una riforma della chiesa a partire dalla liturgia

la Chiesa va riformata con coraggio

di ENZO BIANCHI

Abbiamo seguito tutto il percorso sinodale e, quindi, anche la celebrazione a Roma in due tappe del Sinodo voluto da papa Francesco come innovativo, inizio di una vera riforma, che speriamo sia ripresa nei prossimi anni.

Perché sarà un Sinodo certamente dei vescovi della Chiesa di Dio, ma sarà anche un Sinodo che avrà come soggetto il popolo di Dio sotto la guida dei pastori. Papa Francesco ha avuto coraggio e ha mostrato il suo carisma profetico che lo pone davanti a un gregge che, in buona parte, fatica ancora a seguirlo. Questo spiega perché nell’itinerario sinodale si sono accese attese e speranze che poi il Papa stesso ha dichiarato legittime, ma ancora bisognose di riflessione, di ricerca. E, soprattutto, di maturazione nel popolo che è la Chiesa.

Occorrerà anche affrontare la novità dell’emergenza delle diverse culture presenti tra i cattolici; culture che, di fatto, determinano in modo diverso l’etica, soprattutto ispirata dalla parola di Dio e dalla grande tradizione. Sarà sufficiente la formula dell’ “armonia delle diversità”, o delle “diversità riconciliate” per confermare l’unità certamente plurale, ma unità della fede?

Dopo decenni — i decenni del post-Concilio! – in cui il magistero non osava parlare di riforma della Chiesa, e ricorreva all’espressione renovatio, “rinnovamento”, papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha fatto risuonare questa parola sulle sue labbra senza paura. E l’ha indicata come un’urgenza, convinto che la “riforma” sia una dinamica salutare della vita del cristiano e della vita della Chiesa per tentare di ritornare con fedeltà al Vangelo.

E noi siamo convinti che se la Chiesa non si muove con coraggio nel senso della riforma, sempre più si troverà in una aporìa (l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema), nella quale perderà ogni sapore come il sale della parabola evangelica raccontata da Gesù. Riforma non è rivoluzione continua, non è brama di novità a ogni costo, ma risposta ai segni che vengono dalla storia e che richiedono un modo nuovo di vivere la Chiesa, di predicare il Vangelo, di stare nel mondo.

C’è riforma quando viene affermato radicalmente il primato del Vangelo su tutto; quando si conserva il tesoro prezioso del Vangelo; quando si lasciano cadere le ricchezze non necessarie in nome della carità. Per questa convinzione, in queste pagine della rivista, vorremmo umilmente — accettando di essere incompleti e anche di commettere degli errori nel delineare le forme del futuro —, cercare di riflettere e indicare alcune possibilità di riforma, pronti ad accogliere anche le correzioni da parte dei pastori e da parte di cristiani profetici, dotati di chiaroveggenza evangelica più di noi.

E cominciamo, dunque, con la liturgia che secondo me appare la realtà più ingessata, quasi imbalsamata, sempre meno eloquente e significativa per i credenti di oggi. Purtroppo, la riforma del concilio Vaticano II ha scatenato una reazione fino a produrre un doloroso scisma, che perdura a distanza di sessant’anni. E la Chiesa, come tramortita e spaventata, si è sentita in difficoltà a continuare la riforma. È risuonata a un certo punto una formula beata: “riforma delle riforme”, ma avendo il segno di un ritorno al passato non ha certo giovato.

Regna, dunque, la paura di cambiare qualcosa nel rituale. E — va anche detto — se uno osa farlo, l’autorità interviene in modo pesante… No, la liturgia deve oggi essere “celebrata altrimenti”! Certo, il celebrante deve essere un presbitero serio, preparato liturgicamente, che non innova tanto per innovare, che non si presenta come un attore teatrale, ma che, con discernimento e nella fedeltà al testo prescritto, innova parole e segni là dove sono necessari. L’impressione che molti hanno è che oggi la liturgia interessi poco alle autorità della Chiesa: queste sono preoccupate che si segua e si osservi pedissequamente il rituale prescritto! Viene qui da domandarsi se l’assemblea non desideri una celebrazione davvero più adatta alla sua realtà.

Si ha l’impressione che all’estero siano molti i tentativi di rinnovamento della celebrazione della messa, soprattutto in Belgio e in Francia (penso a La Messe qui prend son temps, presso la chiesa di Saint Ignace, a Parigi, e alle celebrazioni di Gabriel Ringlet in Belgio), mentre in Italia si ha il timore e credo anche la pigrizia mista a una scarsa fiducia nei cambiamenti. La “messa altrimenti” non è un’altra messa, ma è la messa di sempre, nella quale trovano posto alcuni cambiamenti di parole, linguaggi e segni che dicono però sempre la stessa realtà: l’eucaristia, la cena del Signore! E allora oso per una riforma indicare alcuni punti, a cominciare da quelli che, secondo me, sono più necessari.

Innanzitutto, perché non mutare le collette “sulle offerte”, che hanno un linguaggio tipicamente medioevale e abitualmente si rivolgono a Dio in un atteggiamento e con parole che non sono quelle dei figli ma dei servi dei poteri mondani? E così per molte collette del “dopo la comunione”, il linguaggio eucologico del Messale è troppo segnato da venerabili e antiche origini, poco comprensibile per i partecipanti all’eucaristia.

Anche i prefazi possono essere formulati in modo meno dogmatico e più esistenziale. Non è un caso che nei sussidi per la Messa siano presenti prefazi che sono ricchi di messaggio e nel contempo collocano le preghiere eucaristiche nel contesto in cui l’assemblea vive.

Ma si abbia anche il coraggio di mutare alcune espressioni delle anafore, o preghiere eucaristiche: queste non sono intoccabili, non sono parola di Dio, sono state donate alla Chiesa in tempi e culture differenti. Diverse sono le espressioni che insistono in modo ossessivo sul sacrificio (nel Messale italiano addirittura: «… in sacrificio per noi» appare nelle parole dell’Istituzione, non presenti nel testo originale latino!). E veramente faticose sono le espressioni nelle quali si chiede a Dio: «Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa la vittima immolata per la nostra redenzione» (cf Preghiera eucaristica III). Inoltre, non ci si rivolge a Dio come alla Maestà, dopo averlo invocato come Padre!

Ma sarebbe anche venuto il tempo di rendere la celebrazione eucaristica non più un faccia a faccia, come avviene adesso, tra presbitero presidente dell’assemblea e i fedeli partecipanti. Che senso ha che il presbitero, a differenza dei partecipanti alla messa, non sia rivolto anche lui verso l’altare, verso l’abside, come tutti? Questo faccia a faccia stanca e fa del presbitero un protagonista, non colui che guida l’assemblea.

Questi, quando entra per tutti i riti iniziali — atto penitenziale, inno del giorno, collette… — dovrebbe stare o in testa o in fondo all’assemblea, e comunque come l’assemblea rivolto verso l’abside (altare, croce), e soltanto dopo salire al seggio per ascoltare le letture. Sale all’altare e sta rivolto verso l’assemblea dall’offertorio alla comunione ma poi scende, e già la preghiera “dopo la comunione” la recita rivolto anche lui verso l’abside.

A ragione i tradizionalisti dicono versus Dominicum, “verso il Signore”. Questa struttura è stata prassi liturgica della comunità di Bose fin dal 1971, ottenendo l’accettazione della gente che vede tutti i membri del popolo di Dio che quando pregano sono rivolti verso il Signore.

Occorre un vero laboratorio che ricerchi, studi e produca testi. E che dia inizio a una riforma liturgica, senza paura. Altrimenti, presto non ci saranno più molti frequentatori della messa: anche i più vecchi, tridentini di formazione come me, ne sentono il bisogno!

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