‘Sette Donne Rom’: un libro contro gli stereotipi
una testimonianza ‘dentro il campo’
gli stereotipi sono difficili da contrastare, vivono di odio sottile e carsico, s’infilano nella nostra quotidianità e si basano spesso sull’ignoranza di entrambe le parti coinvolte. La paura “dell’altro” e “dello straniero” è vecchia come il mondo e in un mondo globalizzato come il nostro diventa sempre più difficile capire tutto ciò che richiede uno sforzo maggiore della semplice “visione di superficie”. Il libro “Sette donne rom” di Cristina Mattiello, con la prefazione di Moni Ovadia e le illustrazioni di Lorenzo Terranera, della casa editrice Cambiaunavirgola, prova a compiere questo percorso: andare oltre “il campo rom”, raccogliendo le testimonianze di sette donne che hanno partecipato al programma “Or.Me.” (Orientamento Mediatori), promosso dall’Arci Solidarietà Onlus per facilitare il legame tra la loro popolazione e le strutture socio-sanitarie del territorio. Un percorso a tappe che prevede un corso di alfabetizzazione della lingua italiana e di formazione sulle tematiche sanitarie, seguito da un tirocinio in strutture pubbliche e laboratori della Croce Rossa e, infine, la ricerca di un impiego. Abbiamo intervistato l’autrice per capire meglio alcuni punti critici di questo viaggio dentro una cultura “altra”, con le sue peculiarità, i suoi limiti ma anche le sue speranze.
Quali difficoltà avete incontrato nel parlare e nel relazionarvi con le donne di cui avete raccontato le storie?
Tutte le donne avevano già un rapporto personale molto stretto e “caldo” con Alessia Damiani, operatrice sociale nel campo della maggior parte delle protagoniste e coordinatrice del progetto di formazione di cui si racconta la storia. La fiducia era data per scontata e io sono facilmente entrata emotivamente in contatto con tutte loro, come dentro a un cerchio affettivo, ponendomi in una situazione “vera” di ascolto e comunicazione fra donne. Non ho gestito le interviste pensando alle “regole” precostituite del giornalismo o della ricerca socio-antropologica, o anche della storia orale. Ho cercato di essere “autentica” nel rapporto, il più informale possibile. Ho semplicemente detto loro: “Raccontatemi quello che è successo e vi aiuto a scriverlo: lo fate voi il libro! Perché è importante farlo!”. Il resto è venuto da sè. Il livello emozionale è stato sempre in primo piano. Spesso io e Alessia quasi ci commuovevamo per la corrente empatica che si veniva a creare. E’ successo anche nella prima presentazione. Lo scambio andava sempre ben al di là dell’intervista per il libro: entravano in gioco i loro problemi, i loro stati d’animo e io, noi, ci mettevamo veramente in gioco, pur mantenendo in qualche modo anche i nostri ruoli professionali. Ma le interviste erano sempre soprattutto un momento di scambio personale reale.
Nel libro molte di loro descrivono la vita del campo “come una gabbia”, uno spazio che le protegge ma che le rende anche isolate dal resto del mondo. È una condizione che avete riscontrato anche in altre occasioni e con altre donne rom?
Sì, è una condizione molto diffusa, in genere, però è il desiderio di una vita nuova che prevale. Ma che si scontra inevitabilmente con l’impossibilità di pensare davvero a “uscire”: manca il lavoro, la casa, tutto … Il “campo”, contrariamente a quanto si crede, è un’invenzione italiana, assolutamente non un modo di vivere tradizionale. E’ di fatto un ghetto etnico, un microcosmo chiuso che non può che alimentare la spirale del degrado, dell’emarginazione e della passività. Oggi le associazioni solidali chiedono con forza il superamento di tutti i campi e la riconversione dei fondi – molti, che l’Europa continua a darci – in progetti di vera inclusione. Sarebbe possibile, basta volerlo! .
Uscire dal campo per molte è anche un modo “per sentirsi utili” o per “svegliarsi e avere qualcosa da fare” come affermano alcune di loro (molte dichiarano “voglio fare qualcosa anch’io per i miei figli”). Quali sono le resistenze che avete incontrato da parte della loro comunità e da parte di quella “ospitante” (in questo caso italiana)?
Le donne hanno parlato con sincerità delle difficoltà incontrate a volte in famiglia per gli spazi anomali di libertà dai doveri domestici che il progetto comportava. Ma hanno anche raccontato come i mariti alla fine hanno accettato di aiutarle, gestendo loro i bambini quando era necessario. C’è da dire che tutti i componenti delle famiglie hanno un rapporto stretto con gli operatori del campo e questo credo che abbia giovato. All’esterno, invece, è stato del tutto positivo il rapporto non solo con i formatori, ma anche con tutte le persone incontrate durante i tirocini in ambiente sanitario, inclusi i pazienti stessi – cosa che non era scontata! Il servizio sanitario pubblico in particolare si è dimostrato molto accogliente. Le donne si trovavano bene, si sentivano accettate: è un aspetto che mi interessava molto e ho insistito con le domande per esplorarlo a fondo. Invece il libro mette in luce efficacemente, secondo me, le difficoltà con cui sempre i rom e le romnì si scontrano nella ricerca di un lavoro. E’ questo il momento in cui la discriminazione e gli stereotipi sono un ostacolo spesso insormontabile. Nel caso delle protagoniste del libro, però, per fortuna, ci sono stati anche risultati positivi e assunzioni.
Ci sono stati casi in cui il percorso di “ponte” tra le due comunità è stato traumatico e non ha portato a nulla e quali volete indicare invece come brillanti e pieni di speranza?
Un operatore della CRI ha raccontato il suo sgomento e la sua indignazione quando, accompagnando una delle donne a conclusione del percorso formativo ad un colloquio di lavoro, l’ha vista rifiutare, esplicitamente “perché rom”, nonostante lei avesse una “borsa lavoro” istituzionale (sarebbe stato quindi lavoro gratis per loro!). Credo che questo episodio dia un buon argomento per rispondere a tutti quelli che dicono che i rom non vogliono lavorare. Segnali di speranza, momenti di luce: molti, davvero molti. Penso a Doina, che ha il coraggio di andare a un colloquio senza “mimetizzarsi”, senza cioè nascondere l’identità di rom, e, bellissima nel suo abito bianco con la gonna a balze, viene assunta. A Elvira che alla ASL aiuta una ragazza poverissima e del tutto inesperta e le insegna come tenere il bambino, fuori da ogni protocollo. O a Mara, capace di parlare a tutte noi emozionandoci con la sua saggezza e sensibilità. O al coraggio di Simona, che, dopo mesi di ospedale, mentre lottava per riprendersi da una malattia che poi purtroppo l’ha sopraffatta, mi diceva: “Il sorriso resta sempre”. E faceva battute: “Mi fai sempre ridere e piangere quando facciamo le interviste”, dicevo io … E tanti altri episodi, tanti. E’ un libro di speranza, sicuramente.
Non solo essere rom ma essere una donna quali problematiche aggiuntive può avere nel percorso di avvicinamento alla comunità che li dovrebbe accogliere? Ci sono casi particolari che volete segnalare?
Essere donna comporta difficoltà in più per la resistenza che può fare la comunità rom rispetto a un percorso di emancipazione, o per i condizionamenti soggettivi, quelli che la donna vive dentro di sé a prescindere dalle pressioni esterne, i sensi di colpa, i legami affettivi familiari, ecc. Ma una volta che si sia reso possibile l’andare “fuori”, credo che l’essere donna aiuti invece molto nella comunicazione. Le donne sanno stabilire ponti e legami soprattutto attraverso il canale emotivo. Una volta aperto il contatto, è facile per le donne romnì renderlo intenso. E in genere sono molto coinvolgenti. Come dice Moni Ovadia nella prefazione, sono “donne che ascoltano il cuore” e la riposta quasi sempre arriva. Il libro è un libro al femminile, e sono tanti i casi in cui queste dinamiche positive fra donne sono evidenti: nella fase preparatoria, nel percorso di formazione, nei tirocini, nelle esperienze che le donne raccontano, e anche nelle interviste con me, arrivata da poco fra loro. Come il rapporto tra Elvira e l’anziana signora da cui lavorava, o il confronto sui temi della maternità e della contraccezione. Molto bella è anche la figura della d.ssa Leotta, che lavora alla ASL nel servizio per gli stranieri e le fasce a rischio: “più che un medico, un’amica, la madre di tutte noi”, la definiscono le donne del campo di Candoni, è un loro punto di riferimento costante, anche sul piano emotivo.
Quali sono i programmi messi in atto che hanno portato i maggiori benefici per la comunità? (nel libro si parla spesso di molti miti legati alla salute che vengono sfatati, aspetti legati alla gravidanza e all’assistenza di persone invalide). Quali sono invece quelli che andrebbero fatti con maggiore convinzione?
Tutto il contesto sociale crea e alimenta l’emarginazione di queste comunità, tutto “rema contro”. Un percorso di crescita come quello descritto, quindi, è di per sè molto positivo per tutti, perché dimostra che si può uscire dalla condizione passiva a cui spinge la vita nel campo. E che anche i rom, se se ne dà loro l’occasione, possono farcela ad esser qualcosa di diverso dall’immagine negativa che si trovano buttata addosso costantemente. Sono questi i progetti che andrebbero incentivati, generalizzati. Basta con i ghetti: bisogna aiutare le comunità rom a vivere una vita dignitosa, nel rispetto della loro specificità culturale, ma come tutti gli altri in quanto a diritti e condizioni sociali. L’esperienza descritta nel libro è stata una goccia nel mare, ma importantissima, perché può – dovrebbe – dare spunti per tante altre esperienze simili. Per quanto riguarda la salute, certo è emersa un distanza forte tra quello che le donne hanno imparato fuori e il modello tradizionale, soprattutto nel campo della contraccezione, e anche nella gestione del neonato. Ma l’obiettivo generale, che era quello di avvicinare la comunità alla sanità pubblica e ai servizi, e di fornire al campo figure interne di mediatrici che possano facilitare questo rapporto, mi sembra che sia stato raggiunto. Anche in questo caso, però: a mio avviso la formazione andrebbe offerta a tutti, molto più di quanto si fa.
Quali sono stati gli stereotipi che avete visto privi di fondamento nell’avvicinarvi alla loro comunità?
Tra tutti gli stereotipi, quello più ingiusto è quello terribile della “zingara rapitrice” di bambini. Secondo tutte le ricerche, non c’è un solo caso dimostrato! Ci sono stati nel tempo anche diversi processi, tutti conclusi con un’assoluzione. E entrando in contatto con queste comunità, davvero ci si chiede come sia possibile lanciare loro addosso un’immagine così pesante e infondata. Quando si entra in contatto con loro, ci si rende subito conto che sono persone come tutti noi, con pregi e difetti individuali, con personalità diverse fra loro, come tutti, insomma, cosa che gli stereotipi e la discriminazione ci vorrebbero far dimenticare. E si diventa facilmente loro amici. Sono però persone che vivono in condizioni disumane – anche senza acqua e senza luce, molte volte – condizioni che spesso rendono impossibile, ad esempio, non essere “sporchi”. Ma questo non vuol dire che i rom siano tutti “sporchi” per scelta o, peggio, per “natura”. Anzi, ci si sorprende di quanto curino la loro casa e la loro immagine, quando possono: alcuni ce la fanno anche in condizioni davvero difficili, dovremmo chiederci che cosa faremmo noi al posto loro. Vale per tutti gli stereotipi, ma nel caso dei rom, davvero, lo stereotipo è rafforzato dalle condizioni in cui li facciamo vivere: è un circolo vizioso. Più sono emarginati, più vengono loro negati i diritti minimi, più si rafforza l’immagine negativa, più vengono emarginati, ecc. E il campo da questo punto di vista, sì, è veramente una gabbia. Come ho già detto, bisogna dare loro l’opportunità di percorsi di formazione, una situazione abitativa decente, bisogna aiutarli a costruirsi occasioni di lavoro. In quei pochi casi in cui ciò si verifica, gli stereotipi si smontano da soli.