la sofferenza ci fa sentire abbandonati da Dio

la valle del pianto

“Gesù fu collocato tra gli oppressi, lui che fu ingiustamente condannato e fu crocifisso fuori della città. […] la sua storia non è la storia di un vincitore: fu eliminato dai poteri del momento: egli appartiene al rovescio della storia”

(C. Duquoc)

 

Quando soffriamo ci sentiamo abbandonati da Dio(1). Fatichiamo a riconoscerlo nelle difficoltà: lo riteniamo alternativamente assente o responsabile. Nell’immaginario costruito dalla cultura, o meglio dal passaparola, Dio si riconosce dai risultati economico-sociali. Il facoltoso è benedetto, il povero/malato/migrante maledetto. È stato trasformato in una specie di amuleto: non può convivere con l’insuccesso. In pratica è la proiezione del nostro pseudo concetto di fortuna. Il Dio vincente e potente che rassicura così tanto la nostra razionalità giustificandone la volontà di dominio. Dio posizionato sul trono, in alto, distaccato e così reso conforme al nostro egoismo e disimpegno. Quindi una divinità non incarnata, una specie di supereroe da chiamare in caso di pericolo. Un pronto intervento da coinvolgere al verificarsi di imprevisti. Eppure il Dio rivelato dal Vangelo non sceglie gli onori né la forza. Non si impone, non fa come l’uomo. Desidera rassicurare del suo amore non convincere delle sue prerogative. Passa per la valle del pianto non la sorvola, assume la sofferenza senza vergogna. Continua ad essere Dio nonostante la fragilità sperimentata. Continua ad essere il Santo nonostante la condanna come bestemmiatore/sobillatore. Continua ad essere Misericordia nonostante la sfiducia, il disconoscimento e i fraintendimenti degli uomini. E continua ad essere il Salvatore pur morendo. Dio profondamente umano che, per amore, rompe le catene delle logiche asfittiche del mondo. Uomo profondamente divino che, per amore, patisce la sventura e la violenza prodotte dal mondo.

Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente” (Salmo 84, 7)




“i vecovi ci aiutino a combattere il razzismo”

l’appello degli operatori della chiesa alla Cei:

aiutateci a sconfiggere il razzismo

prelati, suore, capi di associazioni, tutti uniti contro il razzismo:

“non si può essere cristiani e maltrattare i migranti. Fate chiarezza su questo punto”

Vescovi della Cei

vescovi della Cei

Centodieci operatori della Chiesa hanno scritto una lettera aperta alla Conferenza episcopale italiana, con possibilità di essere sottoscritta anche da altri, in cui si esprime preoccupazione per la dilagante “cultura del rifiuto, paura degli stranieri, razzismo e xenofobia, una cultura avallata e diffusa persino da rappresentanti delle istituzioni”.

“Sono diversi a pensare” continua la lettera, “che sia possibile essere cristiani e, al tempo stesso, rifiutare o maltrattare gli immigrati: un vostro intervento, in sintonia con il magistero di Papa Francesco, potrebbe dissipare i dubbi e chiarire da che parte il cristiano deve stare, sempre e comunque”.

A firmare la lettera sono decine di persone tra prelati, religiosi e religiose, ma anche laici, impegnate nella pastorale della Chiesa, da parroci a direttori delle Caritas, da docenti delle università pontificie a responsabili scout, da congregazioni religiose a operatori delle diocesi. La lettera è stata inviata al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana e a tutti i vescovi singolarmente.

“Vi scriviamo per riflettere con voi – si legge nella lettera – su quanto sta attraversando, dal punto di vista culturale, il nostro Paese e l’intera Europa”. Si rileva il dilagare di “razzismo e xenofobia” ma anche “le strumentalizzazioni della fede cristiana con l’uso di simboli religiosi come il crocifisso o il rosario o versetti della Scrittura, a volte blasfemo o offensivo. I recenti richiami, in primis dei cardinali Parolin e Bassetti, al tema dell’accoglienza sono il punto di partenza; ma restano ancora poche le voci di Pastori – sottolineano i firmatari dell’appello – che ricordano profeticamente cosa vuol dire essere fedeli al Signore nel nostro contesto culturale, iniziando dall’inconciliabilità profonda tra razzismo e cristianesimo. Un vostro intervento, in materia, chiaro e in sintonia con il magistero di papa Francesco, potrebbe servire a dissipare i dubbi e a chiarire da che parte il cristiano deve essere, sempre e comunque, come il Vangelo ricorda”.

Nella lettera si evidenzia che nulla

“può fermare in questo impegno profetico: né la paura di essere fraintesi o collocati politicamente, né la paura di perdere privilegi economici o subire forme di rifiuto o esclusione ecclesiale e civile”. “Oggi riteniamo che l’urgenza non sia solo quella degli interventi concreti ma anche l’annunciare, con i mezzi di cui disponiamo, che la dignità degli immigrati, dei poveri e degli ultimi per noi è sacrosanta”.

 




lettera ai vescovi Italiani per contrastare la cultura intollerante e razzista

 

un gruppo di presbiteri e laici ha scritto una lettera ai Vescovi italiani perché intervengano sul dilagare della cultura intollerante e razzista

Roma, 14 luglio 2018

Eminenza Reverendissima Mons. Gualtiero Bassetti, presidente della CEI

Eccellenze Reverendissime, Vescovi delle Chiese Cattoliche in Italia,

vi scriviamo per riflettere con voi su quanto sta attraversando, dal punto di vista culturale, il nostro Paese e l’intera Europa.

Cresce sempre più una cultura con marcati elementi di rifiuto, paura degli stranieri, razzismo, xenofobia; cultura avallata e diffusa persino da rappresentanti di istituzioni.

In questo contesto sono diversi a pensare che è possibile essere cristiani e, al tempo stesso, rifiutare o maltrattare gli immigrati, denigrare chi ha meno o chi viene da lontano, sfruttare il loro lavoro ed emarginarli in contesti degradati e degradanti. Non mancano, inoltre, le strumentalizzazioni della fede cristiana con l’uso di simboli religiosi come il crocifisso o il rosario o versetti della Scrittura, a volte blasfemo o offensivo.

I recenti richiami – in primis dei cardinali Parolin e Bassetti – al tema dell’accoglienza sono il punto di partenza; ma restano ancora poche le voci di Pastori che ricordano profeticamente cosa vuol dire essere fedeli al Signore nel nostro contesto culturale, iniziando dall’inconciliabilità profonda tra razzismo e cristianesimo. Un vostro intervento, in materia, chiaro e in sintonia con il magistero di papa Francesco, potrebbe servire a dissipare i dubbi e a chiarire da che parte il cristiano deve essere, sempre e comunque, come il Vangelo ricorda. Come ci insegnate nulla ci può fermare in questo impegno profetico: né la paura di essere fraintesi o collocati politicamente, né la paura di perdere privilegi economici o subire forme di rifiuto o esclusione ecclesiale e civile.

E’ così grande lo sforzo delle nostre Chiese nel soccorrere e assistere gli ultimi, attraverso le varie strutture e opere caritative. Oggi riteniamo che l’urgenza non sia solo quella degli interventi concreti ma anche l’annunciare, con i mezzi di cui disponiamo, che la dignità degli immigrati, dei poveri e degli ultimi per noi è sacrosanta perché con essi il Cristo si identifica e, al tempo stesso, essa è cardine della nostra comunità civile che deve crescere in tutte le forme di “solidarietà politica, economica e sociale” (Art. 2 della Costituzione).

Grati per la vostra attenzione e in attesa di un vostro riscontro, vi salutiamo cordialmente.

firmatari in ordine alfabetico

  1. Luigi ADAMI, parroco, già delegato diocesano per l’Ecumenismo, Verona
  2. Ambroise ATAKPA, docente Teologia Dogmatica, Pontificia Università Urbaniana, Roma
  3. Maria Cristina BARTOLOMEI, già docente Filosofia della religione, università statale di Milano; socia Coordinamento Teologhe Italiane;
  4. Fernando BELLELLI, già vicario foraneo, presidente dell’ass. Spei lumen, Modena-Nonantola
  5. Renata BEDENDO, docente di Islam, ISSR San Pietro Martire, Verona
  6. Andrea BIGALLI, docente di Cinema ISSR, riv. Testimonianze e Libera Toscana, Firenze
  7. Carlo BOLPIN, presidente Associazione Esodo, Venezia
  8. Giorgio BORRONI, direttore diocesano Caritas e Pastorale Sociale, Novara
  9. Alfonso CACCIATORE, docente di religione e giornalista pubblicista, consulta diocesana di Pastorale Sociale, Agrigento
  10. Liberato CANADA’, direttore diocesano Pastorale Turismo e Tempo Libero, Melfi (Pz)
  11. Anna CARFORA, docente Storia della Chiesa, Facoltà Teologica Italia Meridionale, Napoli
  12. Claudio CIANCIO, docente emerito di Filosofia Teoretica, Università del Piemonte Orientale, Torino
  13. Bruna COSTACURTA, docente di Teologia Biblica, Pontificia Università Gregoriana, Roma
  14. Pasquale COTUGNO, direttore diocesano Pastorale Sociale e Migrantes, Cerignola-Ascoli S. (Fg)
  15. Dario CROTTI, direttore diocesano Caritas, Pavia
  16. Mario CUCCA, docente di Teologia Biblica, Pontificia Università Antonianum e Pontificia Università Gregoriana, Roma
  17. Elena CUOMO, docente di Filosofia Politica, università Federico II di Napoli
  18. Chiara CURZEL, docente di patrologia, Trento
  19. Rocco D’AMBROSIO, docente Filosofia Politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma
  20. Michele DEL CAMPO, direttore diocesano Pastorale Sociale, Prato,
  21. Saverio DI LISO, docente di Filosofia, Facoltà Teologica Pugliese, Bari
  22. Sergio DI VITO, docente, capo AGESCI, Caserta
  23. Simone DI VITO, direttore diocesano Ufficio Scuola e Pastorale Sociale, Gaeta (Lt)
  24. Sergio DURANDO, direttore diocesano e incaricato regionale Migrantes, Piemonte e Valle d’Aosta, Torino
  25. Franco FERRARA, presidente centro studi Erasmo, Gioia (Ba)
  26. Franco FERRARI, presidente associazione Viandanti, Parma
  27. Francesco FIORINO, direttore Opera di Religione G. Di Leo, Mazara del Vallo (Tp)
  28. Domenico FRANCAVILLA, direttore diocesano Caritas, Andria (Bt)
  29. Rita GARRETTA, comunità Orsoline casa Ruth, Caserta
  30. Graziano GAVIOLI, fidei donum Arcidiocesi di Manila, già direttore diocesano Pastorale Scolastica, Modena-Nonatola
  31. Paolo GASPERINI, vicario per la pastorale, Senigallia (An)
  32. Claudio GESSI, incaricato regionale Pastorale Sociale, Lazio, Velletri-Segni
  33. Giorgio GHEZZI rel. sacramentino, volontario Centro Astalli, Roma
  34. Tommaso GIACOBBE, ingegnere, Torino
  35. Annalisa GUIDA, docente Sacra Scrittura, Facoltà Teologica Italia Meridionale, Napoli
  36. Luigi Mariano GUZZO, docente di Beni Culturali, Università Magna Graecia, Catanzaro
  37. Domenico LEONETTI, direttore diocesano Caritas, Sorrento-Castellamare (Na)
  38. Flavio LUCIANO, direttore diocesano e incaricato regionale Pastorale Sociale, Piemonte e Valle d’Aosta, Cuneo
  39. Pierangelo MARCHI, rel. sacramentino, resp. Casa Zaccheo, Caserta
  40. Fabrizio MANDREOLI, docente di Teologia, Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, Bologna
  41. Antonino MANTINEO, docente di Diritto ecclesiastico, Università Magna Graecia,  Catanzaro
  42. Gianni MANZIEGA, prete operaio, direttore redazionale della rivista Esodo, Venezia
  43. Luigi MARIANO, docente di Etica economica, Pontificia Università Gregoriana, Roma
  44. Pietro MARIDA, parroco emerito, Salerno
  45. Virgilio MARONE, direttore diocesano e incaricato regionale Ufficio Scuola, Nola (Na)
  46. Stefano MATRICCIANI, parroco, Roma
  47. Roberto MELIS, direttore diocesano e incaricato regionale Centri Missionari, Piemonte e Valle d’Aosta, Biella (Bi)
  48. Mario MENIN, docente Teologia sistematica, St. Teologico Interd., Reggio Emilia
  49. Carmine MICCOLI, direttore diocesano Pastorale Sociale, diocesi di Lanciano-Ortona,
  50. Luigi MILANO, già direttore diocesano ufficio Catechesi, Sorrento-Castellamare (Na)
  51. Simone MORANDINI, vicepreside Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino, Venezia
  52. Franco MOSCONI, monaco camaldolese, eremo S. Giorgio, Bardolino (Vr)
  53. Mimmo NATALE, direttore diocesano Pastorale Sociale, Altamura-Gravina- Acquaviva (Ba)
  54. Serena NOCETI, docente Teologia Sistematica, ISSR S. Caterina da Siena, Firenze
  55. Emilia PALLADINO, docente di Dottrina Sociale della Chiesa, Pontificia Università Gregoriana, Roma
  56. Giacomo PANIZZA, docente Scienze Politiche, Università della Calabria, vicedirettore Caritas, Lamezia Terme
  57. Fabio PASQUALETTI, decano Facoltà Scienze della Comunicazione, Università Pontificia Salesiana, Roma
  58. Salvatore PASSARI, docente di Filosofia, Torino
  59. Giovanni PERINI, direttore diocesano e incaricato regionale Caritas, Piemonte e Valle d’Aosta, Biella (Bi)
  60. Marinella PERRONI, docente Nuovo Testamento, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma
  61. Enrico PEYRETTI, Centro Studi Sereno Regis, Torino
  62. Giannino PIANA, già docente di Etica cristiana, ISSR Libera Università di Urbino
  63. Vito PICCINONNA, direttore diocesano Caritas, Bari
  64. Fabrizio PIERI, docente di Teologia Biblica, Pontificia Università Gregoriana, Roma
  65. Giuseppe PIGHI, magistrato, capo AGESCI, Modena
  66. Elisabetta PLATI, vicedirettrice diocesana Caritas, Mazara del Vallo (Tp)
  67. Francesco PREZIOSI, parroco, Modena-Nonantola
  68. Angelo ROMEO, docente di sociologia, università di Perugia
  69. Renato SACCO, coordinatore nazionale di Pax Christi, Novara
  70. Giorgia SALATIELLO, docente di Filosofia, Pontificia Università Gregoriana, Roma
  71. Fedele SALVATORE, docente Religione, presidente cooperativa Irene 95, Marigliano (Na)
  72. Paolo SALVINI, parroco, Roma
  73. Francesco SANNA, docente di Statistica, La Sapienza e Pontificia Università Gregoriana, Roma
  74. Felice SCALIA, gesuita, rivista Presbyteri, Messina
  75. Giorgio SCATTO, priore della Comunità monastica di Marango, Venezia
  76. Stefano SCIUTO, già ordinario di Fisica Teorica, Università di Torino
  77. Ettore SENTIMENTALE, vicario episcopale della zona jonica, Messina-Lipari-S. Lucia del Mela
  78. Ettore SIGNORILE, vicario giudiziale Tribunale Ecclesiastico Regionale Piemontese,
  79. Guido SIGNORINO, docente Economia Applicata, università di Messina,
  80. Giuseppe SILVESTRE, vicario diocesano zonale, docente di Ecumenismo, Catanzaro-Squillace
  81. Cristina SIMONELLI, docente di Teologia Patristica, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, presidente del Coordinamento Teologhe Italiane, Verona
  82. Stefano SODARO, direttore de Il Giornale di Rodafà, Trieste
  83. Bartolomeo SORGE, gesuita, già direttore de “La Civiltà Cattolica” e di “Aggiornamenti Sociali”, Milano
  84. Piero TANI, economista, Firenze
  85. Sergio TANZARELLA, docente Storia della Chiesa, Facoltà Teologica Italia Meridionale, Napoli
  86. Maurizio TARANTINO, direttore diocesano Caritas, Otranto (Le)
  87. Debora TONELLI, docente di Filosofia Politica, Fondazione Bruno Kessler e CSSR, Trento
  88. Carmelo TORCIVIA, direttore diocesano Ufficio Pastorale, docente di Teologia Pastorale, Palermo
  89. Rita TORTI, curatrice del blog Il Regno delle donne – Il Regno, Parma
  90. Marco VALENTI, parroco, Roma
  91. Adriana VALERIO, docente di Storia del Cristianesimo, università Federico II, Napoli
  92. Marco VERGOTTINI, teologo, Milano
  93. Dario VITALI, docente di Ecclesiologia, Pontificia Università Gregoriana, Roma
  94. Pio ZUPPA, docente di Teologia pastorale, Facoltà Teologica Pugliese, parroco Cattedrale Troia (Fg)

firme in ordine alfabetico ricevute dopo la pubblicazione (e invio ai vescovi) del 14 luglio 2018

95. Mario CANTILENA, docente Letteratura greca, università cattolica, Milano

96. Pierluigi CONSORTI, docente nel dipartimento di giurisprudenza, presidente Associazione dei docenti universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso (ADEC), Pisa

97. Severino DIANICH, docente emerito Ecclesiologia, Facoltà Teologica, Firenze

98. Giovanni FERRETTI, professore emerito Filosofia teoretica, università di Macerata, rettore Chiesa di San Lorenzo, Torino

99. Clementina MAZZUCCO, già docente di Letteratura cristiana antica, Università di Torino

100. Filippo ROTA, direttore del giornale dei Missionari Saveriani, Brescia

101. Luigi DE PINTO, docente Filosofia, Facoltà Teologica Pugliese, Bisceglie (Bt)


 

PER INFORMAZIONI

don Giorgio Borroni, Novara – 348 8120572 – direttorecaritas@diocesinovara.it

don Rocco D’Ambrosio, Roma – 339 4454584 – r.dambrosio@unigre.it

don Francesco Fiorino, Marsala (Tp) – 393 9114018‬ – francesco.std@gmail.com

prof.ssa Cristina Simonelli, Verona – 333 2274992 – cristinasimonelli@teologiaverona.it

prof. Sergio Tanzarella, Caserta – 349 8119835 – sergiotanzarella@storiadelcristianesimo.it

PER ADERIRE:
Invia una mail a adesioni@cercasiunfine.it
indicando Nome e COGNOME, incarico e/o professione, Città.



Gesù rivela un Dio inedito e inaudito, un Dio che ragiona al contrario

il messia degli ultimi e dei lontani

“Il Dio di Gesù Cristo non si impone; egli è Colui che, spesso nella pazienza offesa,  rivela un volto interamente diverso da quello che vorrebbero i nostri rapporti di forza e la nostra idolatria della potenza”

C. Duquoc

 

Gesù entra nella sinagoga di Nazareth. Doveva essere il giorno dell’incoronazione e dell’esaltazione, diventa, invece, il giorno del ripudio. Gesù rivela la preferenza di Dio: non per gli interessi nazionali o di bottega ma per i rifiutati e i dimenticati, per quelli che la storia cataloga come inutili. La preferenza di Dio, quindi, non è per i presenti e per i vicini. E la preferenza di Dio non è nemmeno per i devoti e per i giusti, nonostante tutti gli sforzi ostentati. La Buona Notizia contraddice le gerarchie degli uomini. Come può essere accolto quel messaggio? Come può permettersi il figlio di Giuseppe una insolenza del genere? Quella preferenza, infatti, è una denuncia radicale dell’ordine costituito fondato su strutture politico-sociali elitarie. La divisione in classi: ricchi-benedetti contro poveri-maledetti e devoti-benedetti contro lontani-maledetti viene annullata, peggio ribaltata. La maledizione si sposta sui ricchi che non si ravvedono e sui devoti ipocriti. Gesù parla di un Dio che non viene per assegnare premi ma per riscattare proprio quelli che l’istituzione politica e quella religiosa disprezzano. È un Dio che ragiona al contrario, che sconfessa le condanne dell’uomo, che libera gli oppressi e cerca i lontani. Gesù parla di un Dio che rompe steccati, apre porte, scavalca muri. Gesù testimonia un Dio diverso da quello sedimentato nei racconti e nelle aspettative istituzionali, un Dio che, in definitiva, può essere accolto solo da chi rinasce dall’alto, da acqua e da Spirito (1). Gesù annuncia che la prassi di Dio smentisce le teologie elaborate sul suo conto e che si richiede disponibilità nella sequela e un linguaggio nuovo. Siamo di fronte ad un Dio inedito e inaudito. La risposta dei nazareni è la stessa dell’uomo di oggi: espulsione e (quando possibile) morte.

(1) Cfr. Vangelo di Giovanni 3, 1-21

vangelo di Luca 4, 14-30

«Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi. Si recò a Nazareth, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”. Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è il figlio di Giuseppe?”. Ma egli rispose: “Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!”. Poi aggiunse: “Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”. All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò».




anche il vescovo di Lucca contro Salvini

il vescovo di Lucca contro la chiusura dei porti

in occasione della festa di San Paolino il vescovo di Lucca monsignor Italo Castellani ha preso una forte posizione politica per l’apertura dei porti ai clandestini

queste le sue parole:

Il ‘fenomeno migrazioni’

Devo riconoscere che Lucca e il suo territorio nel suo insieme ha risposto bene, rispetto ad altre realtà, nell’accoglienza dei migranti.

Nel ‘fenomeno migrazioni’ vedo simbolicamente e realmente ogni “periferia esistenziale, culturale, educativa” dei nostri giorni, povertà materiali e spirituali che non possiamo far finta di non vedere o voltarci dall’altra parte.

Più volte, in piena sintonia e comunione con Papa Francesco, sono ultimamente intervenuto su questi temi ‘sensibili’ al Vangelo.

A conclusione del Convegno Ecclesiale, che abbiamo celebrato l’11-12 giugno scorso, su un tema di grande attualità –“L’altro: inferno o paradiso?”– feci questo accorato appello che rinnovo in questo momento alto di vita ecclesiale e sociale. Credo che una Chiesa –la nostra Chiesa di Lucca– non possa rimanere muta di fronte a quello che sta avvenendo, con i migranti lasciati in balia del mare e con i porti del Mediterraneo chiusi, mentre coloro che hanno la guida del nostro Paese si rifiutano ostinatamente di accoglierli, aspettando che lo facciano altri. È una decisione che un cristiano non può accettare!

È di spettanza propria di chi governa maturare scelte politiche, reali percorsi d’inclusione sociale dei rifugiati, adulti e soprattutto minori non accompagnati, sino ad oggi svolti per lo più dalla Caritas diocesana e generosamente dalle nostre comunità. Chiedevo e chiedo ancora una volta di dissociarci apertamente da tali scelte e dichiarare che ogni uomo –la Persona– è al primo posto, non è un ‘numero’, a prescindere dalla sua provenienza, appartenenza sociale e culturale.

In questa sede –alla luce della Parola di Dio ascoltata– mi sta a cuore ricordare che per noi cristiani il Vangelo è l’unico criterio per le nostre scelte. Esso indica ripetutamente la via dell’accoglienza dello straniero e della condivisione dei beni con i poveri. Dice infatti Gesù: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete ospitato” (Mt 25, 35).

Per il suo carattere universale, il Vangelo non può mai essere sottoposto ad un uso strumentale, piegato a fini propagandistici o ancor meno ridotto a segno di “esclusiva” appartenenza etnico-nazionale.

Auspico e invito tutte le nostre comunità –come viene ben sottolineato nel recente Documento Ecumenico delle Chiese cristiane di Viareggio– a vigilare sulla difesa dei diritti umani (in mare e sulla terra ferma) e ad essere aperte all’accoglienza dell’altro/a, aprendo i propri spazi e le proprie strutture per costruire progetti di accoglienza di condivisione e inclusione. Si, questo è il momento, come nelle nostre comunità sta avvenendo, del passaggio dall’accoglienza all’inclusione dei nostri fratelli immigrati, con la possibilità di apprendere la nostra lingua, aprire percorsi di studio e di lavoro, condividere la richiesta e l’incontro tra diverse culture e testimonianze di fede.

 




il commento al vangelo della domenica


📖 la vita cristiana 
commento al vangelo della quindicesima domenica del tempo ordinario (15 luglio 2018) di p. E. Bianchi:


Mc 6,7-13

In quel tempo Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.

Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare. Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.

Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama? L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!

Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Povertà, precarietà, mitezza e sobrietà devono essere lo stile dell’inviato, perché la missione non è conquistare anime ma essere segno eloquente del regno di Dio che viene, entrando in una relazione con quelli che sono i primi destinatari del Vangelo: poveri, bisognosi, scartati, ultimi, peccatori… Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica. Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!

Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù. È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16). Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento. Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?

Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”. E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno soltanto annunciare il Vangelo con le parole… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.

No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù, come lui ha vissuto: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva e che la morte non è più l’ultima parola. Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere, dello sperare, dell’amare e dunque vivere ancora… L’invio in missione da parte di Gesù non crea militanti e neppure propagandisti, ma forgia testimoni del Vangelo, uomini e donne capaci di far regnare il Vangelo su loro stessi a tal punto da essere presenza e narrazione di colui che li ha inviati. Attesta uno scritto cristiano delle origini, la Didaché: “L’inviato del Signore non è tanto colui che dice parole ispirate ma colui che ha i modi del Signore” (11,8).

Noi cristiani dobbiamo sempre interrogarci: viviamo il Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra parola e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non innanzitutto una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!

 

 




il ‘padre nostro’ – la preghiera di tutti gli ‘scartati’ e i ‘figli di nessuno’

PADRE NOSTRO

(padre di tutti)

Voi dunque pregate così:

Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome, 
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,

come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti 
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione, 
ma liberaci dal male.

(Mt 6,9-13)

Nel cuore del Discorso della Montagna, che apre con estrema solennità l’attività di maestro di Gesù (si vedano i capitoli 5-7 di Matteo), si leva la Preghiera del Padre Nostro.

Eccellente liturgia con cui i cristiani invocheranno il loro Dio, mutuando molte parole dalla Sinagoga che già venerava il Suo Nome col canto del Qaddis.

La preghiera al Padre è un pilastro delle fede cristiana, fede universale che chiama “nostro” un Dio che non è né elitario, né particolare; un Dio di cui nessuno potrà dire: “è mio”.

Un Dio di cui nessun popolo, nessuna provincia, nessuna nazione può appropriarsi per escluderne un’altra, o tutte le altre. Un Dio che non può esser fatto bandiera di un’identità chiusa e escludente; di cui nessuno può abusare per dividere, bandire, scacciare, censurare, discriminare, scomunicare.

Il Padre nostro è per tutti i “figli di nessuno” a questo mondo; per chiunque abbia bisogno di veder riconosciuto il diritto di vivere e di essere ospitato nel “paese”.

Ci deve colpire il fatto che Gesù non abbia dato un nome proprio al suo e nostro Dio. La religione giudaica – in cui pure Gesù era stato circonciso – aveva, certo, un Nome per Lui (Yhwh) che non poteva esser neppure pronunciato, tanto era sacro, e che, nella Tradizione, veniva chiamato proprio con la parola: “Il Nome” (hašem) che indicava Dio stesso.

Gesù cambia, anzi, rovescia, qualsiasi volontà identitaria per precludere al Dio cristiano ogni eventuale deriva selettiva e per questo lo chiama: “Padre”. Egli sarà il Dio di tutti gli orfani, i poveri, gli scartati, gli “esposti”, sarà il Dio di tutti i senza-nome! Dei migranti e degli zingari, di tutti quelli che – proprio come Gesù! – non potranno vantare una legge di paternità sulla terra. Di tutti i bambini bisognosi di un padre adottivo, come Giuseppe, il falegname…

Per questo quando i discepoli chiedono a Gesù: “Insegnaci a pregare”, il Maestro insegna loro, innanzitutto, il modo di farlo, il “come” farlo. Essi non pregheranno per ottenere un favore individuale e privato, una simpatia speciale rivolta a quanti, come loro, si professano cristiani; ma chiede una preghiera che sia gola di un grido collettivo, di ogni canto di lamento, di ogni sospiro ed anelito di supplica o speranza che sale dai confini della terra.

Quel Dio sarà il Padre di chi patisce il dolore del male, in tutte le sue amare e mistificate incarnazioni. Se c’è una cosa, infatti, che accomuna – ahimè! – tutti gli esseri umani, è proprio l’esperienza del male. Tutti coloro che ne subiscono l’orrore e il danno, hanno diritto di pregare: “Padre nostro”!

Tutti coloro che non hanno pane, a causa di sistemi economici malvagi, possono reclamare: “dacci oggi il nostro pane”.

Tutti coloro che subiscono persecuzione, ingiustizia, crudeltà, emarginazione; tutti coloro che – per volontà di cattivi governi – non hanno uno spazio dove vivere sulla terra, possono invocare: “Venga il tuo Regno!”.

Grazie al Signore che ci ha dato l’onore di dire: “Padre nostro”! L’ha dato a tutti: bianchi e neri, poveri e ricchi, giusti e peccatori.

Grazie al Signore che ci ha aperto l’Amore del Padre, che ha posto l’orizzonte del suo Cielo davanti ai nostri occhi per scavalcare il buio.

Mentre recitiamo questa preghiera siamo certi che Egli ci esaudirà, ci perdonerà, ci “libererà” da quel male che noi stessi abbiamo fatto – e facciamo ancora… – ai nostri fratelli.

R. Virgili



“gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”

l’illusione dei ricchi

«Le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni»

papa Francesco

 

Quanti Lazzaro stesi davanti alle porte delle Chiese, segnati da ferite fisiche o esistenziali, desiderosi di avere le stesse opportunità dei benestanti. Quanti ricchi che frequentano piamente il tempio e disertano gli altri luoghi in cui vive Dio, deformato e sfigurato da povero. Se fa impressione l’inarrestabile calo di presenze in chiesa non sorprendono invece le assenze sugli attuali Golgota. Infatti anche nelle crocifissioni di oggi Dio continua a rimanere terribilmente solo (o quasi).

Non si può non provare pena per i ricchi. Vivono nell’illusione che il “successo” sociale di cui godono sia il segno del favore del Cielo. Purtroppo per loro Dio ha scelto la sconfitta, ciò che non luccica, la contraddizione, i rifiutati. I ricchi senza conversione conosceranno un solo momento di verità: la morte. Lì si renderanno conto che hanno rinunciato alla propria umanità e alla possibilità di infinito per contare dei sudici pezzi di carta. “Gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”(1) è la giustizia al contrario del nostro meraviglioso Dio.

Così quelli che oggi stanno fuori entreranno e quelli che credono di stare dentro usciranno o comunque aspetteranno. Così quelli piegati dalla sbarra dell’oppressione saranno sollevati, rimessi in piedi e saliranno, quelli che stanno sul piedistallo, sui pulpiti del legalismo/moralismo/rigorismo scenderanno e senza gli applausi a cui sono abituati. Così quelli calunniati, perseguitati, uccisi per i loro richiami profetici saranno ascoltati pubblicamente, quelli che hanno predicato di giorno il Vangelo e stretto accordi di notte con il potere saranno messi a tacere.

(1) Vangelo di Matteo 20,16

vangelo di Luca 16, 19-31

C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».




perché ho bisogno di pregare?

prego

«Se metti su un piatto della bilancia i frutti del combattimento e delle pratiche spirituali e nell’altro il silenzio, vedrai che questo sarà più pesante di tutto il resto»

Isacco di Ninive

da ‘Altranarrazione’

Prego. Affievolisco le voci psicologiche, recriminatorie e quelle che attivano o ricordano doveri ed impegni.

Prego. Considero il silenzio interiore più importante di tutte le soluzioni preparate dalla ragione. Creo lo spazio necessario per accogliere Qualcuno, altro-da-me. Desidero ascoltare una Parola capace di guarirmi.

Prego. Attendo, ma senza aspettative. Non ho visioni, illuminazioni né particolari sensazioni. Mi è sufficiente una Presenza non rilevabile ma gradita. Familiare e sconosciuta allo stesso tempo. Che lascia un Bene, ma non so spiegare, nemmeno a me stesso, in che modo.

Prego. L’anima intuisce e riconosce ciò che cercava. Può smettere finalmente per un attimo di camminare e di sanguinare. Trova un’oasi in cui ristorarsi prima di affrontare l’abituale deserto. Recupera le forze e il senso di un pellegrinaggio pieno di insidie ed amarezze.

Prego. Vedo il dolore dei poveri e degli oppressi. Mi fermo non voglio proseguire oltre. Mi immagino l’angoscia di Dio e sento una contrazione nelle viscere. Mi riguarda, mi coinvolge, non sono più lo stesso. Sento che è giusto così. Mi ritrovo guarito dal mio quotidiano egoismo, liberato dal laccio quotidiano dell’autoreferenzialità, tratto dall’abisso quotidiano in cui cado.

Prego. E spero tutto dalla sua Misericordia, nulla dai miei adempimenti.
Prego. E Lui ogni volta mi ri-crea.

 




Pax Christi si ribella di fronte a scelte che minano la dignità umana

“noi non ci stiamo” 

comunicato di Pax Christi

Pax christi

E’ durante il tempo dell’alluvione che bisogna mettere in salvo la semente”

Sollecitati da queste parole che abbiamo evocato attorno alla tomba di don Tonino Bello,

profeta di pace e di accoglienza dei nostri giorni, anche noi sentiamo di non poter tacere di fronte ad affermazioni e scelte che minano le fondamenta della dignità umana e della convivenza civile.
Insieme ad altre voci che in queste ore si sono levate vogliamo anche noi esprimere la nostra indignazione perché in pochi giorni alcuni Ministri di questo governo hanno provocato un’alluvione di paure, risentimenti, odii e violenze che rischia di travolgere le coscienze di tutti noi:

– la contrapposizione tra poveri italiani e stranieri, come falsa soluzione di fronte al fenomeno della povertà;
– la chiusura dei porti come scelta ipocrita di fronte al dramma di tante persone;
– il linguaggio violento e mistificatorio (è finita la pacchia…) che alimenta un clima di crescente intolleranza e suscita comportamenti violenti, xenofobi, razzisti e omofobi;
– il censimento dei rom, pratica incostituzionale che evoca tragicamente le leggi razziali di 80 anni fa;
– la richiesta alla Nato per una alleanza difensiva nel Mediterraneo;
– la vergognosa riduzione ad un problema meramente familiare dell’omicidio di Giulio Regeni, per privilegiare le convenienze economiche nei rapporti con l’Egitto;
– la falsa illusione che la sicurezza personale sia legata sempre più al possesso ed all’uso senza regole delle armi;
– la solidarietà considerata un crimine, piuttosto che un valore da promuovere.

Ci auguriamo che si alzino molte altre voci indignate in ambito ecclesiale, nella società civile e nel mondo politico.

Noi non ci stiamo

Di fronte a questa ‘alluvione’ ribadiamo e ci impegniamo a custodire e promuovere la buona semente della dignità di ogni essere umano, della tutela dei diritti umani per tutti, secondo lo spirito della Costituzione; della costruzione della pace e della nonviolenza.

Continueremo ad impegnarci in prima persona a fianco degli ultimi, dei migranti e rifugiati, che per noi sono “uomini e donne in cerca di pace.” Quotidianamente nei nostri territori e in rete con altri intensificheremo il nostro impegno per ‘disarmare’ la follia della guerra, che si annida anche nei ragionamenti, nel linguaggio e nelle relazioni personali.

Lo ribadiamo oggi e continueremo a farlo.

Alessano, 20 giugno 2018 (a due mesi dalla visita di Papa Francesco)