Lidia Maggi di fronte alla figura di Maria

Maria, la testimone più autorevole di Gesù per la sua capacità di penetrare la Parola

di Lidia Maggi
in “dialoghi” n.242 del giugno 2016 Lidia Maggi

Maria accompagna il credente in un itinerario di ascolto dove vengono, di volta in volta, fornite al discepolo le istruzioni per una fede consapevole. Una vera scuola di discepolato, che, mentre narra le vicende di Maria, dall’annuncio della nascita di Gesù all’oracolo di Simeone, offre a chi legge le chiavi per rimanere nella Parola
La chiamata di Maria

Quando Maria riceve la chiamata è ancora una bambina. Promessa sposa a Giuseppe, attende che il suo corpo fiorisca, fino a diventare donna, per poter passare dalla casa paterna a quella del suo futuro sposo. Maria vive in un contesto difficile, che vede il suo popolo piegato dal giogo dell’ occupazione romana. Probabilmente ascolta i lamenti della sua gente e anche lei, come molti in Israele, attende il Messia che verrà a liberare il suo popolo. Ma Dio sta per agire proprio attraverso di lei per cambiare le sorti della storia. L’angelo saluta Maria con parole importanti, che la turbano e la interpellano: «si domandava cosa volesse dire un tale saluto» (Lc 1,29). Maria vuole capire. Con lei impariamo che Dio non si aspetta da noi l’ubbidienza incondizionata. Troppe donne sono state piegate, ammutolite da una fede che asservisce senza liberare, che mette a tacere ogni dubbio e censura le domande. Dio non chiede una tale fede. Non l’ha pretesa dai grandi uomini come Mosè, Elia, o Abramo. Non la chiede a Maria, la quale discute il progetto divino; e nemmeno alle altre donne. La fede nel Dio che chiama richiede intelligenza e libertà. Il discepolo-tipo, Maria, desidera comprendere appieno prima di dare il proprio assenso. Si confronta, dunque, con Dio, domandandosi come potrà portare avanti un simile progetto: «Come possono avvenire queste cose?» (Lc 1,34). Sa che Dio, quando chiama, fa sul serio e, come i grandi prima di lei, oppone resistenza alla chiamata, riconoscendosi inadeguata. Dio risponde non tanto spiegandole «biologicamente» come rimarrà incinta. Non è questo che Maria chiede: la ragazzina sa già che da lì a poco si unirà al suo sposo. Lei chiede piuttosto a Dio che non la lasci sola e l’accompagni nel percorso che le prospetta.

Dio, infatti, promette di non perderla di vista nemmeno per un momento, di essere la sua ombra e camminare con lei: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo sarà la tua ombra» (Lc 1,35). Maria non è incredula, come Zaccaria o Sara: è sconcertata, perplessa, spaventata, ma non incredula. Sa di ascoltare una parola che non si limita ad annunciare fatti futuri ma chiama in causa la sua stessa esistenza e vuole arrivare ad aderire al progetto divino con un sì per la vita. Ecco perché le ultime parole di questa solenne conversazione non sono affidate all’angelo, ma alla sua risposta: «Eccomi, sono la serva del Signore»(Lc 1,38). Dopo essersi interrogata e aver discusso con Dio, Maria risponde positivamente alla chiamata, fino a benedire: «Dio faccia con me come tu hai detto» (Lc 1,38), ovvero: che la parola di Dio si avveri, che quanto Dio sogna diventi realtà in me.

Maria ed Elisabetta: una fede in relazione

 

Maria riceve dall’angelo la notizia che Elisabetta, una sua parente, è incinta. La vergine e la sterile si trovano a vivere sul proprio corpo i segni concreti di una storia gravida di salvezza. La giovane si mette in viaggio per incontrare Elisabetta. In lei c’è l’urgenza dell’araldo, del testimone chiamato ad annunciare il tempo della salvezza. Altri viaggi dovrà compiere Maria, obbedendo a leggi umane, come quella del censimento; ma qui è lei, nella sua piena libertà, a decidere di andare per far visita ad Elisabetta, proprio come l’angelo ha visitato lei. Attraverso la fatica e la fretta del viaggio di una ragazza gravida, vengono tracciati altri elementi dell’identità di Maria: l’ autonomia, il coraggio, l’intraprendenza. Anche questi sono attributi della fede, da riscoprire in ogni vocazione, in particolar modo per quella delle donne.

La fede di Maria non è un’esperienza privata.

Nella visita ad Elisabetta c’è l’esigenza di un riconoscimento comunitario che, prima di passare attraverso il Tempio con le sue forme istituzionali, ricerca il confronto delle donne. Insieme, queste vogliono capire meglio quegli eventi straordinari, così da ascoltare nell’altra la voce di Dio. La lingua di Elisabetta non è rimasta muta, come quella di Zaccaria; il suo cuore non è stato vinto dal pregiudizio e dall’incredulità, dubitando dello status della ragazza. Elisabetta accoglie Maria con parole forti, capaci di lenire ogni preoccupazione. Parole che incoraggiano, benedicono, rafforzano e confermano nella vocazione: «Benedetta sei tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo seno. Come mai mi è dato che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,43). Parole-abbraccio, che avvolgono di fiducia. Elisabetta accoglie Maria ed è solo a questo punto che la lingua di Maria si scioglie intonando una lode. Maria non ha cantato davanti al Signore dell’universo che è apparso nella sua casa: canta, invece, dopo l’abbraccio di una donna che l’accoglie e la riconosce. Adesso sa che non è più sola: non solo perché lo Spirito del Signore è su di lei, ma anche perché l’accompagnano la stima, l’affetto e la benedizione di un’amica, una mentore, una sorella, una madre spirituale. Donne di diverse generazioni si accolgono reciprocamente e mettono in comune la propria esperienza di fede. Elisabetta comunica ad una giovane vocazione fiducia e accoglienza. Riconosce e conferma la sua chiamata fino a spingerla a proclamare la Parola. Se nelle nostre chiese le giovani vocazioni faticano a trovare una propria collocazione, forse è anche dovuto alla nostra sfiducia nei loro confronti. Fatichiamo a riconoscere e ad incoraggiare nuove chiamate. La giovane Maria ci è maestra, con la sua fede libera e determinata. Accanto a lei c’è Elisabetta, che ci ricorda un ministero sottovalutato: la chiamata ad accogliere giovani fedi, piccole o maestose che siano, per aiutarle a crescere e non farle abortire nella sfiducia e nel disprezzo.

Una fede che proclama la Parola di Dio

Maria, alla fine, canta: un inno liturgico, dove le gesta di Dio sono magnificate dalla voce e dalla vita di questa giovane donna. Nel salmo la scopriamo «donna del sorriso», abitata da una fede gioiosa e appassionata. Maria intona una lode a Dio come fece prima di lei, nell’Esodo, l’altra Maria, col timpano ed il tamburello. Il contesto è solenne, come il linguaggio. Maria si sente autorizzata e incoraggiata da Elisabetta a proclamare la Parola, a proclamare le grandi meraviglie di Dio, in un contesto liturgico. La casa di Elisabetta è il primo cenacolo cristiano dove una giovane donna incinta predica la Parola. Maria è la prima predicatrice della Chiesa, un ministero che, in seguito, verrà destinato solo agli uomini: ma «all’inizio non era così»! Canta, Maria, perché sa di essere beata, come lo sono i poveri a cui Dio volge lo sguardo. È beata perché ha udito la voce di Dio e non ha indurito il suo cuore. È beata perché ha saputo rispondere con serietà al Signore ma anche perché la sua chiamata ha trovato accoglienza in un’amica. Ha imparato che la storia non è abbandonata a se stessa. Dio agisce attraverso piccoli come lei. La storia non è chiusa: Dio è in grado di riaprirla, quando ormai è troppo tardi e si mostra sterile e avvizzita, come il corpo di Elisabetta, come anche quando non è ancora giunto il tempo («l’ora mia non è ancora venuta»). Dio può anticipare l’ora, proprio come in Maria la quale, nonostante il corpo acerbo, si ritrova gravida di vita. Non è mai troppo tardi per Dio, come non è mai troppo presto…

Lasciarsi mettere a nudo dalla Parola

C’è ancora una cosa che, alla scuola di Maria, il discepolo dovrà imparare: su come si accoglie la Parola. Il racconto di Luca, dopo averci narrato la nascita del Messia e l’adorazione dei pastori, ed averci mostrato Maria quale «custode della Parola», prosegue nel tempio di Gerusalemme (Lc 2,22-36). Qui Maria, insieme a Giuseppe e al bambino, incontra Simeone e Anna e ascolta l’oracolo di Simeone rivolto al bambino e alla madre. Egli dice a Maria una frase spesso letta in chiave doloristica, come anticipazione della passione: «E a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). Ma la spada che penetra fino in fondo, che taglia in due l’anima e che mette a nudo i cuori, è la Parola di Dio! È come se a un certo punto Dio dicesse a questa discepola che quel rovesciamento del mondo cantato nel «Magnificat» deve avvenire anche dentro di lei. Che, pur essendo la madre di Dio, non è una privilegiata, non è esentata dal fare un percorso di conversione, poiché anche nel suo cuore c’ è una parte alta e una parte bassa che devono essere ribaltate; e quella parola di giudizio, da lei annunciata nel Magnificat, le deve penetrare l’anima e mettere sottosopra il cuore. L’evangelista, dopo averci presentato in sintesi una teologia della Parola incarnata in Maria, dopo averci mostrato come questa agisca in lei fino a renderla discepola del Figlio, mette in scena anche i fallimenti, accomunando la figura di Maria a quella degli altri discepoli. E così, subito dopo gli eventi della nascita di Gesù e l’episodio nel Tempio, troviamo una Maria disorientata dal figlio dodicenne, incapace di comprenderne il comportamento: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco tuo padre ed io angosciati…» (Lc 2,48). Più avanti, la troviamo in difficoltà con la vita nomade di Gesù. Più volte lo cerca per riportarlo a casa (Lc 8,19). Questi fraintendimenti sono un tratto caratteristico della narrazione biblica. Lo sguardo ironico di chi è chiamato a seguire Dio con umiltà impedisce 1′ autocelebrazione. Israele, come anche in seguito i discepoli, si racconta a partire dai propri fallimenti. È l’incomprensione a delineare la figura del vero discepolo, che non si sente mai arrivato, che sperimenta lo scarto tra la chiamata e il proprio vissuto, così da riconoscere di avere ancora bisogno di essere formato e convertito. Proprio perché Maria non si è nascosta, ma si è lasciata mettere a nudo dalla Parola fino a diventare «discepola del Figlio», la incontreremo, dopo la risurrezione di Gesù, nel centro della comunità riunita in attesa dello Spirito (At 1).


Maria in Giovanni

Il vangelo di Giovanni non ci dà informazioni sugli eventi legati alla nascita di Gesù; ci racconta però il segno con cui Gesù inaugura la sua vita pubblica, durante un banchetto di nozze. Quando nel mezzo della festa viene meno il vino, Maria segnala al figlio quella mancanza. «Non hanno più vino»(Gv 2,3): sono le sue prime parole. Ricorderemo quelle più solenni che seguono: «Fate tutto quello che egli vi dirà» (2,5); ma prima ci sono quelle che dicono un’attenzione al mondo, una lettura sapienziale della realtà. Cosa manca? Qual è il bisogno, il desiderio della gente? La parola di Dio non salta questo sguardo storico, proprio perché si fa carne. E Maria ce lo ricorda. Quella di Dio non è prima di tutto parola di giudizio, ma di salvezza. Maria, infatti, non giudica, non dice: guarda che sprovveduti… Il suo è uno sguardo empatico sul mondo, soprattutto quando manca di qualcosa. Come è diverso lo sguardo di molti cristiani, così giudicante sul mondo, pronto a mandare fulmini («Vuoi che chiediamo che un fulmine venga perché non ti hanno accolto?»). Lo sguardo di Maria non è spietato. Ricerca, invece, il bene del mondo, senza rinfacciare. Non dice: «hai bisogno di me, perché altrimenti non ce la fai». Maria ci insegna che non basta ascoltare e fare la Parola: occorre anche uno stile evangelico, che passa attraverso uno sguardo empatico, misericordioso, di cura. Al centro della scena il mondo: la parola che Maria rivolge non è per i discepoli, ma per i servi che si muovono dietro alle quinte. «Fate tutto quello che vi dirà» è una parola che agisce anche fuori dalle chiese. Precedentemente, dicendo: «Non hanno più vino» (2,3), Maria esprime un’invocazione rivolta al figlio, affinché faccia qualcosa. Ma Gesù si irrigidisce: «Che c’è tra me e te o donna? L’ ora mia non è ancora giunta». Maria, nonostante il tono duro della risposta, non si chiude. Non ne fa ragione di scontro personale, reclamando per sé l’ autorità materna. Dice, invece, ai servi di fare tutto quello che lui dirà. E da lì a poco, Gesù agirà ed il vino torna a fluire. In questa storia Maria non è la protagonista, e tuttavia è lei il personaggio-chiave che sollecita Gesù a dare inizio al suo ministero salvifico. È lei che prende l’iniziativa, che esorta, che forza i tempi. È una donna autorevole, per niente servile; dice parole imperative, richiamando all’ascolto. Lei, come il Giovanni Battista, è l’indice puntato verso il Messia. Invita a mettere in pratica la sua parola. Per Maria, ascoltare la Parola significa sollecitare Dio ad agire, anche se non è ancora la sua ora; dunque, ad anticipare i tempi, trasformando la preghiera di Gesù, «Venga il tuo Regno», in passione di vita. Dio, del resto, non ha forse anticipato i tempi nel suo corpo rendendola gravida quando ancora era troppo presto? Perché allora la nostra preghiera non dovrebbe sollecitare Dio ad agire prima dell’ ora? Maria a Cana prega il figlio di agire; e Gesù, sollecitato da questa discepola, si ritrova, suo malgrado, ad anticipare i tempi. Tutto prende il via dall’insistenza di una discepola che ha saputo aprire
una breccia nei tempi di Dio per forzare il Regno. L’evangelo è per chi ha desideri, patisce la ristrettezza del mondo ricercandone la redenzione. Maria, che apparentemente sembra non ascoltare Gesù che le dice: «ma allora non capisci che la mia ora non è ancora venuta?», ci rivela che la Parola è complessa: è un «già» e un «non ancora». Gesù ha sottolineato il «non ancora» del Regno; c’è però anche un «già» a cui Maria si richiama, fiduciosa che «l’ora» è già in azione. Maria è discepola ma anche ermeneuta, interprete della Parola. Non è anche la funzione del discepolo di Gesù quella di riconoscere che il Regno non è ancora giunto e proprio per questo continua ad invocarlo? «Venga il tuo Regno». Quando questa preghiera prende corpo, liberata dall’abitudine e dal rito ripetitivo, il Regno si fa più vicino. La testimonianza di Maria, ricollocata nell’ evangelo, riacquista forza invitandoci a lasciarci fecondare dalla Parola che riapre ciò che è chiuso facendo nuova ogni cosa.
* Lidia Maggi, nata nel 1964, è pastora dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia. Molto impegnata nella divulgazione biblica e nel dialogo ecumenico ed interreligioso, ha pubblicato vari contributi su differenti periodici. Tra i suoi ultimi libri: Quando Dio si diverte. La Bibbia sotto le lenti dell’ironia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2008; Le donne di Dio. Pagine bibliche al femminile, Claudiana, Torino 2009.20142; L’evangelo delle donne, Claudiana, Torino 2010. 20142; Elogio dell’amore imperfetto, Cittadella, Assisi 2010; (con L. Zoia) Amare oggi, Il Margine, Trento 2012; (con A. Reginato) Dire, fare, baciare… Il lettore e la Bibbia, Claudiana, Torino 2012; (con A. Reginato) Liberté, égalité, fraternitè. Il lettore, la storia e la Bibbia, Claudiana, Torino 2014; Giobbe, il dolore del mondo, Cittadella, Assisi 2014.




la chiesa americana si apre all’accoglienza delle persone lgbt

L’accoglienza delle persone Lgbt nella Chiesa Usa

l’accoglienza delle persone Lgbt nella Chiesa Usa

 
da: Adista Documenti n° 43 del 10/12/2016
è nella parrocchia che la maggior parte dei cattolici sperimenta il sentimento di appartenenza a una comunità di fede; pertanto, le parrocchie devono essere luoghi di accoglienza e  sicurezza per le persone Lgbt, per i loro genitori, famiglie e amici. Gli Stati Uniti sono il quarto Paese cattolico al mondo, con circa 70 milioni di cattolici su circa 320 milioni di abitanti. Ci sono circa 18mila parrocchie cattoliche, ma solo poche hanno creato uno spazio accogliente per le minoranze sessuali

La vita in parrocchia

Negli anni ’70, quando ebbe inizio il mio ministero con le persone Lgbt, queste erano praticamente invisibili nelle parrocchie statunitensi. Alcune si confidavano privatamente con il pastore o con un piccolo gruppo di parrocchiani, ma non vi era nessun riconoscimento pubblico della loro esistenza. Molti, non sentendosi più a loro agio in questa invisibilità e in questa mancanza di attenzione alle loro esigenze spirituali, cominciarono a frequentare la Chiesa insieme ad altri cattolici Lgbt in un gruppo chiamato Dignity, che rapidamente diventò un’organizzazione a livello nazionale con più di 50 gruppi locali.

Nel 1986, la “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sull’assistenza pastorale delle persone omosessuali” della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) prescrisse ai vescovi di ritirare il loro appoggio alle organizzazioni che erano in disaccordo o non si erano espresse con chiarezza riguardo alla posizione tradizionale sull’immoralità dell’attività omosessuale. Numerosi gruppi Dignity che si riunivano nelle chiese cattoliche vennero espulsi o si ritirarono spontaneamente dallo spazio cattolico. Oggi, solo alcuni di essi continuano ad incontrarsi nelle strutture ecclesiali.

Non c’è alcuna possibilità di sopravvalutare gli effetti devastanti sui cattolici Lgbt della Lettera della CDF del 1986. In migliaia lasciarono le loro parrocchie, compresi i gruppi Dignity, per non fare mai più ritorno alla Chiesa cattolica. Due settimane dopo la pubblicazione del documento, ricevetti una lunga e commovente lettera da una insegnante lesbica molto impegnata. Diceva, tra l’altro: «Mi sono svegliata con i titoli dei giornali che dicevano che il papa stava di nuovo dichiarando guerra sul tema dell’omosessualità e che io rappresentavo un male morale… L’1% della mia vita riguarda relazioni intime con qualcuno che amo. Per il resto del tempo sono una persona attiva e generosa impegnata in un servizio alla persona, che cerca di vivere una vita feconda. Non posso credere che Dio mi condannerebbe per qualcosa che non è in mio potere scegliere».

La Lettera della CDF ha avuto però anche un effetto positivo: un certo numero di diocesi statunitensi ha creato ministeri dedicati alle persone Lgbt a livello diocesano o parrocchiale. La maggior parte di questi ministeri, pur continuando, pubblicamente, ad esigere da tutti i cattolici gay e dalle cattoliche lesbiche l’adesione al celibato, è simile ai gruppi Dignity per quanto riguarda il servizio prestato dal clero, gli individui che vi partecipano e l’approccio a questo ministero.

Parrocchie accoglienti

Nel 1997, New Ways Ministry, organizzazione cattolica che promuove l’educazione e la comprensione tra cattolici Lgbt e la Chiesa in generale, ha cominciato a pubblicare nella sua newsletter e sul suo sito una lista di parrocchie accoglienti. Per essere considerata accogliente, la parrocchia può redigere una dichiarazione riguardante la sua missione di accoglienza di tutte le persone a prescindere dall’orientamento sessuale; può avere un gruppo di supporto per i membri Lgbt e i loro amici; o semplicemente ministri pastorali empatici che esprimano chiaramente il loro sostegno.

A quell’epoca vi erano circa 40 parrocchie aperte alle persone Lgbt. Dieci anni dopo, la newsletter di New Ways Ministry contava 145 parrocchie accoglienti, con una crescita significativa di più di 100 parrocchie. Nel 2016, sono circa 250 le parrocchie aperte alle persone Lgbt iscritte, con un aumento del 500% negli ultimi 20 anni. Anche se esse rappresentano solo l’1,4% del totale delle parrocchie degli Stati Uniti, sono diventate un modello di ciò che una vera comunità cristiana dovrebbe essere.

Per esempio, molte di queste parrocchie ospitano conferenze su temi come il bullismo, o promuovono eventi o momenti di preghiera in occasione della Giornata della memoria transgender o della Giornata mondiale sull’Aids. Diverse parrocchie hanno marciato alla parata del Gay Pride con i loro striscioni. Una addirittura, nel suo bollettino settimanale, ha pubblicato la notizia del 40.mo anniversario di una coppia di parrocchiane lesbiche. Un’altra ha promosso una campagna a favore del matrimonio omosessuale che ha provocato una reazione avversa da parte del vescovo. Alcuni gruppi parrocchiali Lgbt hanno incontrato il loro vescovo diocesano per condividere le proprie esperienze.

I giornali diocesani ospitano sulle proprie pagine le esperienze di diverse parrocchie. In un’intervista, un prete ha affermato: «Il magistero della Chiesa può cambiare o meno ad un certo punto del percorso, non è qualcosa su cui io possa intervenire, ma il passo iniziale nei confronti di persone che si sono sentite rifiutate e messe ai margini per molti anni è creare un’atmosfera di accoglienza».

Perché questo cambiamento?

Cosa può spiegare l’aumento, negli anni, del numero di parrocchie che accolgono i cattolici Lgbt? Un fatto rilevante è certamente il drastico cambiamento nell’atteggiamento dei cattolici verso le persone Lgbt. Quando ho cominciato questo ministero, nel 1971, silenzio, paura e sospetto circondavano il tema dell’omosessualità sia nella società sia nella comunità cattolica. L’identità di genere non era nemmeno all’ordine del giorno dell’agenda pubblica.

Gradualmente, poi, la cultura ha cominciato a cambiare. La televisione, la radio, articoli su giornali e riviste hanno incoraggiato un dibattito libero e aperto su questioni controverse come l’omosessualità e l’identità di genere. Il movimento di liberazione gay ha incoraggiato le persone omosessuali a uscire dall’invisibilità mentre gruppi di sostegno come New Ways Ministry, Dignity e Fortunate Families (gruppo per i genitori cattolici con figli Lgbt) hanno fornito alla comunità cattolica le risorse educative.

Nel corso degli anni sono stati condotti numerosi sondaggi d’opinione sull’atteggiamento dei cattolici nei confronti delle persone Lgbt. Secondo l’istituto Gallup, la percentuale di cattolici statunitensi i quali ritenevano che le persone gay e lesbiche dovessero avere pari diritti nel lavoro è salita dal 58% del 1977 al 78% nel 1992, e da allora è rimasta piuttosto costante. Anche l’accettazione dell’espressione sessuale in una relazione omosessuale stabile ha subito un cambiamento. Quando la Corte Suprema statunitense ha deliberato la legittimità del matrimonio omosessuale in tutti i 50 Stati, il 60% dei cattolici, secondo Gallup e il Public Religion Research Institute, ha accettato la parità matrimoniale.

Grave preoccupazione, ma speranza per il futuro

Oggi, uno dei motivi di preoccupazione per le persone Lgbt e le loro famiglie è la questione dell’impiego nelle parrocchie e in altre istituzioni cattoliche. Dal 2008, più di sessanta persone che lavoravano nella Chiesa hanno perso il lavoro in seguito a controversie legate a questioni Lgbt. Molte di esse hanno provocato proteste da parte dei parrocchiani che difendevano la persona licenziata (per un elenco esaustivo dei casi di impiegati di istituzioni cattoliche licenziati, obbligati a rassegnare le dimissioni, cui è stato rescisso il contratto o che hanno subito minacce a motivo di questioni Lgbt, si veda https://newwaysministryblog.wordpress.com/employment/). Lo scorso ottobre, il settimanale gesuita America ha pubblicato un editoriale in cui si affermava che l’ingiusta discriminazione di una persona Lgbt avviene quando manca un giusto processo o non è applicato un pari trattamento ai lavoratori eterosessuali divorziati e risposati. Gli estensori dell’editoriale proponevano l’adozione delle politiche di impiego dei vescovi tedeschi, che prevedono che le persone gay o lesbiche che contraggano un’unione civile o un matrimonio non vengano automaticamente licenziate dal loro lavoro nelle istituzioni cattoliche.

Nonostante questa grave preoccupazione, i cattolici Lgbt e i loro sostenitori sono fiduciosi che in futuro un numero sempre più alto di parrocchie degli Stati Uniti si aprirà all’accoglienza. Tale speranza è originata dall’atmosfera calorosa creata da papa Francesco. Con la nomina di vescovi sempre più connotati da una vocazione pastorale, veri pastori “con l’odore delle pecore”, e di tre nuovi cardinali statunitensi dotati di questo senso pastorale, sta mandando un chiaro segnale alle gerarchie degli Stati Uniti, chiamate a riaccogliere gli esiliati in parrocchia.

La speranza dei cattolici Lgbt può essere espressa al meglio con le parole del gesuita p. John Whitney, della comunità di St. Joseph a Seattle, nello Stato di Washington, una parrocchia aperta ai cattolici Lgbt: «Mi sono sentito rinfrescato e rinvigorito non da qualche grande cambiamento dottrinale, ma dall’assenza di paura espressa dalle parole del Santo Padre; dalla sua fiducia nelle opere dello Spirito Santo e dalla sua passione per atti di fede coraggiosi, che corrano anche il rischio di un errore o di finire in un fallimento. Per Francesco, a quanto sembra, la timidezza di angusti confini, l’approdo sicuro dell’opinione condivisa e della purezza dottrinale rischia di portare ad un peccato più grave, a una maggiore perdita per la Chiesa, rispetto ai sentieri rischiosi dell’amore e dell’accoglienza».

Jeannine Gramick, religiosa statunitense della congregazione delle Sisters of Loretto, nota in tutto il mondo per il suo impegno a favore di una piena accettazione delle persone Lgbt nella Chiesa cattolica e nella società.

* Immagine di Drama Queen, tratta da Flickr, licenzaimmagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite




“la teologia è dire Dio con un senso che nasce dalle viscere della sofferenza: i poveri”

a volte anche i cardinali si lasciano convertire … quando si mettono alla scuola dei poveri e degli ultimi

il cardinale Tagle

gli ultimi sono stati i miei insegnantiluis-antonio-gokim-tagle2

intervista a Luis Tagle, a cura di Monica Mondo
in “Avvenire” del 4 dicembre 2016

 

 

 

è un giovane cardinale, guida la diocesi più grande dell’Asia, cucina benissimo, ama i libri gialli e il canto, ha una voce da tenore. Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo di Manila, è un raffinato teologo, presidente di Caritas internationalis. Abbiamo imparato a conoscere il suo sorriso, spesso accanto a papa Francesco, che gli è amico

Sorride perché è felice, sorridere e far sorridere è missione del cristiano?

La felicità non è solo un’emozione, ma una condizione spirituale: la gioia che la fede porta a noi. E la gioia è una missione che dobbiamo condividere: la Chiesa ha ricevuto la missione di annunciare una bella notizia, cioè che il Signore ha trionfato sul peccato e la morte.

In questi giorni è in libreria in Italia un libro di cui è autore, “Ho imparato dagli ultimi”, edito dalla Emi.

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Che cosa significa concretamente?

Ho imparato dagli ultimi in senso ampio, per avere non solo una sapienza mondana, ma anche una saggezza spirituale. Mi ricordo un Natale di quando ero seminarista, ho celebrato con una comunità di poveri. Il giorno prima avevano ricevuto l’ordine di lasciare il terreno perché non era loro. Durante la preghiera del Padre Nostro una donna mi ha detto: «È facile dire Padre Nostro per voi, perché quando voi tornate a casa siete sicuri che c’è pane, riso e cibo. Per noi poveri, la preghiera è una fatica e una lotta contro l’incredulità. È un atto di fede dire “Padre Nostro”». Un esempio semplice per cui mi chiedo chi sia stato l’insegnante, il professore di fede, e chi l’allievo. Questa donna per me è stata il mio insegnante.

Lei è presidente della Caritas, spesso definita erroneamente un ente benefico. Perché si resta ancorati a una visione più assistenziale o emergenziale?

La Caritas è la portavoce della Chiesa e con parole attive dell’amore del Signore. È ben conosciuta come agenzia di aiuto umanitaria, ma c’è una campagna contro le radici della povertà e della sofferenza. La parola “avvocato” Gesù la usa per sé e pure per lo Spirito Santo paraclito, qualcuno che parla per gli altri, qualcuno che è accanto degli altri e che sapendo la condizione alza la voce per farla sentire. La Caritas è un’ambasciatrice di giustizia e di pace. Una metropoli, tanto più in Asia, è luogo di forti contraddizioni. La globalizzazione pone modelli di vita irraggiungibili, ma aiuta anche ad appianare le differenze.

Lei ha detto però che «con la globalizzazione c’è il rischio di escludere Dio dall’orizzonte della società, e svilire l’identità della Chiesa».

Il tipo di globalizzazione che abbiamo sperimentato in questi decenni non è solo finanziaria ed economica, ma anche culturale, di valori. Ci sono “valori” che nascondono la fede o la presenza del Signore e sono penetrati tra i confini delle generazioni e delle nazioni. Sviliscono l’identità della Chiesa, specialmente attraverso i social media, il cinema e le canzoni: qui la presenza della fede e di una comunità credente è quasi abbandonata. Anche in un contesto un po’ religioso come quello delle Filippine, per i giovani, i più vulnerabili, queste suggestioni sono molto forti: nella scuola si insegna catechesi, ma radio e cinema promuovono un messaggio contrario.

Che famiglia è la sua? Una famiglia in cui ha respirato la fede da piccolo?

La mia è una famiglia normale, ordinaria. I miei genitori erano impiegati di banca, dove si sono incontrati. Una famiglia molto semplice, ci siamo concentrati sulle cose essenziali: famiglia, chiesa, fede, scuola, lavoro. La nostra vita circolava su questi punti.

Perché ha scelto il sacerdozio? Voleva fare il medico: sono entrambi segni di una passione per l’uomo?

Come giovane ho partecipato a un progetto giovanile della parrocchia, in cui mio padre mi ha forzato a entrare. E ha fatto bene! In questo gruppo ho incontrato grandi personaggi e specialmente un grande prete che mi ha stupito col suo atteggiamento verso la vita. Aveva impensati talenti e mi sono chiesto perché un uomo così avesse “scartato” la sua vita e quale fosse il senso di questo
“scarto”. Per me è stata l’ispirazione: ho scoperto che si trattava di un dono, un atto di donazione e non di scarto. La mia famiglia e questi modelli di missione mi hanno ispirato.

Lei da giovane si è innamorato della teologia, tanto da approfondire in America i suoi studi, per diventare a 40 anni parte della Commissione teologica internazionale, per volontà di Giovanni Paolo II. Ma contemporaneamente faceva volontariato dalle suore di Madre Teresa. C’è una teologia dei poveri, una sapienza che nessuno studioso può raggiungere?

Credo che ci sia una sapienza dei poveri. Ho imparato la teologia non come professione o specialità, ma come una realtà viva, una parola su Dio. È dire Dio con un senso profondo che nasce dalle viscere della sofferenza: i poveri. È stata una grazia scoprire la comunità delle Missionarie della Carità a Washington Dc, mentre scrivevo la tesi di dottorato. La mattina ero in mezzo ai libri e al pomeriggio avevo un contatto diretto con le persone che per me sono quasi sacramento della presenza del Signore. A questo proposito la pietà, la religiosità popolare, molto vissuta nel suo Paese, non è solo folclore, come spesso si pensa. La fede popolare è sbagliato vederla solo come folclore: nella mia esperienza e cioè nel mio paese, la trasmissione della fede in un modo semplice accade attraverso la religiosità popolare. Certamente c’è il rischio di sentimentalismo e superstizione, però è un ricco campo di evangelizzazione. Troviamo in questo ambito la presenza dello Spirito Santo.poveri

Lei è cresciuto in anni durissimi di dittatura, ma la posizione della Chiesa è stata chiara.

Io devo dire che nei primi anni della dittatura alcuni vescovi e molti filippini che avevano influenza nella società credevano che la “dittatura”, con l’imposizione della disciplina, fosse utile, giusta. Pian piano, però, abbiamo scoperto che non era così, era anzi come rubare i diritti e il futuro alla gente del Paese. Anche oggi la Chiesa deve difendere l’uomo, dall’aborto e dalla difesa della legalità con mezzi drastici e inaccettabili. Al centro della Dottrina sociale della Chiesa c’è una visione e un’eredità grande: la dignità di ogni persona umana, qualunque essa sia, piccola o grande, colpevole o sbagliata. È figlio o figlia di Dio, mio fratello o mia sorella. I vescovi filippini hanno fatto una scelta di campo anche sulla controversa questione della riapertura delle centrali nucleari. Le Filippine sono un Paese ferito da tanti terremoti, tifoni e altre catastrofi naturali. Dobbiamo essere realistici e cooperare a questa missione, di custodire il Creato e anche i poveri, perché i soldi bisogna prima usarli per loro.

Il ricordo più forte del viaggio del Papa nelle Filippine?

La memoria più toccante per me è stato l’incontro con il padre di una ragazza morta proprio in quei giorni. A Takloba venne un tifone e durante la Messa una ragazza volontaria della Caritas è morta sul colpo perché un’impalcatura è crollata su di lei. Il giorno seguente il Papa ha incontrato il padre di questa ragazza. È stato un incontro intimo di due padri. Io ho fatto da traduttore per il Papa, e il padre ha detto: «Santo Padre, prima della sua venuta avevo deciso di non partecipare alle Messe e agli incontri perché sono anziano e non mi piace partecipare agli incontri. Però, la mia unica figlia è morta e mi ha dato la grazia di incontrare il Santo Padre». Il Papa si è stupito della fede profonda di quest’uomo. È bello vedere un padre che insegna la profondità della fede al Santo Padre e io sono un testimone di questo incontro sacro.

Che amico è per lei papa Francesco? Lo conosceva anche prima? È cambiato?luis-antonio-gokim-tagle

È la stessa persona, uguale. Anzi devo stare attento a quel che faccio, perché sono abituato a parlare con lui come prima e mi devo ricordare che è il Papa. Non cambia nulla però perché lui mi ripete: «Sono Bergoglio!». Sa bene che l’avevano messa tra i papabili nel 2013. Sono i giornalisti che parlano così e non gli elettori.

In Italia la presenza dei cattolici filippini è significativa quanto a numeri e a integrazione. Quale apporto danno alla Chiesa italiana?

Giovanni Paolo II ha dato la risposta giusta anni fa in una Giornata mondiale dei migranti, quando  mandò un messaggio alla comunità filippina a Roma. Diceva: «Voi siete qui a Roma, in Italia, per cercare posti di lavoro, per le vostre famiglie nelle Filippine. È una bella cosa lavorare per le proprie famiglie. Voi non avete solo trovato posti di lavoro qui in Italia, ma una missione: portare la semplicità della fede filippina nelle case degli italiani, ai bambini e ai ragazzi». Per i filippini migranti, la seconda casa familiare è la parrocchia. L’anno scorso il cardinale Angelo Scola mi ha invitato a Milano per conferenze e una Messa nel Duomo di Milano con la comunità filippina: erano ventimila. Il cerimoniere mi ha detto: «Ecco il futuro della Chiesa a Milano». Gli risposi: «Non solo il futuro, ma anche il presente».

È vero allora che è l’Asia il futuro della Chiesa?

C’è futuro per la Chiesa in Asia, anche per tutta la sofferenza, la povertà e la testimonianza nelle persecuzioni che sono segno di speranza. Voglio credere che in questa situazione pur drammatica c’è il seme del futuro. Lei ama cantare e ha una bellissima voce, ma non ha mai studiato canto. Da bambino ho sentito tanta musica da mia mamma e da tutta la famiglia. Non sono “tifoso” della musica ma ne ho un grande amore. Non sono andato a scuola di canto, mi è naturale.

Lei ha ricevuto dalle mani del Papa la Lettera apostolica «Misericordia et misera» che ha chiuso l’Anno Santo della misericordia.

Devo dire che è stata una sorpresa per me. Sono stato informato durante la processione all’inizio della Messa che il Papa mi avrebbe consegnato la Lettera, come rappresentante delle grandi città del mondo, per evangelizzare. È una bella Lettera non per chiudere l’Anno della misericordia, ma per continuare una cultura di misericordia

. Che cosa pensa delle sottili o palesi contestazioni al Papa dall’interno della Chiesa?

Penso che il Vangelo porta una verità sconveniente e scandalosa. Come peccatori siamo contenti nella nostra zona di comfort, non vogliamo parole che ci disturbano. La città di Manila, le sue piaghe. Sono tanti i problemi, ma per me la povertà è il più grande. La Chiesa cerca vie per avvicinarsi ai poveri, non solo per trovare soluzioni: la Chiesa non è un governo o uno Stato parallelo. Lo scopo è la vicinanza, anche per testimoniare un amore che è sempre presente.

Perché ama tanto i libri gialli, i polizieschi?

I libri gialli sono un esercizio della verità tramite i segni: insegnano a leggere i segni dei tempi, per questo sono preziosi. Mi piace tantissimo Agatha Christie o Sherlock Holmes, ma ora purtroppo mi manca il tempo… Se dovesse esprimere il suo desiderio più grande… Vorrei che noi, non solo come Chiesa ma come umanità, continuassimo a cercare le porte aperte nelle ferite del mondo. Per me le ferite dei poveri e di coloro che soffrono sono come porte sante in cui entrare. Gesù risorto ha detto ai discepoli, specialmente a Tommaso : «Vieni e tocca le mie ferite». Si chiude la porta di San Pietro, ma le ferite rimangono aperte per entrare nella via di Gesù.cardinalta_53692661

L’autorità personale verso la gente è una grande e forse pesante responsabilità?

Essere cardinale è una grande responsabilità, ma è anche una chiamata all’umiltà. Io credo che Gesù è il Salvatore, non sono io! Gesù non ha bisogno di un altro salvatore, per questo con calma e tranquillità posso professare “Io Credo in Gesù Salvatore”, facendo quello che posso, e il resto a Lui.

 

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caro papa Francesco “siamo contro un’economia che uccide”

«Disarmiamo l’economia che uccide». Il movimento dei focolari scrive a papa Francesco

«disarmiamo l’economia che uccide»

il movimento dei focolari scrive a papa Francesco

da: Adista Notizie n° 43 del 10/12/2016
«Caro papa Francesco, non possiamo accettare che si continuino a inviare armi verso i Paesi in guerra o che non rispettano i diritti umani», quindi «ti dichiariamo che vogliamo contribuire a disarmare “l’economia che uccide” impegnandoci a lavorare per una riconversione integrale della produzione e della finanza. Adesso, non domani»referendum

Con una lettera indirizzata a papa Francesco – che più volte ha denunciato la produzione e il commercio internazionale delle armi – al termine del Giubileo della misericordia, il Movimento dei focolari rilancia il proprio impegno per «riconvertire l’economia che uccide». E organizza un primo incontro pubblico sul tema “Scelte di pace e industria delle armi” il 6 dicembre, presso la sede di Archivio Disarmo, a cui partecipano fra gli altri Maurizio Simoncelli (Archivio Disarmo), Vincenzo Comito (Sbilanciamoci!) e Carlo Cefaloni, del gruppo “Economia disarmata” del Movimento dei focolari.

«Abbiamo inviato una lettera al papa in risposta al suo invito a prendere sul serio il no alla guerra, a partire dalla radice dell’economia che uccide perché invece di agire per ridurre le inaccettabili diseguaglianze, causa di tutti i mali sociali, fabbrica le armi da destinare ai Paesi attraversati da orribili conflitti», spiegano dal Movimento dei Focolari in una nota che accompagna la lettera. «Non possiamo restare indifferenti e accettare l’atteggiamento di chi dice “a me che importa?”, come ha detto papa Francesco quando, il 13 settembre del 2014, si è recato al cimitero dei caduti della Grande Guerra a Redipuglia e ha affermato, davanti alle tombe di tanti giovani mandati al macello un secolo addietro, che “anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”» (v. Adista Notizie n. 32/14). «Nel marzo del 2016 – proseguono i Focolari –, dopo un incontro nelle aule parlamentari, abbiamo affermato che non potevamo accettare il fatto che dal nostro Paese partissero delle bombe destinate al terribile conflitto in corso nello Yemen (v. Adista Segni Nuovi n. 24/16). Concordiamo con le associazioni aderenti a Rete Disarmo che, di fronte a troppi silenzi, hanno deciso di denunciare davanti alla magistratura la violazione della legge 185/90 sulla produzione, il commercio e il transito di armamenti verso Paesi in guerra o che violino i diritti umani (v. Adista Notizie n. 36/16). Rischia di rimanere disattesa, infatti, una legge nata grazie alla testimonianza e all’impegno della migliore società civile italiana, a cominciare da coloro che hanno rischiato il lavoro facendo obiezione di coscienza alla produzione di armi».

Da queste riflessioni, la decisione di scrivere a papa Francesco per schierare il Movimento – già da tempo impegnato nella promozione della “economia di comunione” e da qualche anno molto attivo anche sui temi del disarmo – per «disarmare l’economia». «Sappiamo che non possiamo costruire ponti di pace senza aver rifiutato ogni compromesso con “l’economia dell’esclusione e dell’inequità”», scrivono i Focolari al papa. «Non possiamo dire “a me che importa?”. Non possiamo restare inerti di fronte alle tue parole che ci invitano a riconoscere l’esistenza dei “sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate”».

La via di uscita? La conversione delle coscienze, e la riconversione dell’economia di guerra. «Tutta la nostra economia è chiamata ad una conversione integrale capace di incidere sulle cause strutturali dell’inequità», conclude il Movimento dei Focolari. «Su questo cammino, aperto a tutti come percorso di liberazione delle coscienze, vogliamo continuare ad andare avanti nel segno del Vangelo di pace che abbiamo scelto di abbracciare».

* Immagine di United States Department of Defense SSGT Phil Schmitten, tratta dal sito Commons Wikimedia. Licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite




le religioni sono chiamate a convertirsi e non a essere propagatrici di inviti alla conversione

la battaglia di Panikkar
LE RELIGIONI DEVONO ATTUARE UN AMPIO PROCESSO DI RINNOVAMENTOpanikkar

1. Le religioni sono chiamate a convertirsi e non a essere propagatrici di inviti alla conversione. Il compito che ci proponiamo è nientemeno che la conversione delle religioni. Le religioni sono considerate il veicolo e lo strumento della conversione dell’uomo, ma esse stesse hanno periodicamente bisogno di convertirsi al proprio carattere e fine religioso. La conversione delle religioni è necessaria soprattutto quando esse progressivamente mostrano di scordare la propria origine (che è anche la meta cui tendono) votandosi all’imposizione di affermazioni dogmatiche, al rafforzamento identitario di appartenenza, al consolidamento di strutture istituzionali: il momento storico che stiamo vivendo evidenzia che ci troviamo in questi frangenti e che le religioni meritano in larga misura la cattiva fama di cui godono.

2. Le religioni non hanno il monopolio della religione, del senso religioso della vita. La conversione delle religioni è possibile perché le religioni non hanno il monopolio della religione: ciò che chiamiamo atteggiamento religioso è un’istanza dell’uomo, dello spirito umano di cui le religioni sono uno dei possibili sostegni e veicoli. E bene dunque cominciare chiarendo che cosa intendiamo per religione nel nostro contesto. Le possibili ricostruzioni etimologiche della parola religione indicano il significato di raccogliere, «rilegare». Questa funzione si manifesta e prende forma a vari livelli: ricostituire l’unità dinamica di corpo, mente, spirito, ricollegare gli uni con gli altri, io e tu, riconnettere l’Uomo con la Natura, ripristinare il contatto con il Mistero, ricondurre l’umano sulla soglia dell’oltre. La religione è una funzione della libertà, in quanto lega, riconnettendo, e slega, sciogliendo i vincoli che bloccano.

3. L’identità non è ideologica, ma simbolica. Distinguo identità da identificazione, intendendo con identità la scoperta di quello che ciascuno di noi è in maniera unica e non ripetibile né duplicabile, il volto di ciascuno che si svela nell’incontro senza pregiudizi con l’altro, e per identificazione il riferimento di appartenenza che può dare sostegno e sicurezza ma anche sostituire il proprio volto autentico con una maschera predeterminata. Il dialogo religioso non è un confronto di dottrine, ma usa piuttosto il linguaggio del simbolo. Mentre la dottrina si basa sul riferimento «oggettivo» dell’ideologia che la sostiene, il simbolo non è oggettivo, ma relazionale: è la relazione fra il simbolo stesso e ciò che è simbolizzato a costituirne la forza espressiva, il simbolo, per essere efficace, necessita del credo nel simbolo stesso: un simbolo in cui non si crede non rappresenta più ciò che simbolizza, ma è un semplice segno convenzionale. Il simbolo non si può dunque assolutizzare, ma è il principio del pluralismo e il linguaggio della mistica. Pluralismo significa che c’è una pluralità di significati, ognuno dei quali permette di accedere al riferimento simbolizzato (per esempio molte tradizioni religiose utilizzano la stella del mattino come simbolo della luce chiara che appare, stabilendo nel contempo con quel simbolo diverse modalità interpretative). Quando la religione perde il proprio lato mistico, tende a diventare ideologia e il linguaggio con cui si esprime da simbolico diventa logico. Mentre il linguaggio simbolico è plurale e relazionale, il linguaggio logico è univoco e autoreferenziale.

4. Si deve ricercare non l’unità delle religioni, ma una armonia tra di loro. Il fine cui tendiamo non è l’unità delle religioni, ma la loro armonia. Non si tratta di elaborare una religione onnicomprensiva, ma di creare relazioni armoniche basate sul reciproco riconoscimento. Ma non solo. Il cammino religioso, se è autentico e sincero, dimostra a chi lo percorre, quale che sia il suo riferimento, che la fede è un rischio: il rischio di affidarsi completamente a qualcosa la cui certezza non si basa su alcuna garanzia. Se la fede fosse certificabile da una qualsiasi garanzia, negherebbe se stessa in quanto fede, cioè abbandono fiducioso e totale, un salto senza paracadute in cui tutto è in gioco. Implica dunque un rapporto con l’insicurezza, in termini di valutazione del rischio. La fede è certa, non è una probabilità, e nello stesso tempo non è dell’ordine della certezza garantita. L’ossessione per la certezza, che le nostre società moderne alimentano, ci conduce alla paranoia della sicurezza. La fede non può essere usata come uno scudo o come un’arma, ma implica apertura e disponibilità.panikkar1

 

LE RELIGIONI DEVONO FARE REVISIONE CRITICA INDIVIDUANDO GLI ELEMENTI CHE HANNO BISOGNO DI CAMBIAMENTO

Desidero inoltre sottolineare la necessità di un passo ulteriore, difficile ma inderogabile: si tratta di porre, prima a se stessi e poi agli altri, le domande sgradevoli. Far emergere l’ombra che è all’interno della propria tradizione religiosa, perché senza questa operazione critica è troppo alto il rischio dell’autoreferenzialità e dell’autosoddisfazione. Le religioni, come si è detto all’inizio, hanno bisogno di conversione, di trasformazione. Non ci può essere autentica trasformazione senza una profonda revisione critica: le religioni, anche quelle «rivelate» sono elaborazioni che non sfuggono alla legge del mutamento: bisogna dunque identificare quali sono gli elementi che oggi necessitano di un’opera di trasformazione, perché non sono più in sintonia con la trasformazione della sensibilità umana. E, questa, l’opera più difficile perché si tende a prendere rifugio nella visione e dottrina religiosa, la quale ha invece anche la funzione di stanarci dalle nostre sicurezze e dalle nostre egocentriche convinzioni: a nostra volta dobbiamo «stanare» la nostra religione perché ritrovi la propria funzione liberatrice.
La religione è un processo e non un patrimonio di dottrine e insegnamenti immodificabili: in quanto processo deve essere adatto ai tempi in cui si manifesta. Lo spirito della religione è proprio quello di cogliere il rapporto fra l’ideale e la realtà, fra il qui e l’oltre: essere adatto ai tempi non vuol dire adattarsi alle circostanze in modo pragmatico e opportunista, ma sapere rinnovare il proprio linguaggio, la propria sensibilità, la propria pratica di vita. Il rapporto fra tradizione e realtà è quanto mai importante in tempi come quelli in cui stiamo vivendo, nei quali si fa sempre più evidente che gli schemi di riferimento validi fino a ieri oggi non sono più attuali e il rischio di irrigidimento per paura della novità è sempre più forte in tutte le tradizioni religiose e nelle gerarchie che esse esprimono.
Il tema della trasformazione è dunque ineludibile e complesso.

Temi di riflessione:panikkar2

1. Non dobbiamo assolutizzare la nostra stessa religione
Il processo religioso non consiste nel ridurre tutto al proprio riferimento religioso, come fosse uno schema in cui far entrare la realtà per poterla interpretare. Se da un lato è importante, nel fornire la propria testimonianza, riferire ciò che si dice alla propria religione, passando la propria esperienza al vaglio della tradizione cui ciascuno fa riferimento, d’altro lato è altrettanto importante un atteggiamento mistico, che consiste nel non usare le proprie categorie religiose come filtro per comprendere l’altro: capire l’altro senza usare la propria religione come paradigma interpretativo. Ancora una volta qui sta la differenza fra relatività e relativismo: non si tratta di mettere tutto sullo stesso piano in maniera neutra, ma di vedere la relatività di tutte le posizioni senza assolutizzarne una in particolare, a cominciare dalla propria.

2. Il dialogo non significa abbandonare la propria religione, ma non nascondersi dietro di essa. La distinzione fra identità e identificazione è di vitale importanza. Spesso è proprio grazie all’incontro con l’altro che atteggiamenti inautentici vengono smascherati dallo specchio in cui siamo obbligati a osservarci con gli occhi dell’altro, con cui l’altro ci vede.

3. Il dialogo è un processo, non un esercizio di giustapposizione
Questo è facile a dirsi, quasi ovvio, ma assai difficile da mettere in pratica. La deriva di un sincretismo di comodo è sempre in agguato. Il dialogo è un processo dagli esiti imprevedibili, ma non è mai una mistura confusa di elementi.

4. Per un dialogo autentico non c’è bisogno di alcun minimo comun denominatore. Anzi, la diversità è radicale e tale deve essere: è proprio la radicalità della diversità a rendere significativo il dialogo e l’incontro. Lo scopo non è quello di riassorbire le differenze in un’idea singola in cui i dialoganti si riconoscano più o meno esattamente. Non si tratta di elaborare universali culturali cui tutti debbano prima o poi far riferimento, ma semmai di rifarsi a un’invariante umana che ciascuno elabora in maniera differente. Non esiste una religione universale, né è auspicabile ricercarla; non possiamo non ravvisare, invece, una religiosità umana, una religiosità propria dell’Uomo, che si nutre di differenze che necessitano di dialogare fra loro sulla base di quell’istanza comune. Il dialogo è ontico, perché si riferisce e si indirizza alla nuda realtà, che però si può indicare e trovare solo per mezzo di un’ermeneutica ontologica.

5. Tre corollari si rivelano indispensabili
a) Un’autentica conoscenza della religione altrui è desiderabile; se lo sforzo di conoscenza è autentico, l’altro, magari sorpreso, deve potersi riconoscere nella descrizione che io faccio di lui, e a sua volta correggerla: il dialogo avanza;
b) il dialogo è un processo di conversione continua: si tratta di un processo religioso e non di una tecnica volta a ottenere un qualche risultato;
c) l’atmosfera del dialogo è quella dell’amore, della conoscenza basata sull’amore.

(R. Panikkar, La religione, il mondo e il corpo)




il vangelo della domenica cmmentato da p. Maggi

CONVERTITEVI: IL REGNO DEI CIELI È VICINO! 

commento al vangelo della seconda domenica di avvento (4 dicembre 2016) di p. Alberto Maggi Maggi

Mt 3,1-12

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Il capitolo 3 del vangelo di Matteo si apre con la formula, che appare soltanto qui, unica volta in tutto il vangelo: “In quei giorni”. Con questa formula, l’evangelista intende richiamare il capitolo 2 del libro dell’Esodo, dove si legge: ”In quei giorni Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi”. Quindi è quando Mosè comincia a prendere coscienza della situazione del suo popolo, che poi lo porterà a liberarlo. Allora con il richiamo, ripeto unica volta in cui nel vangelo di Matteo c’è questa formula, “in quei giorni”, l’evangelista apre l’azione di Giovanni, che poi verrà portata avanti e completata da quella di Gesù, in chiave di esodo, in chiave di liberazione e vedremo da cosa. “In quei giorni venne Giovanni”, il nome Giovanni significa “il Signore è misericordia”, “il Battista”, è già conosciuto per la sua attività di battezzatore, di cui poi vedremo il significato, “… e predicava nel deserto della Giudea”, il deserto della Giudea è quella zona che da Gerusalemme arriva fino al mar Morto, non è un deserto di sabbia, è un deserto di roccia, montagnoso, “dicendo:”, ed  è all’ imperativo, l’annunzio che fa Giovanni Battista: “Convertitevi”. Questo verbo significa un cambio di mentalità che poi si riflette nel comportamento. Giovanni si rifà a quello che era stato già l’annuncio del profeta Isaia: ”Cessate di fare il male e fate il bene, e i vostri peccati saranno perdonati”. Quindi Giovanni Battista invita ad un cambiamento di mentalità, ad orientare la propria vita per il bene degli altri. ”…perché il regno dei Cieli è vicino”. Per la prima volta appare nel vangelo di Matteo questa formula, che è usata esclusivamente da questo evangelista. “Regno dei cieli” da non confondere con un “regno nei cieli”, che significa regno di Dio. L’evangelista Matteo, che scrive per una comunità di Giudei, è attento alla loro sensibilità, e, tutte le volte che può, evita di usare la parola Dio, che, come sappiamo, gli Ebrei non scrivono e non pronunziano. Allora “regno dei Cieli” non significa un regno nell’aldilà, ma il regno di Dio, Dio che governa i suoi. “Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse”, e qui l’ evangelista cita il profeta Isaia, ma modificandolo, perché nel capitolo 40 del profeta Isaia, al versetto 3 si legge: ”una voce grida: nel deserto preparate la via del Signore”, ed era l’ annuncio della fine della deportazione da Babilonia, con l’editto di Ciro, e l’inizio della liberazione, e quindi “nel deserto preparate la via del Signore”. L’evangelista modifica il brano di Isaia: “voce di uno che grida nel deserto: ”, quindi dal deserto, dalla rottura con la società, arriva questo annunzio: “… preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Poi l’ evangelista passa a descrivere la figura di Giovanni, dando dei chiari riferimenti: “portava un vestito di peli di cammello”, era l’ abito tipico dei profeti, ma con un particolare: ”ed una cintura di pelle attorno ai fianchi”. Gli evangelisti sono sempre parchi di esempi, di annotazioni, quando le mettono è perché hanno un significato chiaramente teologico. La cintura di pelle attorno ai fianchi era il distintivo di quello che è stato considerato il più grande dei profeti, il profeta Elia, che, si credeva, doveva venire per preparare la strada del Messia. Quindi l’evangelista sta identificando nella figura di Giovanni il profeta Elia. “… e il suo cibo erano cavallette e miele selvatico”, quello che presentava il deserto, l’ alimentazione tipica dei beduini. É clamoroso quello che l’ evangelista scrive: ”Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui“. Giovanni ha predicato un cambiamento di vita, e tutta l’attesa del popolo che è riflettuta da questo “Gerusalemme”, “Giordano”, accorre a lui. Hanno capito che gli strumenti che l’ istituzione religiosa offriva loro, non erano adeguati, ed accorrono a lui . “… e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano”: battezzare era un rito conosciuto, era un’immersione, con la quale si significava la morte al proprio passato, per iniziare una vita nuova. “… nel fiume Giordano”: è importante l’indicazione che fa l’evangelista, e la ripete. Il Giordano era stata la tappa finale dell’esodo per entrare nella terra promessa, adesso è la tappa iniziale per uscire dalla terra promessa, perché la terra della libertà, in mano ai sommi sacerdoti, gli scribi, i farisei, a tutta la casta sacerdotale, all’istituzione religiosa, si era trasformata in una terra di oppressione, dalla quale occorre uscire, e quindi Giovanni annunzia l’esodo che poi porterà a compimento Gesù. “… confessando i loro peccati”: il verbo confessare non deve far pensare a quello che noi intendiamo per confessione. Era un gesto, quello di immergersi nell’acqua, con il quale ci si riconosceva di essere peccatori. All’arrivo della casta sacerdotale al potere, dell’elite religiosa rappresentata da farisei e sadducei, Giovanni Battista non li accoglie bene, li accoglie con parole di fuoco, perché sa che questi vengono a fare un rito. Ma Giovanni dice: no, dovete fare “frutto degno della conversione”, cioè è un cambiamento di vita che si deve vedere nel comportamento, ma poi vedremo avanti nel vangelo che questi mai crederanno all’azione di Giovanni Battista. Per concludere il brano, che è molto ricco, Giovanni dice: “Io vi battezzo nell’acqua per la conversione”, quindi il gesto offerto da Giovanni è un cambiamento di vita, che si fa attraverso questa immersione, ma la forza poi per portare avanti questo cambiamento di vita, lui non la può dare. Dice ci sarà qualcuno che sarà “più forte di me … egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Il battesimo nell’acqua significa essere immersi in un liquido che è esterno all’uomo. Il battesimo nello Spirito, lo Spirito è la vita di Dio, è l’ amore di Dio, significa essere inzuppati, impregnati della stessa vita di Dio. Sarà questo che darà la forza poi di portare avanti questa conversione, questo cambiamento. Solo che Giovanni Battista dice: ”… e fuoco”: lo Spirito Santo per quanti accolgono questo invito alla conversione, e fuoco, secondo la mentalità tradizionale, era il castigo di Dio per quelli che lo rifiutavano. Infatti conclude Giovanni: “Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile”. Quindi Giovanni Battista, erede della tradizione dell’Antico Testamento, presenta un giudizio di Dio, e questo giudizio di Dio poi verrà corretto da Gesù. Quando negli Atti Gesù si riferirà a questo battesimo, dirà: ”Voi sarete battezzati in Spirito Santo”. Da parte di Gesù, che è la presenza di Dio nell’umanità c’è soltanto un annuncio, un’ offerta di pienezza di vita, in lui è assente qualunque forma di castigo.




ricordando Charles de Foucauld a 100 anni dalla sua uccisione

 

Charles de Foucauld, il «fratello» di tutti


giovedì 1 dicembre il centenario della morte

il vicepostulatore

fulcro del suo carisma è la quotidianità di Nazareth come testimonianza del Vangelo

Charles de Foucauld, il «fratello» di tutti

A cento anni dalla sua morte, avvenuta il 1° dicembre 1916 nel deserto algerino di Tamanrasset, il beato Charles de Foucauld ha ancora un messaggio attualissimo da comunicare: «Anzitutto, il fulcro del suo carisma, che è la vita quotidiana di Nazarethh come testimonianza del Vangelo nella semplicità, nell’impegno del lavoro, mantenendo sempre al centro l’umanità che ci lega gli uni agli altri, perché siamo tutti fratelli», ricorda padre Andrea Mandonico, 61 anni, della Società delle Missioni africane, istituto missionario nato nel 1856 a Lione.

Dal 2012 è vicepostulatore della causa di canonizzazione di frère Charles, a cui lo lega una profonda sintonia: «Mentre frequentavo il liceo in Seminario a Crema, un compagno mi passò un libretto su di lui. Rimasi colpito: la sua esperienza mi suggeriva come vivere la fede. Su di lui è incentrata la mia tesi di dottorato in teologia spirituale». Il secondo aspetto del beato che parla agli uomini e alle donne del terzo millennio «è la vicinanza al prossimo.

Amare Dio e il prossimo sono due aspetti inscindibili. Lui si è fatto vicino al popolo tuareg in Algeria, emarginato e povero, e suggerisce a noi oggi una vicinanza agli ultimi per vedere in loro la presenza di Gesù e in chiunque si affaccia alla nostra porta la presenza di Gesù. Fra l’altro, anche i musulmani vivono la regola dell’elemosina e dell’amore al povero». In terzo luogo, Charles de Foucauld «ci ha lasciato l’eredità del dialogo: è stato un uomo che ha dialogato con tutti, perché il dialogo smonta i pregiudizi reciproci e avvicina fino a trasformarsi in amicizia per vivere la fraternità.

Lui l’ha vissuto fino alle estreme conseguenze: venne ucciso in una razzia. Ma era convinto dell’urgenza di stringere rapporti di fraternità e vincere la paura che ci separa gli uni dagli altri». Il bisogno di dialogo e amicizia emerge costantemente anche nelle oltre 7mila lettere (pubblicate quasi tutte in francese, non in italiano) scritte dal Beato Charles, che voleva essere «fratello universale e vivere in amicizia con tutti: giudei cristiani e musulmani», rimarca padre Mandonico, che sta tenendo per il secondo anno consecutivo un seminario su de Foucauld al Centro studi dialogo interreligioso della Pontificia Università Gregoriana, sul tema “Cristianesimo e islam: una fraternità possibile?”.

A dare il via libera alla beatificazione, il 13 novembre 2005, la guarigione inspiegabile della signora Giovanna Pulici, originaria di Desio. «Aveva un tumore osseo in fase terminale, alla fine degli anni Settanta. Curata a Milano, fu mandata a casa dai medici perché non c’era più nulla da fare. Il marito, grande devoto di frère Charles, gli disse: “Pensaci tu”. La donna guarì improvvisamente, il giorno di Pasqua era in chiesa a ringraziare il Signore con sua famiglia». Molti anni dopo, nel 2000, il marito con le figlie era a Roma per l’Anno Santo: «Ha visto passare una piccola sorella di Gesù per strada e l’ha fermata chiedendole: “Quando vedremo fratel Carlo canonizzato?”. Lei rispose che ancora non era beato, perché per far andare avanti la causa occorreva la certificazione di un miracolo. E lui: “Il miracolo ce l’ho io”».

Lo stesso padre Andrea è stato impegnato nella raccolta della testimonianza, del dossier medico di Giovanna e della sua cartella clinica. E riferisce che proprio in occasione del centenario della morte di frère Charles «dalla Francia alcuni vescovi hanno inviato al Santo Padre lettere per chiedergli la canonizzazione anche senza un secondo miracolo, per la fama di santità». Oggi circa 20 associazioni e congregazioni fanno parte della famiglia spirituale del beato e si ispirano al suo carisma.

Laura Badaracchi su l’Avvenire

«io, Foucauld, un’anima alla ricerca di Dio»


 

il 1° dicembre di cent’anni fa il martirio in Algeria

ora il sacerdote-scrittore Pablo d’Ors immagina un suo «diario» in prima persona

«Io, Foucauld, un'anima alla ricerca di Dio»

Nella classica biografia del 1921 – ora disponibile nel catalogo delle Paoline – René Bazin lo evocava come «esploratore del Marocco, eremita nel Sahara». A «un ufficiale dissipato e festaiolo, della specie più volgare» si riferiva invece trent’anni dopo Paul Claudel in apertura del suo poetico ritratto del «visconte de Foucauld », ovvero fratel Carlo, come solitamente è chiamato in Italia il beato Charles de Foucauld. Definizioni ineccepibili, nessuna delle quali può essere isolata dalle altre, specie alla vigilia del primo centenario della morte – o, meglio, del martirio – di quest’uomo che si ritrovò a essere tutto, ma solo per scoprire di voler essere nulla. In occasione dell’anniversario arrivano in libreria riproposte suggestive (come un’altra biografia d’epoca, Charles de Foucauld. Esploratore mistico di Michel Carrouges, traduzione di Francesco Calvesi, Castelvecchi, pagine 228, euro 17,50) e utili antologie dagli scritti (le Pagine da Nararet curate da Natale Benazzi per Edizioni di Terrasanta, pagine 154, euro 14,00, oppure le meditazioni sui Vangeli proposte da San Paolo con il titolo Dio di misericordia, pagine 204, euro 12,00). E arriva, molto atteso, il romanzo che il sacerdote-scrittore spagnolo Pablo d’Ors ha dedicato a fratel Carlo, L’oblio di sé (traduzione di Simone Cattaneo, Vita e Pensiero, pagine 414, euro 20,00).

Charles de Foucauld, in effetti, era già stato protagonista di un altro libro di D’Ors, L’amico del deserto, pubblicato lo scorso anno da Quodlibet nella versione di Marino Magliani. Ma si trattava, in quel caso, di un protagonismo per absentiam, dato che l’intero racconto ruotava sì intorno al desiderio di nascondimento e contemplazione caratteristico di fratel Carlo, il cui nome affiorava però in modo intermittente, quasi a convincere il lettore della struttura eccentrica e pressoché iniziatica del libro. In apparenza L’oblio di sé assume un andamento più convenzionale. Quello che D’Ors ci presenta questa volta è addirittura il diario che fratel Carlo avrebbe redatto su richiesta del suo padre spirituale (e vero padre nella fede), l’abate Henri Huvelin. Proprio perché scritto dallo stesso Charles de Foucauld, il resoconto è privo del drammatico finale, che coincide con l’uccisione del religioso francese da parte dei predoni senussiti.

Era il 1° dicembre 1916, fratel Carlo aveva 58 anni e da ormai quindici conduceva un’esistenza da eremita nel Sahara algerino. La chiesa-fortino di Tamanrasset, obiettivo della razzia che gli costò la vita, era stata pensata e costruita come avamposto spirituale nel cuore del deserto. Prima di cadere, l’evangelizzatore dei tuareg aveva messo in salvo l’Eucaristia, che rappresentava il centro della sua spiritualità. È una storia nota, eppure non smette di impressionare, di apparire talmente straordinaria da sembrare inventata da un romanziere. Perché Charles de Foucauld nasce nobile il 15 settembre 1858, presto si ritrova orfano e benestante, passa per svogliato a scuola e per buontempone nell’esercito, dove pure dà prova di coraggio e perfeziona la tecnica del travestimento, che gli tornerà utile da lì a poco, quando – tra il 1883 e il 1884 – compirà il lungo viaggio nel Marocco interno al quale è legata la sua fama di esploratore. La conversione risale al 1886, inizialmente Charles viene ammesso nella Trappa di Nostra Signora delle Nevi, nel-l’Ardèche, ma la sua vocazione è troppo inquieta per conformarsi del tutto alla regola monastica.

Gli anni decisivi sono quelli trascorsi a Nazaret, appunto, tra il 1897 e il 1900. Fratel Carlo lavora come giardiniere nel convento delle Clarisse, inoltrandosi sempre di più nella ricerca spirituale e abbozzando i lineamenti di quella che diventerà in seguito la comunità dei Piccoli fratelli e delle Piccole sorelle del Sacro Cuore. Ordinato sacerdote, si stabilisce in Algeria nel 1901, prima presso l’oasi di Beni Abbes e da ultimo a Tamansarret, dedicandosi tra l’altro alla compilazione del primo, fondamentale dizionario berbero-francese. Una vita che sembra già un romanzo, dicevamo, ma che Pablo d’Ors riesce a ricostruire senza mai insistere sugli elementi più eclatanti, scegliendo di concentrarsi piuttosto sull’interiorità di fratel Carlo. Se la sua entrata in scena può infatti ricordare l’esagitazione del giovane Rimbaud, il titolo scelto per uno dei capitoli finali, La messa sul mondo, riprende alla lettera un’espressione cara al cristocentrismo cosmico di Pierre Teilhard de Chardin, a ribadire la continuità anzitutto spirituale di cui fratel Carlo è testimone. Allo stesso modo, nelle epigrafi che introducono ciascuna sezione del libro, D’Ors si mantiene fedele allo stile di fratellanza universale del suo Charles de Foucauld, che non fa mistero di aver riscoperto il Vangelo dopo aver conosciuto il Corano.

Nell’Oblio di sé appaiono dunque citazioni dai Racconti di un pellegrino russo e dal canzoniere sufi di Yunus Emre, dai maestri del buddhismo zen e dalle poesie del mistico contemporaneo Dag Hammarskjöld, dalle lettere di san Paolo e dal diario di Etty Hillesum. Non è una generica esibizione di sincretismo, ma la consapevolezza di quanto l’avventura di fratel Carlo sia, in realtà, l’avventura di qualunque anima alla ricerca di Dio. Di qualunque corpo, andrà aggiunto, dato che uno degli aspetti più convincenti del libro di D’Ors – autore fra l’altro della magnifica Biografia del silenzio edita da Vita e Pensiero nel 2014 – consiste proprio nell’insistenza sul legame inscindibile tra materiale e immateriale, tra visibile e invisibile. Si comincia a credere quando ci si mette in ginocchio, avverte il fratel Carlo dell’Oblio di sé, e si inizia a progredire nell’imitazione di Cristo quando si impara a praticare il digiuno. Non è un caso, del resto, che tra le pagine più belle ci siano proprio quelle nelle quali gli oggetti della quotidianità, illuminati dalla luce sovrannaturale dell’Eucaristia, rivelano al protagonista la silenziosa vastità della Rivelazione: «Le cose non pretendono nulla da noi: stanno, sono. E così è Dio, pensavo: Colui che sta, Colui che è, Colui che si offre in tutto e in tutti». Il Rimbaud di Vocali non è lontano, il Teilhard de Chardin del Cristo nella materia è già alle porte.

Alessandro Zaccuri su l’Avvenire

 Charles de Foucault

contemplazione, condivisione, universalità

di Antonella Fraccaro
in “Avvenire” del 30 novembre 2016
contemplazione, condivisione, universalità: tre condizioni di vita, tre espressioni di cura. È così che desideriamo raccontare l’esperienza al seguito di frère Charles
Nate circa 40 anni fa, nella diocesi di Treviso, in ascolto degli appelli del Concilio Vaticano II, abbiamo voluto rispondere ai bisogni del tempo, formate dalla Parola e dai documenti della Chiesa. Una delle prime scelte che hanno segnato la nostra vita di donne religiose è stata quella di lavorare all’esterno della fraternità, per condividere “con” la gente la fatica e la bellezza della vita ordinaria (cercare casa, lavoro, far quadrare i conti a fine mese). Dalla spiritualità di Charles de Foucauld abbiamo assunto tre aspetti: la preghiera e la contemplazione, l’accoglienza e la condivisione, l’evangelizzazione secondo lo spirito di Gesù a Nazareth, vissuti in comunione con la Chiesa locale. Nel 2007 il nostro istituto religioso è stato riconosciuto come il ventesimo gruppo della grande Famiglia spirituale Charles de Foucauld. Siamo attualmente presenti con 11 fraternità locali in alcune Chiese del nord Italia e in Francia. La prima espressione di cura ereditata in questi anni dall’esperienza di frère Charles è la contemplazione. La meditazione del Vangelo e l’adorazione eucaristica silenziosa ci aiutano a guardare con gli occhi di Dio i piccoli e grandi eventi che accadono ogni giorno. Così scriveva Charles: la fede «fa vedere tutto sotto un’altra luce: gli uomini come immagini di Dio, che bisogna amare e venerare come ritratti del Beneamato… e le altre creature come cose che devono tutte quante, senza eccezione, aiutarci a ritrovare il cielo». Viviamo le nostre giornate animate da questo spirito, nel confronto fraterno, per discernere la volontà di Dio nelle diverse situazioni della vita, perché le nostre scelte siano il più possibile a servizio dei poveri. Lo sguardo contemplativo diventa motivo di fede e di speranza anche per quanti incontriamo, nel posto di lavoro o nelle comunità cristiane in cui siamo inserite. Guardare l’altro come un’immagine di Dio ci permette di vedere in lui o in lei una persona amata e salvata da Dio, da amare anzitutto così com’è. La condivisione è la seconda espressione che ereditiamo dall’esperienza di frère Charles. Quante volte, negli scritti, egli ringrazia per essere stato accolto: dalla vita, anche se essa si è mostrata presto ostile con la perdita precoce di entrambi i genitori; dalla fede, grazie alla religiosità dei familiari e dei fratelli musulmani incontrati nel Sahara e in Marocco. È stato accolto più volte e in diverse situazioni da figure ecclesiali, da amici militari, dal popolo tuareg. A sua volta, Charles ha praticato assiduamente l’accoglienza: in Trappa, a Nazareth e nel deserto, dedicando tutto se stesso, fino al termine della sua vita. Giunto da poco a Beni Abbès scriveva: «Questa sera, per la festa del santo Nome di Gesù, ho una grande gioia: per la prima volta dei viaggiatori poveri ricevono l’ospitalità sotto l’umile tetto della Fraternità del Sacro Cuore. Gli indigeni cominciano a chiamarla Khaoua (la Fraternità) e a sapere che i poveri hanno qui un fratello; non solo i poveri, ma tutti gli uomini». Le nostre fraternità sono aperte all’accoglienza, quotidiana e temporanea, e anche quando sono di modeste dimensioni, uno spazio per accogliere persone, di ogni cultura e nazionalità si trova sempre. In alcune nostre fraternità in Italia, dallo scorso anno, in seguito al ripetuto appello di papa Francesco, abbiamo aperto l’accoglienza anche a donne migranti, richiedenti asilo. Sono giovani, provenienti da varie parti dell’Africa, soprattutto dalla Nigeria (Benin City). Sono piene di forza di vita, ma nello stesso tempo ferite nella loro esistenza e fecondità, perché cresciute in contesti poveri culturalmente, in condizioni di violenza, di abuso, di sfruttamento. Vivere con loro, condividere la stessa mensa, gli stessi spazi, ha allargato gli orizzonti della nostra accoglienza e ci ha aperto a
nuove forme di collaborazione e di gratuità, incoraggiandoci a sviluppare, insieme ad altre realtà civili ed ecclesiali, riflessioni e iniziative volte a offrire a queste donne prospettive di vita e di speranza. L’esperienza di una nostra fraternità, in un quartiere di Marsiglia, a prevalenza musulmano e multietnico, ci fa sperimentare che cosa significa essere “straniere tra stranieri”. Tocchiamo con mano la bellezza della reciproca ospitalità, dell’ascolto e dell’accoglienza della ricchezza dell’altro, nei gesti di bontà e di cura donati e ricevuti. Sono vie quotidiane, piccole e nascoste, segni di speranza e di pace tra persone di diversa cultura e religione. Fin dalla sua presenza nel Sahara, Charles de Foucauld si era proposto di «abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei, idolatri» a considerarlo «come loro fratello, il fratello universale». Egli voleva essere «il fratello di tutti gli uomini senza eccezione né distinzione » e desiderava che quanti lo avvicinavano, credenti e non credenti, diventassero, a loro volta, fratelli di altri uomini e donne. L’universalità è la terza prospettiva di vita ereditata al seguito di frère Charles. Per noi, la “fraternità universale” ha trovato, nel corso degli anni, diverse forme di espressione. Frequentare ambiti lavorativi diversi, essere inserite in ambienti sociali, culturali e religiosi differenti (quartieri popolari, rurali e cittadini), vivere in comunione con le comunità cristiane di appartenenza, sono manifestazioni della creatività e originalità dell’esperienza spirituale foucauldiana. L’incontro con la vicenda di frère Charles, fratello universale al seguito di Gesù di Nazareth, sia per ciascuno concreta possibilità per vivere relazioni di cura e benevolenza verso quanti incontriamo: relazioni pienamente umane poiché autenticamente evangeliche. (A cura delle “Discepole del Vangelo”)