il capitalismo si avvantaggia se restiamo infantili ma … consumatori

perché il capitalismo ci preferisce infantili, capricciosi e precari

Diego Fusaro

il tentativo è rendere la società per sempre giovane, cioè dedita al consumo senza autorità e al ribellismo verso le forme mature dell’eticità borghese

consumismo-ansa

La forma repressiva del capitalismo dialettico si è da tempo capovolta in quella permissiva del capitalismo assoluto: il suddito diventa consumatore la cui libertà si estende senza limiti fin dove si estende la sua capacità di acquisto. Alla morte di Dio segue, dunque, l’avvento non già dell’Oltreuomo profetizzato da Nietzsche, bensì del consumatore senza identità e senza spessore. Questi, a differenza dell’uomo maturo in grado di dire di no, deve essere permanentemente nella condizione del ragazzo immaturo, in balìa di desideri ai quali può soltanto cedere e ai quali, come Pinocchio nel Paese dei Balocchi, non è in grado di porre fine.

Il sistema della finanza planetaria e flessibile è, per sua natura, giovanilistico non solo perché nega la possibilità delle forme mature dell’eticità e vive di quella precarietà che caratterizza fisiologicamente la fase giovanile. Accanto a questi motivi, vi è anche il collegamento tra consumismo e giovinezza, ossia la propensione degli individui di età giovane all’acquisto incontrollato di merci, alla flessibilità degli stili di vita, al godimento disinibito, al ribellismo verso le norme stabili.

A differenza dell’uomo maturo borghese, progettuale e stabilizzato nelle forme di esistenza alle quali ha scelto di consegnarsi, l’eterno giovane post-borghese e ultra-capitalistico vive l’eterno presente instabile e non stabilizzabile dell’adolescenza perpetua estesa a ogni età dell’esistenza, centrata sul godimento aprospettico, aprogettuale e senza differimenti del life is now. La vita cessa di essere concepita e vissuta come un progetto fondato sulla stabilizzazione delle sue forme: prende a essere intesa come successione rettilinea e puntiforme di istanti sconnessi ed episodici, autonomi e tutti volti in senso esclusivo alla massimizzazione aprospettica del momento.

Il giovane si riconferma, così, il soggetto ideale per l’adesione al modello consumistico americano-centrico, per il nichilismo anarco-consumistico delle moltitudini eternamente giovani, instabili, anglofone e immature. Ed è per questa ragione che la tendenza del capitalismo flessibile coincide con l’infantilizzazione del mondo della vita, ossia con il tentativo di rendere la società permanente giovane, cioè dedita al consumo senza autorità e al ribellismo verso le forme mature dell’eticità borghese (negate realmente dalla logica del capitale e avversate ideologicamente dai giovani).

Il capitalismo flessibile e precario è, per sua stessa natura, giovanilistico. Esalta il giovane, perché esso – senza diritti e senza maturità, senza stabilità e biologicamente precario e in fieri – è il suo soggetto antropologico privilegiato; e questo non solo per via della scarsa compatibilità delle fasce non giovani con la nuova logica flessibile (da cui il sempre ribadito invito che la tirannia della pubblicità rivolge anche ai non giovani a vivere come se lo fossero), ma anche in ragione del fatto che il nuovo assetto della produzione e del consumo coarta l’intero “parco umano” a vivere alla stregua dei giovani, ossia in forme provvisorie, precarie e mai mature, perennemente in attesa di un assestamento sempre differito. Il capitalismo flessibile ci vuole tutti eternamente giovani, perché, a prescindere dall’età, permanentemente immaturi e non stabilizzati, disposti ad accettare di buon grado le forme coattive della precarietà e del mondo della vita deeticizzato.

D’altro canto, se oggi si è considerati “diversamente giovani” fino a cinquant’anni, è perché si è idealmente precari fino al termine della propria attività lavorativa, sia nella vita sociale sia in quella affettiva, incapaci cioè di stabilizzare la propria esistenza nelle tradizionali forme dell’etica borghese e proletaria, ormai superata dal nuovo modo della produzione flessibile, post-borghese e post-proletario.

L’imperativo del tutto e subito

La maturità borghese dell’età adulta con possibile coscienza infelice è stata sostituita dall’immaturità post-borghese con incoscienza felice dell’età giovanile. La capacità di progettare futuri stabilizzando l’esistenza mediante le forme della vita etica e mediante l’intreccio ragionato di legge e desiderio quale si esprime nell’austero imperativo categorico kantiano, ha ceduto il passo al presentismo assoluto e aprospettico della fase odierna del finanz-capitalismo. In essa, l’instabilità come cifra dell’esistenza, con la sua strutturale impossibilità di sedimentarsi in forme fisse, non permette la progettazione dell’avvenire. Impone, come unico imperativo, quello sadiano del godimento immediato e senza misura, autistico e tutto proiettato nell’hic et nunc di un presente pensato, pur nella sua instabilità, come sola dimensione temporale disponibile.

In questo scenario di deeticizzazione in atto e di precarizzazione forzata del lavoro e delle esistenze, i giovani costituiscono indubbiamente il nucleo di un progetto – silenzioso quanto violento – di mutazione antropologica orientato a trasformarli nel nuovo soggetto assoggettato al paradigma della società capitalistica planetaria.

 

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contro la ‘mediocrazia’

mediocri di tutto il mondo vi siete uniti

e avete vinto

parla il filosofo canadese Alain Deneault, autore del longseller internazionale “a mediocrazia”

“l’unico antidoto è il pensiero critico”

Alain Deneault è nato a Outaouais, Quebec, nel 1970. I suoi studi si sono concentrati sulla filosofia tedesca
e francese del XIX e XX secolo, in particolare sull’opera di Georg Simmel. A Torino, al Circolo dei lettori, presenterà con Marco Revelli il suo libro ‘la mediocrazia’, edito da Neri Pozza

Il mondo è dei mediocri. Sarà che è un assunto non difficile da sperimentare – e anche consolatorio per spiegarsi certi successi o insuccessi ugualmente distanti dalle vette del genio e dagli abissi dell’indegnità – ma il saggio La mediocrazia (Neri Pozza, pp. 239, € 18) del filosofo canadese Alain Deneault a un anno dall’uscita è ormai un longseller internazionale. E dire che in centinaia di pagine, dense di pensiero e di citazioni, ne ha davvero per tutti. In politica, da Trump a Tsipras, vede solo un «estremo centro», nell’impresa la «religione del brand», il «consumatore-credente», la «dittatura del buonumore». Nel lavoro «devitalizzato» individua la skill fondamentale nel «fare propria con naturalezza l’espressione: alti standard di qualità nella governance nel rispetto dei valori di eccellenza». E, in ogni ambito, rileva certi tic verbali come «stare al gioco», «sapersi vendere», «essere imprenditori di se stessi». Insomma, dice, «non c’è stata nessuna presa della Bastiglia ma l’assalto è avvenuto: i mediocri hanno preso il potere».

 

 ha parlato al Wired Fest, il festival dell’innovazione, altra parola che non manca nel vocabolario mediocratico

 

Professor Deneault, l’ha colpita questo successo? Anche perché a molti che la leggono lei dice in faccia che sono dei mediocri…

«Mi aspettavo un’eco molto più ristretta, ma questo libro parla di un malessere sociale condiviso da molti. Detto ciò, ho cercato di evitare moralismi e di puntare il dito. Lo scopo era indicare la pressione sociale molto forte che incoraggia a restare persone “qualunque”».

Lei è stato particolarmente duro con il mondo accademico a cui appartiene. Qualcuno si è offeso?

«Sì, visto che sono stato bandito. Tengo corsi stagionali, la mia presenza è episodica. Gli ambienti universitari formano sempre meno una élite capace di gettare luce sulla strada giusta da seguire per l’uomo comune. Sono più simili a una corte d’altri tempi, vendono risultati di ricerca a dei finanziatori. Molta autocensura, molti format replicati per far piacere al potere».

Ha avuto critiche «non mediocri»?

«Nell’era della mediocrazia non si discute più… i pensieri seguono dei corridoi, si preferisce ricevere notizie che confortino».

Perché bisogna temere la mediocrazia?

«Perché fa soffrire. Chiede a persone impegnate nel servizio pubblico di gestire come si trattasse di una organizzazione privata, così si trovano in conflitto perché avevano un’etica diversa; chiede a ingegneri di progettare oggetti che si rompano in maniera deliberata perché vengano sostituiti, chiede ai medici di diagnosticare malattie che potrebbero diventare davvero pericolose a 130 anni… Senza parlare della manipolazione dei consumatori da parte del marketing».

La mediocrazia è anticamera di dittature, anche edulcorate?

«La dittatura è psicotica, la mediocrazia è perversa. Psicotica perché la dittatura non ha alcun dubbio su chi deve decidere. Hitler, Mussolini, Tito sono stati tutti personaggi ipervisibili, affascinanti, che schiacciano con le loro parole; la mediocrazia è perversa perché cerca di dissolvere l’autorità nelle persone facendo in modo che la interiorizzino e si comportino come fosse una volontà loro».

L’inglese standard è la lingua ufficiale della mediocrazia?

«L’inglese manageriale sì, e uccide l’inglese. È un suicidio linguistico parlare questa lingua quando si è anglofoni, non si può pensare il mondo nella sua complessità o qualsiasi fenomeno sociale utilizzando un vocabolario che non è utile se non alla organizzazione privata».

Tecnologia, social, colossi del web. Anche lì domina la mediocrazia?

«Dobbiamo immunizzarci da un certo lessico che parla di progresso, innovazione, eccellenza. Mi interessa che si utilizzino questi strumenti ma si deve analizzare l’impatto che hanno su pensiero, morale, politica. Un utilizzo mirato dei social media, per esempio durante le elezioni, può rendere le persone estremamente manipolabili».

Il contrario del mediocre è il superuomo, l’eroe?

«No. L’antidoto è il pensiero critico, perché smaschera l’ideologia, che è un discorso di interessi sotto la parvenza di scienza. E fa subire un trattamento critico analitico a una nozione che qualcuno ci vuole ficcare nel cervello, per esempio l’inevitabilità della vendita di armi o di una nuova autostrada».

È più ottimista sul futuro?

«Qualsiasi impegno politico è a metà tra lo scoraggiamento e la speranza. Ed è proprio quando la situazione è scoraggiante che ci vuole il coraggio».

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come si spiega l’odio per i poveri?

“aporofobia”

perché odiamo così tanto i poveri

“il povero viene a rompere la comodità”

la diagnosi della filosofa Adela Cortina sul nuovo male della nostra epoca: l’odio verso i poveri

Aporofobia, l'odio verso i poveri

aporofobia

l’odio verso i poveri

“ricchi non incontrano i poveri, i ricchi non vedono e non vogliono vedere o ascoltare le storie di vita disperate, il povero è da evitare, è disdicevole, in qualche modo perfino colpevole della propria condizione”

Il tema della povertà rappresenta un problema difficile da affrontare, spesso è pure complessa la definizione di povertà. La povertà intesa non solo come povertà materiale ma anche come assenza di un progetto di vita autonomo scaturente dall’impossibilità o incapacità di utilizzare un reddito o un bene che si possiede per migliorare e assicurarsi una qualità di vita.

Il discorso sul concetto di povertà si sposta verso il significato umano dell’essere poveri riflettendo sulle trasformazioni delle forme di povertà e sulle differenze di percezione dello “stato di povertà” nel passato e nel presente. Un’analisi che conduce al riconoscimento delle vecchie e delle nuove povertà che non godono di ampia visibilità ma che dovrebbero essere continuamente menzionate con maggior attenzione, analisi e approfondimento. Le condizioni di povertà non si misurano a mio parere solo sul reddito perché come diceva il Nobel per la pace Amartya Sen: “è inutile avere un reddito se non hai la capacità, la possibilità di utilizzare un bene o denaro, per migliorare e assicurare una migliore qualità di vita”.

Essere poveri, se dobbiamo sintetizzare, significa trovarci di fronte a persone che non hanno un reddito da lavoro e una casa, dei beni materiali; ma non solo, sono povere anche quelle persone che non sono in grado, pur avendo un reddito e una casa, di servirsene o coloro che non hanno accesso ad un’istruzione sufficiente tale da permettere loro di agire con libertà e autonomia, per esempio nel mercato del lavoro. E, in più, non avere accesso a quelle condizioni di benessere psicofisico per esprimere al meglio tutte le proprie potenzialità in quanto persone.

Nel suo ultimo libro, “Aporofobia, il rifiuto del povero”, Adela Cortina (Valenzia, 1948), cita Ortega per dire quanto segue: ciò che sta capitando è che non sappiamo quello che ci capita. Cosa passa nella testa di un uomo davanti al corpo di un mendicante o di un barbone avvolto nel suo vomito nei pressi di un aeroporto? Che ci capita nella metro quando li rendiamo invisibili affinchè non ci disturbino? Cosa succede a questa donna, mettiamo il caso, cattedratica di Etica, filosofia, intellettuale, laureata e oltre, quando le si avvicina un familiare indigente che non ha un euro, e che le chiede aiuto economico?
Alcune risposte le troviamo dentro il saggio scritto da Adela Cortina sull’avversione viscerale verso coloro che vivono nell’indigenza. “Dopo la crisi – scrive l’autrice –  la gente teme che “gli altri” gli portino via le cose: l’impiego, la casa… “.
Quello che disturba è il povero. Incluso il povero della propria famiglia. Un parente povero è qualcosa da nascondere, perchè a tutti piace presumere che i parenti siano tutti ben sistemati.
Se c’è un rifiuto del povero, l’opposto è che tutti adoriamo il ricco, in qualche modo? E’ una delle frasi del libro. Curiosamente – scrive l’autrice – è di Adam Smith, che si suppone sia l’economista che ha creato il liberismo economico. Nel suo libro “La teoria dei sentimenti morali dice che la corruzione del carattere consiste nell’ammirare i ricchi e disprezzare i poveri, invece di ammirare i saggi e le buone persone e disprezzare gli stupidi. Questa è la corruzione di una società: quando una società disprezza quelli che hanno fallito nella vita, quelli che hanno avuto cattiva sorte, è patologico.

Il muro del Messico, le frontiere dell’Europa – sottolinea la filosofa – hanno a che vedere più con l’aporofobia rispetto ad altre cose. Totalmente, scrive la docente. Quali stranieri disturbano Trump? I messicani. Ma non solo a lui o a certi americani. Ma anche ad altri messicani che sono lì da tempo installati e hanno paura verso chi viene da fuori. Perchè gli altri sono poveri e vengono per complicare la vita. La salita di Le Pen è un altro esempio chiarissimo, quello che succede in Ungheria con Orban, la Brexit… Tutto quello che si fa – rimarca Cortina –  lo si fa per escludere i poveri. Il povero viene a rompere la comodità. Se sta bene e arriva un altro, bisogna muoversi. Perchè hanno bisogno di lavoro, sicurezza sociale. E gli altri arrivano con necessità ed esigenze.

I bambini e i giovani crescono vedendo come si comportano i personaggi politici, come agiscono. Cresciamo molto per imitazione, è la chiave degli essere umani: i famosi neuroni a specchio, che ci portano a imitare gli altri. Per questo è importante che la gente che sta nella vita pubblica cerchi di essere meno egoista e aporofoba possibile.
L’odio ha molto a che vedere con la paura. Credo – scrive la cattedratica – che si agisca più per paura che per altre cose. La paura è molto pericolosa, molto maneggiabile, molto corta, strumento dei totalitarismi.
La parola aporofobia proviene dai termini greci (dal greco: άπορος (á-poros), indigente, povero; e φόβος, (-fobos), paura).

Trent’anni fa, la frattura sociale tra chi non aveva i mezzi di sussistenza e chi li aveva non era così profonda; penso a chi non aveva la terra, penso alle famiglie contadine numerose, per le quali c’era almeno il riconoscimento del valore della forza lavoro, che consentiva anche a chi non aveva altri strumenti, se non le proprie braccia e testa e salute, di poter sopravvivere dignitosamente, mettendosi a servizio di chi invece aveva beni e ricchezza.
Penso anche ai nostri emigrati che nel passato riuscivano a trovare, seppur con grandi sacrifici, una collocazione, un inserimento.

I ricchi non incontrano i poveri, i ricchi non vedono e non vogliono vedere o ascoltare le storie di vita disperate, il povero è da evitare, è disdicevole, in qualche modo perfino colpevole della propria condizione. In mezzo c’è la televisione che mostra un mondo diverso da quello che è, che ti fa desiderare di ambire a consumi impossibili per i livelli di reddito medi reali, “false necessità” che determinano, per molte famiglie, una maggiore spesa a cui poi non si riesce a far fronte, cadendo improvvisamente nel tunnel del debito e della povertà. Andiamo verso una società e una larga fetta di popolazione addormentata, quasi addomesticata, dove tutto passa e vive nella speranza.

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