le parole feroci di Salvini contro i rom
la politica della ferocia
a proposito di ‘radere al suolo i campi rom’
di Michele Serra
in “la Repubblica” del 9 aprile 2015
È sperabile e forse probabile che Matteo Salvini, quando dice che bisognerebbe “radere al suolo i campi Rom”, abbia in mente qualcosa di meno insolente e meno violento. Per esempio che, con congruo preavviso, quei campi andrebbero sgomberati. Perché allora, Salvini dice proprio “raderli al suolo”? Lo dice perché è al tempo stesso artefice e vittima di uno dei più funesti equivoci della scena politica italiana degli ultimi anni. L’idea che il “parlare come si mangia” sia un decisivo passo avanti; mentre è un penoso, umiliante passo indietro. La politica è — da sempre — il tentativo di dare una forma, anche verbale, alle pulsioni di massa. Di renderle, diciamo così, presentabili in pubblico, e non per il piacere privato di quattro intellettuali, ma per dare una voce più intellegibile e dunque più autorevole soprattutto a chi voce non ha. Che quella dei campi rom sia una questione sociale rilevante, e lo sia tanto per i rom quanto per chi con quei campi convive, è perfettamente vero. Ma nemmeno il più ottuso e infelice dei politici, a meno che sia un nazista (e Salvini non lo è)
può dire pubblicamente che quei campi vanno “rasi al suolo” senza attirarsi la dura critica e lo spregio di chi (per esempio la Caritas) la politica la fa sul campo. La fa nelle strade e nelle case, nelle periferie e nei campi nomadi, non nei “salotti del centro” tanto invisi a Salvini: e proprio per questo conosce le difficoltà, la fatica, la povertà, il degrado, le paure, il dolore umano, insomma la maledetta complicazione del problema. E detesta le semplificazioni becere, quelle scodellate in tivù per cercare l’applauso facile. L’urlaccio, il grido minaccioso, il borborigmo che non trova sbocchi non sono politica. Sono, della politica, un ingrediente bruto che chi fa politica ha il dovere di elaborare. Ignorare quegli ingredienti per non sporcarsi le mani è un vizio grave. Ma ficcarcele dentro, le mani, estraendone i peggiori effluvi e le più dolenti frattaglie come trofei, è il vizio opposto. In questo vizio sguazza, fino dalle sue origini, la Lega, che della sua matrice “popolana” si fa un vanto. Non rendendosi conto che il politicamente scorretto, per quanto lucroso (a tratti) e per quanto di facilissimo conio, ha il difetto strutturale di non riuscire a risolvere neanche mezzo problema. Se il politicamente corretto è spesso ipocrita, il politicamente scorretto è sempre impotente, rabbia da parata, smargiassata mediatica, niente che odori di soluzione anche parziale, anche imperfetta dei problemi. Niente che possa diventare governo, egemonia culturale, nuova identità condivisa e operativa. Se non si è Hitler o Tamerlano il politicamente scorretto, la minaccia feroce, le soluzioni finali sono solamente il segno della più fragorosa inettitudine. A questo danno interno, il politicamente scorretto aggiunge i danni inflitti, suo malgrado, alla comunità intera. Come un contagio. La dequalificazione del linguaggio politico, la sua capillare corrosione fa male a tutti indistintamente. Contamina, indebolisce, danneggia, peggiora, incanaglisce: diventa parte integrante del discredito della politica e della classe dirigente. Un personaggio come Razzi, oggi considerato una amabile macchietta, fino a non troppi anni fa sarebbe stato visto come una figura scandalosa o un caso umano da soccorrere. Quando ci si abitua a sdoganare l’insolenza, l’aggressività e l’ignoranza come ragioni identitarie, niente può più sbalordire e niente può più indignare. Fino a vent’anni fa a dire che bisogna “radere al suolo” i campi rom era qualche personaggio da bar. Nei bar si diceva (e si dice) anche molto peggio. Ma trasformare la polis in un bar vuol dire non avere alcun rispetto né della polis, né del bar.
il cardinale Vegliò le ha definite ‘parole stupide non meritevoli di commento’, il grande Vauro le ha commentate così: