il commento al vangelo della domenica

è solo Cristo che rende appassionata la mia vita

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». (…)

Dopo due anni e mezzo passati con Gesù, in cammino per sentieri e villaggi, i discepoli vengono coinvolti in una sorta di sondaggio d’opinione: cosa si dice in giro di me? L’opinione della gente è bella: Rabbi, sei uno che allarga i cuori, uno bravo, un innamorato di Dio, uno che guarisce la vita. Gesù lancia una seconda provocazione, stringe il cerchio: ma voi, voi dalle barche abbandonate, voi dei cammini con me, voi amici che ho scelto a uno a uno, che cosa sono io per voi? Le sue domande assomigliano a quelle degli innamorati: quanto conto per te? Che posto ho, che importanza ho nella tua vita? Gesù non ha bisogno della risposta dei discepoli per sapere se è più bravo degli altri rabbini, ma per sapere se si sono innamorati di una almeno delle sue parole, se Pietro gli ha aperto il cuore. Non è facile rispondere: il primo passo è quello di chiudere i libri e i catechismi, e di guardare dentro le mie esperienze. Come dire chi tu sia per me Signore? Sei il mio rimorso, la mia dolce rovina; voce che sale, dice e ridice, e non tace mai, vento nelle mie vele, disarmato amore. Sei un maestro d’ali. Il secondo passo per una risposta vera è uscire dall’ovile rassicurante e immobile delle frasi fatte; via dal prontuario delle affermazioni non sofferte, che sono la rovina della comunicazione della fede. Perdersi invece nei campi della vita: “in Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). La Vita è teologa, è la prima catechista. Pietro risponde: Tu sei il Messia, la mano di Dio, il suo progetto di libertà. Sei il figlio del Dio vivente, Colui che fa viva la mia vita, il miracolo che la fa potente, inesauribile e illimitata. La domanda adesso rimbalza fino a me: perché io gli vado dietro? La risposta è semplice: per essere felice. Cristo è stato l’affare migliore della mia vita. Che non vuol dire avere una vita senza problemi o ferite, ma più piena, accesa, appassionata, vibrante, proiettata: in avanti, attorno, in alto.Nella seconda parte del brano Gesù capovolge la domanda, in un bellissimo contrappasso: “Pietro adesso sta a me dire chi sei tu per me: sei pietra e su questa pietra…. La beatitudine di Pietro (beato te, Simone!) raggiunge noi tutti. Forse anch’io sono nella lingua di Gesù “kefà”, piccola pietra. Non certo una macina da mulino, ma una pietruzza solamente. Eppure, per lui, nessuna piccola pietra è inutile, nessun coccio è da buttare. Dio non adopera macine da mulino, ma pietre scartate; non ha scelto l’oro per fare le sue creature, ma la creta. Le sue sono mani di vasaio che premono per dare alla mia argilla la forma migliore, mani di orafo che preparano una carezza di luce da posare sulle mie ferite.

(Letture: Isaia 22,19-23; Salmo 137; Romani 11,33-36; Matteo 16,13-20)

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il commento al vangelo della domenica

quel dolore della madre che è fonte della sua fede

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario – anno A

 In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. […]

La donna delle briciole, questa cananea intelligente e indomita, che non si arrende alle risposte brusche di Gesù, è uno dei personaggi più simpatici del Vangelo: riesce perfino a far cambiare idea a Gesù. Una donna pagana lo “converte” da maestro di Israele a pastore di tutto il dolore del mondo. Infatti non si esce indenni dall’incontro con il fuoco, con la splendida arroganza di un amore di madre. La donna nel racconto parla tre volte. La prima parola contiene la più antica di tutte le preghiere cristiane: Kyrie eleison, Signore pietà. Ma non dei peccati della mia bambina, bensì del suo dolore. E Gesù non le rivolse neppure una parola. Come ogni madre la donna non si arrende, dice e ridice il suo dolore, alza la voce fino a che provoca una risposta, ma scostante e brusca: sono venuto per quelli di Israele, non per te e tua figlia. La donna invece di abbandonare, rilancia. Sbarra il passo a Gesù, si butta a terra davanti a lui, e dal cuore erompe la seconda parola, tutta passione: Signore, aiutami!
Ancora una volta la risposta è dura: il pane dei figli non lo si getta ai cani. E qui sboccia la genialità della madre, nella sua terza parola: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola. Fai una briciola di miracolo, per noi, i cagnolini del mondo! Per il mio cucciolo, per mia figlia. È la svolta del racconto. Potente, la madre crede con tutta se stessa, che non ci sono cani e figli, uomini e cagnolini. Ma solo fame e creature da saziare; che il Dio di tutti è più attento al dolore dei figli che alla loro religione. La madre non conosce la teologia eppure conosce Dio dal di dentro, lo sente pulsare nel profondo delle ferite di sua figlia. Può sembrare una briciola, può sembrare poca cosa, ma le briciole di Dio sono grandi come Dio stesso. Gesù è come folgorato da questa immagine, si commuove: Donna, grande è la tua fede! Lei che non va al tempio, che non legge i Profeti, che prega gli idoli cananei, è proclamata grande nella fede. Lei sa che il dolore è sacro, che le lacrime convocano tutta la compassione di Dio; che la persona, con la sua sofferenza, viene prima della religione. Nel giorno in cui avremo poca fede o troppo dolore, quando verrà, dal fondo dell’essere, solo un gemito senza parole «Ho paura, aiutami, sto affondando», in quel momento Dio si farà vicino come pane per i figli, come briciole per ogni cucciolo d’uomo. «Grande è la tua fede». Grande è ancora la fede sulla terra, perché grande è il numero delle madri, donne di Tiro, di Sidone, di dovunque, che non sanno il Credo o il catechismo, ma sanno il cuore di Dio. Sanno che Dio ama con cuore di carne, con cuore di madre.

(Letture: Isaia 56,1.6-7; Salmo 66; Romani 11,13-15.29-32; Matteo 15,21-28)

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la fede e il ‘catechismo femminista’ di Michela Murgia

la ricerca e la fede

 Michela Murgia e quella sete di assoluto


di Alessandro Zaccuri 

Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi “teologa”. La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino

La scrittrice Michela Murgia

L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).

Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.  

La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.

Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.

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il commento al vangelo della domenica

nella bufera Dio stende la sua mano verso di noi


Nella bufera Dio stende la sua mano verso di noi
il commento di E.  Ronchi al vangelo della diciannovesima domenica del tempo ordinario

(…) La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò ve rso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». (…)

Lago di Galilea, il paesaggio che Gesù più amava, l’ambiente che a Pietro era più familiare. Mi piace questo pescatore che mi assomiglia, uomo d’acque e di roccia. Mi piace per questo suo umanissimo pendolo tra fede grande, bambina e un po’ folle, che lo spinge fuori dalla barca, e quella fede corta e contratta che lo fa affondare; per la capacità di sognare che fa germogliare miracoli, e l’improvvisa paura che lo fa affondare. Uomo di fede piccola, perché hai dubitato? Pietro fa passi di miracolo sul lago, dentro la bufera, e nel pieno del prodigio la sua fede va in crisi: “Signore affondo!”. Il miracolo non produce fede. Non servono miracoli per andare verso Gesù. Vedendo che il vento era forte, s’impaurì: il vento non lo puoi vedere, ma Pietro adesso ha occhi non più per Gesù, ma solo per le onde, la bufera, il caos. “Non consultarti con le tue paure, ma con le tue speranze e i tuoi sogni” (Giovanni XXIII). Pietro invece chiede consiglio alla paura e affonda. Nel pieno del miracolo dubita, mentre è preda del dubbio crede: “Signore, salvami!”. Dio salva, questa è la fede. Che se ne fa Pietro del catechismo mentre affonda? Radice inalienabile della fede è un grido che ci rimane in cuore: Signore ho bisogno, salvami. Niente lo cancella, neppure nell’uomo più perduto o distratto, neppure nel non credente. Viene il momento dell’affondamento, della paura, viene per tutti. Il primo gradino della fede è un grido. O anche il gemito di un dolore senza parole: ho bisogno! Abbiamo tutti provato un principio di discesa nelle acque della disperazione, un fallimento nei rapporti umani, una malattia grave, e forse proprio lì abbiamo trovato la forza di gridare a Lui, senza nessun merito, il coraggio di fidarci e di affidarci. E Lui ha allungato ancora un po’ quella mano che non ha mai cessato di tenderci. E ci siamo aggrappati, ce l’abbiamo fatta. Quante volte siamo stati tirati fuori! Perché i miracoli ci sono, sono perfino troppi, solo che non bastano mai alla fede piccola. Ed è per questo, perché non convertono nessuno che “Dio compie i miracoli a malincuore” (Giovanni della Croce). Perché io sono prete e credente? Perché ho affrontato le mie tempeste e non sono scappato; ho guardato negli occhi le onde e il vento e la paura e ho gridato. E le mie ferite, le ferite che mi sono anche inferto da solo, Dio le ha attraversate con una carezza. E mi ha detto: ci sono qua io, non temere. Proprio là il Signore ci raggiunge, al centro della nostra fede piccola. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci ma stende la mano per afferrarci. E allora la bufera diventa carezza, il grido nella tempesta diventa abbraccio tra l’uomo e il suo Dio.

(Letture: Prima Lettera Re 19,9a.11-13a; Salmo 84; Romani 9,1-5; Matteo 14,22-33)

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il commento al vangelo della domenica

trasfigurazione del Signore
il commento di don Pietro Guzzetti  al vangelo della domenica 6 agosto 2023

Il Vangelo di questa domenica ci racconta del momento in cui Gesù si è trasfigurato davanti a tre dei suoi discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Questi tre amici del Signore sono gli stessi che sono stati invitati a restare al suo fianco in altri passaggi forti della vita di Gesù, pensiamo al tempo doloroso e difficile nel Getsemani poco prima della Passione. Questo dettaglio ci fa comprendere l’importanza di ciò a cui assistono i tre discepoli e la difficoltà di comprendere correttamente la Trasfigurazione stessa. La scena si svolge in disparte e con un ristretto gruppo di discepoli, gli amici più intimi.

L’aspetto del Signore cambia, il suo volto diventa luminoso e appaiono al suo fianco Mosè ed Elia. Di fronte a questi grandi segni possiamo solo immaginare lo stupore dei discepoli, che come inebetiti restano muti, solo Pietro – forse senza rendersi conto delle sue stesse parole – dice: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Di fronte a questa proposta si oppongono le parole di Gesù: «Alzatevi e non temete». Non è possibile né corretto restare isolati in contemplazione di questa visione straordinaria, bisogna tornare in mezzo agli altri, proseguire il cammino, anche quando tutto ciò vuol dire affrontare la propria Passione e morte.

Fermiamoci a riflettere su questo aspetto: ci sono momenti nel cammino di ciascuno di noi, in cui si vivono forti esperienze a livello spirituale o di fede, penso a pellegrinaggio oppure ritiri o esercizi spirituali. Lo stare bene e in pace in quei giorni non deve diventare giustificazione per cercare di protrarre il più a lungo possibile quei contesti straordinari; bisogna piuttosto far tesoro di ciò che si è vissuto per cambiare e rafforzare il nostro impegno di cristiani nel cammino quotidiano, nelle situazioni ordinarie, nelle relazioni che viviamo tutti i giorni. La grazia da parte di Dio di farci sentire in maniera forte la sua presenza in alcune tappe della vita, deve essere occasione di trasfigurare la nostra per avvicinarla al modello di suo Figlio.

Nel passo della Trasfigurazione, una voce dal cielo rivela l’identità di Gesù: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Ciò che i discepoli avevano solo intuito, senza comprenderlo appieno, viene rivelato da Dio stesso: essi sono chiamati ad ascoltare Gesù, lo avevano già seguito, eppure gli viene chiesto di rinnovare il loro ascolto, di vivere un ascolto nuovo, vero, attento. Solo attraverso questo nuovo ascolto i discepoli avranno la capacità di comprendere cosa di lì a poco sarebbe accaduto, il manifestarsi della regalità di Cristo e della sua vittoria sulla morte, passandoci attraverso. Anche noi abbiamo bisogno di migliorare sempre più il nostro ascolto del Signore: col tempo può capitare di appiattire la Parola allo stesso livello delle parole che ci sommergono, di travisare le sue parole in base alle nostre aspettative e desideri.

Questa festa della Trasfigurazione sia occasione per trasformare la nostra persona, lasciandoci illuminare dalla luce di Cristo che salva e conduce a Lui.

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i lager a cielo aperto dei nostri tempi con l’avallo dell’Europa

TUNISI

Seduto in prima fila in uno degli scranni dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, il ministro degli Interni tunisino Kamel Feki ha il volto sereno ed è pronto a rispondere alle domande del parlamento sulla situazione migratoria nel Paese. È il 27 luglio scorso e al centro dell’attenzione ci sono le immagini provenienti dal confine con la Libia e l’Algeria, dove da quasi un mese si registrano deportazioni di massa nei confronti della popolazione subsahariana e del Sudan. Persone che vengono arrestate a Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti principali delle partenze lungo il Mediterraneo, e lasciate a loro stesse senza acqua e cibo in zone militari e inaccessibili dopo essere state picchiate o avere subito violenze di ogni tipo da parte delle forze di sicurezza locali. Le ricostruzioni più recenti parlano di 1200 persone espulse verso la frontiera algerina e libica

Soprannominato Stalin in patria solo per una netta somiglianza fisica con l’ex Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, le parole del ministro sono precise e puntuali: «Quelle immagini sono false. Lo dico e lo ripeto perché abbiamo le prove. È stato tutto fabbricato a monte e gli autori di quelle foto sono sorvegliati con audio e video».

Tuttavia sono parole che oggi possono essere smentite facilmente. In collaborazione con PlaceMarks, un progetto specializzato in ricerca e analisi di immagini satellitari, La Stampa ha ricostruito quanto sta avvenendo al confine con la Libia grazie a una serie di foto risalenti al 14 luglio. Due giorni prima della firma del memorandum d’intesa da un miliardo di euro tra Tunisia e Unione europea alla presenza della Commissaria Ue Ursula von der Leyen, la premier Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte. Nelle stesse ore in cui in vista della visita del 16 luglio a Tunisi la portavoce di Bruxelles Dana Spinant affermava che «la gestione dei migranti deve essere sempre svolta nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani».

Le immagini parlano chiaro. Si vedono almeno tre accampamenti di fortuna, di cui uno sembra essere costruito con una gabbia di ferro per gli allevamenti ittici, e un grande assembramento di persone, almeno 300, controllate a vista da alcuni mezzi militari tunisini e libici. A poche centinaia di metri di distanza si possono notare altri quattro mezzi della guardia di frontiera tunisina. Posizionati lungo un fossato costruito fra il 2014 e il 2018 per delimitare in maniera ancora più netta il confine, uno di questi è dotato di un mitragliatore o un cannone. «Da un’analisi storica dell’area si può affermare che lo scenario al confine tra Tunisia e Libia è qualcosa di completamente nuovo. Gli assembramenti e gli accampamenti prima non esistevano, mentre la presenza di militari in assetto di pattugliamento non è mai stata registrata in nessuna delle immagini disponibili, dal 2006 a marzo 2023», spiega Federico Monica di Placemarks.

Da queste istantanee prendono ancora più forza le testimonianze di chi in quella terra di nessuno ha vissuto per giorni senza acqua e cibo. Un limbo accessibile solo alla Croce rossa tunisina, impegnata in questi giorni a prelevare le persone per portarle in altri luoghi della Tunisia. Altri salvataggi sono stati compiuti dalle cosiddette autorità libiche, interessate a mostrare il volto più accogliente al netto di numerose denunce internazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

Sono testimonianze che raccontano di migranti, studenti, lavoratori, donne incinte, bambini e neonati che si sono visti privare tutto con la violenza; picchiati dalle autorità con mazze di ferro e bastoni, caricati su dei pullman e gettati senza risposte verso la Libia e l’Algeria. Per chi tentava di rientrare in Tunisia, ad attenderlo c’erano gas lacrimogeni e proiettili.Se l’Oim e l’Unhcr hanno emanato un comunicato per sollecitare un intervento a tutela di queste persone, Bruxelles sembra più concentrata sui numeri dei migranti in arrivo dal piccolo Stato nordafricano.

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uomini, donne, bambini abbandonati nel deserto, gli accordi cinici europei

“sdegno e dolore davanti ai corpi nel deserto, domani saranno dimenticati”

parla padre Camillo Ripamonti

il presidente Centro Astalli

«Diritti umani garantiti? Nulla di più falso. L’Europa non chiede alcuna garanzia, in questi memorandum si parla di intervenire sulle cause dei fenomeni ma in realtà interessa solo bloccare le persone.»

“Sdegno e dolore davanti ai corpi nel deserto, domani saranno dimenticati”, parla padre Camillo Ripamonti

Il suo è un j’accuse possente: “Tutti hanno giustamente e prontamente denunciato l’azione della Russia di sottrarsi all’accordo sul grano come mossa “cinica, crudele e disumana”, che avrà come conseguenza il rischio di affamare l’Africa e di far alzare notevolmente i prezzi dei cereali. Eppure la stessa lucidità di giudizio non sembra aver caratterizzato l’UE e l’Italia in occasione della firma del memorandum con la Tunisia, che nella parte che riguarda i migranti di fatto consegna migliaia di uomini, donne e bambini a uno Stato terzo, senza nessuna garanzia sui diritti umani, anzi pur avendo evidenza del loro mancato rispetto all’interno del Paese.  Una storia che ormai si ripete: dal memorandum con la Libia all’accordo con la Turchia, hanno avuto come effetto cinico, crudele e disumano di bloccare, rendere più pericolosi e spesso tragici i viaggi di decine di migliaia di persone. Non è vera la giustificazione data per la realizzazione di tali accordi, cioè l’azione dissuasiva e regolatoria dei flussi migratori. È vero invece che quello che vediamo con chiarezza nel comportamento di altri Stati dovrebbe definire anche tali accordi per quello che in realtà sono: interessati, cinici e spesso disumani”. A sostenerlo è padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

Padre Ripamonti le immagini dei civili, donne, uomini, bambini, morti di stenti nel deserto tra la Tunisia e la Libia chiamano in causa le responsabilità dei governi e dell’Europa. L’Unità ne ha fatto una mission editoriale.
È meritorio non chiudere gli occhi o relegare ai margini dell’informazione tragedie umanitarie di questa portata e ricorrenza. Di fronte a queste immagini c’è solo sdegno che riguarda anche i governi europei. Non vedo altri termini più idonei nel valutare scelte come quella compiuta dall’Unione Europea di dar vita a un memorandum come quello con la Tunisia, addirittura preso a modello da replicare in altri possibili accordi in Africa. Accordi che non vengono minimamente vincolati al rispetto dei diritti umani. Queste immagini strazianti dimostrano tragicamente che i diritti umani vengono calpestati, negati, e che la centralità della persona non è garantita, anche se a parole si dice che questi diritti sono garantiti. Nulla di più falso. Per tornare a quelle immagini agghiaccianti: si tratta di persone di origine sub-sahariana espulse dalle autorità tunisine. Abbandonati senza acqua, cibo o riparo a temperature che superano i 50 gradi, hanno camminato per chilometri prima di soccombere per lo stremo. Ennesima tragedia dovuta all’accordo di esternalizzazione firmato dall’Unione Europea con la Tunisia. Si susseguono le immagini di uomini, donne, bambini abbandonati nel deserto. Prima una mamma abbracciata alla figlia di sei anni, poi un padre stretto al figlio. Salvare vite umane è un imperativo inderogabile degli Stati. Le politiche di chiusura dei confini non possono essere considerate politiche di gestione dei flussi migratori perché in questi anni sono state strumenti di morte per troppi esseri umani. Sdegno, dolore e anche un’amara consapevolezza…  

Quale, padre Ripamonti?
Abbiamo già visto in passato che certe immagini colpiscono al momento ma non rimangono indelebili nella nostra memoria e non ci spingono a un cambio di orizzonte e di prospettiva. Anzi, l’Unione Europea facendo i propri interessi cerca di bloccare le persone in Paesi terzi che non rispettano i diritti umani.

L’Europa-fortezza, l’Europa che esclude. L’Europa mossa da un’ossessione che si fa politica: esternalizzare le frontiere.
La conferenza che c’è stata domenica scorsa a Roma ha messo in evidenza che la questione migratoria è questione molto più complessa. Però poi alla fine quello che risulta essere immediato e necessario, una sorta di imperativo categorico, è bloccare le persone. Al di là di prese di posizione in cui si afferma che i processi sono lunghi, che s’investirà anche sulle cause dei fenomeni, alla fine ci si concentra sull’esternalizzazione dei confini che poi è quello che interessa davvero. Non fare arrivare le persone in Europa. Resta questo il vero obiettivo dell’Unione Europea. Si dice: non farle arrivare in modo illegale affidandole ai trafficanti, ma in realtà quello che s’intende è non farle arrivare comunque, cercando in qualche modo di regolamentare invece i flussi legati al lavoro. Bloccare alcune persone e farne arrivare delle altre, selezionandole.

Decine di rapporti Onu e delle più importanti associazioni che monitorano il rispetto dei diritti umani, centinaia di testimonianze di sopravvissuti, non hanno smosso il ministro dell’Interno Piantedosi dalla sua convinzione, ribadita in una recentissima intervista, che la Tunisia rispetta i diritti umani.
Alla prova dei fatti abbiamo visto che queste persone muoiono perché respinte ai confini desertici tra Tunisia e Libia. Queste immagini agghiaccianti contraddicono questa assunzione a parole del rispetto dei diritti umani. Ma sapevamo già prima di queste immagini che la Tunisia aveva respinto centinaia se non migliaia di migranti verso la Libia, nel deserto, lasciandoli in balia di se stessi. Lo stesso era successo con la Libia. Si firmano accordi, li si reiterano nel tempo, senza esigere immediatamente garanzie sui diritti, e nei mesi e anni successivi si ha evidenza continua di questo mancato rispetto dei diritti umani. Questo è accaduto con la Libia, questo sta accadendo ora con la Tunisia. Il perseverare è diabolico, verrebbe da dire. Così come è già successo con la Turchia di Erdogan e con la Libia delle milizie, l’UE, per cercare di contenere gli arrivi sulle coste italiane e d’Europa, finanzia un regime che ha cancellato le garanzie democratiche al proprio interno. E lo fa senza porre alcuna concreta condizionalità sul rispetto dei diritti umani fondamentali, come dimostrano i recenti fatti che hanno visto accadere nel Paese una vera e propria caccia allo straniero nei confronti dei migranti sub-sahariani, e deportare illegalmente ai confini con la Libia e con l’Algeria centinaia di persone in transito verso l’Europa, causando la morte di molte di loro, incluse donne e bambini, e violando quel diritto internazionale che lo stesso Memorandum richiama.

Resta al fondo l’idea, la visione dei migranti come minaccia e non come ricchezza per le nostre società.
Per tanto tempo i migranti sono stati strumentalizzati a fini politici per ottenere dei vantaggi elettorali. In questo momento siamo in una situazione in cui emerge la necessità concreta a livello europeo della presenza di migranti che vadano a rinfoltire le fila per il lavoro. Però non si vuole contraddire quello che si è detto fino a ieri sui migranti. Quindi si crea questo cortocircuito in cui i migranti sarebbero utili a noi però non quelli che arrivano in modo irregolare. Ma sotto sotto si nasconde questa visione del migrante non nella sua dignità, come persona, si può farlo arrivare solo se è simile a noi, se ci può essere utile. Questo uso strumentale delle persone è del tutto inaccettabile.

Che fare allora?
Bisogna assolutamente uscire da questa prospettiva e considerare i migranti come persone, come risorse per le nostre società, non soltanto in una accezione utilitaristica, per il lavoro che potrebbero svolgere, ma per la ricchezza della loro appartenenza culturale, appartenenza religiosa, che può arricchire le nostre società. Dobbiamo cambiare la prospettiva. Non prendere quelli che vogliamo, come vogliamo, quasi fossimo in una sorta di grande supermercato umano planetario, ma pensare a un futuro condiviso, nel quale queste persone si siedono al tavolo con noi nelle nostre società e immaginano con noi il futuro.

In un suo bel libro, lei ha messo un accento allarmato sulla “globalizzazione dell’indifferenza”.
Dieci anni fa, in occasione del suo primo viaggio a Lampedusa, papa Francesco usò questa espressione, la “globalizzazione dell’indifferenza”. A distanza di dieci anni, non possiamo che raccogliere i frutti, purtroppo tristi, amari, dolorosi, di questa indifferenza. Siamo ancora a piangere delle persone morte nel deserto, respinte brutalmente, perché non si vuole riconoscerle come esseri umani. Se questa non è “globalizzazione dell’indifferenza”, allora ditemi di cosa si tratta.

Si insiste sul concetto di sicurezza, quasi sempre in termini “securitari”, e quasi mai sui concetti di legalità e inclusione. Perché, padre Ripamonti?
Credo perché nel corso degli anni abbiamo vincolato il discorso migratorio a un discorso politico funzionale al consenso elettorale. Bisognava identificare un nemico, fomentare nelle persone la paura e l’odio verso questo nemico, il migrante. Un bersaglio di comodo per quella politica che sull’odio e la paura cercava voti. Io identifico chi è il nemico. E il nemico è il migrante, magari islamico e alimento la paura verso questa persona. E così costruisco retoricamente il mio discorso politico per finalità elettorali intorno a questo nemico. Uscire da questo discorso diventa sempre più difficile. Sono più di venti-trent’anni che si alimenta questa narrazione distorta, tanto da essere entrata nell’immaginario collettivo. Bisognerebbe smontare dal punto di vista culturale questa costruzione e riprendere il discorso da una visione del migrante come una persona che viene da un altro luogo e porta delle novità rispetto al contesto nel quale andrà a collocarsi, e questa novità può essere di giovamento anche per le nostre società. La diversità va intesa come ricchezza, come fondamento dell’inclusione. L’umanitarismo è la nostra àncora di salvezza.

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