il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

NON PREOCCUPATEVI DEL DOMANI

commento al vangelo della ottava domenica del tempo ordinario (26 febbraio 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 6,24-34

 

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

Dopo aver insegnato ai suoi discepoli il Padre Nostro che, sotto forma di preghiera, è la formula di accettazione delle beatitudini, Gesù torna a commentare l’effetto dell’accoglienza della prima beatitudine, che è la più importante, quella che permette l’arrivo del regno dei cieli, cioè il regno di Dio, la nuova società alternativa proposta da Gesù. Nel brano di oggi, il capitolo 6 dal versetto 24 del vangelo di Matteo, Gesù dice: “«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”, ed ecco il monito molto, molto chiaro: “Non potete servire Dio e la ricchezza”. Quello che traduciamo con ricchezza in realtà è mammona, cos’è mammona? È l’interesse, è la convenienza, è il capitale, è quello dove l’uomo mette la propria sicurezza. Il rivale di Dio, nella Bibbia e per Gesù, non è mai il peccato: Dio, nel suo sconfinato amore, riesce a conquistare il peccatore ed a convertirlo; ma il rivale di Dio, il muro che lui si trova di fronte, quello di fronte al quale anche Dio ha le mani legate, è la convenienza, è l’interesse, è l’avidità, per cui Gesù mette in chiaro l’avviso ai suoi discepoli. E poi, per tre volte, Gesù invita i suoi discepoli a non preoccuparsi: aver(ndo) accolto la prima beatitudine – (di) cosa si tratta (nel)la prima beatitudine: Gesù Cristo ci dice: voi occupatevi del bene e del benessere degli altri, e permetterete a Dio come padre di occuparsi lui del vostro, quindi un cambia tutto a vantaggio dei discepoli – Gesù per tre volte invita a non avere alcuna preoccupazione, se si è fatta questa scelta naturalmente. La prima è: “Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il  corpo più del vestito?”, quindi Gesù invita a non avere alcuna preoccupazione, non a non occuparsi, è chiaro la persona si deve occupare, ma a non stare in questo sentimento di ansia, di affanno. E Gesù fa un esempio: “guardate gli uccelli del cielo”, perché, tra tanti esempi che Gesù poteva fare, ha scelto proprio questo? Perché gli uccelli erano considerati animali inutili, nell’elenco delle benedizioni degli animali del creato non esistono, e animali nocivi, allora Gesù prende proprio quest’esempio: guardate gli uccelli del cielo, cioè gli esseri più inutili, più insignificanti del creato, “non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre.” Cosa vuol dire Gesù? Non è un invito al lassismo, a non fare niente: se il Padre nutre gli uccelli del cielo, che non seminano, non mietono e non raccolgono, tanto più voi che seminate, mietete e raccogliete, “Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?”. E Gesù qui porta un esempio che, all’orecchio degli ascoltatori era molto chiaro, “E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate”, il verbo osservare indica osservare per imparare, “osservate come crescono i gigli del campo:”, i gigli del campo erano quei fiori belli, ma che avevano la durata di un solo giorno, “non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone”, Salomone era conosciuto per la sua vanità, per l’eccesso del suo lusso, “con tutta la sua gloria”, potremmo tradurre con tutta la sua boria, “vestiva come uno di loro”, quindi Gesù invita a non preoccuparsi. Perché non ci si preoccupa? È importante che, quando Gesù ha detto: non preoccupatevi di quello che mangerete, per la prima volta, nel vangelo di Matteo, appare il verbo mangiare, che poi apparirà soltanto nell’ultima cena. C’è un collegamento tra questi due verbi e questi due motivi: è il dono generoso di sé, di farsi pane per gli altri, che fa sì che Dio si faccia pane per noi, in una dinamica di amore ricevuto e amore comunicato. E continua Gesù: “Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno”, appunto questi fiori che duravano appena un giorno, “non farà molto di più per voi”, e qui c’è un rimprovero, “gente di poca fede?”. L’espressione poca fede non significa che non ne hanno a sufficienza, è un’espressione per dire: non c’avete fede, che non vi fidate. E per la seconda volta: “non preoccupatevi dunque dicendo”, se Gesù insiste è perché naturalmente avrà sentito le preoccupazioni dei suoi discepoli a questo argomento, ““Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani”, quindi Gesù contrappone i suoi discepoli, che dovrebbero aver fatto l’esperienza di questo Padre, di fidarsi di lui, con quelli che non credono nel Padre, ma credono in altre divinità. “Il Padre vostro celeste infatti”, ecco qui c’è un’affermazione importante di Gesù, che, se accolta, toglie ogni forma di ansia, “sa che ne avete bisogno”. L’azione del Padre precede il momento del bisogno, il momento in cui il discepolo se ne rende conto e lo chiede, l’azione del Padre non è venire incontro ai bisogni del discepolo, ma addirittura precederli, e questo dà piena serenità. Noi non ci dobbiamo preoccupare di nulla, perché non nel momento del bisogno Dio interviene, ma, prima ancora del bisogno, il Signore è già in azione. Ed ecco la conclusione: “Cercate invece anzitutto il regno di Dio”, ecco lavorate per questa società alternativa, a questa società dove, al posto dell’avere, ci sia il condividere, al posto del comandare ci sia il servire, “e la sua giustizia”, la fedeltà a questo programma, “e tutte queste cose”, quindi tutto quello che Gesù ha detto, “vi saranno date” addirittura in di più, vi saranno date ”in aggiunta”. Non c’è da preoccuparsi: quando uno fa della propria vita pane per gli altri, il pane, non solo non gli mancherà mai, ma gli sarà dato in aggiunta.  E poi la conclusione: “non preoccupatevi”, è l’ultima volta che Gesù invita a non preoccuparsi, a non stare in ansia, “dunque del domani”, e qui, purtroppo, la vecchia traduzione invece aveva aggiunto ansia, perché la vecchia traduzione era: “perché il domani avrà già le sue inquietudini”, cioè non preoccupatevi per i guai di domani, perché già ce ne saranno altri, nulla di tutto questo. Dice Gesù: “non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani”, la traduzione esatta, “si preoccuperà di se stesso”: come oggi avete sperimentato l’azione paterna di Dio, che si è preso cura anche degli aspetti minimi, insignificanti della vostra esistenza, così sarà anche del  domani. Allora non preoccupatevi, ma orientate la vostra vita per il bene degli altri. E continua Gesù: “A ciascun giorno basta la sua”, qui hanno tradotto “pena»”, ma, in realtà è difficoltà. Le difficoltà di ogni giorno sono garantite, nella sua (loro) soluzione, dalla presenza continua del Padre di Gesù.

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vergognoso silenzio sulla demolizione della ‘scuola delle gomme’ tra Gerico e Gerusalemme

 

La scuola di Gomme

Mosaico dei giorni

Tonio Dell’Olio

 

 

Siamo quasi costretti a parlarne perché c’è un silenzio vergognoso ad accompagnare quanto sta succedendo in un piccolo lembo di terra situato tra Gerico e Gerusalemme. Si tratta della scuola di Gomme frequentata da circa 200 bambini che da anni abitano il villaggio beduino di Kahnal Ahmar. La scuola è stata costruita dalla ONG Vento di terra con l’aiuto della Cooperazione Italiana e della CEI.

Costruita in maniera innovativa con pneumatici di scarto – esempio di architettura bioclimatica –  perché il governo israeliano proibisce di erigere strutture in muratura in quella zona. Domenica scorsa (19 febbraio) l’esercito israeliano ha circondato la scuola impedendo le lezioni e preannunciandone la demolizione.

 

La scuola si trova nell’Area C degli accordi di Oslo e nel Corridoio E1 che gli israeliani hanno individuato per la costruzione di un altro muro di separazione che dividerebbe definitivamente i territori palestinesi del nord da quelli del sud e inoltre è troppo vicino a una colonia israeliana. Poco importano gli accordi internazionali, i Trattati e la sentenza della Corte Suprema Israeliana che nel 2014 ha chiesto a coloni e beduini di trovare un accordo ribadendo il valore sociale della scuola.

Ancora una volta si persegue la logica dei muri che deve prevalere sulle persone. Tra l’altro quella scuola è stata costruita anche con i nostri soldi di contribuenti. Facciamo sentire la nostra voce firmando la petizione indirizzata alle istituzioni europee e al nostro governo per salvaguardare il diritto all’istruzione di quei bambini (www.ventoditerra.org).

http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3053.html

 

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Barcellona controcorrente vuole accogliere i rifugiati e i profughi

il caso Barcellona, città controcorrente

«stop ai turisti vogliamo i rifugiati»

di Sara Gandolfi
in “Corriere della Sera”

«No al turismo di massa, Barcellona non è in vendita»

«Basta scuse, accogliamo ora i rifugiati»

Due slogan, due manifestazioni , una città che da sempre va fieramente controcorrente. Centinaia di migliaia di persone — 160 mila per la polizia, 500 mila secondo gli organizzatori — hanno partecipato sabato alla marcia di solidarietà che ha attraversato il centro della capitale catalana, reclamando il rispetto degli impegni presi dal governo di Madrid

In base all’accordo europeo raggiunto nel settembre 2015, la Spagna avrebbe dovuto aprire le frontiere a 17.337 persone; ne ha accolte finora appena 1.034. Pure la Catalogna, che ne ospita 471, aveva però promesso di accettarne 4.500. E sono in buona (anzi, cattiva) compagnia: secondo i dati diffusi dalla Commissione a inizio mese i Paesi Ue si sono suddivisi solo il 7% dei 160 mila richiedenti asilo arrivati in Grecia, Italia e Turchia. La voglia di marcare la propria differenza da Madrid è un «vizio» storico di Barcellona, dai tempi della guerra civile degli anni Trenta al recente referendum separatista.

Ma se da un lato la piazza catalana spalanca le braccia ai derelitti del mondo, perché «nessuno è illegale», dall’altro si chiude verso chi arriva dalla «ricca» Europa, magari su volo low-cost, in cerca della movida della Rambla. Solo tre settimane fa, il più famoso «paseo» della città si è colorato di ben altri slogan e striscioni. Migliaia di persone hanno sfilato per «ri-conquistare le nostre strade», contro l’«invasione guiri», come son chiamati in Spagna i turisti. Affitti sempre più cari, antichi caffè sfrattati per far posto ai megastore dell’abbigliamento, ristoranti specializzati in paella de-congelata e sangria annacquata. I motivi per ribellarsi sono tanti e a volte anche molto diversi: c’era chi urlava contro la costruzione dell’ennesimo hotel di lusso e chi difendeva il mercato di quartiere.

Ma c’è un nemico comune: la «turistificación». La sindaca Ada Colau gongola. Ex attivista anti-sfratti, alleata di Sinistra Unita e Podemos, si è fatta paladina di entrambe le battaglie. «È molto importante che in un’Europa incerta dove cresce la xenofobia, Barcellona diventi la capitale della speranza», ha detto mettendosi alla testa della manifestazione pro-rifugiati. Con parole altrettanto decise ha dichiarato guerra al «turismo selvaggio». Dopo aver imposto uno stop a nuovi hotel in centro (in città ne aprono 10-12 all’anno), il Comune sta studiando un sostanzioso aumento delle «imposte per i cittadini temporanei», ossia per quei 34 milioni di turisti (contro 1,6 milioni di cittadini permanenti) che ogni anno scelgono di visitare Sagrada Familia e Palazzo Güell. «Barcellona non sarà una nuova Venezia», ha avvertito la alcalde Colau.

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una stupenda intervista di Levinas

sono responsabile d’altri, rispondo d’altri

intervista a E. Levinas

Sono responsabile d’altri, rispondo d’altri. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che di primo acchito fa parte di un insieme che tutto sommato mi è dato, come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in un certo modo da tale insieme precisamente con la sua apparizione come volto.

Il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio. Non solamente di quel volto, ma dell’altra persona che in quel volto mi appare contemporaneamente in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga, nella sua semplicità, e nello stesso tempo come il luogo dove mi si ordina. Questa maniera di ordinare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto.

[Gli scrittori russi] erano fondamentali, Puskin, Gogol, in seguito i grandi prosatori, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij… Vi si trova costantemente la messa in discussione dell’umano, del senso dell’umano. Ciò vi avvicina ai problemi che, a mio avviso, restano essenziali alla filosofia, e che sotto altre forme trovate nella letteratura specificamente filosofica, e in ogni caso li trovate anche in un’opera letteraria, il libro di tutti i libri, la Bibbia.

C’è, secondo lei, una contraddizione tra la Bibbia e la filosofia?

Non credo, non ho mai vissuto ciò come una contraddizione. In entrambi i casi, si tratta del senso, dell’apparizione del sensato: che sia sotto la forma che tra i greci si definisce ragione, o che sia sotto la forma della relazione con il prossimo nella Bibbia, per me, ciò che le unisce, prima di tutto, è in entrambi i casi la questione della ricerca del senso.

È in questa stessa Europa che lei ha vissuto l’esperienza degli anni ’30 e della guerra del 1940-1945, un’esperienza e un’influenza che è probabilmente molto importante per lei e per l’elaborazione del suo pensiero.

È addirittura l’esperienza fondamentale della mia vita e del mio pensiero, il presentimento di questi anni tremendi, il ricordo indimenticabile di questi anni. Ma io non penso che l’uscita possa consistere in un cambio dei principi di questa civiltà. Penso che all’interno di questa civiltà, ponendo in posizione centrale elementi che erano più marginali, c’è forse un’uscita. Non ho dimenticato neppure che questa Europa si trova senza dirlo, senza ammetterlo, nell’angoscia della guerra nucleare. Ciò che si definisce spesso la modernità mi pare porsi tra ricordi indelebili e un’attesa angosciata. Non so affatto se, rinunciando a ciò, accettando delle forme che sono certamente umane, che possono umanizzarsi ancora di più, si troverà una risposta alle nostre angosce. Non mi aspetto molto dalle mie ricerche per cambiare questo, ma in ogni caso queste sono determinate da ciò che ritengo essere uno squilibrio all’interno di questa civiltà tra i temi fondamentali del sapere e quelli della relazione con altri.

Si potrebbe dire che questa esperienza abbia anche influenzato il suo modo di considerare la filosofia occidentale, la sua critica di tale filosofia?

«Critica della filosofia occidentale», è troppo ambizioso. Ci permettiamo espressioni eccessive. È un po’ come se si contestasse l’altezza dell’Himalaya. Questo insegnamento filosofico è così importante, così essenziale. Esige così tanto di essere attraversato prima di iniziare diversamente.

Ciononostante, lei ha scritto che la storia della filosofia occidentale è stata una distruzione della trascendenza.

La trascendenza è altra cosa, essa ha un senso molto preciso. L’ideale verso il quale andava la filosofia europea consisteva nel credere nella possibilità per il pensiero umano di abbracciare tutto ciò che sembra opporvisi e, in tal senso, di rendere interiore ciò che è esteriore, ciò che è trascendente. La filosofia occidentale non voleva più considerare la trascendenza divina, qualcosa che oltrepassa il limite dell’abbracciabile, del carpibile, come se lo spirito consistesse nel cogliere ogni cosa.

Se posso esprimerlo un po’ più semplicemente, credo che lei voglia dire che è una filosofia dove l’io regna con pieni poteri e dove la conoscenza va più presa che compresa.

Sì, l’io, attraverso il sapere, riconosce come il Medesimo, come riducibile al Medesimo, ciò che di primo acchito sembrava Altro. Sono responsabile d’altri, io rispondo d’altri, prima d’aver fatto qualcosa. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che innanzitutto, fa parte di un insieme, che sostanzialmente mi è dato come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in qualche modo da tale insieme precisamente con la sua comparsa come volto, che non è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al servizio di questo volto, non solamente questo volto, servire l’altra persona che in questo volto mi appare contemporaneamente nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua semplicità, e al tempo stesso come il luogo dove mi si comanda. Questa maniera di comandare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto.

E questo comandamento è: «non uccidere».

Prima di tutto è questo, con diverse sfumature. Nei miei primi scritti, ne parlavo in modo assolutamente diretto: il volto significa «non uccidere», non mi devi uccidere. È la sua umiltà, il suo essere senza mezzi, la sua sobrietà, ma al tempo stesso, precisamente, il comandamento «non uccidere». È ciò che si presta all’omicidio e ciò che resiste all’omicidio. Ecco l’essenza di tale relazione «non uccidere» che è tutto un programma, che vuol dire «tu mi farai vivere». Ci sono mille modi di uccidere altri, non solo con una pistola; si uccide altri restandogli indifferenti, non occupandosene, abbandonandolo. Di conseguenza, «non uccidere» è la cosa principale, è l’ordine principale nel quale l’altro uomo è riconosciuto come ciò che si impone a me.

Questo viso dell’altro fa appello alla mia responsabilità, e lei si spinge molto in là in questa responsabilità, va fino a dire che si deve anche espiare per l’altro.

Ciò che chiamo essere per l’altro, la parola «responsabilità» non è che un modo di esprimere questo: io sono responsabile d’altri, rispondo d’altri, e sostanzialmente rispondo prima d’aver fatto qualcosa. Il paradosso della responsabilità, è che essa non è il risultato di un atto qualsiasi da me commesso. È come se fossi responsabile prima d’aver commesso qualsiasi cosa, come se fosse un a priori e, di conseguenza, come se non fossi libero di scrollarmi da tale responsabilità, come se fossi responsabile senza aver votato, come se espiassi, come se mi comportassi come un ostaggio

Che significa allora la libertà e l’autonomia dell’essere umano quando, prima di ogni conoscenza e quindi di ogni libertà di scelta, è l’altro che mette in dubbio la mia libertà e esige la mia responsabilità?

Pongo la domanda: come definisce lei la libertà? Evidentemente, quando c’è costrizione, non c’è libertà. Ma quando non c’è costrizione, c’è necessariamente libertà? La libertà deve essere definita in modo puramente negativo, come assenza di costrizione, o al contrario, la libertà significa la possibilità per una persona, l’appello rivolto ad una persona a fare qualcosa che nessun altro può fare al posto suo? In tale bontà precedente ad ogni scelta che è la mia responsabilità, sono come eletto, non intercambiabile, il solo a poter fare ciò che faccio nei confronti di altri. Di fatto, questa è una risposta a Sartre quando dice che siamo condannati ad essere liberi. Quando si è votati a qualcosa, a qualcosa dove non c’è semplicemente una cieca necessità ma dove c’è un appello a me in quanto unico a poter compiere ciò che compio, l’etica, la responsabilità etica è sempre questo. Il significato stesso del mio obbligo etico, è il fatto che nessun altro poteva fare ciò che faccio, come se fossi eletto. È questa nozione di libertà, d’elezione che sostituisco a quella libertà puramente negativa. Ciò che ci colpisce nella non-libertà, è che siamo chiunque. Nella mia responsabilità per altri, sono sempre chiamato come se fossi il solo a poterlo fare… Farsi sostituire per un atto morale, vuol dire rinunciare ad un atto morale.

È ciò che dice Sartre quindi?

Non so se Sartre dica questo. Dico anche, ed è sicuramente una formulazione terribile, che la bontà non è un atto volontario. Con ciò voglio intendere che non c’è, nel movimento di libertà, l’atto in particolare di una volontà che interviene. Non si decide di essere buoni, si è buoni prima di ogni decisione. C’è, nel mio concetto, l’affermazione di una bontà iniziale della natura umana.

Ma lei ha anche detto che non si è buoni volontariamente. È dunque contro natura?

Non è a seguito di un atto volontario, è la rottura con l’ordine della natura. E quando dico rottura dell’ordine della natura, lo penso con molta forza, come se la comparsa stessa dell’umano nell’ordine regolare della natura — dove ogni cosa tende a restare immutata, dove ogni essere umano pensa a sé stesso, persiste nel suo essere, ciò che Spinoza chiamava l’atto supremo di Dio che consiste per l’essere nel persistere nel suo essere — con la responsabilità per altri, questo ordine è rotto, può essere rotto, anche se non sempre lo è. Io non dico affatto che ciò trionfi sempre, ma con l’umano, c’è la possibilità per l’uomo di pensare, di impegnarsi, di occuparsi dell’altro prima di perseguire la persistenza nel suo proprio essere.

È la sua vocazione?

Certamente, nel senso fortissimo del termine: c’è qualcuno che chiama, qualcuno che nel volto d’altri chiama, obbliga senza forza. L’autorità non è affatto possesso della forza. È un obbligo senza forza. Purtroppo, il XX secolo ci ha abituati a questa idea che non si abbia il diritto di predicare, ma che si possa dire a se stessi che Dio ha rinunciato alla violenza, che comanda senza violenza. È anche una predicazione, e non si ha il diritto di predicare (lo si può dire a se stessi) perché, quando lo si predica, sembra si voglia giustificare Auschwitz. Dopo Auschwitz, Dio non ha più giustificazioni. S’è c’è ancora fede, è una fede senza teodicea.

Intende dire senza speranza?

No, senza teodicea, senza che si possa giustificare Dio. Dicendo questo, non invento una possibilità fondamentale dell’umano. In realtà, quando non ci lasciamo essere in modo puro e semplice, quando abbiamo compreso l’alterità dell’altro, non abbiamo mai finito di comprenderla. Non si è mai affrancati da altri. È una moralità assolutamente borghese che dice: «In dati momenti, posso chiudere la porta».

In questo contesto, lei cita più volte Dostoevskij che dice: «Noi siamo tutti colpevoli di tutto e di tutti davanti a tutti, e io più di tutti gli altri» [I Fratelli Karamazov].

Torneremo a breve, se me lo permette, sul fatto che non sia probabilmente così tutti i giorni. Ma, se si è in questo incontro d’altri che provo a descrivere, non si è mai colui che comprende la sua relazione ad altri come reciproca. Se si dice: «Sono responsabile per lui, ma anche lui è responsabile nei miei riguardi», in tal caso, si trasforma la propria responsabilità iniziale in commercio, in scambio, in uguaglianza, si è già mal interpretato tale frase di Dostoevskij, che è un’esperienza fondamentale dell’umano.

E che illustra ciò che lei intende per «asimmetria».

L’asimmetria, è in primo luogo il fatto che la mia relazione nei confronti di me stesso e le mie obbligazioni come io stesso le intendo non sono immediatamente in un rapporto tra due pari, dove altri è sempre supposto essere io stesso. Io stesso, sono prima di tutto l’obbligato, e lui, è prima di tutto colui nei confronti del quale sono obbligato. Non è affatto uno smarrimento, è la modalità essenziale dell’incontro con altri. Come dicevo poc’anzi, io non posso predicare la religione ad altri, anche se in me stesso posso accettare alcune cose che, proposte agli altri, paiono avere la facilità della chiacchierata teologica. Io posso accettare una teologia per me, assumere per me una teologia, ma non ho il diritto di proporla agli altri. È la vocazione dell’asimmetria.

Ci si può chiedere se sia possibile vivere con un perpetuo senso di colpa. Come vivere con questo problema contro natura?

Tutto ciò che tento di presentare è un’umanità contro natura. Come una rottura dell’ordine regolare dell’essere preoccupato di sé stesso, preoccupato del proprio sostentamento, perseverante nell’essere, stimando perfino che, quando si tratta del mio essere, tutte le altre questioni cadano. È contro ciò che tento di scoprire nell’umanità una vera rottura d’un essere costretto ad essere, preoccupato d’essere.

Ma non sarebbe una morale quasi masochista?

Il masochismo è una caratteristica di una malattia dell’essere ben portante. Io non credo che l’essere umano sia ben portante, nel senso banale del termine: è una rottura di questa salute facile, che è soprattutto la mia salute, è una preoccupazione. Non tutte le malattie sono da curare. Masochismo? Io non temo questa parola. Che cos’è l’umano? È lì dove l’altro è l’indesiderato per eccellenza, dove l’altro è il disturbatore, ciò che mi limita. Nulla può limitarmi maggiormente che un altro uomo. Per questa umanità-natura, per questa umanità vegetale, per questa umanità-essere, l’altro è l’indesiderabile per eccellenza. Ma è contro di lui e verso di lui che vi guida, nel volto dell’uomo, l’appello di Dio. È drammatico. È un termine tratto dal mio articolo «Dieu et la philosophie» (è uno degli articoli ai quali tengo maggiormente) dove la risposta di Dio non consiste nel rispondervi, ma nel rinviarvi verso l’altro. La relazione con Dio, con l’infinito, è il rapporto all’umano, a l’altro. Ciò che ammiro di più nel Vangelo — io non sono cristiano, lo sapete, ma trovo nel Vangelo molte cose che mi sono prossime e le cui basi mi paiono assolutamente bibliche –, è il capitolo 25 di Matteo sul giudizio finale, dove il Cristo dice: «Voi mi avete cacciato, mi avete perseguito. Quando ti abbiamo perseguito? Quando ti abbiamo cacciato? Quando avete cacciato il povero». Bisogna considerare ciò, non in senso metaforico, ma in senso eucaristico. È veramente nel povero che c’è la presenza di Dio, nel senso concreto. Ho sempre letto in questo senso il capitolo 58 di Isaia, dove pure ci sono persone che dicono di cercare Dio, e questi dice che, per trovarlo, si devono liberare gli schiavi, vestire gli ignudi, nutrire gli affamati, far entrare in casa i senzatetto. È più difficile perché i senzatetto sporcano i tappeti.

Nella sua opera Totalità e infinito, lei dice: «L’uomo è naturalmente ateo, ed è una grande gloria per il Creatore l’aver dato vita ad un essere capace di essere ateo. L’ateismo condiziona una relazione vera con un vero Dio». Vuole liberare l’uomo da Dio?

Il fatto che l’uomo possa giungere a partire dalla sua bontà verso Dio invece di andare verso la bontà a partire da Dio, ecco cosa mi pare estremamente importante. Il fatto che, senza pronunciare la parola Dio, io sia nella bontà è più importante di una bontà che venga semplicemente a posizionarsi tra le raccomandazioni di un dogma. È estremamente importante indicare un procedimento a partire dalla bontà e non a partire dalla creazione del mondo. La creazione del mondo stessa deve prendere il suo significato a partire dalla bontà. È una vecchia credenza rabbinica, ma si pretende che sia tratta dalla Bibbia, che il mondo sussista, sia stato creato dall’etica, dalla Torah; che nell’espressione, «in principio Dio creò», la parola reshit (principio) significhi l’etica o, se volete, la Torah. Può darsi che la spiritualità alla quale si giunge attraverso l’etica non sia completa. Può darsi che infatti, gli altri, vadano aiutati ancora diversamente. Io non affermo che ciò sia falso, ma non è questa la via che mi pare corrispondere allo spirito, che definisce lo spirito.

Lei ha illustrato ciò attraverso la storia del romano che chiede al rabbino: «Perché il vostro Dio, che è il Dio dei poveri, non nutre i poveri?». La risposta del rabbino è: «Per salvare l’umanità dalla dannazione».

No, questa è un’altra cosa. Questo vuol dire che è assolutamente scandaloso, è un peccato mortale che gli uomini non aiutino gli altri uomini. Se fosse Dio ad incaricarsene, non gli resterebbe più che lasciare gli uomini al loro peccato.

Lo si potrebbe rimproverare alle Chiese…

Io non condanno le Chiese, hanno molto da fare, hanno altri problemi ma per me non è l’inizio della spiritualità. Ci sono tanti libri che le Chiese commentano e diffondono, ma è ciò che è contenuto in questi libri, prima di questa organizzazione, che è importante. Il Messia, ovvero l’obbligo di occuparsi d’altri, è il mio compito. Nella mia individualità, nella mia unicità, c’è questo: sono un potenziale Messia.

Non è l’effetto della grazia.

Assolutamente no, al contrario, è la condizione dell’io come la descrivo sin dall’inizio: il soggetto non è assolutamente colui che prende, ma colui che è responsabile. L’universo pesa su di me, sono ostaggio, espiazione, sono scelto per questo. La mia unità, la mia unicità, è ciò che chiamo Messia. Vengo per salvare il mondo, ma lo dimentico. Tuttavia, nell’io, ovvero in questa soggettività — che non concepisco affatto come sostanza, come potere, ma che descrivo con questa bontà iniziale, gratuita — con questa responsabilità, diversa, di qualunque grado sia, anche nella condotta, mi interessa, mi riguarda. Mi riguarda non nel senso sartriano, condannandomi, ma nel senso nel quale si dice in francese: «I vostri fatti mi riguardano» o «I vostri fatti non mi riguardano». È ciò che chiamo il momento messianico nell’io umano. Non dico che trionfi — il Messia non viene — ma questa vocazione, lui l’ha sentita, è tramite questa vocazione che è unico e uno, lì si trova la sua individuazione. Non ho filosofia della storia che possa consolare da tutti gli abusi, anche dalla relazione ad un volto. Ciò che mi è importato, è di scoprire nella pesantezza dell’essere che si occupa di sé stesso, questa possibilità di tenere conto, di sviluppare una bontà per un altro essere, di occuparsi della sua morte prima di occuparsi della propria. Questo scoraggiamento non ha consolazione, ma ho spesso pensato che si debba insistere nelle analisi sul disinteresse della relazione interumana, della parola che si ha con altri, e che non è impossibile — ma questo è al di là della filosofia — che coloro che non contano su nessuna ricompensa siano degni di una ricompensa.

da mondodomani.org

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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

AMATE I VOSTRI NEMICI

commento al vangelo della settima domenica del tempo ordinario (19 febbraio 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 5,38-48

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Gesù propone una nuova relazione con Dio, che non può essere più contenuta nell’antica alleanza. Per questo, nel vangelo di Matteo, al capitolo 5, dopo aver proclamato le beatitudini, Gesù inizia una serie di prese di distanze, dicendo: “«Avete inteso che fu detto:”, e, anziché dire, come avrebbe dovuto, ai padri, agli antichi, per Gesù è qualcosa di vecchio. E questa è la quarta volta che Gesù ripete l’espressione, dice: “Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente”. Questa legge, che è conosciuta come la legge del taglione, che indubbiamente fa orrore per questa vendetta, in realtà, al tempo, fu un progresso, perché la vendetta era illimitata ed era spietata, come racconta, nel libro del Genesi, l’episodio di Lamec, che si vantava: “ho ucciso un uomo per una mia scalfitura ed un ragazzo per un livido”. La frase che Gesù ha citato, è presa dal libro del Deuteronomio, alla fine del capitolo 19, dove l’autore dice: “il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”. Quindi è una legge dove non esiste la compassione, ma bisogna far pagare al colpevole il danno che ha fatto. Ebbene Gesù prende le distanze da tutto questo: “Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. Bisogna tener presente che l’unica volta che Gesù ha ricevuto uno schiaffo, si è guardato bene dal porgere l’altra guancia. Allora che cosa significa questa affermazione di Gesù? Non è un invito ad essere tonti, ma buoni fino in fondo: disinnesca la rabbia, disinnesca l’aggressività dell’altro, con la tua bontà, si tratta di disarmare l’altro, (di) questo si tratta, quindi non passare per stupidi. “E a chi ti vuole portare in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello”, è una persona prepotente, ebbene lasciagli anche quello che non poteva prendere, il mantello serviva anche come coperta nella notte, lui s’impaccerà con la tunica, con il mantello, e tu sarai più libero. Quindi Gesù invita ad avere questa piena libertà, tutta basata nel disinnescare l’aggressività degli altri. “Egualmente se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio”, Gesù si rifà alle leggi delle forze di occupazione, che imponevano degli esercizi forzati, delle prestazioni forzate alle persone, come sarà per il Cireneo, “tu fanne con lui due”, quindi disarma col tuo amore l’aggressività dell’altro, perché se tu, all’aggressività, rispondi con altra aggressività, questa cresce e
non si sa dove si va a finire. Poi Gesù dà un’indicazione molto, molto chiara per la comunità cristiana: “Da’ a chi ti chiede”. Dare non è perdere, ma è guadagnare, perché si sa che, quando si dà, poi il Padre dona con più abbondanza, “e a chi desidera da te un prestito, non voltare le spalle”, quindi Gesù invita ad avere questa attenzione al bisognoso, a chi ti chiede, senza calcolare. “Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico” ”, al precetto di amare il prossimo, si aggiunge quello dell’odio del nemico. La possiamo trovare questa espressione nei Salmi, per esempio c’è il salmo 139 che dice: “quanto odio Signore quelli che si odiano, quanto detesto quelli che si oppongono a te, li odio con odio implacabile”, quindi si univa l’amore al prossimo, ma con l’odio ai nemici. Con Gesù, nella nuova relazione che c’è con il Padre, con i fratelli, tutto questo viene a cessare: “ma io vi dico amate i vostri nemici”, è un amore generoso, un amore che si fa dono quello che chiede Gesù, e l’amore si fa preghiera: “pregate per quelli che vi perseguitano”, che sono questi nemici. Perché questo? “affinché siate figli del Padre vostro”. Figlio, nella cultura dell’epoca, non s’intende soltanto colui che è nato da qualcuno, ma colui che gli assomiglia nel comportamento, quindi assomigliate al Padre “che è nei cieli”. Qui Gesù, oltre a dare indicazione ai suoi su come comportarsi, ci svela chi è Dio, dice: “egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”. Il profeta Amos in realtà non era d’accordo, il profeta Amos presentava un Dio che rifiutava la pioggia agli ingiusti. No, il Dio di Gesù non è Dio che premia i buoni e castiga i malvagi, ma è un Dio-amore, è un Dio che a tutti, indipendentemente dalla loro condotta, mostra il suo amore. Come ha detto Gesù, fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, non soltanto su chi lo merita, ma su tutti quelli che ne hanno bisogno. Gesù passa dalla teoria della dottrina del merito, a quella del dono: Dio non ama i suoi, non ama le creature per i loro meriti, ma per i loro bisogni. E commenta Gesù: “infatti se amate quelli che vi amano quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?”, i pubblicani erano le persone ritenute trasgressori di tutti i comandamenti, i più lontani da Dio. “E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?”, quindi Gesù cita pagani e pubblicani, le categorie che erano più lontane da Dio. Anche loro sono capaci di salutare chi li saluta e di amare chi li ama, che c’è di straordinario nel fare questo? Allora conclude Gesù: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste»”. Gesù non chiede di essere perfetti come Dio, il che potrebbe far smarrire la persona, l’immensità di Dio, no. Gesù parla di essere perfetti, perfetti significa completi, pieni come, dice, come il Padre, e qual è la perfezione del padre? È quella che abbiamo visto: quella di un amore che si rivolge a tutti, un amore che non guarda i meriti, chi lo meritano, ma guarda i bisogni, questa è all’interno delle possibilità di ogni credente.

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un vescovo che dice pane al pane e vino al vino

“di preti baroni non ne abbiamo bisogno, e di vescovi arroganti neppure!!!”

mons. Giovanni Accolla, arcivescovo di Messina, Lipari e S. Lucia del Mela

 
 
“Se non ci sporchiamo le mani con le persone che incontriamo in mezzo alla strada, siamo baroni del culto, abbiamo una mentalità feudale, torniamo ai tempi di don Rodrigo e dell’Innominato, pensiamo che i nostri fratelli siano pecore senza teste, pensiamo che gli altri debbano essere continuamente assoggettati a noi”
mons. Giovanni Accolla,
arcivescovo di Messina, Lipari e S. Lucia del Mela

dall’omelia  della messa di insediamento

nella Concattedrale di S. Maria Assunta

di S. Lucia del Mela
04 febbraio 2017
E’ importante che una comunità sappia cogliere i doni che vengono dall’ascolto della Parola di Dio e valorizzarli nell’ambito famigliare, nell’ambito civile ed ecclesiale
Dobbiamo dare il giusto valore alle formalità, noi non siamo chiamati a salvare le regole, a salvare i palazzi, a salvare le istituzioni, noi siamo chiamati a dare risposte alle persone, alle persone che incontriamo lungo la strada, piccoli o grandi, belli o brutti, intelligenti o ignoranti non ha importanza. Ma dove c’è una profonda e ricca dimensione di umanità quell’altro diventa la vera autentica immagine di Gesù, quella icona, quel volto di Gesù verso cui ognuno di noi è proteso, in atteggiamento di adorazione e di rispetto
Siamo chiamati ad interiorizzare le pratiche religiose, perché le pratiche religiose diventano pii esercizi, che riempiono di incensi le chiese, di canti le chiese, di organizzazioni le chiese, ma se non riempiono di amore vero il cuore dei cristiani nella gioia della condivisione, sono pratiche vuote!! Sono pratiche che non dicono niente!! Non è un atto di preghiera e di adorazione del Signore, ma diventa un atteggiamento e una pratica che dissacra la sacralità dell’amore di Dio per noi. …
Quindi dobbiamo ripartire da una dimensione interiore di vita che ci rinnova …
Attenzione ai ruoli istituzionali che diventano luoghi di sfruttamento e non di servizio …
tutti politici, sindaci, preti tutti quanti abbiamo bisogno di riscoprire in maniera forte la dignità delle persone, altrimenti siamo soggetti che occupando dei posti, li abbiamo sequestrati alla giustizia! Siamo dei signori che nel nostro ruolo abbiamo assunto un atteggiamento di prepotenza e non di amore e di servizio verso i cittadini o verso i fedeli, secondo l’ambito nel quale ci muoviamo. Diventiamo dei piccoli ducetti che pensano di riempirsi i fianchi perché finalmente hanno espresso un pizzico di potere.
E’ necessaria una rivoluzione interiore, lo dico con forza, ma lo dico con tanta gioia:  
Signore dacci il dono di una vera ed autentica conversione, dacci la gioia che i gesti che noi poniamo esprimano realmente ciò che noi viviamo verso di te, Tu sei il Dio che ci ha incontrato, noi siamo i figli tuoi, che vogliamo vivere quotidianamente la gioia dell’incontro e non il fastidio dello scontro
Se non ci facciamo ultimi e poveri con i fratelli più disagiati, non stiamo camminando alla sequela di Gesù.
Il pastore nel suo ministero è chiamato a dare sapore nella vita della comunità a lui affidata. Sapore, si deve sentire il profumo in siciliano “u ciauru”, ed essere luce del mondo, non con le chiacchiere, ma con la testimonianza di vita.
 
Se non ci sporchiamo le mani con le persone che incontriamo in mezzo alla strada, siamo baroni del culto, abbiamo una mentalità feudale, torniamo ai tempi di don Rodrigo e dell’Innominato, pensiamo che i nostri fratelli siano pecore senza teste, pensiamo che gli altri debbano essere continuamente assoggettati a noi.
La prima legge non è il diritto canonico, la prima legge è la legge dell’amore che scaturisce direttamente dalla chiamata di Dio per noi. Di preti baroni non ne abbiamo bisogno, e di vescovi arroganti neppure!!!
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i paesi che ci sembrano più poveri sono solo più impoveriti e sfruttati

 

“laudato si’ ”  in El Salvador

Tonio Dell’Olio

in Mosaico dei giorni

 

 

Non smetteremo mai di ricordarlo: i Paesi più poveri sono i più ricchi! Semplicemente sono sfruttati, depredati delle loro materie prime, ovvero delle loro immense ricchezze.

“Aiutarli a casa loro” non significa mettere in campo progetti umanitari di assistenza ma più semplicemente fare in modo che le multinazionali dell’agricoltura e dell’estrattivismo, abbandonino quei territori permettendo alle popolazioni locali di utilizzare le proprie risorse. Ma questo renderebbe più povero il Nord del mondo e non ci conviene.

Lo scorso anno la Oceana Gold (prima era la Pacific Rim Mining Corp.) aveva denunciato il governo del piccolissimo El Salvador perché negava i permessi di estrazione e per questo chiedeva un risarcimento di 250 milioni di dollari per i mancati guadagni. Per fortuna in ottobre lo Stato ha vinto la causa. Ma il problema rimane perché, secondo le Nazioni Unite, El Salvador ha il più alto grado di degrado ambientale nella regione dopo Haiti. Solo il 3% della foresta naturale rimane incontaminata, i terreni sono compromessi da pratiche agricole ed estrattive che eliminano la biodiversità, inquinano e riducono in miseria i campesinos che non hanno più nemmeno quel pezzetto di terra da coltivare per il proprio fabbisogno. Il 6 febbraio scorso i vescovi salvadoregni hanno chiesto all’Assemblea Legislativa di emanare una legge per vietare l’estrazione dei metalli da parte di compagnie minerarie transnazionali. È il risultato di una campagna della Caritas e dell’Università CentroAmericana (Gesuiti) che ha documentato i danni provocati all’ambiente e alla popolazione.

Si tratta di tradurre in pratica l’Enciclica Laudato si’.

Né più né meno.

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papa Francesco scrive la prefazione al libro di una vittima di un prete pedofilo

 

 

“chiedo perdono per i preti pedofili un segno del diavolo saremo severissimi”

di papa Francesco

in “la Repubblica” del 13 febbraio 2017

due anni fa l’ex sacerdote svizzero Daniel Pittet, poi sposato e padre di sei figli, ha incontrato il Pontefice in Vaticano e gli ha raccontato la sua storia. Che adesso è pubblicata nel libro

“la perdono, padre”

(Edizioni Piemme)

ecco la prefazione, scritta dal Papa

Per chi è stato vittima di un pedofilo è difficile raccontare quello che ha subito, descrivere i traumi che ancora persistono a distanza di anni. Per questo motivo la testimonianza di Daniel Pittet è necessaria, preziosa e coraggiosa. Ho conosciuto Daniel in Vaticano nel 2015, in occasione dell’Anno della vita consacrata. Voleva diffondere su larga scala un libro intitolato “Amare è dare tutto”, che raccoglieva le testimonianze di religiosi e religiose, di preti e di consacrati. Non potevo immaginare che quest’uomo entusiasta e appassionato di Cristo fosse stato vittima di abusi da parte di un prete. Eppure questo è ciò che mi ha raccontato, e la sua sofferenza mi ha molto colpito. Ho visto ancora una volta i danni spaventosi causati dagli abusi sessuali e il lungo e doloroso cammino che attende le vittime. Sono felice che altri possano leggere oggi la sua testimonianza e scoprire a che punto il male può entrare nel cuore di un servitore della Chiesa. Come può un prete, al servizio di Cristo e della sua Chiesa, arrivare a causare tanto male? Come può aver consacrato la sua vita per condurre i bambini a Dio, e finire invece per divorarli in quello che ho chiamato «un sacrificio diabolico», che distrugge sia la vittima sia la vita della Chiesa? Alcune vittime sono arrivate fino al suicidio. Questi morti pesano sul mio cuore, sulla mia coscienza e su quella di tutta la Chiesa. Alle loro famiglie porgo i miei sentimenti di amore e di dolore e, umilmente, chiedo perdono. Si tratta di una mostruosità assoluta, di un orrendo peccato, radicalmente contrario a tutto ciò che Cristo ci insegna. Gesù usa parole molto severe contro tutti quelli che fanno del male ai bambini: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Matteo 18, 6). La nostra Chiesa, come ho ricordato nella lettera apostolica “Come una madre amorevole” del 4 giugno 2016, deve prendersi cura e proteggere con affetto particolare i più deboli e gli indifesi. Abbiamo dichiarato che è nostro dovere far prova di severità estrema con i sacerdoti che tradiscono la loro missione, e con la loro gerarchia, vescovi o cardinali, che li proteggesse, come già è successo in passato. Nella disgrazia, Daniel Pittet ha potuto incontrare anche un’altra faccia della Chiesa, e questo gli ha permesso di non perdere la speranza negli uomini e in Dio. Ci racconta anche della forza della preghiera che non ha mai abbandonato, e che lo ha confortato nelle ore più cupe. Ha scelto di incontrare il suo aguzzino quarantaquattro anni dopo, e di guardare negli occhi l’uomo che l’ha ferito nel profondo dell’animo. E gli ha teso la mano. Il bambino ferito è oggi un uomo in piedi, fragile ma in piedi. Sono molto colpito dalle sue parole: «Molte persone non riescono a capire che io non lo odii. L’ho perdonato e ho costruito la mia vita su quel perdono». Ringrazio Daniel perché le testimonianze come la sua abbattono il muro di silenzio che soffocava gli scandali e le sofferenze, fanno luce su una terribile zona d’ombra nella vita della Chiesa. Aprono la strada a una giusta riparazione e alla grazia della riconciliazione, e aiutano anche i pedofili a prendere coscienza delle terribili conseguenze delle loro azioni. Prego per Daniel e per tutti coloro che, come lui, sono stati feriti nella loro innocenza, perché Dio li risollevi e li guarisca, e dia a noi tutti il suo perdono e la sua misericordia.

“ho svelato a Francesco i miei quattro anni di inferno e lui ha pianto insieme a me”

intervista a Daniel Pittet

a cura di Caterina Pasolini
in “la Repubblica” del 13 febbraio 2017

«Avevo solo otto anni. Ero un bambino timido, fragile. Lui era il prete: simpatico, premuroso con me, un ragazzino senza famiglia, mamma depressa, padre che l’aveva accoltellata quando mi aspettava. Avrebbe dovuto proteggermi, invece ha percepito la mia debolezza, il vuoto e ne ha approfittato. Mi ha stuprato per quattro anni, ha abusato di me senza sensi di colpa né rimorsi. Ha fatto lo stesso impunemente con altri cento ragazzi»

Daniel Pittet, 57 anni di Friburgo, è un uomo che ha attraversato l’inferno e ne è uscito dopo anni di terapia trovando la forza di denunciare le violenze subite. Parla perché altri bambini non subiscano da chi dovrebbe proteggerli, perché la chiesa denunci chi abusa. Ha moglie e sei figli a cui ha raccontato tutto della sua infanzia ferita, di quel prete che per lui rappresentava potere e saggezza e si è rivelato un aguzzino. Di una chiesa che l’ha tradito, senza fargli perdere la fede. Era il 1968, aveva otto anni…

«Con una scusa mi ha portato in una stanza. Ha chiuso la porta. Non potevo scappare ero impietrito. Quando ha finito di usarmi mi ha detto: questo rimane tra noi. A chi avrei potuto dirlo, chi mi avrebbe creduto? A casa erano tutti religiosi, credevano nell’autorità della chiesa, non mi avrebbero mai dato retta. Ho passato anni a pensare che ero l’unico a subire quei pomeriggi da incubo, a cercare di dimenticare il suo corpo addosso al mio».

Nel libro lei usa parole e immagini crude, non risparmia nulla dello strazio subito tra foto che celano il segreto di un ragazzino vestito da chierichetto: capelli lunghi, gli occhi ingenui, il sorriso triste. Nessuno ha mai sospettato?

«Per anni mi sono domandato se gli adulti sapessero e facessero finta di non capire. Mi sembrava impossibile che mia madre non intuisse. Solo la mia maestra notando che andavo male a scuola, che ero sempre più solo, chiuso e timido mi ha mandato da un medico ma non so se era un cattivo dottore o si è spaventato, so solo che non ha fatto le domande giuste per aiutarmi a trovare il coraggio di parlare. Così il segreto è rimasto fino a quando la mia prozia ha capito e sono uscito dall’inferno. Avevo 12 anni».

Quando ha denunciato?

«Dopo anni di terapia ho trovato le parole per dirlo nel 1990, da allora continuo ad incontrare giovani che hanno subito gli stessi abusi. Li riconosco, vedo in loro la stessa fragilità, la fatica di vivere che mi porto dietro quotidianamente e mi spinge a fare per dare un senso alla mia esistenza. Perché chi viene abusato resta segnato per sempre, rischia il suicidio, la pazzia, spesso viene rifiutato dalla famiglia, visto che il 90 per cento degli abusi lì avviene, e dal gruppo sociale. Escluso, trattato come una paria perché ha detto la verità. Senza contare che, se non aiutato, rischia di ripetere su altri le violenze subite: l’80 per cento dei pedofili è stato un bambino stuprato».

Cosa ha fatto la chiesa?

«Ha mentito. Mi hanno detto che lo avrebbero allontanato, che non avrebbe più potuto fare del male. Dieci anni dopo ho scoperto che lo avevano mandato in Francia, dove ha continuato ad abusare ragazzini».

Chi copre i colpevoli?

«In Svizzera le cose sono cambiate ma in Francia e in Italia a quanto so ben poco. Per questo sono importanti le parole del Papa. Perché ci sono pedofili nelle parrocchie ma anche nelle alte gerarchie che fanno finta di nulla, spostano i sacerdoti pedofili in un’altra chiesa come se questo risolvesse il problema. Mantengono il segreto e nuovi bambini sono vittime».

Ha incontrato il suo aguzzino?

«L’anno scorso. Era vecchio, ho faticato a riconoscere l’orco della mia infanzia. Mi ha guardato, ho visto la sua paura. Ma non mi ha chiesto scusa, non mi è sembrato pentito di tutto il male che ha fatto».

Eppure lei lo ha perdonato

«In lui ho visto un malato e lui non c’entra con la mia fede che resta intatta, ma continuo a battermi perché la chiesa rompa il silenzio e denunci i pedofili».

Cosa le ha detto il Papa?

«Ci siamo incontrati due anni fa. Mi ha chiesto: dove trovi la forza, il tuo spirito missionario? Non era mai soddisfatto della risposta. Alla fine gli ho detto: Padre sono stato violentato da un sacerdote. Mi ha guardato in silenzio con le lacrime agli occhi e mi ha abbracciato. Ora queste le sue parole cosi forti e coraggiose di condanna alla pedofilia, al segreto che uccide».

 

 

 

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imparare dai poveri – un esempio di gemellaggio di amicizia e di fede

la croce nel ghetto

di Paolo Affatato
in “La Stampa-Vatican Insider” del 11 febbraio 2017

una lacrima riga il volto di Regina, 40enne nigeriana. Per l’ennesima volta, nei giorni scorsi, la sua baracca è stata devastata da un incendio e ora non ha nemmeno più quel riparo di lamiera e cartoni che conteneva un giaciglio di fortuna, vestiti e scarpe rimediati dalla Caritas, qualche oggetto personale

Siamo nel Grande ghetto di Rignano Garganico, in provincia di Foggia, l’esteso insediamento di baracche abitate da immigrati che si trova in una desolata campagna dell’estesa pianura pugliese. Il campo accoglie oltre duemila stagionali che migrano nel Tavoliere per il lavoro agricolo, spesso restando vittima del racket dello sfruttamento, se non della vera e propria criminalità organizzata. Proprio in questa «periferia delle periferie», comunità multietnica e multireligiosa (vi sono cristiani e musulmani) creatasi spontaneamente, è nata un’esperienza di prossimità evangelica che coinvolge, in un gemellaggio di amicizia e di fede, la comunità dei battezzati di una chiesa parrocchiale del vicino capoluogo. La comunità parrocchiale di Gesù e Maria a Foggia, guidata dai frati francescani, è da sempre molto attiva in iniziative di solidarietà e nella vicinanza ai poveri. Frutto di questa sensibilità evangelica è il Centro di prima accoglienza “Sant’Elisabetta d’Ungheria”, struttura caritativa che da trent’anni è un punto di riferimento per l’intero territorio. Frati e laici francescani vivevano quella che Ignazio di Loyola definisce «santa inquietudine» nel sapere che, a pochi chilometri dalle loro case, vi fosse quell’esteso accampamento di immigrati, lavoratori stagionali, famiglie, giunto alla ribalta delle cronache nazionali come esempio di degrado della vita dei residenti o citato per raccontare la piaga del caporalato. Per questo, nell’Anno della misericordia, hanno iniziato a visitare il campo, spinti dall’emergenza dichiarata dopo la devastazione seguita ai periodici incendi di tende e baracche. Si è così stabilita una relazione di amicizia con la comunità locale e, grazie alla presenza di sacerdoti francescani, ben presto la fede e la preghiera sono divenuti un terreno comune che ha generato un circolo virtuoso di aiuto, solidarietà, reciprocità di relazioni umane. Quel movimento di «Chiesa in uscita», che risponde all’invito di Papa Francesco «non è stato e non vuol essere un andare a far del bene ai poveri», spiega a Vatican Insider Roberto Ginese, laico francescano e responsabile della Caritas parrocchiale.

«È piuttosto frutto del desiderio di essere a loro fianco come fratelli e di imparare da loro. I poveri sono nostri maestri, diceva san Vincenzo de Paoli e ripeteva spesso don Tonino Bello, vescovo e francescano secolare pugliese. C’è uno scambio alla pari di esperienze, valori e capacità di vivere la fede in situazioni tanto differenti», racconta.

Questo rapporto non è più episodico ma si è ora consolidato con un vero e proprio gemellaggio, siglato come degna conclusione dell’Anno giubilare: «Dopo i momenti di incontro, preghiera e solidarietà – recita la solenne dichiarazione congiunta firmata dai volontari e da Gerard, il rappresentante del ghetto – che ci hanno permesso di entrare in contatto con la piccola comunità cristiana presente nel territorio definito Gran ghetto di Rignano, la comunità parrocchiale di Gesù e Maria stringe un patto di amicizia e gemellaggio e si impegna a promuovere un reciproco scambio di esperienze, per favorire una cultura di accoglienza, rispetto e pace tra i popoli». Oltre a far conoscere meglio la realtà del ghetto alle altre comunità ecclesiali del territorio di Foggia, il patto intende contribuire ad allargare le basi della solidarietà, necessaria non solo per gli aiuti economici, ma anche e soprattutto per promuovere un sostegno umano e spirituale agli abitanti del ghetto. In particolare si cura e si accompagna la vita di fede dei battezzati che vivono nel ghetto, assicurando la celebrazione dei sacramenti, accanto a una serie di interventi che mirano a migliorare le condizioni di vita dei residenti.
La messa celebrata nel ghetto dopo l’incendio che ha devastato l’intero campo, in una surreale chiesa coperta solo da uno scheletro di travi assemblate alla meglio, è stata il momento-clou che dà la cifra di una presenza che si può riassumere solo con una parola: fratelli. Un altro segno visibile dello spirito di prossimità è stata la Croce di Lampedusa, costruita con i resti dei barconi e benedetta da Papa Francesco, giunta in visita all’interno del ghetto durante il Giubileo. «Quella croce vuole ricordare che Cristo viene ad abitare tra i poveri.

La croce è stata portata a spalla dai volontari, in una speciale via crucis, per tutto il ghetto, sotto gli occhi dei migranti per la maggior parte musulmani, che hanno l’hanno accolta con devozione», osserva Ginese. La visita è stata ben presto ricambiata: la sera della vigilia di Natale gli immigrati del ghetto hanno partecipato, in un clima di fraterna e generale commozione, alla solenne celebrazione eucaristica nella chiesa di Gesù e Maria. Il movimento «in uscita» ha generato uno speculare moto «in entrata» che caratterizza l’oggi e sarà coltivato in vista della Pasqua e in futuro.

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la pedofilia è al 99,9 per cento dei casi solo un crimine non una malattia

pedofilia

don Di Noto

“non è una malattia ma un crimine”

La pedofilia “non è una malattia, ma un crimine”. Lo chiarisce don Fortunato Di Noto, fondatore e presidente di Meter, in una riflessione inviata al Sir. “È importante – sottolinea – non confondere la pedofilia (come malattia psichiatrica) e la capacità di intendere e volere: nel 99,9% dei casi, infatti, le condotte pedofile sono condotte lucide e quindi perseguibili penalmente”

Si tratta, perciò, di “una semplice devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive della persona, che non implica una deresponsabilizzazione penale”, nonché costituisce “una nuova forma di schiavitù che ha legami con il traffico di esseri umani, la sottrazione, la schiavitù e l’orrore dello sfruttamento sessuale del minore”. Il sacerdote rimarca il dilagare “senza sosta” di questa “realtà attuale e tragica”, “favorita dall’indifferenza di molti e da quella cultura economica che quantifica in denaro tutto ciò che è mercificabile”, “amplificata globalmente dalla pedopornografia online e sostenuta dai vari e molteplici movimenti pro-pedofili, che giustificano tale devianza sessuale ritenendola come un orientamento sessuale che la società deve accettare socialmente, politicamente, culturalmente e religiosamente”. “La rete dei trafficanti e dei pedofili – prosegue – si è ben inserita all’interno delle nostre stesse libertà”.

Don Di Noto ricorda quindi come vi sia “un binomio inscindibile” tra “pedofilia e responsabilità”, che esclude la giustificazione della malattia. “Infatti se diciamo che un pedofilo è un malato come può essere malato uno con la febbre a 38, lo rendiamo non imputabile. E se non è imputabile davanti ai tribunali – s’interroga – come possiamo fare prevenzione e poi come possiamo portare un prete pedofilo o un pedofilo davanti ad un giudice?”.

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