il messaggio di papa Francesco per la giornata della pace

 

“la buona politica è al servizio della pace”

il manifesto antisovranista di papa Francesco
messaggio sulla buona politica “al servizio della pace

corruzione e xenofobia “vergogne della politica”

contro chi addossa ai migranti l’origine di tutti i mali

 Maria Antonietta Calabrò

Un messaggio breve, quattro cartelle. Ma molto dense. In 7 punti. Con un titolo che dice già tutto: “La buona politica è al servizio della pace”.
Il tradizionale discorso del Papa per la Giornata del 1 gennaio – ricorrenza istituita da Paolo VI e celebrata per la prima volta nel 1968 – cala nel concreto della vita dei popoli e delle nazioni, perché parla di politica, di politici e di scelte politiche. Con un occhio anche alle prossime scadenze elettorali, che per gli europei saranno quelle del prossimo maggio, con il rinnovo dell’Europarlamento di Strasburgo. Quasi un “Manifesto antisovranista”, un documento “antidivisivo”, che fa appello alla speranza del bene comune e all’immagine della “casa” e che nel libretto preparato dalla Libreria Editrice Vaticana è illustrato dalla figura della Giustizia, con in mano una spada e una bilancia.

Il messaggio costituirà certamente uno strumento di riflessione anche per i laici cattolici italiani, chiamati di recente dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, a uscire dall’irrilevanza pubblica in cui sono precipitati. “Ogni rinnovo delle funzioni elettive, ogni scadenza elettorale, ogni tappa della vita pubblica – si legge nel Messaggio di Francesco – costituisce un’occasione per tornare alla fonte e ai riferimenti che ispirano la giustizia e il diritto. Ne siamo certi: la buona politica è al servizio della pace; essa rispetta e promuove i diritti umani fondamentali, che sono ugualmente doveri reciproci, affinché tra le generazioni presenti e quelle future si tessa un legame di fiducia e di riconoscenza”.
Ma della politica Francesco esamina, nel punto 4, anche i “vizi”: dalla corruzione alla xenofobia. “Accanto alle virtù, purtroppo, anche nella politica non mancano i vizi, dovuti sia ad inettitudine personale, sia a storture nell’ambiente e nelle istituzioni. È chiaro a tutti che i vizi della vita politica tolgono credibilità ai sistemi entro i quali essa si svolge, così come all’autorevolezza, alle decisioni e all’azione delle persone che vi si dedicano. Questi vizi, che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale: la corruzione – nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone –, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto arbitrario della ragion di Stato, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio”.

Al punto 5 Bergoglio aggiunge: “In particolare, viviamo in questi tempi in un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi, e si manifesta purtroppo anche a livello politico, attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno”. E ancora, il Papa stigmatizza chi addossa ai più vulnerabili, ai migranti l’origine di tutti i mali.

Qualcuno griderà all’ingerenza politica di Francesco. Ma il Papa è molto attento a richiamare il magistero dei suoi predecessori: Giovanni XXIII, Paolo VI e Benedetto XVI (a cui è dedicato l’intero capitolo 3), insieme alle parole del cardinale vietnamita Nguyen Van Thuan che trascorse ben 13 anni in prigione nel suo Paese, di cui 9 in isolamento, e fu definito da Giovanni Paolo II testimone eroico della sua fede, di cui Francesco enuncia nel suo Messaggio le otto “Beatitudini del politico”.

Nessuno insomma potrà etichettare il documento per la giornata della Pace come “comunista”, o divisivo.

“Offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo” spiega il Papa.” Inviando in missione i suoi discepoli, Gesù dice loro: In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa!. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi” (Lc 10,5-6). Ed è questo l’augurio di Francesco all’inizio del nuovo anno: “Pace a questa casa!”. “E questa offerta – continua – è rivolta a tutti coloro, uomini e donne, che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana. La “casa” di cui parla Gesù – continua – è ogni famiglia, ogni comunità, ogni Paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro storia; è prima di tutto ogni persona, senza distinzioni né discriminazioni. È anche la nostra “casa comune”: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine”.

La sfida della buona politica

La pace, secondo Francesco, è simile alla speranza di cui parla il poeta Charles Péguy; è come un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza. Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie. La politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo, ma quando, da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione.

“Se uno vuol essere il primo – dice Gesù – sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35). Come sottolineava Papa San Paolo VI: “Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale, regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità”.

In effetti, la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto. Se attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità.

Carità e virtù umane per una politica al servizio dei diritti umani e della pace

Papa Benedetto XVI ricordava – continua il Messaggio – che “ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella polis. […] Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. […] L’azione dell’uomo sulla Terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana”. È un programma nel quale si possono ritrovare tutti i politici, di qualunque appartenenza culturale o religiosa che, insieme, desiderano operare per il bene della famiglia umana, praticando quelle virtù umane che soggiacciono al buon agire politico: la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà.

La buona politica promuove la partecipazione dei giovani e la fiducia nell’altro

Il Messaggio continua con uno sguardo rivolto ai giovani, al futuro. “Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società, senza possibilità di partecipare a un progetto per il futuro. Quando, invece, la politica si traduce, in concreto, nell’incoraggiamento dei giovani talenti e delle vocazioni che chiedono di realizzarsi, la pace si diffonde nelle coscienze e sui volti. Diventa una fiducia dinamica, che vuol dire “io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune. La politica è per la pace se si esprime, dunque, nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona. “Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Essa è stata voluta da Dio per donare e ricevere. Dio non ha voluto che essa uccida (cfr Gen 4,1ss) o che faccia soffrire, ma che curi e aiuti a vivere. Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare, anch’essa, uno strumento di dialogo”.

Per Papa Francesco, ognuno può apportare la propria pietra alla costruzione della casa comune. “La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali”.

No alla guerra e alla strategia della paura

A cento anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, “mentre ricordiamo i giovani caduti durante quei combattimenti e le popolazioni civili dilaniate, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle guerre fratricide, cioè che la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia. Il terrore esercitato sulle persone più vulnerabili contribuisce all’esilio di intere popolazioni nella ricerca di una terra di pace. Non sono sostenibili i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza. Va invece ribadito che la pace si basa sul rispetto di ogni persona, qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del creato che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni passate. Il nostro pensiero va, inoltre, in modo particolare ai bambini che vivono nelle attuali zone di conflitto, e a tutti coloro che si impegnano affinché le loro vite e i loro diritti siano protetti. Nel mondo, un bambino su sei è colpito dalla violenza della guerra o dalle sue conseguenze, quando non è arruolato per diventare egli stesso soldato o ostaggio dei gruppi armati. La testimonianza di quanti si adoperano per difendere la dignità e il rispetto dei bambini è quanto mai preziosa per il futuro dell’umanità”.

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
LII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2019

 

La buona politica è al servizio della pace

1. “Pace a questa casa!”
Inviando in missione i suoi discepoli, Gesù dice loro: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi» (Lc 10,5-6).
Offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo. E questa offerta è rivolta a tutti coloro, uomini e donne, che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana.[1] La “casa” di cui parla Gesù è ogni famiglia, ogni comunità, ogni Paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro storia; è prima di tutto ogni persona, senza distinzioni né discriminazioni. È anche la nostra “casa comune”: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine.
Sia questo dunque anche il mio augurio all’inizio del nuovo anno: “Pace a questa casa!”.
2. La sfida della buona politica
La pace è simile alla speranza di cui parla il poeta Charles Péguy;[2] è come un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza. Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie. La politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo, ma quando, da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione.
«Se uno vuol essere il primo – dice Gesù – sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35). Come sottolineava Papa San Paolo VI: «Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale, regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità».[3]
In effetti, la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto. Se attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità.
3. Carità e virtù umane per una politica al servizio dei diritti umani e della pace
Papa Benedetto XVI ricordava che «ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella polis. […] Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. […] L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana».[4] È un programma nel quale si possono ritrovare tutti i politici, di qualunque appartenenza culturale o religiosa che, insieme, desiderano operare per il bene della famiglia umana, praticando quelle virtù umane che soggiacciono al buon agire politico: la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà.
A questo proposito meritano di essere ricordate le “beatitudini del politico”, proposte dal Cardinale vietnamita François-Xavier Nguyễn Vãn Thuận, morto nel 2002, che è stato un fedele testimone del Vangelo:
Beato il politico che ha un’alta consapevolezza e una profonda coscienza del suo ruolo.
Beato il politico la cui persona rispecchia la credibilità.
Beato il politico che lavora per il bene comune e non per il proprio interesse.
Beato il politico che si mantiene fedelmente coerente.
Beato il politico che realizza l’unità.
Beato il politico che è impegnato nella realizzazione di un cambiamento radicale.
Beato il politico che sa ascoltare.
Beato il politico che non ha paura.[5]
Ogni rinnovo delle funzioni elettive, ogni scadenza elettorale, ogni tappa della vita pubblica costituisce un’occasione per tornare alla fonte e ai riferimenti che ispirano la giustizia e il diritto. Ne siamo certi: la buona politica è al servizio della pace; essa rispetta e promuove i diritti umani fondamentali, che sono ugualmente doveri reciproci, affinché tra le generazioni presenti e quelle future si tessa un legame di fiducia e di riconoscenza.
4. I vizi della politica
Accanto alle virtù, purtroppo, anche nella politica non mancano i vizi, dovuti sia ad inettitudine personale sia a storture nell’ambiente e nelle istituzioni. È chiaro a tutti che i vizi della vita politica tolgono credibilità ai sistemi entro i quali essa si svolge, così come all’autorevolezza, alle decisioni e all’azione delle persone che vi si dedicano. Questi vizi, che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale: la corruzione – nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone –, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto arbitrario della “ragion di Stato”, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio.
5. La buona politica promuove la partecipazione dei giovani e la fiducia nell’altro
Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società, senza possibilità di partecipare a un progetto per il futuro. Quando, invece, la politica si traduce, in concreto, nell’incoraggiamento dei giovani talenti e delle vocazioni che chiedono di realizzarsi, la pace si diffonde nelle coscienze e sui volti. Diventa una fiducia dinamica, che vuol dire “io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune. La politica è per la pace se si esprime, dunque, nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona. «Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Essa è stata voluta da Dio per donare e ricevere. Dio non ha voluto che essa uccida (cfr Gen 4,1ss) o che faccia soffrire, ma che curi e aiuti a vivere. Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare, anch’essa, uno strumento di dialogo».[6]
Ognuno può apportare la propria pietra alla costruzione della casa comune. La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali. Una tale fiducia non è mai facile da vivere perché le relazioni umane sono complesse. In particolare, viviamo in questi tempi in un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi, e si manifesta purtroppo anche a livello politico, attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno. Oggi più che mai, le nostre società necessitano di “artigiani della pace” che possano essere messaggeri e testimoni autentici di Dio Padre che vuole il bene e la felicità della famiglia umana.
6. No alla guerra e alla strategia della paura
Cento anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, mentre ricordiamo i giovani caduti durante quei combattimenti e le popolazioni civili dilaniate, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle guerre fratricide, cioè che la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia. Il terrore esercitato sulle persone più vulnerabili contribuisce all’esilio di intere popolazioni nella ricerca di una terra di pace. Non sono sostenibili i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza. Va invece ribadito che la pace si basa sul rispetto di ogni persona, qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del creato che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni passate.
Il nostro pensiero va, inoltre, in modo particolare ai bambini che vivono nelle attuali zone di conflitto, e a tutti coloro che si impegnano affinché le loro vite e i loro diritti siano protetti. Nel mondo, un bambino su sei è colpito dalla violenza della guerra o dalle sue conseguenze, quando non è arruolato per diventare egli stesso soldato o ostaggio dei gruppi armati. La testimonianza di quanti si adoperano per difendere la dignità e il rispetto dei bambini è quanto mai preziosa per il futuro dell’umanità.
7. Un grande progetto di pace
Celebriamo in questi giorni il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata all’indomani del secondo conflitto mondiale. Ricordiamo in proposito l’osservazione del Papa San Giovanni XXIII: «Quando negli esseri umani affiora la coscienza dei loro diritti, in quella coscienza non può non sorgere l’avvertimento dei rispettivi doveri: nei soggetti che ne sono titolari, del dovere di far valere i diritti come esigenza ed espressione della loro dignità; e in tutti gli altri esseri umani, del dovere di riconoscere gli stessi diritti e di rispettarli».[7]
La pace, in effetti, è frutto di un grande progetto politico che si fonda sulla responsabilità reciproca e sull’interdipendenza degli esseri umani. Ma è anche una sfida che chiede di essere accolta giorno dopo giorno. La pace è una conversione del cuore e dell’anima, ed è facile riconoscere tre dimensioni indissociabili di questa pace interiore e comunitaria:
– la pace con sé stessi, rifiutando l’intransigenza, la collera e l’impazienza e, come consigliava San Francesco di Sales, esercitando “un po’ di dolcezza verso sé stessi”, per offrire “un po’ di dolcezza agli altri”;
– la pace con l’altro: il familiare, l’amico, lo straniero, il povero, il sofferente…; osando l’incontro e ascoltando il messaggio che porta con sé;
– la pace con il creato, riscoprendo la grandezza del dono di Dio e la parte di responsabilità che spetta a ciascuno di noi, come abitante del mondo, cittadino e attore dell’avvenire.
La politica della pace, che ben conosce le fragilità umane e se ne fa carico, può sempre attingere dallo spirito del Magnificat che Maria, Madre di Cristo Salvatore e Regina della Pace, canta a nome di tutti gli uomini: «Di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; […] ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,50-55).
Dal Vaticano, 8 dicembre 2018
Francesco

[1] Cfr Lc 2,14: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».
[2] Cfr Le Porche du mystère de la deuxième vertu, Paris 1986.
[3] Lett. ap. Octogesima adveniens (14 maggio 1971), 46.
[4] Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 7.
[5] Cfr Discorso alla mostra-convegno “Civitas” di Padova: “30giorni”, n. 5 del 2002.
[6] Benedetto XVI, Discorso alle Autorità del Benin, Cotonou, 19 novembre 2011.
[7] Enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 24.

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una ‘teologia della liberazione’ anche per gli … animali

 

Per una teologia della liberazione animale

Le vite degli altri. Un’unica comunità
Claudia Fanti 

 da: Adista Documenti n° 44 del 22/12/2018

La scienza ci dice che tutto ciò che esiste viene dalle stelle, all’interno delle quali, come in una fornace, si sono formati tutti gli elementi necessari alla costituzione del nostro universo, della nostra galassia, del sistema solare, del pianeta Terra e di ogni forma vivente. Ci dice, cioè, che, nelle stelle, siamo fratelli e sorelle di tutto. Che tutto è in relazione con tutto e tutto si sviluppa attraverso l’interdipendenza. Che l’interconnessione è «un habitus dell’universo», secondo l’espressione dello scienziato Rupert Sheldrake, ed è nella cooperazione e non nella competizione che va individuata l’essenza della vita.

La scienza ci dice che non esistono differenze sostanziali fra il corpo umano e quello di altri esseri viventi, perché tutti, dai primi batteri comparsi sulla terra fino a noi, presentano gli stessi elementi di base che costituiscono la vita: gli stessi 20 amminoacidi e gli stessi quattro elementi chimici – l’adenina, la guanina, la citosina e la timina – che permettono la combinazione degli amminoacidi rendendo possibile la biodiversità. La scienza ci dice che è grazie a questa formula di base che tra noi e un lombrico vi è il 46% di elementi comuni e che le molecole del nostro sangue sono identiche a quelle della clorofilla delle piante verdi con la sola differenza di un atomo di ferro al posto di un atomo di magnesio. Ci dice, anzi, nella parole del teologo Manuel Gonzalo, che noi siamo «la somma di conquiste che la Comunità della Vita su questo pianeta è andata faticosamente realizzando» nel corso di un lunghissimo tempo, che «siamo un puro dono gratuito della Vita di questo pianeta». Eppure, per quanto la scienza ci comunichi la visione di un universo in cui tutto è profondamente interconnesso, noi umani abbiamo seguito la direzione opposta, collocandoci al di fuori e al di sopra della natura e, molto spesso, e oggi più che mai, contro di essa. Ma se a pagare il costo più alto sono le forme di vita non umane, a cominciare dalle specie a noi più simili, quelle animali, in realtà, come evidenzia Federico Battistutta, ricercatore indipendente nel campo del religioso contemporaneo e coordinatore della comunità di ricerca “libero spirito”, «parlare e riflettere della condizione animale vuol dire anche parlare e riflettere proprio della nostra condizione, quella umana», perché «ciò che accade agli altri animali riguarda da vicino, da molto vicino quello che accade agli umani».

Ed è proprio la consapevolezza che, se «lo sfruttamento è uno solo», uno solo dovrà essere anche il processo di liberazione, a condurci, come spiega magistralmente Battistutta, a una teologia della liberazione animale come «progetto di liberazione integrale che includa al suo interno anche gli animali non umani». Qui l’intervento che ha scritto per Adista.

per una teologia della liberazione animale

 

 da: Adista Documenti n° 44 del 22/12/2018

Il sogno di una cosa

Due parole sul titolo. Teologia della liberazione animale: questa espressione riunisce – meglio ancora, condensa – due elementi, teologia della liberazione e liberazione animale. Il primo si riferisce a quella corrente di pensiero e di azione, nata negli anni Sessanta in America Latina, secondo cui il progetto di salvezza enunciato dall’esperienza cristiana include una liberazione integrale dell’essere umano che comprende l’emancipazione economica, politica, sociale, come tangibili segni della dignità umana. Il secondo elemento è la liberazione animale: qui il riferimento va al titolo di un saggio del filosofo australiano Peter Singer – appunto Liberazione animale – pubblicato negli anni Settanta e considerato uno dei testi fondamentali sia per gli animal studies (termine in uso nel mondo anglofono per indicare un campo accademico di ricerche trasversali sul mondo animale), sia per tutto il pensiero antispecista (si tratta di una corrente non solo filosofica, ma anche politica, che si oppone allo specismo, vale a dire a quella visione gerarchica che attribuisce un diverso valore e statuto morale agli esseri viventi in base alla loro specie di appartenenza, ponendo al vertice l’essere umano). In altre parole, parlare di teologia della liberazione animale vuol dire prospettare un progetto di liberazione integrale che includa al suo interno anche gli animali non umani.

Vale anche ricordare che la condensazione, secondo la psicoanalisi, è una di quelle procedure attive nel sogno grazie alla quale una rappresentazione (un’immagine e/o una parola) incorpora e fonde in sé una pluralità di immagini e/o parole. È quanto, in fondo, proporrò in queste righe. Non solo, la condensazione – sempre secondo la psicoanalisi – essendo parte integrante del lavoro onirico, fra le altre cose allude all’appagamento di un desiderio. E il presente lavoro vuol proprio dar voce a un sogno, a un desiderio: riflettere su un rinnovato rapporto fra l’essere umano e il resto del mondo animale.

Corpi che non contano

Scriveva anni fa Sergio Quinzio: «Guardate gli occhi di un cane che muore e vergognatevi della vostra filosofia». Ma che relazione sussiste fra la liberazione degli esseri umani dalle varie forme di oppressione che la affliggono con la liberazione animale? Ha senso tentare una relazione?

Nel periodo compreso fra le due guerre Max Horkheimer (che non era teologo, anche se ci ha lasciato un notevole libro – La nostalgia del Totalmente Altro– in cui anticipa le tematiche relative a un superamento della contrapposizione tra teismo e ateismo) provò a descrivere la struttura sociale dell’epoca come una grande piramide: al vertice i grandi magnati dell’industria, seguiti dai proprietari terrieri, poi dai militari, i liberi professionisti, i commercianti, fino a scendere ai livelli più bassi, con i contadini, gli operai, i disoccupati. Ancora più in basso le popolazioni dei territori coloniali, la cui miseria «supera ogni immaginazione». Ma alla base di questo immenso edificio – «la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale» – vi è «l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali».

Ciò che Horkheimer ci vuol dire con questa metafora è che il processo di sfruttamento taglia trasversalmente tutto il vivente. La teologia della liberazione animale intende collocarsi su questo piano del discorso, dentro questo progetto di liberazione integrale in grado di includere anche gli animali non umani.

A questo proposito, più recentemente, la filosofa Rosi Braidotti ha parlato proprio di zoo-proletariato. Sin dall’antichità, gli animali sono stati impiegati per lavori gravosi, come schiavi automatizzati e supporto logistico ancor prima dell’impiego delle macchine. Ciò è avvenuto per vari motivi. Per le gerarchie metafisiche con le quali per secoli è stata interpretata la vita (con la supposta mancanza di razionalita? degli animali, che li ha resi per questo motivo privi di diritti paragonabili a quelli degli umani). Ma anche per motivi strettamente economici: gli animali sono produttivi e non devono essere remunerati, pertanto la loro messa al lavoro non solleva problemi etico-politici. Per questo gli animali rappresentano una risorsa industriale-economica centrale: sono materie prime e vive di molti prodotti (carne, latte, seta, lana, pellami ecc.), e con l’avvento del fordismo si sono trovati sottoposti ai ritmi della produzione di massa (come nel caso degli allevamenti industriali). Per non parlare, infine, degli esperimenti di ingegneria genetica, dalla transgenia alla creazione di cloni o di ibridi umano-animali. In questo senso le vite degli animali sono delle non-vite già prima ancora di divenire alimento, materia prima o altro. Sono, riprendendo un’espressione di Judith Butler, «corpi che non contano», corpi che non sono degni di lutto, esistenze precarie, il cui statuto di animale non consente loro di aspirare a una vita dignitosa.

Rispetto a simili affermazioni una delle critiche più comuni rivolte agli animalisti può venire sintetizzata nell’affermazione secondo cui, oggi, vi sono oggettivamente delle priorità rispetto alla questione animale: la fame nel mondo, le malattie epidemiche, le ingiustizie sociali, le guerre, ecc. Qui non si intende negare tutto questo, ma, tornando all’immagine iniziale di Horkheimer, una visione d’insieme ci fa comprendere che vi è una medesima logica che taglia trasversalmente le condizioni di sfruttamento nel mondo; non a caso oggi si parla tanto di biopotere, di un potere che mira a controllare ogni sfera del vivente, gli esseri umani e gli altri animali, le sementi e le colture, fino a interi ecosistemi. In altre parole: se lo sfruttamento è uno solo, così pure uno solo dovrà essere il processo di liberazione. Occuparsi della questione animale non significa ignorare e trascurare il resto, tutt’altro.

“Ed ecco, era cosa molto buona”

Dove ha avuto inizio tutto ciò? Quale mito ha fondato e giustificato tale sfruttamento? Certamente potremmo trovare diverse fonti di ispirazione per questa tipologia di pensiero. Sicuramente tra i miti fondanti un posto di rilievo merita il racconto della creazione contenuto nella Bibbia. In particolare i passi di Genesi in cui si dice: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi 1,28). Questo antropocentrismo imperante, con l’invito a dominare e soggiogare tutto il vivente, si è protratto, pur con i mutamenti storici e culturali avvenuti, fino ad oggi, di fatto senza soluzione di continuità.

Ciò che è interessante è come nel testo biblico ci si imbatta in affermazioni di segno decisamente contrario rispetto a quanto appena citato, che possono sollecitare diverse riflessioni. Infatti, se proseguiamo la lettura del racconto, subito dopo l’ordine di dominare e soggiogare, leggiamo qualcosa che potremmo confondere con affermazioni provenienti dalle scritture orientali, induiste o jaina: «Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo (…)”. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Genesi 1,31). In altre parole, il testo racconta che il primo essere umano era vegetariano, anzi dovremmo dire vegano! Non solo: questo bisogno di una radicale trasformazione del rapporto uomo-animale lo vediamo riemergere nella Bibbia all’interno della letteratura profetica (cfr. ad esempio Osea II, 20 e Isaia XI, 6-8), fino all’affermazione paolina secondo cui «tut ta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto» (Rom 8, 22). Ora, questi brevi cenni al testo biblico sono sufficienti per mostrare che qui si vuole seguire un’ermeneutica che dia voce non alla volontà di potenza dell’essere umano, bensì alla sofferenza animale. Così come ha proceduto la teologia della liberazione in favore delle classi sociali sfruttate, e la teologia femminista nei confronti dell’oppressione subita dalle donne, si vuole qui far affiorare quella “mormorazione dal basso” (per riprendere un’espressione di Ernst Bloch) da cui emergono nei passi biblici la protesta, il desiderio e la speranza di libertà da parte di tutte le forme di vita, compresi gli animali non umani.

Una guerra sulla pietà

Come si è accennato sopra, a proposito della produzione di massa e della sperimentazione genetica, la cosa sta assumendo oggi connotati inquietanti. A questo proposito il filosofo francese Jacques Derrida parlava, riferendosi proprio al nostro tempo, di proporzioni senza precedenti dell’assoggettamento animale, di un’escalation di violenza senza precedenti contro l’animale non umano.

Leggo Derrida: «Nessuno può più continuare seriamente a negare che gli uomini fanno tutto ciò che possono per nascondere o per nascondersi questa crudeltà, per organizzare su scala mondiale l’oblio o il disconoscimento di tale violenza che qualcuno potrebbe paragonare ai peggiori genocidi». Quindi non c’è solo da denunciare la violenza in corso (allevamenti intensivi, vivisezione, macelli ecc.), ma il collaborazionismo fattivo nel perpetuamento di tale violenza. E su ciò siamo tutti coinvolti. Sempre con le parole di Derrida, «si sta compiendo una nuova prova della compassione», perché qui è in gioco proprio la questione del pathos, di quella forza emotiva che canalizza la qualità del nostro sentire, quali la sofferenza, la pietà, la compassione. Per questo Derrida aggiungeva che è in corso «una guerra sulla pietà». Cosa voleva dire? Leggo ancora: «Pensare la guerra in cui siamo non è solo un dovere, una responsabilità, un obbligo, è anche una necessità a cui, volente o nolente, direttamente o indirettamente, nessuno potrebbe sottrarsi. Ora più che mai. E dico “pensare” questa guerra perché credo che sia in questione proprio ciò che chiamiamo “pensare”. L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio da qui». Pensare inizia qui, è in questa apertura, in questo restare nudi – come vita dinanzi alla vita – che scaturisce la domanda, l’interrogarsi, il pensare come forma espressiva peculiarmente umana.

Sia chiaro: tutto quello che si sta dicendo non sono discorsi da “anima bella” che si autocompiace della propria sensibilità altruistica e dei propri pensieri lungimiranti rispetto alla cattiveria e all’insensibilità dei più. Parlare e riflettere della condizione animale vuol dire anche parlare e riflettere proprio della nostra condizione, quella umana. Ciò che accade agli altri animali riguarda da vicino, da molto vicino quello che accade agli umani.

Macchina antropologica e divenire-animale

Di fronte ai virulenti processi economici in corso, a cominciare dal business dell’industria agro-alimentare, che considera ormai la natura come un ostacolo da superare in vista di un aumento del valore aggiunto dei prodotti, riducendo costi di produzione, ignorando il degrado ambientale, così come la diffusione di malattie nell’essere umano e la sofferenza degli animali. A queste emergenze è necessario rispondere innalzando, come suggeriva sempre Derrida, il livello della riflessione. Da qui l’urgenza di una prospettiva, anche religiosa, che ribalti alla radice i parametri di riferimento circa il rapporto essere umano/animale.

È stato lo studioso italiano Giorgio Agamben a elaborare il concetto di macchina antropologica, riprendendo una distinzione risalente all’antica Grecia tra bìos e zoè (la vita specializzata, da una parte, e la nuda vita indifferenziata, dall’altra). La macchina antropologica non sarebbe altro che il dispositivo in base al quale avviene la produzione dell’umano attraverso l’opposizione essere umano/animale. L’umanità viene così definita attraverso la sottrazione e l’esclusione di ciò che, pure appartenendo alla vita, e alla vita stessa dell’essere umano, non è reputato umano. In altre parole l’essere umano fa l’essere umano separandosi dall’animale (un animale, si badi bene, che risiede fuori, ma anche dentro gli stessi confini dell’umano). Tale linea di separazione è fluida, viene di volta in volta ridefinita, decidendo chi rientra nelle categorie dell’umano e chi va escluso (ad esempio, di volta in volta si sono trovati espulsi dall’ambito umano: i barbari, gli eretici, i neri, le donne, gli ebrei, i rom, i gay, i migranti), divenendo oggetto del medesimo trattamento riservato agli animali non umani (esclusione, reclusione, sfruttamento, marchiatura, eliminazione).

Se, ad esempio, provassimo a rileggere l’episodio di Abramo e Isacco dal punto di vista di Isacco, leggeremmo il racconto dal punto di vista animale: Isacco a un certo punto si è trovato escluso dall’umano per essere sacrificato al posto di un agnello. «Proseguirono tutt’e due insieme; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio» (Genesi, 22,7-10). Questa è la macchina antropologica. Sulla sponda opposta c’è il divenire-animale. Sono stati i francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari a usare questa espressione. Non si tratta di un processo di deprivazione dell’umano, ma al contrario è offerto all’esperienza umana come opportunità di espansione, di arricchimento. Secondo i due autori la realtà è composta da una serie di molteplicità (di forme di vita e di modalità espressive di queste forme di vita) che apre alla possibilità di istituire connessioni molteplici, orizzontali, in più direzioni e in perenne movimento, in contrasto con le procedure e le tipologie verticali, gerarchiche, caratterizzate dal pensiero dominante. Ciò che è in gioco «è un rapporto (…) con l’animale, con il vegetale, con il mondo» che consente di compiere passaggi, trasformazioni, individuabili a ogni piano. Questo divenire-animale è la costruzione di un ponte tra etica ed etologia, fra ethos umano ed ethos animale, in grado di supportare un dialogo orizzontale tra umano e animale. Non si tratta di umanizzare l’animale, come spesso accade nel rapporto essere umano/animale, ma di favorire l’animalizzazione dell’essere umano, Si tratta di affinare i nostri sensi, prima ancora di affinare il pensiero, per percepire e interagire con quella che Gregory Bateson chiamava la «sacra unità» che connette tutti i viventi.

Per fare ciò è condizione necessaria congedarsi, nella teoria come nella pratica, da modelli di riferimento tuttora imperanti, come il concetto stesso di identità (l’esistenza di un soggetto già dato, chiuso, rigido, refrattario alle trasformazioni, separato da tutto il resto attraverso il rapporto dualistico soggetto/oggetto). A essa si contrappone la nozione di un soggetto nomade, post-identitario, incarnato (quindi storico, sessuato ecc.), ma nello stesso tempo in continuo divenire: «il nomadismo è un processo attraverso il quale tracciamo molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza, ognuno dipendente dal posto in cui ci troviamo e dal modo in cui cresciamo».

Il corpo di Dio

Parlare di teologia della liberazione animale ci conduce non solo a rimettere in gioco l’opposizione essere umano/animale, ma anche la coppia Dio/animale.

Circa l’opposizione essere umano/animale il teologo tedesco Eugen Drewermann ha sostenuto che la teologia non può ignorare i dati provenienti dai vari campi delle scienze, dalla psicoanalisi all’etologia, e che pertanto non è più possibile respingere l’idea che operi un unico flusso vitale, quello che ha reso possibile e che continua a svilupparci come esseri umani. «Che cos’è la vita – dice Drewermann – se non uno scambio eterno, gigantesco, senza fine?». Per queste ragioni egli è giunto a parlare anche di un’immortalità degli animali, collocando questa tematica, assai particolare, dentro una più generale riflessione sul senso della vita, della morte e sulla resurrezione, nella sottile convinzione che non vi sia un mondo dei viventi da una parte e un regno dei defunti dall’altra, ma che esista un solo campo, che i cristiani chiamano Regno di Dio, di cui tutti fanno parte, viventi e morti, animali inclusi.

Ma probabilmente per il mondo cristiano l’opposizione Dio/animale è ancora più radicale di quella fra essere umano e animale; accostare Dio e gli animali può suonare come un’eresia, se non una bestemmia (che cos’è in fondo la bestemmia se non l’accostamento del nome di Dio a specie animali considerate spregevoli?). Comunque sia, si tratterebbe di una formulazione incoerente, una vera e propria contraddizione, tutt’al più un ossimoro, che vede due opposti, Dio (l’essere perfettissimo, eterno, onnisciente e onnipresente, creatore di tutte le cose, reviviscenza del catechismo di Pio X) e l’animale (dotato al massimo di anima vegetativa e sensitiva, secondo la lezione di Aristotele che tanto ha influenzato il sapere teologico).

Per questo va radicalmente ripensato anche Dio. Qui ci limitiamo a riprendere alcune suggestioni della teologa americana Sallie McFague, la quale ha proposto la metafora del cosmo come corpo di Dio, con lo scopo di offrirci uno sguardo altro, per «pensare e agire come se i corpi contino». Così, se pensiamo e viviamo il cosmo come il corpo di Dio, allora «non incontriamo mai Dio non incorporato». Questo significa prendere sul serio la nostra stessa incarnazione e quella degli altri corpi perché abbiamo tutti una storia comune, «siamo tutti fatti – dice McFague – di ceneri di stelle morte».

La salvezza riguarda così tutti i corpi terreni, non solo quelli umani, per poter vivere tutti degnamente su questa Terra. Allora ciò che la tradizione cristiana chiama peccato si mostra come il fallimento della relazionalità, un’offesa contro altre parti del corpo di Dio (di altre specie o parti della creazione), poiché «la creazione è il luogo della salvezza, la salvezza è la direzione della creazione».

Conclusione

Mary Daly, teologa post-cristiana, in uno dei suoi ultimi libri, intitolato Quintessenza (che potremmo collocare all’interno della letteratura profetica), offre alcuni spunti interessanti per chiudere questa riflessione. Lei immagina una società post-patriarcale del futuro (il sottotitolo del libro è infatti “realizzare il futuro arcaico”) in cui, fra le tante novità, gli animali invitano a unirsi alla «maggioranza cognitiva che include piante, rocce, pianeti, stelle, angeli – tutti gli esseri amanti della vita», in contrapposizione all’affermazione di una superiorità degli umani in base alla ragione. In questa comunità di cui parla Daly però gli uomini non compaiono, si trovano confinati in altri continenti, separati dalle donne. Ecco, quello che in chiusura sento personalmente di poter dire, è dichiarare il bisogno di intraprendere fin da subito un lungo lavoro affinché possa essere superata questa mancanza – resa nel racconto di Mary Daly nella separazione degli uomini dalle donne -, per divenire partecipi veramente tutti, uomini e donne, di questa comunità degli esseri amanti della vita, di questo grande sogno della Terra. Di cui questo mio intervento vuol essere un piccolo, parziale contributo.

 

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il nostro razzismo secondo p. Zanotelli

Alex Zanotelli

«il nero a chilometro zero svela il nostro razzismo»

 un brano da “prima che gridino le pietre”, pamphlet del missionario per una disobbedienza civile per non «tradire i valori cristiani»

Alex Zanotelli

Alex Zanotelli

«L’Europa ha perso la coscienza, la memoria e l’umanità. Ci preoccupiamo di difendere i nostri valori “cristiani” di fronte ad altre religioni, ma quei valori li stiamo tradendo da soli». Lo scrive un uomo che i principi del cristianesimo li conosce e li ha vissuti sulla propria pelle come missionario, Alex Zanotelli, nel pamphlet “Prima che gridino le pietre” (Chiarelettere, pp. 160, € 15, a cura di Valentina Furlanetto) dal sottotitolo che elimina ogni possibile malinteso: «Manifesto contro il nuovo razzismo».
«Questo libro racconta il razzismo di ieri e soprattutto di oggi, potente macchina del consenso», annota l’editore nella scheda. Il missionario e attivista, per il quale «Dio è schierato, è il Dio degli oppressi, degli schiavi, dei poveri», per più di mezzo secolo ha convissuto con «gli ultimi della terra, prima in Sudan poi in Kenya, in una delle infinite baraccopoli di Nairobi, Korogocho». Nato a Trento nel 1938, sacerdote dal 1964, missionario comboniano, direttore della rivista “Nigrizia” dal 1978 al 1987, Zanotelli traccia una storia di emigrati e migranti ricordando un linciaggio di italiani emigrati del 1893 nel sud della Francia scatenato da notizie false e con il furore popolare. Ci ricorda qualcosa?, chiede e si chiede. Arrivando all’esperienza di Riace e del sindaco Mimmo Lucano, Zanotelli rilancia «il valore politico della disobbedienza civile». Un dato citato nel libro: l’86% dei 65 milioni di rifugiati nel mondo calcolati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite  (Unhcr) è nei paesi poveri, appena il 14% nell’Occidente. Di seguito, su gentile concessione dell’editore potete leggere un estratto dal paragrafo «Razzismo di Stato» dal capitolo «Rompere il silenzio».

Razzismo di Stato
Mi viene da ripetere la domanda che ha fatto il papa ai leader della Ue: «Europa, che cosa ti è successo?». Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Il razzismo sta crescendo in Europa e anche in Italia.
Abbiamo sempre pensato agli italiani come a delle persone accoglienti, ci siamo sempre vantati del detto «italiani brava gente». Ma solo perché in realtà da noi non c’erano africani, non c’erano persone di colore. Era facile non essere razzisti senza neri in giro. Da quando nel nostro paese sono arrivate delle persone con la pelle scura si è visto di che pasta siamo fatti. E da dove arriva questo razzismo? Arriva da un senso di superiorità che hanno gli europei e gli italiani.
Noi europei crediamo fermamente che la nostra civiltà sia migliore di quella degli altri popoli. Crediamo di essere detentori di una cultura, una religione, una filosofia superiori. Questa convinzione è quella sulla quale si sono appoggiati primo lo schiavismo e poi il colonialismo. C’è questo senso di superiorità che impedisce di sentire il nero come un pari. Altrimenti non si spiegherebbe questa ostilità nei confronti dei migranti africani.
Prestiamoci attenzione: i migranti cinesi in Italia sono presenti in misura pari a quelli africani e tuttavia non suscitano la stessa rabbia, la stessa riprovazione, lo stesso furore. Evidentemente scatta qualcosa a livello psicologico, qualcosa che è dentro di noi, un rifiuto, un senso di superiorità atavico, che non riusciamo a sopprimere.Quando anni fa chiedevo ai fedeli delle parrocchie che frequentavo delle sottoscrizioni per i poveri in Africa oppure di adottare a distanza dei bambini africani erano tutti molto generosi; toccati profondamente dalle situazioni di povertà che raccontavo, aprivano volentieri il portafoglio.
Un po’ perché le donazioni verso i poveri pongono sempre chi dona in una situazione di superiorità morale, il dono è sempre verso qualcuno che ha bisogno, che tende la mano. Ci sentiamo lusingati e gratificati da questo. Ma bisognerebbe saper rispettare il diritto dell’altro alla dignità, non soltanto donare con condiscendenza e senso di superiorità.
Il fatto nuovo è che il nero a chilometro zero non funziona. Il nero va bene se sta in Africa, più lontano possibile, il nero al nostro fianco ha svelato il razzismo che c’è in noi. Una ostilità che non dimostriamo verso i migranti di altri paesi. Evidentemente è proprio la pelle nera a disturbare l’uomo bianco. E come chiamare questo se non razzismo?
Siamo di fronte a un razzismo di Stato, preparato da decenni da leggi come la Turco-Napolitano, la Bossi-Fini, i decreti Maroni, la realpolitik di Minniti. È un fenomeno che ci interpella tutti. Ora, con il governo Salvini-Di Maio-Conte siamo addirittura allo sdoganamento verbale del razzismo, della xenofobia, dell’aggressività. La politica sull’immigrazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che porta a chiudere i porti, va contrastata. La disobbedienza civile in questo contesto è l’unica arma che abbiamo. «Una legge che degrada la personalità umana è ingiusta», scriveva dal carcere di Birmingham Martin Luther King. Le sue parole ci chiamano in causa: «I primi cristiani si rallegravano di essere considerati degni di soffrire per quello in cui credevano.
Allora la Chiesa non era un semplice termostato che misurava le idee e i principi dell’opinione pubblica, era un termostato che trasformava la società. Quando i primi cristiani entravano in una città le autorità si allarmavano e subito cercavano di imprigionarli perché “disturbavano l’ordine pubblico” ed erano “agitatori venuti da fuori”. Ma i cristiani non cedettero».

È questo lo spirito che deve tornare ad animare le comunità cristiane, se vogliamo sconfiggere il razzismo e la xenofobia che ci stanno travolgendo. Papa Francesco ha lanciato molti segnali, ma è rimasto inascoltato. Il suo messaggio non sta passando. È attaccato, è solo.

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