il nuovo libro di papa Francesco
qui sotto la genesi di questo libretto di Andrea Tornielli col quale il libro è stato scritto e una riflessione di Vito Mancuso sui pregi e i limiti di esso:
e il Papa mi disse: “Dio perdona non con un decreto ma con una carezza”
di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 10 gennaio 2016
Il 13 marzo 2015, mentre ascoltavo l’omelia della liturgia penitenziale al termine della quale Papa Francesco stava per annunciare l’Anno Santo straordinario, ho pensato: sarebbe bello potergli porgere alcune domande incentrate sui temi della misericordia e del perdono, per approfondire ciò che quelle parole avevano significato per lui, come uomo e come sacerdote. Senza la preoccupazione di ottenere qualche frase a effetto che entrasse nel dibattito mediatico attorno al sinodo sulla famiglia, spesso ridotto a un derby fra opposte tifoserie. Mi piaceva l’idea di un’intervista che facesse emergere il cuore di Francesco, il suo sguardo. Un testo che lasciasse aperte delle porte, in un tempo, come quello giubilare, durante il quale la Chiesa intende mostrare in modo particolare, e ancora più significativo, il suo volto di misericordia. Il Papa ha accettato la proposta. Questo libro, «Il nome di Dio è Misericordia», è il frutto di un colloquio cominciato nel salottino della sua abitazione, nella Casa Santa Marta in Vaticano, in un afosissimo pomeriggio dello scorso luglio, pochi giorni dopo il ritorno dal viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Avevo inviato con pochissimo anticipo un elenco di argomenti e domande che avrei voluto trattare. Mi sono presentato a Santa Marta munito di tre registratori: due digitali e uno con le vecchie micro-cassette. Mi era già capitato nel dicembre 2013, alla fine del colloquio poi pubblicato su La Stampa, di premere un tasto sbagliato e perdere un file audio (anche allora mi ero fortunatamente premunito di un secondo apparecchio). Francesco mi attendeva tenendo davanti a sé, sul tavolino, una concordanza della Bibbia e delle citazioni dei Padri della Chiesa. Mi ha subito invitato a togliermi la giacca, visto il caldo, per farmi mettere più a mio agio. Quindi si è accorto che non avevo un quaderno o blocco per appunti, ma soltanto un piccolo taccuino dove avevo segnato le domande. E si offerto di andare a prendere dei fogli bianchi. Abbiamo parlato a lungo, ha risposto ad ogni domanda. Ha parlato attraverso esempi legati alla sua esperienza di sacerdote e di vescovo, raccontando ad esempio del marito di una sua nipote, divorziato risposato all’epoca ancora in attesa della dichiarazione di nullità del primo matrimonio, il quale ogni settimana andava al confessionale per parlare con il sacerdote, pur anticipandogli sempre: «Lo so che lei non mi può assolvere». Ha raccontato del dolore provato al momento della morte di padre Carlos Duarte Ibarra, il confessore incontrato casualmente in parrocchia quel 21 settembre 1953, nel giorno in cui la Chiesa celebra san Matteo apostolo ed evangelista. Jorge Mario Bergoglio era diciassettenne, e fu in quell’incontro che si sentì sorpreso da Dio, decidendo di abbracciare la vocazione religiosa e il sacerdozio. La sera del funerale di padre Duarte, avvenuta un anno dopo quell’incontro, il futuro Papa aveva «pianto tanto, nascosto nella mia stanza», «perché avevo perso una persona che mi faceva sentire la misericordia di Dio». Mi hanno particolarmente colpito le poche parole con le quali ha replicato a una domanda sulla sua famosa frase «Chi sono io per giudicare?», detta sul volo di ritorno da Rio de Janeiro nel luglio 2013 a proposito dei gay. Il Papa ha sottolineato l’importanza di parlare sempre di «persone omosessuali», perché «prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale». Come pure è significativa la distinzione tra peccatore e corrotto, che non riguarda innanzitutto la quantità o la gravità delle azioni commesse, ma il fatto che il primo umilmente riconosce di essere tale e continuamente chiede perdono per potersi rialzare, mentre per il secondo «viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere». O ancora le parole con le quali Papa Bergoglio parla dei suoi incontri con i carcerati, e di come non si senta migliore di loro: «Ogni volta che varco la porta di un carcere per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io?». Nelle sue risposte Francesco ha parlato più volte dell’importanza di sentirsi piccoli, bisognosi di
aiuto, peccatori. Spero che l’intervistato non se ne abbia a male se rivelo, a questo proposito, un piccolo retroscena. Si stava parlando della difficoltà a riconoscersi peccatori, e nella prima stesura che avevo preparato, Francesco affermava: «La medicina c’è, la guarigione c’è, se soltanto muoviamo un piccolo passo verso Dio». Dopo aver riletto il testo, mi ha chiamato, chiedendomi di aggiungere: «…o abbiamo almeno il desiderio di muoverlo», un’espressione che io avevo maldestramente lasciato cadere nel lavoro di sintesi. In questa aggiunta, o meglio in questo testo correttamente ripristinato, c’è tutto il cuore del pastore che cerca di uniformarsi al cuore di Dio e non lascia nulla di intentato per raggiungere il peccatore. Non trascura alcuno spiraglio, seppur minimo, per poter donare il perdono. Dio, spiega Francesco nel libro, ci attende a braccia aperte, ci basta muovere un passo verso di Lui come il Figliol Prodigo della parabola evangelica. Ma se non abbiamo la forza di compiere nemmeno questo, per quanto siamo deboli, basta almeno il desiderio di farlo. È già un inizio sufficiente, perché la grazia possa operare e la misericordia essere donata, secondo l’esperienza di una Chiesa che non si concepisce come una dogana, ma cerca ogni possibile via per perdonare. Ha detto Francesco in una delle omelie di Santa Marta: «Quanti di noi forse meriterebbero una condanna! E sarebbe anche giusta. Ma Lui perdona!». Come? «Con la misericordia che non cancella il peccato: è solo il perdono di Dio che lo cancella, mentre la misericordia va oltre». È «come il cielo: noi guardiamo il cielo, tante stelle, ma quando viene il sole al mattino, con tanta luce, le stelle non si vedono. Così è la misericordia di Dio: una grande luce di amore, di tenerezza, perché Dio perdona non con un decreto, ma con una carezza».
dal fedifrago devoto alla prostituta per forza: aneddoti di misericordia
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 10 gennaio 2016
Non si deve chiedere quello che non può dare a questo libro-intervista di Papa Francesco con Andrea Tornielli, delle cui 120 pagine a stampa più di un terzo sono bianche o di strumenti redazionali. Quello che il libro può dare e dà effetti-vamente è la saggezza vissuta di un uomo di Dio che crede profondamente nel Vangelo e nella sua capacità di rinnovare la vita. Dalla sua lunga esperienza il papa trae una serie di aneddoti, uno più fresco dell’altro, raccontati sempre con grazia e delicatezza. C’è la vecchietta argentina che dice che Dio perdona sempre perché altrimenti il mondo non esisterebbe, la donna sola che per mantenere i figli si prostituisce e che ringrazia di essere chiamata comunque “signora”, l’uomo devoto che non perde una messa e ha una relazione con la cameriera e si giustifica dicendo che le cameriere ci sono anche per questo, la donna che non si confessa da quando aveva 13 anni perché allora il prete le chiese dove teneva le mani mentre dormiva, la signora cui vengono richiesti per prima cosa 5.000 dollari per la causa di nullità matrimoniale, la ragazza che nel postribolo incontra l’uomo che forse la sposerà e che per questo si reca in pellegrinaggio, e altri vividi esempi di concretissima umanità. Tutto il procedere del libro è segnato dall’esperienza del peccato, cui il papa attribuisce un’importanza decisiva, rendendola quasi una condizione indispensabile dell’esperienza spirituale: se il nome di Dio infatti è misericordia, solo chi ha bisogno di misericordia, cioè il peccatore, lo può incontrare. Il peccato, a partire dal peccato originale ritenuto “qualcosa di realmente accaduto alle origini dell’umanità” (p. 58), funziona quindi come un paradossale pre-sacramento. Per questo coloro che non ne hanno il rimorso sono il vero bersaglio polemico, cui il Papa giunge persino ad augurare di peccare: “Ad alcune persone tanto rigide farebbe bene una scivolata, perché così, riconoscendosi peccatori, incontrerebbero Gesù” (p. 82). L’altro aspetto su cui il libro si sofferma a lungo è il sacramento della confessione, che per il Papa è il luogo concreto per incontrare la misericordia di Dio e al cui riguardo non mancano consigli ai confessori. Il libro è un campione esemplare della spiritualità di Bergoglio: la vita è una guerra, vi sono molti feriti, la Chiesa è un ospedale da campo, i suoi ministri devono operare come medici e infermieri. La misericordia di cui parla il Papa si configura quindi come un’operazione strettamente ecclesiastica. Anche il suo Dio è quello della più tradizionale dottrina cattolica basata sul nesso tra peccato originale e redenzione tramite il sacrificio: “Il Padre ha sacrificato suo Figlio”. Che cosa invece non si deve chiedere al libro perché non lo dà? Non si deve chiedere la trattazione, anche solo come accenno, delle capitali questioni filosofiche e teologiche sottese all’argomento trattato. Per quanto riguarda la dimensione filosofica, la questione del peccato e del suo perdono rimanda al rapporto tra coscienza, libertà e giudizio morale. E le domande che sorgono dal contesto contemporaneo sono: esiste realmente la coscienza? Siamo veramente liberi e quindi responsabili del bene e del male commessi? Il bene e il male esistono come qualcosa di oggettivo o si tratta di convenzioni culturali che l’uomo più evoluto può superare andando “al di là del bene e del male”? Per quanto riguarda la teologia, la questione principale concerne il rapporto tra grazia e libertà: la misericordia di Dio si dà del tutto gratuitamente o per renderla efficace è necessario un primo passo dell’uomo? La dottrina ecclesiastica condannò come eretica (definendola per la precisione semipelagiana) la prospettiva secondo cui la misericordia divina dipende da un primo piccolo passo dell’uomo. Eppure questa è esattamente la tesi sostenuta più volte dal papa (a pp. 15, 50 e 72), in linea con la tradizione della teologia gesuita che tra la fine del 500 e l’inizio del 600 scatenò una violenta e non conclusa polemica con i più tradizionali domenicani detta “controversia de auxiliis”. Vi è poi la questione della vita futura: se la misericordia è veramente il nome di Dio, come giustificare la dannazione eterna dell’inferno? Fosse anche solo per pochi, o anche solo per l’angelo decaduto diventato il Diavolo, l’esistenza dell’inferno eterno rende aporetica l’affermazione della
misericordia quale nome di Dio. Se la tesi del papa, come io ritengo, è vera, essa impone logicamente la dottrina detta “apocatastasi”, cioè il perdono finale per tutti. Essa lungo la storia fu sostenuta da grandi teologi, ma purtroppo è eretica per la dottrina ufficiale della Chiesa. Tali questioni non le si deve chiedere a questa pubblicazione d’occasione, ma al papa e alla sua sapienza ritengo di sì.