ancora sul mito dei ‘rom che rubano i bambini’
Oltre al danno la beffa: la leggenda dei rom che rubano bambini e la realtà dei fatti
“Rispetto a un minore non rom, un minore rom ha circa 60 possibilità in più di essere segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, circa 50 possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità e quasi 40 possibilità in più di essere dichiarato effettivamente adottabile”“l’allontanamento del minore rischia di sostituirsi all’intervento sociale, esonerando l’istituzione dalle sue responsabilità e colmando la carenza di tutele sociali e civili con la tutela giudiziaria.”
Quello dei rom “ruba-bambini” è un vecchio stereotipo razzista ma ancora molto vivo nell’immaginario collettivo perché continuamente alimentato in tutto il mondo. Le notizie dei giorni passati, provenienti dalla Grecia e dall’Irlanda, ne sono un esempio. In entrambi i casi, il colore dei capelli delle minori trovate insieme alle famiglie rom è stato sufficiente per risvegliare la leggenda popolare, nonostante in nessuno di questi due casi si sia trattato di “furto di bambini”. Come sostiene Guido Barbujani, genetista dell’Università di Ferrara, “una bambina rom bionda è insolita, ma non più di uno svedese bruno come Ingemar Stenmark”. Di certo, la decisione di presa in carico di un minore da parte dei Servizi Sociali non può basarsi sul colore dei capelli.
In Italia – come dimostrato da uno studio del 2008 dell’Università di Verona – dal 1986 al 2007 non si è mai verificato un caso di presunto “rapimento” di bambini da parte dei rom. Se da una parte non c’è alcun dato a supporto della tesi dei “rom che rubano i bambini”, dall’altra esiste all’interno della comunità rom la percezione di una sistematica e legalizzata “sottrazione” di minori rom da parte della società maggioritaria, attraverso l’allontanamento degli stessi dalle proprie famiglie e le adozioni. Secondo la ricerca Mia madre era rom, realizzata dall’Associazione 21 Luglio in collaborazione con la Facoltà di antropologia culturale dell’Università di Verona, nel caso dei rom in emergenza abitativa, questo fenomeno aumenta in modo allarmante: “Rispetto a un minore non rom, un minore rom ha circa 60 possibilità in più di essere segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, circa 50 possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità e quasi 40 possibilità in più di essere dichiarato effettivamente adottabile”.
Dalla ricerca emerge un altro dato preoccupante che riguarda la conoscenza lacunosa e un forte pregiudizio nei confronti dei rom da parte dei giudici e degli assistenti sociali, cioè delle figure professionali protagoniste dell’iter che porta alle adozioni. Infatti, la maggioranza delle dichiarazioni di queste figure professionali sono colme di stereotipi che vedono i rom come “persone dedite ad attività criminali, illecite, violente, all’accattonaggio e allo sfruttamento dei propri figli”. Inoltre, le condizioni materiali e abitative in cui vivono i rom, “riconosciute come pregiudizievoli per i minori, vengono imputate alla cultura rom e alla volontà dei genitori e raramente si riconosce il ruolo delle politiche sociali sull’indigenza e sul degrado abitativo in cui vivono molte famiglie rom”.
Da quasi venti anni, assistiamo a una vera schizofrenia istituzionale: da una parte, un’istituzione dello Stato applica politiche che portano alla segregazione dei rom, sgombrandoli e spostandoli fuori dalle zone abitate e dall’altra parte, un’altra istituzione giudica tali ambienti inadeguati per lo sviluppo psico-fisico del bambino. Considerando tale inadeguatezza come prerogativa della cultura rom e non come conseguenza delle politiche locali inadeguate e sistematicamente volte ad accentuare il disagio socio-economico dei rom, lo strumento di intervento diventa allora l’allontanamento del minore dalla propria famiglia. Come spiegano i ricercatori, “l’allontanamento del minore rischia di sostituirsi all’intervento sociale, esonerando l’istituzione dalle sue responsabilità e colmando la carenza di tutele sociali e civili con la tutela giudiziaria.”
La politica discriminatoria dei campi condiziona quindi anche il lavoro dei giudici e degli assistenti sociali: “la politica dei villaggi attrezzati avrebbe determinato e accelerato un dannoso processo di disgregazione famigliare in grado di spiegare molti casi di allontanamento dei minori rom. Non tutti i giudici distinguono la responsabilità genitoriale da quelle dello spazio abitativo e delle politiche sociali. L’allontanamento del minore dall’inadeguatezza dell’ambiente abitativo coincide con l’allontanamento dal contesto familiare che diventa inadeguato necessariamente”.
Vivere nei “campi nomadi” espone a una condizione di fragilità difficilmente colmabile dagli interventi dei Servizi Sociali e, di conseguenza, si interviene passando il compito alla magistratura. Nella ricerca, però, viene specificato che non si tratta di un comportamento discriminatorio da parte del Tribunale dei minori. La ragione dell’alta presenza di minori rom nelle sentenze del tribunale è dovuta al fatto che essi sono oggetto di maggiori segnalazioni rispetto ai propri coetanei. In percentuale, sono più i minori rom per cui si apre la procedura rispetto a quelli non rom. Significativo è il fatto che in quasi il 90% dei casi, i minori segnalati provengono dai “campi”, cioè dagli insediamenti istituzionalizzati.
Secondo la giurisprudenza italiana, il ruolo degli assistenti sociali nella tutela del diritto del minore di crescere all’interno della famiglia dovrebbe essere quello di intervenire sul disagio e sulle difficoltà materiali, rimuovendo gli ostacoli alla genitorialità. Soltanto dopo aver intrapreso la strada del sostegno e dell’aiuto si dovrebbe valutare l’inadeguatezza dell’ambiente familiare e decidere per l’affidamento a una famiglia diversa o a una comunità di tipo familiare.
La legge prevede che la prospettiva del benessere materiale in una nuova famiglia non è motivo sufficiente per separare un figlio dalla sua famiglia e che il legame familiare andrebbe tutelato nella misura in cui non lede lo sviluppo psico-fisico del bambino.
Quello che non si deve assolutamente perdere di vista è l’interesse del bambino. Di conseguenza, si deve valutare, in tutta onestà intellettuale e senza pregiudizi, tra le due alternative attualmente possibili: lasciare il minore con la propria famiglia (se affettivamente adeguata), anche se vive in una baracca, o in una casa con una famiglia adottiva?