I bimbi annegati lasciati in pasto ai pesci L’Europa rinvia: se ne parla fra otto mesi
Le foto e i nomi delle decine di minori siriani morti nel barcone affondato l’11 ottobre a 60 miglia da Lampedusa. La protesta dei familiari. Che lanciano una petizione: “Recuperate i corpi e aprite un’inchiesta”. Ma i capi dei governi Ue hanno deciso di rimandare la discussione a giugno 2014
un bel servizio di Fabrizio Gatti su ‘l’Espresso’
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Tutte le fotografie e i nomi nel blog Undercover
Per la maggioranza dei capi di Stato e di governo europei non è urgente nemmeno la circostanza che nei primi undici giorni di ottobre in Europa siano complessivamente annegate 646 persone, tra cui una sessantina di bambini siriani e sedici bimbi eritrei. E non lo è la coincidenza che tutti loro avessero diritto di richiedere asilo in base alle convenzioni internazionali che gli Stati rappresentati a Bruxelles hanno firmato, ma non avessero trovato altro passaggio se non quello offerto dalla mafia degli scafisti. Il Consiglio europeo, chiusi i lavori del 24 e 25 ottobre, ha infatti deciso di prendere tempo. E di rinviare soltanto a giugno 2014 una “riflessione di lungo termine sulle politiche dell’immigrazione”. Cioè tra otto mesi, dopo le elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo. Una vergognosa furbizia politica per non scontentare il proprio elettorato. E sarà soltanto una riflessione di lungo termine. Non una decisione.
Al di là delle parole di rito, l’ultimo vertice europeo è stato l’ennesima dimostrazione di cinismo e indifferenza. Ola Izoli nel naufragio dell’11 ottobre ha perso il fratello di 19 anni, Mohamed Jafar. E nella sua email a l’Espresso inviata da Dubai, Ola descrive la sua disperazione: «La Croce rossa italiana mi ha detto di avere pazienza. Ma fino a quando? Se mio fratello è ancora sott’acqua, come farò a riconoscere il suo corpo dopo tutto questo tempo?». Per assistere i familiari come Ola Izoli i governi europei, l’Italia in testa, non hanno istituito nessuna unità di crisi. Nemmeno un numero telefonico dove cercare informazioni attendibili. Al contrario, le dodici famiglie sopravvissute che le operazioni di soccorso avevano separato sono ancora divise tra l’Italia e Malta. Fra di loro alcuni bambini, dai nove mesi ai tre anni. I ministeri dell’Interno e degli Esteri italiano e maltese stanno seguendo la procedura ordinaria di ricongiungimento che richiede mesi. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati sta cercando una soluzione più rapida. Sono famiglie scampate alla guerra civile in Siria. Poi all’inferno del naufragio. Ma dopo tre settimane quei bambini sono ancora in Sicilia. I loro genitori a La Valletta. Una lontananza disumana. E meno male che sia l’Italia, sia Malta fanno parte dell’Unione Europea.
Gli argomenti che i governi europei dovrebbero affrontare urgentemente non mancano. A cominciare dalle ridicole regole dell’assistenza in mare, la cui applicazione nel Mediterraneo è responsabile negli anni di centinaia di morti. Basta il naufragio dell’11 ottobre a denunciarne tutta la loro pericolosità. Il primo intervento è infatti partito da Malta, ad almeno 230 chilometri di distanza. E non da Lampedusa, a 110 chilometri, circa 60 miglia, la metà del tempo necessario. Questo perché il punto in cui il peschereccio stava affondando ricade, secondo gli accordi internazionali, sotto la competenza di ricerca e soccorso di Malta, non dell’Italia. «Le navi militari sono arrivate sul posto dopo quasi due ore dalla prima chiamata di sos», racconta Racha Muhriz. Racha ha perso la sorella Taghrid, 31 anni, e la nipotina Cham, 5 anni, scomparse in mare, ma ha raccolto la testimonianza del cognato, sopravvissuto al naufragio con la figlia gemella e ora trattenuto con la piccola a Malta.
Attraverso le carte nautiche del Canale di Sicilia, l’Espresso ha calcolato che il relitto con il suo carico di corpi rinchiusi nella stiva e nelle camere del ponte principale si sarebbe adagiato su un fondale tra gli 80 e i 100 metri. Una profondità accessibile ai sommozzatori: con l’impiego di una campana pressurizzata e, in superficie, di una camera iperbarica per la decompressione, secondo tecniche comunemente usate dai sub specializzati nella manutenzione delle piattaforme petrolifere, ma anche dalla Marina militare.
I familiari dei dispersi con una petizione chiedono il recupero delle salme. E che al più presto sia eseguita l’ispezione dello scafo affondato e la localizzazione dei corpi: operazione, questa, che la Marina potrebbe concludere nel giro di pochi giorni utilizzando le telecamere di “Pluto”, il robot subacqueo teleguidato acquistato dal ministero della Difesa per le attività di sminamento. Un intervento senza alcun rischio per il personale. Sarebbe invece il primo importante passo di un’inchiesta per pirateria e terrorismo: il vecchio peschereccio con almeno 480 profughi a bordo secondo la testimonianza dei sopravvissuti sarebbe colato a picco per i colpi di mitragliatrice sparati da una motovedetta di Tripoli o, sostengono altri superstiti, da una imbarcazione inviata dalle milizie libiche, forse nel tentativo di rapinare i passeggeri. A bordo c’erano molti professionisti siriani, medici, ingegneri, con le loro famiglie, i bambini e qualche scorta di denaro per l’esilio. Oltre a un centinaio di profughi sub sahariani che erano stati chiusi a chiave nella stiva perché non fossero visti dai siriani durante l’imbarco. I trafficanti libici di Al Zuwarah che avevano venduto il viaggio verso Lampedusa, avevano promesso meno passeggeri del solito. Per questo hanno nascosto gli africani nella stiva. Così ai profughi fuggiti dalla Siria hanno potuto chiedere un prezzo più alto: tremila dollari a testa, invece di milleseicento.
Sempre secondo le testimonianze raccolte a Malta, il vecchio peschereccio era stato affidato a quattro scafisti, tre tunisini e un libico. Con loro anche un passatore siriano di Aleppo: l’uomo che aveva contattato le famiglie e che con la sua presenza a bordo aveva garantito sulla sicurezza. Durante la traversata, il livello dell’acqua sempre più alto nello scafo ha invece spento il motore diesel. A quel punto uno dei tre tunisini è andato a controllare ed è rimasto ustionato da un getto di vapore. Subito dopo sul ponte è scoppiata una rissa tra il passatore di Aleppo e gli scafisti. Alcuni testimoni riferiscono di una sparatoria tra di loro, mentre le famiglie ammassate con i bimbi nelle cabine e gli africani chiusi a chiave nella stiva gridavano disperati. Perché, racconta un papà che ha perso in mare la figlia e la moglie, «ormai era evidente a tutti che saremmo affondati».