  J. McNeill, Scommettere su Dio. Teologia della liberazione omosessuale, Sonda 1994; F. Barbero et Al., Il posto dell’altro, La Meridiana 2000; J. Gramick e R. Nugent, Anime gay, Ed. Riuniti 2003; J. Alison, Fede oltre il risentimento, Transeuropa 2007; Lorenzetti e Rossi in Presbyteri 30 (1996) 2; rimando alla parte pastorale del nostro libro (pp. 347-408).

15 L. Ciotti, “I ‘nuovi’ lebbrosi”, in Aa.Vv., Francesco un “pazzo” da slegare, Cittadella 1983, 243-259.

Damiano Migliorini è filosofo e autore, insieme a Beatrice Brogliato, del libro L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale, Cittadella 2014

* Foto di William Murphy, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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il credo di papa Francesco quando era solo all’inizio della sua vita di sacerdote

Voglio credere… Credo…

preghiera di Papa Francesco alla vigilia dell’Ordinazione Sacerdotale

scritto il 12 dicembre 1969 alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale
 

Voglio credere in Dio Padre, che mi ama come un figlio, e in Gesù, il Signore, che ha infuso il suo Spinto nella mia vita per farmi sorridere e portarmi così nel regno della vita eterna. 

 

Credo nella mia storia, permeata dallo sguardo benevolo di Dio, che nel primo giorno di primavera, 

il 21 marzo, mi è venuto incontro e mi ha invitato a seguirlo. 

 

Credo nel mio dolore, infecondo per colpa dell’egoismo, in cui mi rifugio. 

 

Credo nella meschinità della mia anima, che vuole prendere senza mai dare… senza mai dare. 

 

Credo che gli altri sono buoni, e che devo amarli senza timore, e senza mai tradirli per cercare una sicurezza per me. 

 

Credo nella vita religiosa. 

 

Credo che voglio amare molto. 

 

Credo nella morte quotidiana, ardente, alla quale sfuggo ma che mi sorride invitandomi ad accettarla. 

 

Credo nella pazienza di Dio, accogliente, dolce come una notte estiva. 

 

Credo che papà sia in cielo accanto al Signore. 

 

Credo che anche padre Duarte, mio confessore, sia in cielo, a intercedere per il mio sacerdozio. 

 

Credo in Maria, mia madre, che mi ama e non mi lascerà mai solo. 

 

E attendo la sorpresa di ogni giorno in cui si manifesterà l’amore, la forza, il tradimento e il peccato, che mi accompagneranno fino all’incontro definitivo con quel viso, meraviglioso che non so come sia, che sfuggo in continuazione, ma che voglio conoscere e amare. Amen. 

Jorge Mario Bergoglio

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le iniziative di papa Francesco per fermare le destre populiste

la “lega” di Bergoglio

per fermare le destre populiste Francesco raduna i sindaci progressisti e “trasgressivi” d’Europa

rinasce mille anni dopo l’alleanza tra Comuni e Chiesa

di Pietro Schiavazzi
in “l’Huffington Post” del 12 dicembre 2016

Mentre i riflettori erano puntati sul Quirinale per le “consultazioni”, sul colle del Vaticano andava in scena un “consulto”, trascurato dai media ma destinato a lasciare un’impronta ben più incisiva nel futuro d’Europa: un’assemblea di 80 sindaci dalla A alla Z, da Amsterdam a Zurigo, che ha tolto il sonno per due giorni ai rispettivi ambasciatori, offrendo al mondo una immagine inedita, eversiva dei giardini papali, quale incantevole zona franca, dove tra le fronde si agita, e si organizza, la fronda nei confronti dell’Unione. Motivo che deve avere consigliato a Bergoglio – “forse qualcosa gli ha complicato la vita”, nelle parole del vescovo Sánchez Sorondo, regista dell’iniziativa – di non intervenire personalmente al raduno, che a tutti gli effetti configurava un parterre di voci libere sì ma pur sempre istituzionali, quindi autorevoli e alternative alle determinazioni dei governi centrali: quello che tecnicamente si chiama, senza se e senza ma, un incidente diplomatico. Ma ormai la frittata era fatta, e voluta, essendo stato il Pontefice a convocarli. Del resto l’Europa nasce così, dalle città e dalle cattedrali che si coalizzano in contrapposizione all’impero.

Dall’alleanza tra Chiesa e Comuni, che dieci secoli fa la fece uscire dal Medioevo e oggi cerca di scongiurarne il ritorno. “Le città che rappresentiamo esistevano prima degli stati”, esordisce il testo del Final Statement, mirando al sodo, con l’apertura di corridoi umanitari, sicuri, per coloro che fuggono dall’inferno dei vivi, e la chiusura dei paradisi fiscali, subito, per quanti si sottraggono al dovere di cittadini.

Davanti allo tsunami migratorio e all’onda elettorale che si alza, di rimbalzo, a sommergere il paesaggio politico, il pescatore di uomini ha gettato la rete, in sordina, e tirato a riva un embrione di classe dirigente, nella incubatrice cinquecentesca della Casina Pio IV, sede del summit, ospitato da Francesco tra specchi e stucchi, rinfreschi e affreschi, ninfei e fontane. Rifugio dorato e ultima spiaggia dell’umanesimo europeo, mentre il Mar Rosso dei sondaggi minaccia di chiudersi, una volta per tutte, sui governanti dell’Unione che fu. “Al giorno d’oggi mancano leader. L’Europa ha bisogno di leader, leader che vadano avanti…”, aveva detto il Papa in una intervista della vigilia, lanciando la campagna di reclutamento

. Così, nel recinto delle mura leonine, si sono materializzati all’istante i volti, stravolti, del socialismo e del liberalismo, segnati, scavati dall’Annus Horribilis 2016 e dal semestre, peggiore ancora, che va dal ritiro del Regno Unito dalla UE alla ritirata di Hollande dall’Eliseo, dal trionfo miliardario di Trump al tonfo referendario di Renzi. Al fine di arrestare il processo di decomposizione del fronte progressista e l’avanzata irrefrenabile dei movimenti populisti, che si stagliano vincenti all’orizzonte, la “lega” o “accozzaglia” di Bergoglio – per dirla con un recente neologismo – ha pescato in tutte le anime, moderne e antiche, del riformismo, declinandone i nomi al femminile e coniugandone i verbi, anche se irregolari. O trasgressivi. Come nel caso delle tre principali agit-prop del meeting, le sindache di Barcellona, Madrid e Parigi: la no-global anti-sfratti e anti-mutui Ada Colau, la giudice comunista, sostenuta da Podemos, Manuela Carmena e l’atea inveterata, volteriana, ispettrice del lavoro Anne Hidalgo. Ad esse si aggiungono, tra le altre, la banchiera liberal Hanna Beata Gronkeiwicz-Walz, da Varsavia, spina nel fianco dell’episcopato polacco per la sua linea dura nei confronti dei medici obiettori, e la cantante rock Corine Mauch, da Zurigo, prima donna gay a governare un grande città d’Europa. Una task-force di “pasionarie” che a breve potrebbe ritrovarsi, paradossalmente quanto  inopinatamente, a testimoniare l’esistenza, e la resistenza, dei valori cristiani nelle istituzioni del continente: l’opposizione di Sua Santità, in luogo di quella di Sua Maestà. Una sequenza di ritratti che, venendo alla sezione italiana della gallery, ha offerto un quadro altrettanto variegato della “sinistra”: quella nordica, espositiva e tecnocratica di Giuseppe Sala e quella orobica, televisiva e aristocratica di Giorgio Gori; quella rivoluzionaria, vesuviana, in focosa eruzione di Antonio De Magistris e quella universitaria, palermitana, in pensosa meditazione di Leoluca Orlando. Quella fiorentina, già finita, di Dario Nardella e quella capitolina, indefinita, di Virginia Raggi. Quella isolata, alla parmigiana di Federico Pizzarotti e quella isolana, lampedusana di Giusi Nicolini. Un cast di personaggi in cerca di autore, dal momento che il vecchio copione europeista del federalismo non tiene più e ha cessato da tempo di appassionare il pubblico, anzi lo spaventa non meno del finale di un film horror, al solo pensiero di una integrazione ancora più stretta. Per questo Bergoglio ha mollato gli ormeggi e varato una nuova proposta, operando uno strappo storico rispetto ai padri fondatori, da De Gasperi a Schuman, e agli stessi pontefici suoi predecessori, Wojtyla e Ratzinger, che avevano fatto dell’unità politica dell’Europa un dogma, una meta obbligata e un precetto accessorio del magistero. “Sana disunione” è la parola d’ordine, pronunciata in volo e al volo, conversando sull’aereo con i giornalisti e slacciando le cinture, all’indomani del referendum d’oltremanica. E ufficializzata, solennizzata nel convegno dei sindaci da Monsignor Sánchez Sorondo: “Non bisogna sanzionare la Gran Bretagna per la sua uscita dall’Unione Europea…Ciò significa pensare a una forma di Unione più creativa e feconda, finanche a una sana disunione”. Agli occhi di Bergoglio, la Brexit ha segnato una svolta irreversibile. Il monito a non penalizzare Londra, rivolto perentorio a Bruxelles, non costituisce solo un riconoscimento dei motivi congiunturali che hanno indotto gli inglesi a votare “Leave”, bensì scaturisce da un esame di coscienza strutturale: dalla necessità cioè di non ripetere uno storico, tragico errore, del quale i successori di Pietro fecero esperienza in prima persona, cinquecento anni fa, con esiti devastanti e tuttora insoluti. Una prospettiva che a Francesco deve avere ricordato lo scisma di Enrico VIII. Un contenzioso disciplinare sull’autorità sfuggito di mano e degenerato in eresia dottrinale sulla verità. Quello che potrebbe accadere adesso, rimettendo in discussione il movente comunitario e precipitando il continente indietro nel tempo, ai nazionalismi d’inizio Novecento: il modo peggiore per un Papa di celebrare il sessantesimo dei Trattati di Roma, il prossimo 25 marzo, in coincidenza con la festa dell’Annunciazione, benedicendo l’Unione mentre i popoli la maledicono. Di fronte al rischio di un divorzio, Bergoglio ammette dunque la nullità del primo matrimonio federalista, per vizio di forma e di consenso. Optando per l’Europa delle patrie al posto degli Stati Uniti d’Europa. Evidenziando i tratti nazionali anziché attenuandoli. E passando, sul piano del disegno costituzionale, al modello confederativo, più somigliante al Sud che al Nord America, come già scrivemmo in giugno. Al manifesto unionista di “Ventotene”, di Altiero Spinelli, subentra quello “confederato” e sudista di Lampedusa, quale frutto del connubio tra il Vaticano e le sindache. “Europa, i rifugiati sono nostri fratelli”: uno slogan che di questi tempi voterebbe al suicidio elettorale ogni forza politica se contestualmente non fosse accompagnato dalla constatazione che la UE, da sola, non può farcela e di conseguenza non indicasse:

a) la valvola di sicurezza di corridoi umanitari verso nazioni più capienti (l’Argentina, l’Australia, il Canada);

b) un piano Marshall a sostegno delle popolazioni allo stremo, d’Africa, Centroamerica e Medio Oriente, quale unica via d’uscita da una situazione insostenibile.

“Innalzare altri muri non fermerà i milioni di migranti in fuga…Solo la cooperazione internazionale per il raggiungimento della giustizia sociale può essere la soluzione.”

Urbi et Orbi: dalle città direttamente al mondo. Dall’incidente diplomatico al network politico. Senza la mediazione degli stati, di cui Francesco in fondo diffida, considerandoli autoreferenziali, malati di burocrazia, distanti dai problemi della gente. In tale cornice il summit dei sindaci  costituisce una sorta di Pontida del XXI secolo, dove Bergoglio, sulla scia di Alessandro III, ha provato a riappropriarsi del “leghismo”, convertendolo da localista in glocal, da fenomeno di egoismo sociale a sinonimo di solidarismo universale. Una lega delle città che nasce in Vaticano e che nella liaison con le Giovanne d’Arco, laicissime, di Parigi, Madrid e Barcellona non rinnova, sicuramente, il suo credo cattolico, ma ritrova, verosimilmente, il vessillo e sigillo papista.

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“Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali”

«La Chiesa non aiuta il cammino di noi donne»

intervista a Antonietta Potente

a cura di Luigi Accattoli


in “la Lettura” del 11 dicembre 2016

«Nei nostri otto secoli di storia c’è stato un progressivo accomodamento in una spiritualità che in realtà chiedeva di non “sedersi” mai, nata all’insegna dell’itineranza dello spirito e della mente e di un’umile ricerca del Mistero. Penso a Domenico di Guzman, il nostro fondatore, che percorreva il Sud della Francia indignato non perché c’erano degli eretici, ma perché il Vangelo si predicava con armi e ricchezze: “a cavallo”, disse lui. E poi penso a quanti di noi si sono fatti inquisitori della storia altrui, invece di vivere la propria in umile condivisione con tutti. La celebrazione degli 800 anni potremmo prenderla come occasione per il recupero di una complicità profonda con l’umano, superando i limiti di un esclusivo servizio alla Chiesa in quanto istituzione»

parla così Antonietta Potente, dell’Unione Suore Domenicane San Tommaso d’Aquino. Già docente di teologia morale all’Angelicum di Roma, Potente è critica con la storia dell’Ordine e con la componente maschile, ma rivendica l’attualità del carisma domenicano. Nel 1994 lasciò l’Italia per andare a vivere in Bolivia dove ha insegnato all’Università Cattolica Boliviana. Per un quindicennio ha vissuto insieme a una famiglia di etnia Aymara. Ha fatto parte della commissione teologica della Conferenza dei religiosi e religiose d’America Latina e ha appoggiato le riforme del governo boliviano di Evo Morales. Nel 2012 è rientrata in Italia e vive a Torino.

Una delle sue pubblicazioni è intitolata “Un bene fragile. Riflessioni sull’etica” (Mondadori, 2011).

L’abbiamo intervistata al telefono durante un viaggio di ritorno in Bolivia:

Che cosa vuol dire essere domenicani oggi e in particolare domenicane?

«Per me significa raccogliere ogni minimo respiro di vita anche là dove la storia è più dissestata, perché Domenico aveva questa grande passione per ciò che respirava. Per Domenico gli eretici erano persone assetate e non nemici della Verità. Con loro dialogava e da loro imparava. Raccogliere ogni minimo respiro di vita non significa porsi come benefattori, ma come compagni di sete. È così che percepisco come questa spiritualità possa essere viva oggi e aiutare la ricerca di quanti, credenti e non, hanno sete e avvertono che la realtà ha ancora possibilità trasformative».

E per le donne, che c’è di specifico?

«Quasi mai si parla di noi, anche in queste rievocazioni degli 800 anni, e penso che sia una perdita grave di memoria delle origini dell’Ordine, che furono plasmate con la vita delle donne. La prima comunità fondata da Domenico era femminile. Il momento attuale, per noi domenicane, è il più difficile, perché bene o male nei secoli passati persino i cronisti parlavano di noi. Si raccontavano aneddoti e si trasmetteva sapienza. Eravamo mistiche, audaci nell’ascolto del Mistero e impegnate nella cura dell’esistenza umana. Capaci di imparare a leggere e scrivere da sole o con altre donne. Oggi l’Ordine sembra essere dei soli frati, che in noi donne non riescono a vedere delle compagne di ricerca».

Che ci fa una donna nell’Ordine dei Predicatori dal momento che alle donne non è riconosciuto il «ministero» della predicazione?

«Non mi sono mai preoccupata di chiedere il permesso di predicare. Te lo danno coloro che frequenti, e non questa o quella norma. Inoltre mi è chiaro che la vera predicazione non è solo linguaggio parlato in pubblico, ma crescita di vita nell’incontro. Nell’Ordine non è gradito che, nel firmare articoli o libri, noi domenicane accompagniamo alla firma la sigla “op”, cioè: “Ordine dei Predicatori”. Mi dispiace, ma so che non significa niente rispetto alla possibilità che abbiamo di interpretare la vita e di comunicarla».

Lei ha fama di donna forte, missionaria in luoghi difficili: forse si ispira a Caterina da Siena
che era anche lei domenicana?

«Non so se sono una donna forte. Forse l’unica cosa che evoca la forza, nella mia vita, è il mio cognome. Ho percorso e continuo a percorrere molti cammini, ma il mio viaggio è più interiore che esteriore. È la mia mente che viaggia molto, nello studio o nell’elaborare scrittura. Mi piace conoscere religioni altre, sapienze e discipline altre. Non mi considero missionaria. Se per quasi vent’anni ho vissuto in Bolivia, è stato per conoscere gli aspetti del Mistero che non riuscivo a vedere in altri luoghi. Per missione intendo fare della vita una costante questio, per usare un termine caro a Tommaso d’Aquino. Una continua richiesta: dove vivi, come ti chiami, che vedi tu del Mistero? Caterina da Siena è una presenza preziosa per me. Prendo da lei la sete infinita e l’infinito desiderio. Ricordo il suo metodo che fa scaturire tutto dallo stare “nella cella interiore”, nonostante la costante itineranza».

Domenicano era Savonarola e c’è chi spera di vederlo riabilitato…

«Se lo riabilitano si potranno conoscere meglio i suoi scritti, le bellissime lettere dal carcere, le omelie, la sua profonda e vera indignazione. Ma domenicani erano anche Giordano Bruno, Bartolomé de Las Casas, Antón de Montesinos e tutta la sua comunità che diventò capace di rifiutare la politica degli spagnoli nel XVI Secolo. Domenicana era Caterina de Ricci al tempo del Savonarola. E prima di lei c’erano tutte quelle donne e uomini della scuola domenicana in Germania. Domenicano era frei Tito de Alencar, portato fino al suicidio dopo tanta tortura durante la dittatura militare brasiliana. Domenicane erano alcune delle suore nordamericane che affrontarono l’assurda politica ed ecclesiologia del Vaticano. Basterebbe riscattare uno di questi giusti per avviare il riscatto degli altri, delle altre, morti o vivi per passione d’amore».

Il suo è stato anche l’Ordine dei tribunali dell’Inquisizione…

«Per noi domenicani l’Inquisizione resta come una ferita che ci identificò per troppo tempo con le pratiche violente contro la dignità delle coscienze. Ci vedo un tradimento, tipicamente maschile, per questioni di prestigio, di incarichi nella Chiesa. Un tradimento per una paurosa immaturità, quella di chi non vuole perdere le sue sicurezze, forse anche solo quelle del suo immaginario intellettuale. E pensare che eravamo nati per stare sul confine che si trova più vicino agli inquisiti che agli inquisitori. Ma non tutti tra noi hanno accettato l’Inquisizione. Tanti e soprattutto tante non si riconobbero in quell’esercizio del potere sulle coscienze».

Da italiana che si è fatta boliviana come valuta il Papa latinoamericano?

«Nella sua elezione vedo una mossa strategica di una Chiesa incapace, in quel momento, di uscire da un grande groviglio e desiderosa di dare un’immagine diversa di sé. Ma non ne sono venute profonde trasformazioni. Credo che quella di Bergoglio sia una conversione molto personale e poco istituzionale. Il suo nuovo modo di porsi ha indotto la società a dialogare come non mai con i cristiani su ogni questione, dai gay alla crisi della famiglia. Ma da parte della Chiesa istituzionale, che nonostante Bergoglio resta troppo piramidale, c’è poco ascolto di questo “mondo adulto”, come lo chiamava Dietrich Bonhoeffer».

Anche il nuovo generale dei gesuiti è un latino-americano: è venuta l’ora di quel continente nella Chiesa cattolica?

«Non lo so, posso solo assicurarle che tornando in America Latina ho notato che nell’ambito teologico e pastorale non è successo proprio niente. Anzi, in certi casi — per esempio nell’ambito teologico istituzionale — il clima è ancora quello degli ultimi due pontificati, quando l’America Latina era duramente colpita».

Che si aspetta come donna sul fronte delle riforme bergogliane?

«I cambiamenti per le donne non possono venire dagli uomini, neanche dai più santi. Da domenicana potrei sognare che succeda a tante quello che capitò a Caterina da Siena: l’affidarono a fra’ Raimondo da Capua come confessore, ma il rapporto si capovolse e lui divenne discepolo di lei e suo compagno di ricerca. Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali. Credo che noi donne dobbiamo trovare altri modi e metodi per cambiare la partecipazione “politica”, visto che quella esistenziale non ce la può togliere nessuno e in fin dei conti è quella che serve all’umanità per respirare e immaginare altre forme di convivenza sulla terra».

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il rischio dell’assuefazione di fronte alla guerra

“una grande voglia di piangere”

Sarajevo ’92.. e i Diritti Umani

di Renato Sacco
in “Paxchristi” – www.paxchristi.it

Ventiquattro anni fa la marcia a Sarajevo, promossa dai Beati Costruttori di pace: 500 persone, dal 7 al 13 dicembre 1992, nella città sotto assedio da nove mesi. Per celebrare, con gli abitanti di Sarajevo, la Giornata dei Diritti Umani, 10 dicembre. Don Tonino, Presidente di Pax Christi, c’era nonostante la malattia. Ripensare a quei giorni lascia spazio, inevitabilmente, a tanti ricordi ed emozioni… Nel cinema Radnik di Sarajevo, al lume di candela, la mattina del 12 dicembre ’92, don Tonino pronuciò parole che sono ancora oggi una grande luce per tutti: “Allora io penso che queste forme di utopia, di sogno dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi, terra nuova, aria nuova, mondi nuovi, tempi nuovi… “ Ma ricordare è anche una scossa per non rassegnarci oggi alle guerre, alla guerra a cui rischiamo di fare l’abitudine, senza più piangere e senza più indignarci! E che dire oggi – giornata dei Diritti Umani – di fronte alle tante guerre? Alla terza guerra mondiale a pezzi… Aleppo, Mosul, Yemen, Congo, Burundi, Ucraina, Libia, Afghanistan… Di fronte ai 23 miliardi per le spese militari del prossimo 2017? Il rischio dell’assuefazione o, peggio ancora, di ritenere che in fondo la guerra, quando è necessaria… Per questo ha ancora più valore l’appuntamento della Marcia per la pace, il 31 dicembre a Bologna, con il messaggio quanto mai significativo voluto da papa Francesco per la 50° Giornata mondiale per la pace: La non violenza: stile di una politica per la pace.

“Mai più la guerra!” lo diciamo con la bocca, ma intanto – afferma papa Francesco in un’intervista al al settimanale cattolico belga “Tertio”, il 7.12.2016 – fabbrichiamo armi e le vendiamo; e le vendiamo agli stessi che si combattono; perché uno stesso fabbricante di armi le vende a questo e a questo, che sono in guerra fra di loro. È vero. C’è una teoria economica che non ho provato a verificare, ma l’ho letta in diversi libri: che nella storia dell’umanità, quando uno Stato vedeva che i suoi bilanci non andavano, faceva una guerra e rimetteva in equilibrio i propri bilanci. Vale a dire, è uno dei modi più facili per produrre ricchezza. Certo, il prezzo è molto alto: il sangue.”
“Poi rimango solo – scrive don Tonino il 13 dicembre ’92 arrivato ad Ancona – e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere. Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? È possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati? (…) Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? (…) E qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza: le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono”.
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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

 

SEI TU COLUI CHE DEVE VENIRE O DOBBIAMO ASPETTARE UN ALTRO?  

commento al vangelo della terza domenica di avvento (11 dicembre 2013) di p. Alberto Maggi:

Mt 11,2-11

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

L’evangelista Matteo scrive per una comunità di Giudei, e presenta la figura di Gesù sulla falsa riga della vita e delle opere di Mosè. Mosè liberò il suo popolo, facendo scagliare da Dio le dieci piaghe, le famose dieci piaghe d’Egitto, contro chi si opponeva alla liberazione degli Ebrei dalla schiavitù. Ebbene, l’evangelista presenta Gesù che compie non dieci piaghe, dieci azioni di castigo contro i suoi oppositori o i suoi nemici, ma dieci opere con le quali comunica vita, e comunica vita anche ai suoi rivali, ai suoi nemici. Tutto questo sconcerta, perché l’attività di Gesù non è quella attesa, quella che era stata annunciata da Giovanni il Battista – lo ricordiamo il Messia giustiziere che ha la scure in mano, ogni albero che non porta frutto lo taglia e lo getta nel fuoco, questo Messia che sarebbe venuto a dividere il popolo tra puri ed impuri, buoni e cattivi. Ed infatti, ad andare in crisi è proprio Giovanni. Leggiamo il vangelo di Matteo, capitolo 11, versetti 2-11. “…Giovanni, che era in carcere…”: l’evangelista dà per scontata la notizia che sia conosciuto che Giovanni è in carcere, anche se in realtà poi ce lo dirà soltanto al capitolo 14. Perché è in carcere ? Secondo Matteo, è perché Giovanni il Battista aveva accusato Erode di essersi preso come sposa la moglie di suo fratello, ma c’è uno storico del tempo, Giuseppe Flavio, che nelle “Antichità giudaiche”, ci dà una lettura politica dell’incarcerazione e poi dell’assassinio di Giovanni Battista. Scrive Giuseppe Flavio che Erode era preoccupato del successo, della gente che seguiva il Battista e dice: ”Erode perciò decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui, prima che la sua attività portasse ad una sollevazione”. Quindi per Giuseppe Flavio c’è un motivo politico. Giovanni è in carcere, diremmo nel supercarcere di una fortezza, costruita da Erode il Grande, nella riva orientale del Mar Morto, Macheronte. “…avendo sentito parlare delle opere del Cristo…”: ecco sono tutte opere con le quali Gesù, il Messia, comunica vita anche ai peccatori, anche ai nemici. “… per mezzo dei suoi discepoli …”: è strano che compaiano i discepoli di Giovanni Battista, si vede che non hanno accolto Gesù come colui da seguire. “… mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»”: la richiesta di Giovanni il Battista ha tutto il sapore di una scomunica, perché questo Gesù non è quello che, il
Messia che Giovanni il Battista aveva annunziato, questo Messia giustiziere, questo Messia che veniva a portare avanti il castigo di Dio. Allora Giovanni Battista, in profonda crisi, gli manda questa scomunica: sei tu quello che doveva venire, o ne dobbiamo aspettare un altro? Gesù non risponde alla polemica con argomenti teologici, biblici, ma con le opere. “Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete “, cioè ciò di cui voi fate esperienza. E qui Gesù elenca sei opere, sei azioni, il numero sei ricorda i giorni della creazione, quindi Gesù, in prolungamento con il Dio della creazione, continua a comunicare vita, e sono tutte azioni con le quali si comunica, si restituisce, o si rallegra la vita delle persone: “… I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati”, i lebbrosi erano considerati non dei malati, ma dei maledetti, castigati, ”… i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo”, cioè la buona notizia. E qual è la buona notizia che i poveri si attendono ? La fine della povertà. Questo elenco Gesù lo prende dalle azioni del Messia, così come erano state annunziate dal profeta Isaia, in due capitoli del suo libro, nel capitolo 35 e nel capitolo 61, ma, in tutte e due i brani, Isaia aveva annunziato anche la vendetta di Dio contro i pagani, contro i peccatori. Gesù la omette: l’azione di Dio, attraverso Gesù, è un’offerta d’amore a tutti, non c’è forma di vendetta o di castigo. Ecco perché Gesù proclama beato, quindi c’è una nuova beatitudine in questo vangelo, “… colui che non trova in me motivo di scandalo !»”. Qual è lo scandalo ? È lo scandalo della misericordia.  È strano questo. Mentre il castigo, il castigo di Dio indubbiamente intimorisce, ma non scandalizza le persone, la misericordia scandalizzava e continua ancora a scandalizzare le persone, specialmente le persone religiose, quelle che pensano che Dio li ama per i loro meriti, per i loro sforzi, non sopportano quest’immagine di un Dio misericordia, Dio misericordia significa che il suo amore non conosce gli ostacoli messi dagli uomini, il suo amore vuole arrivare a tutti. Gesù l’aveva annunziato: suo Padre non è il Dio della religione, in ogni religione Dio premia i buoni e castiga i malvagi. Gesù aveva detto: no, l’azione del Padre è come quella del sole che splende sui cattivi e sui buoni, e ugualmente la pioggia. L’azione del Padre di Gesù è quella di una comunicazione d’amore, indipendentemente dal comportamento e dalla risposta delle persone. Questo è quello che scandalizza: che anche chi non lo merita, anche gli indegni, anche gli impuri, i peccatori, possono essere oggetto dell’amore di Dio, senza una previa penitenza, senza una previa purificazione, questo è lo scandalo della misericordia. Ebbene Gesù proclama beati quelli che non si scandalizzano. “Mentre quelli se ne andavano”, se ne vanno senza alcuna reazione, il che significa da una parte incomprensione, dall’altra disaccordo con quello che Gesù ha detto, ”Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento ?”. Era proverbiale l’attività della canna, era anche in una favola conosciuta di Esòpo. La canna cos’è ? è quella che si piega al vento, è l’ immagine della persona opportunista, quella che è sempre disposta a piegare la schiena, pur di rimanere al suo posto. Il vento soffia da una parte, soffia dall’altra, la canna  si piega sempre, quindi l’immagine dell’opportunista. “Allora, che cosa siete andati a vedere ? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi del re !”, nei palazzi dei re ci sono i cortigiani . Chi sono i cortigiani ? Sono quelli ossequienti al potente di turno, sempre pronti a cambiare bandiera, a cambiare casacca, a cambiare credo, pur di rimanere sempre a galla. “Ebbene,” afferma Gesù, ”che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì,” risponde Gesù “io vi dico, anzi, più che un profeta”. Perché di Giovanni Battista Gesù afferma che è più di un profeta ? Perché Giovanni Battista è colui che è stato inviato da Dio a preparare la strada per Gesù. Allora Gesù ci fa comprendere che, per essere inviati da Dio, collaboratori di Dio, non si può essere né opportunisti, né cortigiani, ma bisogna andare sempre dritti per la propria strada. “Egli è colui del quale sta scritto:”, e qui l’evangelista mette insieme due espressioni dell’antico testamento dal libro dell’Esodo e dal profeta Malachia, “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. L’ evangelista presenta la figura di Giovanni Battista come è stata quella di Mosè, che ha portato il suo popolo verso la Terra Promessa, ma lui non c’è entrato. È stato Gesù che poi porterà questo popolo alla liberazione. Ed infine l’elogio di Gesù: “In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli”, il regno dei cieli, lo ricordiamo, in Matteo è la sua comunità, una società alternativa, una comunità dove ci si entra con l’accettazione e l’accoglienza della prima beatitudine, quella della povertà – beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli –  “è più grande di lui»”. Giovanni il Battista non ha potuto entrare in questa comunità appunto perché è stato incarcerato, e non ha potuto soprattutto rinascere di nuovo, rinascere dallo Spirito, dal passare da figlio di donna a figlio di Dio.

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una ‘misa’ davvero … solenne a misura di una grande rivoluzione

bibbie, fucili e chitarre

quando la rivoluzione val bene una «misa»

di Dimitri Papanikas
in “il manifesto” del 7 dicembre 2016

Era il 1964 quando sulle montagne della Colombia alcune centinaia di contadini decisero di passare alla clandestinità, imbracciare i fucili e dichiarare guerra allo Stato in nome del marxismoleninismo. L’America Latina si convertiva così in originale fucina di movimenti rivoluzionari intenti a proclamare ciascuno la propria via all’autodeterminazione del pueblo. A partire da allora sarà sempre più difficile enumerarne le infinite declinazioni. Forze armate rivoluzionarie, Fronte ed Esercito (entrambi autonominati «di liberazione nazionale»), Esercito «popolare» di liberazione in Colombia, peronisti cattolici (montoneros) e marxisti dell’Esercito rivoluzionario del popolo argentini, sandinisti nicaraguensi, tupamaros uruguaiani, Fmln salvadoregni, movimento di Sinistra rivoluzionaria cilena fino ai sendero luminoso peruviani, per citare solo i più famosi.

UN SOGNO RIVOLUZIONARIO d’altri tempi in cui particolare scalpore suscitò la presenza di una nutrita schiera di esponenti del clero. Preti, frati e monache che, abbandonati gli abiti talari per l’uniforme mimetica, con la bibbia in una mano e il fucile nell’altra, iniziarono a combattere per una salvezza del corpo come premessa per quella dell’anima. Il paradiso in terra, contro i soprusi del «padrone», in nome di una classe subalterna che, per la prima volta, si riconosceva finalmente protagonista della Storia.

Un sogno di liberazione in nome di un socialismo cristiano in cui Dio andava a braccetto con Marx, il Capitale con la Bibbia, l’acquasantiera con la mitragliatrice. L’ultima grande utopia del XX secolo. Una rivoluzione proibita… La Santa Rivoluzione. Questo esercito della salvezza composto dagli oppressi di tutto il mondo uniti, animati in molti casi da rampolli di buona famiglia educati nei migliori collegi e università cattoliche, nelle comunità ecclesiastiche di base brasiliane, si preparava a imbracciare il fucile per una lotta armata cristiana e socialista. Giovani universitari mossi da buone intenzioni e da una certa dose di retorica sulla «bella morte», sul culto dell’eroe, sul «vivere come santi» in trincee equiparate alle catacombe dei primi cristiani in clandestinità vivevano il sacrificio del saper «convivere con la morte» fino al martirio, nutriti di un romanticismo rivoluzionario che vedeva nella solidarietà di classe, da preferire a qualsiasi autocompiaciuta etica di beneficenza di Stato, l’unica via possibile per la redenzione in terra.

GRAZIE ALLE APERTURE dogmatiche proclamate dal Concilio Vaticano II del 1965 e dalla successiva Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano di Medellín del 1968, le comunità ecclesiastiche di base e il movimento dei sacerdoti per il Terzo Mondo diedero vita al più straordinario processo di rinnovamento interno alla Chiesa degli ultimi cinque secoli.

Nasceva così la Teologia della Liberazione, una corrente del cattolicesimo militante in aperta opposizione alle gerarchie ecclesiastiche. Principale oggetto della discordia fu l’inedita critica al monopolio dell’uso legale della violenza in nome del: «Riprendete da Cesare quel che è vostro e date a Dio quello che è di Dio». A parte la buona fede di molti, il limite di questo movimento fu forse il suo apparato ideologico dogmatico, poco propenso al dubbio e ad una onesta critica radicale dell’esistente. Oltre alla responsabilità non dei «fini» ma delle «modalità» delle proprie azioni, con le immancabili detenzioni e fucilazioni esemplari di traditori, disertori e «controrivoluzionari», tanto per gradire.

TRA I PIÙ CONVINTI SOSTENITORI della lotta armata ricordiamo padre Camilo Torres, morto nel 1964 durante il suo primo combattimento nelle file dell’Esercito di liberazione nazionale sulle montagne della Colombia e immediatamente convertito in martire, come una sorta di Che
Guevara cristiano ante litteram. Fu quindi la volta di Antonio Llidó, un prete spagnolo che, arrivato in Cile nel 1969, si convertì presto in dirigente del Mir, il movimento della Sinistra Rivoluzionaria, per passare alla clandestinità e cadere sotto i colpi della dittatura di Pinochet. Dal 1974 è desaparecido. Quattro mesi prima della sparizione di Llidó, in Argentina, veniva assassinato padre Carlos Mujica, un sacerdote le cui teorie sull’uso della mitragliatrice contro l’ingiustizia educarono centinaia di ragazzi a una ricerca «attiva» del proprio diritto all’esistenza. I suoi continui richiami alla giustizia sociale, sotto l’egida di un peronismo cattolico che difese fino all’ultimo dei suoi giorni, gli regalarono una popolarità mediatica che dura tutt’oggi. Quattro mesi dopo il suo assassinio, la Rca pubblicava la sua Misa para el Tercer Mundo, una messa cantata il cui testo Mujica aveva appena terminato di scrivere con la collaborazione del Grupo Vocal Argentino che la musicò con ritmi indigeni latinoamericani, africani ed asiatici. Le 50 mila copie del disco, dedicato al movimento dei Sacerdoti per il Terzo Mondo, furono immediatamente ritirate dal commercio e distrutte, insieme alle matrici, dagli emissari del governo di Isabelita Perón. Ad ogni modo, nonostante gli evidenti sforzi del censore di sequestrare ed estirpare dal vocabolario parole come «lotta», «ingiustizia» e «sfruttamento», cui Mujica faceva esplicito riferimento, giungendo a paragonare Gesù a Che Guevara, attraverso l’utilizzo del termine «uomo nuovo» (estrapolato dalla mistica guevariana di quegli anni), l’opera si salvò per puro caso grazie a una copia sfuggita all’epurazione. Fu così che dopo più di trent’anni, nel 2007, fu nuovamente pubblicata dalla Sony a parziale regolamento di conti con la Storia.

MAI PRIMA DI ALLORA in America Latina cristianesimo e rivoluzione si erano incontrati in forma così esplicita in un prodotto discografico firmato, caso ancora più eclatante, da un membro del clero. Una novità assoluta per l’epoca resa possibile dalle risoluzioni del Concilio vaticano II del 1965. Se da un lato la liturgia tradizionale abbandonava il latino per divenire più universale, dall’altro la gerarchia ecclesiastica accettava per la prima volta la musica popolare come strumento di evangelizzazione. Fu così che al fianco del tradizionale organo, cominciarono a comparire i primi strumenti acustici, elettrici, elettronici e del folclore. Abbandonati il canto gregoriano e la polifonia, la Chiesa si metteva in gioco scoprendo che il mercato e la società dei consumi non erano necessariamente figli del diavolo ma, se ben utilizzati, potevano convertirsi in valido strumento di evangelizzazione.


Los Fronterizos

PRIMO TIMIDO ESEMPIO di questo rinnovamento era stata la Misa criolla, un’opera composta dal pianista argentino Ariel Ramírez su testi liturgici ufficiali. Registrata nel 1964 fu portata al successo dal gruppo folcloristico Los Fronterizos. Una messa secolare a tempo di carnavalito, estilo, chacarera, vidala e baguala e ritmi andini in cui per la prima volta il folclore si sostituiva alla tradizionale polifonia liturgica cristiana per favorire un messaggio universale. Per assistere a un rinnovamento effettivo dei testi, e la comparsa dei primi cenni espliciti alla «rivoluzione», bisognerà attendere il lavoro di Mujica e, soprattutto, la celebre Misa Campesina Nicaraguense. Spiritualità latinoamericana a ritmo di mazurca, son, miskitu sulle note composte nel 1975 da Carlos Mejía Godoy e Pablo Martínez Téllez per il Taller de Sonido Popular. Una messa che raccontava la storia di un dio contadino e operaio, vittima dell’ingiustizia di una società malata. Quanto basta per convertirsi in poco tempo nella colonna sonora della rivoluzione sandinista in Nicaragua e più in generale di tutti i popoli in guerra per la propria autodeterminazione.

LA SECONDA PRESENTAZIONE, programmata nella piazza principale dell’attuale Ciudad Sandino, fu interrotta dalle forze dell’ordine e i fedeli dispersi dai lacrimogeni della polizia del dittatore Somoza. Dal 1976 il suo uso liturgico continua a essere proibito dalle gerarchie della Chiesa del Nicaragua, perché considerata eretica e blasfema. Non è difficile immaginare infatti lo scandalo che provocarono con versi come: «Tu sei il Dio dei poveri, il Dio umano e semplice, il Dio che suda per la strada… perché sei il Dio operaio, il Dio dei poveri, il Cristo lavoratore». La prima registrazione dell’opera si realizzò in una Madrid appena uscita da quarant’anni di dittatura, in versione pop, con l’Orchestra Sinfonica di Londra e solisti come Miguel Bosé e Ana Belén. Il disco, prodotto dalla Cbs, vendette 50 mila copie in due mesi e regalò una certa fama ad artisti simbolo della Rivoluzione come i fratelli Carlos e Luis Enrique Mejía Godoy e il complesso Los de Palacagüina

Franklin Quezada, Paulino Espinoza e Roberto Quezada, fondatori del gruppo Yolocamba ItaYolocamba-Itá.

 

In questo 2016 si sono aggiudicati il Premio Nacional de la Cultura in Salvador Un anno dopo la vittoria del fronte sandinista in Nicaragua del 1979, a pochi chilometri di distanza, si pubblicava Misa Popular Salvadoreña, composta in un paese in preda a una violenta guerra civile dal gruppo musicale Yolocamba-Itá. Un insieme di musicisti mosso dal desiderio di recuperare le tradizioni della propria terra, per unirle alle istanze rivendicative di un popolo impegnato a fianco del Fmln a lottare per la sua libertà. L’opera, pubblicata per la prima volta in Messico durante l’esilio della band nell’agosto del 1980, ispirata alle prediche di monsignor Romero, il vescovo di San Salvador assassinato dalla Guardia Nazionale mentre celebrava la messa nel marzo del 1980, fece rapidamente il giro del mondo e fu pubblicata in Canada, Colombia, Finlandia, Nicaragua, Stati Uniti, Svezia e Olanda.

COME SCRIVE SERGIO RAMÍREZ, ex membro del governo sandinista e oggi tra le voci più  critiche della deriva messianica e populista intrapresa dal presidente Ortega, «la nostra rivoluzione non portò la giustizia sperata per gli oppressi, né ricchezza e sviluppo, però lasciò come suo frutto migliore la democrazia». E, citando Dickens, prosegue: «Io sono stato lì e continuo a credere che fu il migliore dei tempi, che fu il peggiore dei tempi: fu tempo di saggezza e follia; fu un’epoca di fede, incredulità; fu una stagione di fulgore, di tenebre; fu la primavera della speranza, fu l’inverno della disperazione». Molti di quei leader carismatici furono così trasformati negli anni a venire in superstars di una società dei consumi che finì per fagocitarli, neutralizzandone molte delle buone intenzioni, in una miscela di lotta di classe e cultura pop

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contro le bugie raccontate contro i rom

VESNA VULETIC
Presidente Idea Rom Onlus

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MILLANTATORI E MENZOGNE SUI MATRIMONI FORZATI A 9 ANNI E SUI MOTIVI DELL’ABBANDONO SCOLASTICO DELLE BAMBINE ROM E SINTE

Sono in Italia da quando ero ragazzina e non ho mai visto il matrimonio di bambine Rom e Sinte di 9 anni, tantopiù con adulti.
Da oltre 25 anni mi occupo di Rom più o meno di tutte le comunità e anche in questo periodo non mi è mai successo di vedere matrimoni di questo tipo.
Da quasi 10 anni dirigo anche l’associazione Idea Rom di Torino (https://www.facebook.com/idearom.onlus) costituita da nostre donne di varie origini nazionali e, anche in questo caso, non abbiamo mai affrontato situazioni del genere.

I matrimoni più giovani di cui ho notizia o memoria risalgono a tanti anni fa e, comunque, riguardavano ragazzine e ragazzini, coetanei, di 15-16 anni.

Ma questi, che già erano casi eccezionali nei nostri paesi d’origine, nel tempo sono andati via via riducendosi anche in Italia, fin quasi a scomparire. Oramai la gran parte delle ragazze si sposano più grandi, tra i 17 e i 20-22 anni, scegliendo da sé il proprio sposo e la propria vita affettiva.

Quando i genitori si oppongono (ad esempio per pregressi litigi fra le famiglie), normalmente le ragazze scappano con i fidanzati, mettendoli di fronte al fatto compiuto.

La questione della dote che alcuni intendono o fraintendono come somma per l’acquisto della sposa sarebbe anche da spiegare meglio, poiché nella maggior parte dei casi è puramente simbolica, è circoscritta a pochissimi gruppi dove è praticata da neanche tutte le famiglie. Ci sono in ogni caso nostre comunità dove la tradizione della dote non è neppure mai esistita.

Il dato di riscontro è dato dall’assenza di denuncie e dall’esiguità di segnalazioni ai Tribunali dei Minori, obbligatorie nel casi di matrimoni (anche di fatto) fra minori di 15 anni.

A scanso di equivoci mi tocca precisare che non sono mai stata favorevole ai matrimoni combinati, figuriamoci a quelli forzati o a quelli fra bambini e adulti.

Però certe iniziative, che da alcuni mesi stanno propagandando una presunta emergenza relativa a questo tipo di matrimoni fra i Rom, mi stanno preoccupando perché possono diffondere un ulteriore e infondato pregiudizio sulle nostre comunità, dando spazio a strumentalizzazioni razziste contro tutto il nostro popolo.

Nel tentativo di approfondire e discutere l’argomento non posso inoltre nascondere una certa preoccupazione rispetto alla demonizzazione di cui sono stata oggetto provando a far presente le mie osservazioni.

Ho provato a discutere l’argomento con alcuni promotori del progetto Terni Bori che affronta il tema, registrando reazioni che quasi immediatamente sono scivolate nell’attacco personale, causando la mia immediata collocazione nella categoria di coloro che amano e difendono i matrimoni forzati fra bambini e adulti (!)

A Torino il prgetto Terni Bori è promosso da Stojanovic Vojislav, rappresentante di varie fantomatiche associazioni di cui non c’è alcuna traccia nei registri comunali, provinciali o nazionali (che prevedono revisioni periodiche sull’effettiva esistenza e sulla regolarità della gestione).

Stojanovic, oltre a agitare l’emergenza del problema dei matrimoni forzati fra bambine e adulti Rom, spiegherebbe con questo motivo la ragione dei tanti abbandoni scolastici da parte delle nostre ragazzine.

Peccato si tratti di una curiosa invenzione di Stojanovic, non supportata da alcun dato e o esperienza personale o lavorativa in ambito scolastico.

Da quel che invece ho potuto capire, sulla base di esperienze e progetti pluriennali, questa “emergenza” degli abbandoni scolastici da parte di bambine Rom costrette al matrimonio NON ESISTE.

Esiste piuttosto il serio problema della qualità degli apprendimenti a cui sono sottoposti i nostri bambini nelle scuole in cui siano “etichettati” come “nomadi”. E’ difatti molto diffusa la consuetudine di abbassare le aspettative formative nei loro confronti, relegati spesso al fondo dell’aula a disegnare dalla mattina alla sera (“perchè vengono a scuola solo per stare al caldo e mangiare un pasto regolare nella mensa”), senza compiti assegnati a casa (“perchè tanto non li farebbero”), senza convocazioni e colloqui con i genitori (“perchè tanto non verrebbero”), senza progettazioni di alcuna ambizione (“perchè l’istruzione scolastica non fa parte della cultura Rom”), ecc..

L’insuccesso e la dispersione scolastica dei nostri bambini, senza alcuna differenza fra maschi e femmine (se ci si riferisce ai dati e non alle fantasie), è dovuto alla bassa qualità degli apprendimenti ricevuti nella scuola dell’obbligo e che non consentono di affrontare con adeguate competenze alcun ciclo di studi superiori.

Senza voler trascurare altri problemi che meriterebbero una più approfondita analisi (dalle condizioni di vita nei campi nomadi al razzismo percepito e subito da questi bambini in tutte le situazioni della propria vita), il dato di riscontro è quello dei bambini che, pur avendo svolto in assoluta regolarità l’intero ciclo scolastico obbligatorio (magari dalle materne, con frequenze continuative del 100% e nessuna bocciatura), alla fine della terza media sanno a malapena leggere e scrivere (e in molti casi neanche quello).

In una città come Torino, dove dal 1978 il Comune e varie associazioni (comprese quelle che volevano e gestivano la “scuola degli zingari”) si sono occupate di scolarizzazione degli “alunni nomadi”, nessuno ancora si chiede come sia possibile che nessun Rom proveniente dai campi nomadi abbia mai conseguito un diploma superiore quinquennale e tanto meno laureato.

Adesso, invece, sarebbe arrivato Stojanovic a spiegare che i motivi dell’insuccesso scolastico delle bambine (e quello dei bambini?) stia tutto nei matrimoni precoci, forzati e brutali a cui sarebbero sottoposte dalle nostre famiglie…

Superficialità che purtroppo alimenta solo altro razzismo di cui, almeno in questo caso, potevamo farne a meno.

La fragilità degli argomenti è evidente nella fuga da qualsiasi confronto, anche su questi social network dove Stojanovic si adopera con “blocchi” e camuffamenti che impediscono qualsiasi confronto.

Curioso per chi ambisca e si presenti come paladino di cause collettive, soprattutto, se convinto dei propri argomenti sul tema. Invece tutta l’attività si limita a spacciare per incontri di presentazione del progetto alcune riunioni di commissioni comunali su tutt’altri temi, guarnendo il tutto con fotografie in cui ignari consiglieri comunali vengono immortalati in fotografie in cui afferrano borse di stoffa (con il logo del progetto) disseminate qua e là sui tavoli.

Cooptazioni inconsapevoli e strumentalizzazioni degne di un furbastro da strada, non di chi vorrebbe affrontare seriamente problemi seri.

Se questa difficoltà nel mettersi in discussione e queste modalità di strumentalizzazione sono il presupposto di un lavoro che vorrebbe condannare varie presunte colpe collettive dei Rom (dai matrimoni forzati all’abbandono scolastico, ad esempio), siamo a cavallo e non stiamo vedendo nulla di nuovo rispetto all’epoca delle associazioni pro-Rom che ci infangavano per poter meglio accreditare le loro lucrose mediazioni.

VESNA VULETIC
Presidente Idea Rom Onlus

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festa della Immacolata Concezione

 

ECCO, CONCEPIRAI UN FIGLIO E LO DARAI ALLA LUCE

commento al angelo della solennità della Immacolata Concezione di p. Alberto MAGGI:

Lc 1,26-38

[In quel tempo,] l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Il vangelo di Luca si apre con l’annunzio di due nascite: quella di Giovanni Battista e quella di Gesù. Sono nascite che indicano il compimento delle promesse di Dio anche in casi impossibili.
Nel primo caso i genitori sono anziani e la madre è sterile, e nel secondo è una vergine che ancora non ha avuto rapporti con il proprio marito. Sentiamo come Luca, l’evangelista, ci descrive tutto questo.
“Al sesto mese” – nel sesto mese, come nel sesto giorno, Dio completa la sua creazione – “l’angelo Gabriele” – Gabri-El significa “la forza di Dio” – “fu mandato da Dio”, e qui questa volta la missione dell’angelo è tutta in salita, è difficile.
Se prima è andato a Gerusalemme, nel santuario, nel momento più importante della vita di un sacerdote, appartenente a una delle classi più prestigiose del sacerdozio e ha trovato soltanto incredulità, il sacerdote non ha ascoltato la parola, e per questo è rimasto senza parole da comunicare al popolo.
Ebbene, ora invece la situazione si presenta difficile, va in una città della Galilea; questa regione era talmente disprezzata che il termine Galilea viene dal disprezzo con il quale il profeta Isaia chiama questo luogo il distretto, da qui “Ghelil” in ebraico la nostra Galilea, il distretto dei pagani.
“…in un città chiamata Nazaret” – Nazareth è un piccolo paese mai citato nella Bibbia – “ad una vergine promessa sposa”.
Nella lingua italiana non abbiamo l’equivalente termine (™mnhsteumšnhn) per indicare il rito matrimoniale ebraico.
Il matrimonio ebraico si svolgeva in due tappe:
1. la prima, che chiamiamo sposalizio, quando la ragazza aveva 12 anni e il maschio 18 serviva a valutare la forza, la capacità della ragazza di fare figli e quindi stabilirne la dote.
2. Poi, dopo questa cerimonia dopo la quale erano marito e moglie, ognuno tornava a casa sua e un anno dopo la ragazza veniva portata nella casa del marito e lì incominciava la convivenza.
Quindi la prima parte del matrimonio si chiama lo sposalizio, la seconda le nozze, quindi è una vergine già sposata a “un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe, la vergine si chiamava Maria”.
“Entrando da lei disse: «Rallegrati»” – quindi quest’angelo di Dio la invita alla pienezza della gioia – “«piena di grazia»”.
“Piena di grazia” (kecaritwmšnh) non è una costatazione che l’angelo fa delle virtù di Maria, ma dice che è stata riempita della grazia di Dio, e la saluta come venivano salutati i grandi personaggi che hanno compiuto azioni importanti per la storia del popolo, come per esempio Gedeone, “«il Signore è con te»”.
Maria viene turbata da quest’annuncio, anche perché in quell’epoca si pensava che Dio non avrebbe mai rivolto la parola ad una donna. La donna era considerata la più lontana da Dio, e l’angelo le dice: “«Non temere Maria perché hai trovato grazia presso Dio»”.
“Grazia” non è una constatazione di virtù di Maria, ma l’amore che Dio ha riversato su questa donna. “«Ecco concepirai un figlio»” – e inizia la prima delle trasgressioni che caratterizzano il vangelo di Luca – “«Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù»”.
Contro ogni tradizione, non spettava alla donna dare il nome al figlio, era il padre che normalmente dava al figlio il proprio nome, così si perpetuava. Qui inizia giù la rottura con la tradizione.
Il primo indizio delle tante rotture della tradizione che poi Gesù porterà a compimento. “«Sarà grande, verrà chiamato Figlio dell’Altissimo»”, Giuseppe è escluso da tutto questo.
Perché Giuseppe viene escluso?
Perché il padre non trasmetteva soltanto la vita fisica, biologica, ma trasmetteva anche la tradizione, trasmetteva anche la spiritualità, ecco in Gesù c’è una nuova creazione, Lui sarà il Figlio di Dio, seguirà il Padre, e annuncia l’angelo a Maria, che in Gesù avranno luogo pieno il compimento delle promesse che Dio aveva fatto al suo popolo, di un regno senza fine.
Maria? Maria accetta, vuole sapere soltanto le modalità, dice: come avverrà questo perché non conosco uomo. Perché non era ancora passata nella seconda fase del matrimonio. Nella prima fase non era permesso avere rapporti con il marito.
“«Rispose l’angelo: lo Spirito Santo»”, la presenza di Maria in questo vangelo si apre e si chiude all’insegna dello Spirito, Maria è la donna dello Spirito. Su di lei all’annunciazione scende lo Spirito Santo, e poi l’ultima volta la troveremo nella parte del vangelo di Luca chiamata gli Atti degli Apostoli, al momento della Pentecoste, quindi Maria è la donna dello Spirito.
Lo Spirito Santo significa che in Gesù si manifesta la vera e nuova definitiva creazione. “«Scenderà su di te la potenza dell’Altissimo, ti coprirà con la sua ombra perciò colui che nascerà sarà Santo»” – cioè consacrato – “«sarà chiamato Figlio di Dio»”, sta dicendo che sarà il Messia.
E come garanzia, come prova di quanto l’angelo sta assicurando a Maria le dice che Elisabetta, sua parente, la moglie di Zaccaria, “«nella sua vecchiaia»”, quindi l’evangelista sottolinea la difficoltà di questa realizzazione, ma Dio è fedele alle sua promesse nonostante ogni difficoltà. Solo che il compimento delle promesse esige collaborazione da parte dell’uomo, con l’ascolto della sua parola, con il fidarsi, e Zaccaria non si è fidato, e soprattutto con l’agire.
“«Ecco, Elisabetta ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei che era detta sterile»”. Vecchiaia e sterilità non sono problemi per l’azione del Signore, per realizzare i suoi progetti. Perché nulla è impossibile a Dio. La forza creatrice di Dio non ha limiti, però esige la collaborazione dell’uomo che come abbiamo detto deve ascoltare la sua parola, fidarsi di questa parola, e poi agire di conseguenza.
“«Allora Maria disse: ecco la serva»”, Maria non dice che è una serva del Signore, dice che è la serva, nei testi biblici Israele viene chiamato il servo del Signore, quindi Maria si viene ad identificare, rappresentare quelli che sempre si sono fidati del Signore, l’Israele del Signore.
E qui c’è l’altra trasgressione con la quale si chiude questo brano, “avvenga di me secondo la tua parola”.
Come si permette Maria di accettare questa proposta senza aver consultato e ottenuto il permesso da parte del padre o del marito?
Era inconcepibile in una cultura del genere che una donna prendesse una qualsiasi decisione senza il permesso. L’autorizzazione da parte del maschio di casa, ecco Maria continua questa trasgressione. Sarà lei a dare il nome al figlio, e sarà lei che decide senza chiedere nulla al marito né al padre.
Quindi il vangelo di Luca si apre con questa novità di aprirsi al nuovo di cui Maria, la donna dello Spirito ne è l’esempio eclatante.

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“mettete in discussione la politica economica o la Politica, ‘con la maiuscola’”, parola di papa Francesco


welfare non «per» i poveri ma «dei» e «con» i poveri


«Finché vi mantenete nella casella delle politiche sociali – ha detto il Papa – finché non mettete in discussione la politica economica o la Politica, ‘con la maiuscola’, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come delle politiche verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema»

Echeggia ancora nella riflessione di tanti il discorso che papa Francesco ha tenuto nell’aula Paolo Vl a conclusione del terzo incontro dei ‘movimenti popolari’. In esso il Papa ha affrontato con determinazione il nodo del rapporto tra queste realtà e la politica. Dopo aver sottolineato che la grande ricchezza dei movimenti popolari è quella di non essere dei partiti «perché esprimete una forma diversa, dinamica e sociale di partecipazione alla vita pubblica», Francesco ha incoraggiato gli stessi movimenti all’impegno politico in senso alto e pieno. Ed è a questo punto che Francesco ha sferrato un magistrale attacco all’attuale logica delle politiche sociali. «Finché vi mantenete nella casella delle politiche sociali – ha detto il Papa – finché non mettete in discussione la politica economica o la Politica, ‘con la maiuscola’, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come delle politiche verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema».

Ecco allora un nuovo obiettivo prestigioso che il Papa affida ai volontari. «Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi». Questo mandato e quel passaggio sulle ‘politiche sociali’, che a qualcuno potrebbe sembrare quasi casuale, rappresentano un essenziale elemento di riflessione, in grado di ribaltare il nostro approccio abituale alle politiche sociali. La «cultura dello scarto», concetto al quale Francesco ci ha ormai introdotti, rappresenta una vera e propria chiave di volta che ci costringe a ripercorrere alcuni corsi e ricorsi delle politiche sociali. Se c’è esclusione sociale, infatti, vuol dire che esiste un soggetto che esclude, che scarta, e ciò non ha nulla di fatalistico o di necessario. Tutt’altro. Da qui deriva la necessità di un cambio di passo. E di riconsiderare un modello ormai superato del Welfare State, quello che è stato per decenni punto di riferimento obbligato e la cui inadeguatezza, oggi, deriva non tanto dalla scarsità delle risorse quanto piuttosto dalla discrasia che si va man mano accentuando tra qualità dei nuovi bisogni sociali e risposte delle istituzioni. Se infatti il Welfare è in grado di rispondere ai bisogni materiali e istituzionali che hanno come bene-risposta i beni materiali e quelli che le istituzioni sono in grado di produrre (scuola, sanità servizi sociali); questo modello non è assolutamente in grado di rispondere ai bisogni di relazione che riguardano le domande di solidarietà, di condivisione, di affettività e di dignità che oggi attraversano in prevalenza le fasce dei deboli e degli esclusi. Essere invisibili, non contare nulla, non poter instaurare alcun tipo di rapporto umano con le persone vicine che scappano piuttosto che ascoltare… Ecco i bisogni profondi dei più poveri e sono bisogni che risultano nettamente più importanti e vitali dei bisogni materiali e istituzionali.

Perché impediscono ai poveri di vivere, di andare avanti in una società che non vuole saperne di loro. E per questo tipo di bisogni esiste un solo bene-risposta possibile: la ricomposizione di una comunità solidale all’interno della quale i poveri non solo siano accolti, ma diventino protagonisti. Il soggetto che esclude è, infatti, la società civile, ma proprio in essa il volontariato può avere un ruolo determinante per ricostituire una vera comunità. E all’interno di una comunità rinnovata e realmente solidale si possono produrre quei processi vitali e relazionali in grado di rispondere ai bisogni di riconoscimento, di dignità e di partecipazione che connotano oggi fortemente la condizione dei poveri. Solo in questo modo si potranno concepire – come afferma papa Francesco – quelle politiche non verso i poveri, ma dei poveri e con i poveri. Solo i poveri possono contribuire credibilmente a rispondere ai bisogni profondi degli stessi poveri, offrendo un terreno ottimale per una loro piena partecipazione alla costruzione di un progetto sociale che coinvolga tutti i popoli.

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