“Aiutateci a essere liberi” : l’appello di Aung San Suu Kyi la Nobel che ha sconfitto la paura
La pasionaria birmana a Roma: gelati e l’abbraccio con Baggio. Il colloquio.
le riflessioni di Concita de Gregorio:
«Bello. È tutto rimasto intatto». Quarant’anni dopo Aung San Suu Kyi torna ad affacciarsi su Roma di notte. I Fori, il mercato di Traiano. Era una studentessa ad Oxford, allora. Una ragazza. Oggi è premio Nobel per la Pace, vent’anni quasi ininterrotti di arresti domiciliari, le vessazioni e gli attentati di un regime che ha cercato di eliminarla senza riuscire a farlo, senza poterlo fare. La vita che le è scivolata di mano mentre la teneva salda sulla rotta di un’idea, di un compito arrivato in dote dalla famiglia e dalla coscienza e dalla storia, il marito morto lontano senza che potesse salutarlo, i figli bambini e poi ragazzi via da lei altrove. La cupola di San Pietro, a sinistra il Gianicolo. «Mi ricordo i gelati, buonissimi, che compravo per strada. Sono ancora buoni i gelati? ». Sorride. Le dicono che per anni — durante la prigionia in Birmania — la sua foto, il suo volto è stato uno stendardo sulla facciata del Campidoglio. Sorride più forte, inclinando la testa adorna di rare roselline gialle. Significa grazie. Ma no, dice: «Non ho fatto sacrifici».
«NON ho mai pensato né penso a me stessa come ad una persona che si sia sacrificata. In verità non ho fatto niente di particolare, solo una cosa semplice: ho scelto una strada e l’ho seguita, tutto qui. Il coraggio non c’entra. È stata una decisione». Tranquillissima, elegante nella camicia di seta crema abbottonata fino al collo, diritta come se fosse intelaiata su fil di ferro, gentile. Solo — di unico — quella fermezza nello sguardo, una specie di durezza inflessibile, implacabile, inevitabile. Anche lei intatta, identica alle sue foto di dieci venti trent’anni fa divenute simboli ai quattro angoli del globo: una piccola donna fatta solo di muscoli e ossa, i capelli ancora corvini adornati di fiori che lei stessa intreccia ogni mattina, un’odissea trovare stamani proprio quelle roselline gialle e crema, a Roma. La gonna tradizionale lunga fino ai piedi, color caffè. La pelle tesa, lo sguardo fermo. Non mi sono sacrificata, ho scelto. La cena in suo onore, sulla terrazza del Campidoglio, è l’epilogo della celebrazione in cui il sindaco Ignazio Marino le consegna la cittadinanza onoraria che le fu attribuita da Rutelli, il premio Roma per la pace che le fu assegnato da Veltroni negli anni della sua carcerazione. Tutti presenti, gli ex sindaci, per sovrapprezzo anche Carraro. Tutti sugli scranni tranne Alemanno che non è venuto. C’è Emma Bonino che le è amica, la bacia, oggi la riceve alla Farnesina. C’è Baggio il calciatore che su indicazione di Aung San Suu Kyi ritirò i premi per lei quando lei non poteva e che la incontra ora per la prima volta, emozionatissimo, le da del tu, le consegna i video girati in questi anni e lei chiede, proprio come una fan: ma i suoi gol ci sono? Perché io vorrei vedere i suoi gol. Poi, sembra una ragazzina, si rivolge alle autorità — il rabbino alla sua sinistra, il ministro, i sindaci ed ex sindaci — e dice: quando mi avete assegnato la cittadinanza e il premio ho pensato a Baggio, perché nel mio paese Roberto Baggio è l’italiano più amato fra i giovani, tutti lo conoscono, e io non lo conoscevo ma mi son fatta raccontare da loro, dai giovani, chi fosse e perché lo amassero e così l’ho amato anche io. Si baciano, corre una lacrima, parlano del Dalai Lama. I giovani, le donne. «Il futuro del mio paese, ma forse di tutti i paesi, è soprattutto nelle mani delle donne e dei ragazzi». Parla veloce, dice che i diritti sono ancora molto lontani da venire, che certo la battaglia per i diritti delle donne «è fondamentale, perché le donne hanno nel corpo e nella memoria la forza delle cose, ma anche gli uomini, anche degli uomini abbiamo a cuore i diritti, e vogliamo che sappiano che quando avremo conquistato i nostri saremo gentili con loro, non devono avere paura di noi». Sorride ancora di quel sorriso antico dovuto e inflessibile. Dice che ogni gesto è importante, «ogni persona, ogni singolo gesto di ogni singola persona, anche quello minuscolo come un granello di sabbia». Adesso il suo lavoro è per cambiare la Costituzione, in Birmania. «La costituzione più difficile al mondo da cambiare, ci vorrà il voto anche dei militari, ma con la consapevolezza dell’opinione pubblica e con la pressione del mondo intero ce la faremo. Usate la vostra libertà che è immensa per aiutare la nostra, che è giovane e fragile». Poi dice una cosa enorme, che parla davvero a ciascuno di noi, noi che godiamo di una libertà immensa. Dice «lottare contro la paura e l’odio non basta, bisogna comprendere le ragioni di chi odia e di chi ha paura. Nessuno può giudicare nessun altro con superiorità. Nessuno può dubitare della dignità delle idee diverse dalla propria. Bisogna ascoltarle, capirle, discuterle. Bisogna lavorare insieme per una meta comune, non contro qualcuno per imporre una visione propria». A Ignazio Marino ha portato in dono una piccola scatola d’argento che custodisce incensi e oli profumati. Per strada, lungo la visita ai Fori, si ferma a respirare il profumo di tre rose. Si avvicina a Baggio per vedere dappresso la luce del suo orecchino, vorrebbe toccarlo. Al rabbino che cena con un suo diverso menù chiede di assaggiare dal piatto le pietanze. Le piccolissime cose, come un filo di acciaio invisibile teso nella storia e nel tempo. Al cospetto di Marco Aurelio un apprezzamento femminile, compiaciuto: «È più bello di Costantino, effettivamente». Ma è un attimo. Ancora nei Musei riprende la perorazione per la causa del policlinico di Rangoon, l’ospedale più importante del suo paese. «Vorrei che mandaste medici, giovani ricercatori, vorrei che ci aiutaste a farlo crescere». Marino, medico prima che sindaco, si impegna in pubblico. Qualcuno, sulla terrazza, le chiede cosa sia cambiato col Nobel. «Per me personalmente non saprei dirlo, né d’altra parte credo sia rilevante. Di me, della mia persona, cosa può importare? Cambia il senso che si dà alla libertà, al diritto di avere diritti, alla storia dei popoli». E di suo padre, oppositore al regime ucciso quando lei aveva due anni, sente di portare l’eredità? «Non sento il peso del passato, sento quello del futuro. Mio padre è mio padre, ma è del mio popolo che sento di essere figlia. Della mia gente. È per loro che sono qui a Roma oggi, cittadina romana cioè del mondo intero. Per chi verrà, per i neonati di Rangoon e delle mie campagne. Per chi ha la vita davanti, non per chi è già stato».
Da La Repubblica del 28/10/2013.