il biblista p. Pagola commenta il vangelo della domenica

anemoni

CHI SONO IO PER GIUDICARE?

domenica 27 ottobre, 3oa domenica del tempo ordinario
vangelo: Lc 18, 9-14 : il fariseo e il pubblicano
La parabola del fariseo ed il pubblicano normalmente sveglia non in pochi cristiani un rifiuto grande verso il fariseo che  si presenta davanti a Dio arrogante e sicuro di sé, ed una simpatia spontanea verso il pubblicano che riconosce   umilmente il suo peccato. Paradossalmente, il racconto può svegliare in noi questo sentimento: “Io ti ringrazio, perché non sono come questo fariseo.”   Per comprendere correttamente il messaggio della parabola, dobbiamo pensare che Gesù non la racconta per criticare i settori farisei, bensì per scuotere la coscienza di “alcuni che, ritenendosi giusti, si sentivano sicuri di se stessi e disprezzavano gli altri”. Tra questi ritroviamo, certamente, non pochi cattolici dei nostri giorni.   … Il discorso del fariseo ci rivela il suo atteggiamento interiore: “Oh Dio! Ti ringrazio perché non sono come quell’altro”. Che razza di discorso è questo di credersi migliore degli altri?
Un fariseo, fedele alla legge e puntuale nelle sue cose, può vivere in un atteggiamento pervertito. Questo uomo si sente giusto davanti a Dio e, proprio per questo motivo, si trasforma in giudice che disprezza e condanna quelli che non sono come lui. Il pubblicano al contrario, riesce solamente a dire: “Oh Dio! Abbi compassione di questo peccatore”. Questo uomo riconosce umilmente il suo peccato. Non può glorificarsi della sua vita. Si raccomanda alla compassione di Dio. Non si confronta con nessuno. Non giudica gli altri. Vive in realtà davanti a sé stesso e davanti a Dio.   La parabola è una penetrante critica che smaschera un atteggiamento religioso ingannevole che ci permette di vivere davanti al Signore sicuri della nostra innocenza, mentre condanniamo dalla nostra presupposta superiorità morale chiunque non pensa o agisce come noi.   Circostanze storiche e correnti trionfalistiche lontane dal vangelo ci hanno resi specialmente  noi cattolici deboli verso questa tentazione. Per questo motivo, dobbiamo leggere la parabola ognuno di noi in atteggiamento autocritico: Perché ci crediamo migliori degli agnostici? Perché ci sentiamo più vicini a Dio noi che coloro che non si interessano al Signore? Che cosa c’è in fondo a certi discorsi che si fanno in merito alla conversione dei peccatori? Che cosa significa per noi riguardo a come si deve porre riparo ai propri peccati senza vivere convertendosi a Dio?   Recentemente, davanti alla domanda di un giornalista, Papa Francesco fece questa affermazione: “Chi sono io per giudicare un gay?”. le Sue parole hanno sorpreso quasi tutti. Nessuno si aspettava una risposta tanto semplice ed evangelica di un Papa cattolico. Tuttavia, questo è l’atteggiamento di chi vive in realtà d’innanzi al Signore.
José Antonio Pagola



p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

p. Maggi

commento, molto bello, al vangelo di domani 27 ottobre, 30a del tempo ordinario: Lc18, 9-14

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 p. Alberto Maggi

 

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

 

 

“Siate santi perché io sono santo”, questo è l’imperativo, la richiesta del Dio dell’Antico Testamento, e la santità viene intesa come la scalata verso Dio attraverso l’osservanza di regole, di precetti, di comandamenti, di pratiche religiose.

Ebbene stranamente questo invito non appare mai nella bocca di Gesù. Mai Gesù in nessuno dei vangeli chiede: “Siate santi come io sono santo”. Ma Gesù insistentemente e continuamente rivolge l’invito “Siate compassionevoli come il Padre vostro è compassionevole”. Perché tutto questo? Ce lo spiega Luca nella parabola che adesso esaminiamo, il capitolo 18, versetti 9-14, e l’evangelista ci fa vedere il differente orientamento.

Nella santità l’uomo che scala verso la santità, verso Dio – il traguardo è Dio – ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio. Ma chi desidera portare gli uomini verso Dio inevitabilmente fa sì che qualcuno rimanga indietro, altri rimangano esclusi. Ecco la novità di Gesù è stata che lui non ha voluto portare gli uomini verso Dio, la scalata della santità, ma lui ha fatto qualcosa di diverso: ha portato Dio verso gli uomini e se nella scalata verso la santità l’uomo va verso Dio grazie ai suoi meriti (ma non tutti possono o vogliono avere questi meriti), nel fatto che Gesù porti Dio agli uomini, quel che conta non è il merito delle persone, ma il dono d’amore di Dio per tutta l’umanità.

Un Dio che non ama le persone nonostante i loro peccati, ma proprio per questo li ama. Questa è la novità sconvolgente che Gesù ha portato. E Gesù la mette in scena con questa parabola conosciuta come del “Fariseo e pubblicano”, che ha una precisa indicazione iniziale. L’evangelista scrive che Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti – dove giusti significa “a posto con Dio” – e disprezzavano gli altri.

E presenta gli antipodi della società di Israele, il Santo per eccellenza, il Fariseo, la persona che, come dice il nome (Fariseo significa separato), si separa dagli altri attraverso la pratica religiosa, le osservanze, addirittura maniacali, e la persona ritenuta la più impura, la più distante da Dio, il pubblicano, un individuo che, anche se volesse, non può più cambiare quel mestiere che lo rende impuro.

Ebbene il Fariseo in questa preghiera ringrazia il Signore più per sé che per gli altri e cosa presenta al Signore? Presenta al Signore quelli che sono i suoi tentativi di arrivare a lui attraverso le pratiche religiose più degli altri. Dice il Fariseo: “Digiuno due volte alla settimana”, ma il digiuno obbligatorio era richiesto una sola volta all’anno. No, lui fa di più, lui digiuna tutte le settimane e addirittura due volte.

E poi si vanta: “Pago le decime”, le decime sono l’offerta di una decima parte del raccolto e del bestiame al tempio, al Signore, “di tutto quello che possiedo”. Non paga solo per ciò che è prescritto, ma per tutto quello che possiede.

Quindi è una persona che tenta di arrivare a Dio attraverso una pratica incessante e continua, e come vedremo straripante, di osservanze che Dio non ha mai chiesto. Perché Dio non ha mai chiesto queste cose, Dio già attraverso i profeti aveva detto: “Imparate cosa significa Misericordia voglio e non sacrifici”.

Ebbene quest’uomo che vuole andare verso Dio e ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio se ne trova escluso. Perché? Dice Gesù che da lontano c’era un pubblicano, la persona immersa nel peccato fino al collo, che pure osa rivolgere questa preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, usando la formula imperativa. Cioè gli dice: “Sii benevolo, mostrami la tua misericordia”.

Allora abbiamo da una parte la persona spirituale, ricca della sua santità, che offre i suoi meriti al Signore, dall’altra la persona che non ha nulla da presentare, se non la sua condizione di peccatore, dalla quale, ripeto, non può più venir via e mostra la sua miseria.

Da una parte il merito, dall’altra il bisogno. Ebbene la sentenza sconvolgente, sconcertante di Gesù: “Io vi dico: ‘Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato’ ”. Ricordate che all’inizio Gesù aveva detto che la parabola era per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. E aveva presentato il giusto, il Fariseo, e il disprezzato. Adesso le sorti si rovesciano.

Il pubblicano disprezzato qui diventa giusto. “Tornò a casa sua giustificato”, che significa a posto con Dio, mentre l’altro no. Quella che Gesù ha presentato è una novità che forse ancora non riusciamo a comprendere ma che ci deve spingere a questo imperativo: Il Signore non ci chiede di essere santi, perché la santità separa dagli altri, forse avvicinerà a Dio, ma inevitabilmente allontana dal resto della gente (la santità intesa come osservanza di regole, di pratiche religiose). Gesù ci chiede di essere la carezza compassionevole del Padre per ogni creatura; non amare l’altro per i suoi meriti, ma per i suoi bisogni.

Questo è l’insegnamento della buona notizia di Gesù.

 

 

 

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».




M. Palagi su facebook cerca di riflettere sul caso dell ‘bimba bionda’

E ora? Intanto proviamo a capire
bimba bionda

Marcello Palagi, non dopo, a posteriori, passato e risolto positivamente il ‘caso’, ma nel pieno della montatura mediatica che come un ciclone si abbatte impietosamente e acriticamente e in modo generalizzante sul popolo rom, semplicemente riflette, prova a capire, a partire non da un’emotività sgangherata fatta di ripetitività di luoghi comuni colti dagli ambienti più gretti, ma a partire da una conoscenza precisa e puntuale della realtà rom basata su uno studio serio della cultura e vita del popolo rom e dalla sua lunga frequentazione amicale con questo popolo

così su facebook invita a ‘cercare di capire’ (in una ‘sintesi’ intelligente – nel suo significato etimologico – che quando potrà desidereremmo diventasse ‘analisi’ più puntuale e proficua):

Sintetizzo quello che avrei in mente di scrivere sull’argomento e che avevo anticipato nel post scriptum di ieri.
I rom biondi esistono, anche se ovviamente sono minoranza come lo sono tra i non zingari italiani. I rom non rubano i bambini, anche se questa è una leggenda metropolitana difficile da eliminare.
Le famiglie Rom hanno caratteristiche diverse dalle nostre. Ad esempio, quando una donna ha finito di allevare i propri figli e non è più  in grado di farne, in genere si fa dare da una delle figlie, ormai maritate e con figli, o da una nuora,una bambina (mai un maschio) da allevare. Così alleggerisce il peso dell’allevamento dei numerosi bambini a una delle proprie figlie o nuora contemporaneamente si prepara ad avere un aiuto per la vecchiaia da questa nipote.
Nel caso in questione della bambina individuata in Grecia, si può ipotizzare, stando alle cronache dei giornali, che sia stata affidata dalla madre naturale che viene data per bulgara, a dei rom greci, in modo che possano ricevere, per lei, i sussidi dallo stato. Se fosse figurata come bulgara non glieli avrebbero dati. Le difficoltà e reticenze dei due affidatari greci, possono spiegarsi in questo modo, avendo truffato lo stato greco. La cosa non è tipica solo dei rom.
I bambini a Carrara venivano, un tempo, oggi meno, definiti con l’appellativo di “bastardi”, “bastardotti”.  Da dove deriva questa definizione? Dal fatto che le istituzioni, nell’ottocento davano in affido, i bambini orfani o in istituto, a privati che venivano scelti tra i più bisognosi, ad esempio a famiglie di cavatori rimasti infortunati e non più in grado di lavorare, corrispondendo loro una determinata cifra per il mantenimento dei piccoli. Una famiglia cercava di averne in affido il più possibile, per ricavare dal cumulo dei sussidi, anche il proprio mantenimento. Si può immaginare quanto gli affidatari fossero preparati e attenti all’educazione di questi bambini. Lasciati liberi di andare in giro, senza nessun controllo e senza che nessuno se ne preoccupasse veramente, diventavano fastidiosi, indisciplinati e casinisti. Di qui la denominazione negativa di “bastardi”, perchè non avevano genitori noti e spesso erano illegittimi.
Il fenomeno dei bambini di famiglie povere affidati ad estranei che li portavano in giro per chiedere l’elemosina era diffuso dovunque. Basta ricordare, di Dickens, Oliver Twist. Mazzini scrive, indignato, nella sua autobiografia di aver trovato a Londra dei bambini italiani che chiedevano l’elemosina ed erano stati portati in Inghilterra da reclutatori di questo tipo di manodopera. Erano i genitori poveri che, dietro compenso e tanto di contratto, spesso scritto, glieli affidavano per anni. Alla fine dell’Ottocento erano famosi e diffusi anche in America, i bambini “suonatori d’arpa” che partivano anche dalle nostre zone, imparavano, più o meno, a suonare qualcosa e andavano alle dipendenze di un appaltatore a mendicare.
Anche Fenoglio e Nuto Revelli, descrivono fenomeni analoghi di bambini affidati ad altri, e portati in giro a lavorare o a elemosinare, in tempi relativamente recenti (prima metà del ‘900). Io ho avuto un collega, un po’ più anziano di me, che nel dopoguerra ha fatto questa vita. Le famiglie del paese affidavano i loro figli a una donna che li portava  nella campagne, in genere verso Parma a elemosinare cibo. Stavano via settimane, dormivano dove trovavano. In questo caso, non venivano maltrattati, costituivano una specie di cooperativa di fatto, che poi si divideva quanto veniva raccolto. 
Tra i rom è emerso, una quarantina di anni fa, il fenomeno degli “argati”, bambini appaltati in Kosovo, da famiglie rom senza reddito, e portati in Italia o altre nazioni europee, da “affidatari”, non necessariamente rom, a chiedere l’elemosina  (Kusturica gli ha dedicato il film “Il tempo dei gitani”). Oggi, dopo la caduta del muro e il dissolvimento del mondo comunista, è probabile che il posto dei kosovari, sia stato occupato dai bambini più poveri, dai bulgari, dai montenegrini, o chissà chi.
Credo che argomenti come questo vadano compresi, senza fanatismi e in modo laico, ricorrendo alla ragione e alle conoscenze, e non a quello che si è sentito dire.
Chi è povero, emarginato, senza reddito e lavoro, si inventa continuamente metodi per sopravvivere. Non è che si debbano approvare necessariamente, ma cercare di inquadrarli e capirli  nel contesto in cui si manifestano, sì.
I rom non sono dei criminale che rubano bambini, ma uomini e donne che hanno difficoltà a sopravvivere in questa società e in questo periodo di crisi generalizzata  e si ingegnano come possono. Del resto, nei periodi di crisi, la devianza e quindi i crimini aumentano, anche tra i non rom, segno che sono la povertà e il bisogno a determinarli.
Va anche tenuto conto che in Grecia, in questo momento, c’è una diffusa mobilitazione antirom, come risposta alla crisi, come ricerca cioè di capri espiatori su cui scaricare tensioni, frustrazioni e responsabilità che non sono loro. Probabile che se questo caso della bambina bionda fosse emerso qualche anno fa, non avrebbe avuto l’impatto emotivo che ha oggi e non ne avremmo saputo niente in Italia. Come dubito che siano molti quelli che hanno avuto notizia o sappiano qualcosa degli argati, fenomeno che si è verificato in Italia, come ho detto, qualche decennio fa.
Per quanto riguarda il rapimento dei bambini, bisogna avere chiaro che i rom  non rapiscono i bambini. Si tratta di una leggenda metropolitana. Mentre è vero il contrario che moltissimi bambini rom vengono sottratti alle loro famiglie, dai servizi sociali, anche nostri, locali. I rom hanno anche troppi figli, e non si capisce perché dovrebbero procurarsene altri, rapendoli. Nel sito della polizia italiana si leggeva fino a qualche tempo fa, che negli ultimi cinquant’anni non  risultavano bambini rapiti dagli “zingari”. La cosa viene confermata da due importanti ricerche  scientifiche che sono state condotte, su iniziativa delle Migrantes, nell’ambito dell’Università di Verona, ma il loro impulso è venuto da una preoccupata discussione in casa mia, perché avevamo constatato, tra persone che hanno rapporti di amicizia o di vita con i rom, che, anche considerando solo la nostra zona, da La Spezia a Pisa, ai rom erano stati portati via, nell’arco di un anno, molti  bambini dai servizi sociali, anche con pretesti inconsistenti. Le due ricerche sono poi state programmate e organizzate, in modo del tutto autonomo rispetto a noi.  La prima, di Sabrina Tosi Cambini, “La zingara rapitrice” ed. Cisu, analizza i racconti, le denunce e le sentenze relativa ai bambini rapiti dagli zingari, come appaiono sulla stampa, tra il 1986 e il 2007. La seconda di Carlotta Saletti Salza, “Dalla tutela al genocidio”, 2 voll, ed. Cisu, chiarisce, ricorrendo all’esame delle sentenze di molti  tribunali dei minori e delle relazioni dei servizi sociali relativi, come e perché, nello stesso periodo (1986 – 2006), alcune centinaia di bambini rom, nel nostro paese, siano stati tolti alle loro famiglie e dati in adozione, sulla base dei pregiudizi correnti, da cui non sono affatto esenti servizi sociali e giudici. Ulteriore conferma, per chi ne avesse voglia, viene dallo studio di Gabriella Petti, “Il male minore. La tutela dei minori stranieri come esclusione”, ed Ombre corte, dove vengono messi sotto accusa impietosa la cultura le ideologie e i pregiudizi dell’assistenza sociale e dei tribunali dei minori, su questa materia, in Italia.




SMILITARIZZARE I PRETI-SOLDATO

grosse fragole

 

PAX CHRISTI SCRIVE AL NUOVO ORDINARIO MILITARE

 cioè al nuovo vescovo di quella ‘diocesi militare’ composta dall’esercito, dai soldati, dalle alte gerarchie dell’esercito

Quantcast

di Luca Kocci in Adista on-line

Papa Francesco ha scelto il nuovo ordinario militare per l’Italia. È mons. Santo Marcianò, 53 anni, fino ad ora arcivescovo di Rossano-Cariati nonché segretario della Conferenza episcopale calabra.

Succede a mons. Vincenzo Pelvi, dimessosi lo scorso 11 agosto per raggiunti limiti di età (gli ordinari militari, assumendo anche i gradi – e lo stipendio – di generali di corpo di armata, vanno in pensione da militari a 65 anni, mentre restano in servizio come vescovi fino a 75) e ancora in attesa di una nuova sede episcopale. Sembrava certa la sua nomina alla guida della diocesi di Latina – da giugno retta da un amministratore apostolico, mons. Giuseppe Petrocchi – che però è saltata alla vigilia della comunicazione ufficiale. Pertanto bisognerà trovare un’altra sede. Fra le possibilità c’è anche Caserta, città ad alta densità militare – quindi “familiare” a Pelvi, che inoltre è campano –, il cui vescovo, mons. Pietro Farina, è deceduto lo scorso 24 settembre, ma i rapporti non proprio idilliaci con il card. Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e presidente della Conferenza episcopale campana, sono un ostacolo alla nomina. Crociata no, Marcianò sì

All’ordinariato militare, invece, sembrava certo che sarebbe andato mons. Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (e a voler essere ironici, per un vescovo castrense che viene formalmente inquadrato nella gerarchia militare, il nome Crociata sarebbe stato più appropriato di Marcianò). Ma è stato lo stesso Crociata a rifiutare l’incarico: pare infatti che aspiri a succedere al card. Paolo Romeo – che ha compiuto i 75 anni lo scorso 20 febbraio – alla guida dell’arcidiocesi di Palermo, e la nomina all’ordinariato gli avrebbe chiaramente precluso tale possibilità. E così è arrivata la nomina, a sorpresa, di Marcianò che nei prossimi giorni presterà giuramento anche nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; l’ordinario militare, infatti, viene designato dal papa ma, proprio per il suo doppio ruolo di vescovo-generale, formalmente è nominato dal presidente della Repubblica, in accordo con il presidente del Consiglio e dei ministri della Difesa e dell’Interno. «Militari a servizio della vita e della pace»

Appena designato, il 10 ottobre, Marcianò ha subito rivolto una lunga lettera di saluto ai cappellani militari, ai seminaristi, ai diaconi e, soprattutto, ai militari delle Forze armate, «a servizio della vita e della pace» scrive il nuovo ordinario. «La pace, infatti, è un cammino e i nostri passi devono essere guidati dal desiderio di fare la nostra parte per costruirla. Devono essere passi di dialogo con tutti, di rispetto reciproco e rispetto dei diritti umani; passi di ordine e libertà, di legalità e onestà, di giustizia e solidarietà, di lotta contro i soprusi e la corruzione, contro ogni forma di violenza o discriminazione; passi di protezione delle città dell’uomo, nella loro dimensione sociale e politica, nel loro patrimonio di storia e arte; passi di preservazione della natura e dell’ambiente, di custodia della straordinaria bellezza del Creato. Soprattutto, passi di difesa e promozione di ogni vita umana nella sua stupenda dignità: dei più deboli e poveri, dei piccoli e indifesi, dei carcerati e perseguitati, dei senzatetto e disperati, degli abbandonati ed esclusi, di coloro che vivono diverse forme di malattia o disabilità, dei tanti profughi e immigrati che continuano a sbarcare nelle nostre coste dopo viaggi in cui trovano anche la morte, continuando a sollecitare il nostro impegno e il nostro amore». Pax Christi: smilitarizzare i cappellani militari

Ma «le Forze armate, di cui lei si accinge a far parte e con un elevato grado gerarchico, sono la negazione di questi passi», scrive Antonio Lombardi, di Pax Christi Napoli e tra gli animatori della campagna nazionale “Scuole smilitarizzate”, promossa dal movimento cattolico per la pace (v. Adista Notizie n. 18/13 e Adista Segni Nuovi n. 19/13). «La guerra dialoga solo con le pallottole, che sibilando nell’aria portano messaggi di morte; la guerra è esattamente la forma di violenza più scientificamente studiata ed organizzata; non si distingue per giustizia e solidarietà, ma discrimina tra amici e nemici, schiaccia, corrompe, fa prigionieri. La guerra non protegge gli esseri umani né le loro città: bombarda e distrugge l’ambiente, le risorse per la vita e le opere d’arte. Ma soprattutto non difende i poveri e i disabili, ma fa andare in rovina le case producendo senzatetto e mutilati. La guerra non promuove la dignità dei profughi ma li genera, ed essi, come primo impegno ed atto d’amore, con la loro condizione ci chiedono di smettere di inviare truppe ed armi che riducono in polvere le loro vite. Il primo servizio alla pace che è possibile fare come sacerdote o vescovo impegnato nella cura pastorale dei militari è questo: uscire ed invitare ad uscire da quella fabbrica di morte». «Non ce la faccio a congratularmi con lei – prosegue –, perché considero una sconfitta per un cristiano entrare nei ranghi delle Forze armate e per di più entrarci attraverso la porta della Chiesa. Al suo predecessore, mons. Pelvi, avevo scritto alcune lettere per aprire un dialogo sul senso evangelico dei cappellani militari, ma è stato sempre un monologo: non ho mai ricevuto risposta. Mi auguro miglior fortuna con lei». E infatti Lombardi rilancia subito la storica proposta di Pax Christi di smilitarizzazione dei cappellani militari (v. Adista nn. 81/95, 67/97, 81/00, 49/06 e 81/06; v. Adista Segni Nuovi n. 7/12 e Adista Notizie n. 46/12 e 18/13): «Riducendo al massimo la questione, osservo che il personale delle Forze armate ha sì diritto all’assistenza spirituale, ma senza che coloro che la prestano accedano ai ranghi militari, diventino cioè organici ad un’istituzione nata ed esistente per fare la guerra. Anzi, restandone fuori, essi avrebbero la possibilità di assumere uno sguardo critico più libero, di essere essi stessi esempio di nonviolenza, che rifugge dalle attività belliche e da tutto ciò che ne costituisce supporto e strumento. Insomma, esempio di una scelta diversa». Con papa Francesco si aprirà il dibattito?

Si vedrà se con il nuovo ordinario militare, e soprattutto con il nuovo papa che sul tema della pace e del disarmo ha pronunciato parole nette, nella Chiesa sarà possibile aprire un dibattito – quello appunto sulla smilitarizzazione del preti-soldato – su cui la chiusura è stata sempre totale.




l’ennesimo flop del pregiudizio ‘zingaro ruba bambini’

bimba bionda

Grecia, ritrovata la madre di Maria: “regalata perché non potevo mantenerla”

sono bastati pochi giorni (come del resto anche tutte le altre volte che si è voluto cavalcare) per vedere smontato e miseramente smascherato il pregiudizio del ‘rom ruba bambini: nel frattempo però la m…a messa nel frullatore ha sporcato ancora di più l’immagine che da sempre sporchiamo, permettendoci nei loro confronti le ingiurie più fantasiose, e chi chiederà loro mai scusa in modo minimamente credibile? chi restituirà loro un briciolo di una ‘stima sociale’ (si fa per dire!) perduta da sempre?

Maria risulta non essere la figlia biologica dei genitori rom che la tenevano in casa

È una donna bulgara di 35 anni il genitore biologico della bambina bionda che viveva con i rom 

Rintracciata la vera madre della piccola Maria, la bambina di circa cinque anni bionda e con gli occhi verdi ritrovata la settimana scorsa in un campo rom nella Grecia centrale e risultata non essere figlia biologica dei coniugi che la tenevano in casa insieme con un’altra dozzina di ragazzini. Lo riferisce l’edizione online del quotidiano Kathimerini citando fonti giornalistiche bulgare. La madre biologica di Maria sarebbe Sasha Ruseva, 35 anni, di nazionalità bulgara.  

 

«Abbiamo lasciato la piccola Maria in Grecia perché non avevamo da mangiare, non avevamo lavoro e non potevamo curarci anche di lei. L’abbiamo regalata, l’abbiamo lasciata senza prendere un soldo». Così Sashka Russev, la mamma di Maria -la bimba ritrovata in un campo rom in Grecia, racconta all’agenzia bulgara Bgnes perché ha dovuto abbandonare sua figlia, dopo essere scoppiata in lacrime davanti alle immagini della bimba in televisione. «Avevo intenzione di tornare e di portare via con me la bambina, ma nel frattempo ho avuto altri due figli e quindi non ho potuto farlo», ha raccontato la donna all’emittente televisiva.  

 

Ha inoltre insistito molto sul fatto di non essere stata pagata dalle persone che hanno accolto la neonata in Grecia. La polizia della Bulgaria non ha voluto commentare la notizia.La famiglia Russev ha dieci bambini dei quali cinque sono albini e, secondo il cronista di Bgnes, assomigliano molto alla piccola Maria. Sashka e il marito Atanas sono stati interrogati dalla polizia di Nikolaevo. 

 vedi anche i due link qui sotto:

+ Grecia, una coppia rom incriminata per il rapimento della piccola Maria 

+ Maria, nei guai gli impiegati che hanno rilasciato il certificato di nascita

 




immigrati: retorica della solidarità e terzomondialismo o necessità?

lampedusa

a partire da un saggio di L. Manconi e V. Brinis sull’immigrazione – ‘accogliamoli tutti. una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati, il saggiatore –  condotto tutto al di là del ‘buonismo’, due articoli interessanti su questo problema, il primo di G. Lerner su ‘la Repubblica’, il secondo di A. Coppola su ‘il Corriere della Sera’, ambedue convergenti sul superamento della repressione che vede come prima finalità del governo il presidio delle frontiere, il respingimento o l’espulsione degli irregolari, e nell’accettare come necessaria la convivenza interetnica, ancorché faticosa, talora dolorosa, comunque la sola via per evitare il conflitto razziale indicato da tutti gli scienziati sociali (qui sotto i due articoli):

Immigrazione: barcone in difficoltà, persone in mare

Porte aperte L’Italia si salverà solo con gli stranieri

di Gad Lerner

in “la Repubblica” del 24 ottobre 2013

Accogliamoli tutti, gli immigrati. Ma siamo matti? Il titolo del pamphlet di Luigi Manconi e Valentina Brinis a prima vista sembrerebbe un’astuzia dell’editore, escogitato per turbare i benpensanti: Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati (il Saggiatore, pagg. 115, euro 13). Gli autori stessi, però, ci invitano a non cadere nella trappola. Accogliamoli tutti, con le dovute precauzioni, va preso alla lettera. La loro è tutt’altro che una provocazione estremista: si tratta di governare un flusso epocale, altrimenti lacerante. Tanto meno è un richiamo ai buoni sentimenti. Anzi. Se una precauzione innerva il saggio di Manconi e Brinis, non è certo quella di solleticare l’ostilità dei prevenuti, ma semmai di non figurare predicatori di bontà o, peggio, “buonisti”: l’orrendo neologismo abusato da anni nel dibattito pubblico sull’immigrazione, funestato dalla diffidenza e dal rancore. Manconi e Brinis enumerano le cifre avvilenti di una demografia che sembra destinare inevitabilmente l’Italia a trasformarsi in «una comunità sfilacciata e depressa, bolsa e senescente, incapace di innovazione e di invenzione». Fanno impressione, queste cifre: il censimento del 2011 registra circa 15.000 persone che si trovano nella fascia d’età 100-105 anni. Sono più di mezzo milione gli ultranovantenni. Complessivamente, gli italiani con più di 65 anni rasentano i 13 milioni. Invece i nostri vicini di casa, le popolazioni che abitano la sponda Sud del Mediterraneo, sono composte per quasi la metà di giovani al di sotto dei 25 anni. Prescindere da tale contrasto oggettivo sarebbe solo un’ingenua rimozione: qualsiasi modello di società futura implica un governo razionale dei flussi migratori, finalizzato, per quanto ciò sia possibile, a una loro ordinata integrazione. Nessuna “mielosa retorica” dell’accoglienza, dunque. Anche perché gli immigrati «non mostrano alcuna voglia di correre in nostro soccorso». Gli ostacoli frapposti in Italia all’instaurazione di contratti di lavoro regolari, ai ricongiungimenti familiari e alla continuità dei permessi di soggiorno, perpetuano una condizione servile e ne scoraggiano la stabilizzazione. Li abbiamo incoraggiati a sentirsi estranei. Più realisticamente, si tratta quindi di disinnescare il cortocircuito tra lo stato di marginalità in cui sono ridotti troppi immigrati; e la reazione deviante, irregolare, talora criminale che questa loro marginalità provoca. La ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, che firma l’introduzione del pamphlet, trae la conseguenza politica di questo ragionamento: «Ai fini della sicurezza, fanno più i diritti della repressione». In altre parole, come scrivono Manconi e Brinis, «un’accoglienza dignitosa riduce significativamente insidie e minacce». Dunque è a fini utilitaristici — per il “nostro” bene — e non sulla base di un impulso di generica solidarietà, che va radicalmente capovolta la politica fin qui seguita in materia di immigrazione. Assumere come prima finalità dell’esecutivo il presidio delle frontiere, il respingimento o l’espulsione degli irregolari, è risultato miope oltre che velleitario. Ormai lo sappiamo. L’Italia, d’intesa con l’Unione Europea, deve pianificare con lungimiranza quegli ingressi che finora si è limitata a subire. Da sei mesi Manconi è presidente della Commissione diritti umani del Senato, ma gli argomenti proposti sotto la voce Accogliamoli tutti sono di natura empirica, piuttosto che giuridica. Comunque mai ideologici. Qui si esprime il sociologo da vent’anni impegnato nella rilevazione dei comportamenti delle comunità locali costrette a fare i conti con l’immigrazione. Siamo un paese che già oggi non potrebbe fare a meno dei suoi quasi 5 milioni di stranieri residenti, l’8% della popolazione. Basti pensare che vengono dall’estero il 77,3% dei (delle) badanti. Più della metà degli addetti alle pulizie. Più di un quarto dei lavoratori edili. Quasi un terzo dei braccianti agricoli. Se dunque possiamo considerare paradossali, retoriche, le domande poste da Manconi e Brinis — ci conviene espellerli? E se andassero via tutti? E se non venissero più? — ben più concreta appare

l’incognita che pende sul nostro futuro: è proprio inevitabile che a pagare il prezzo della faticosa integrazione degli stranieri debbano essere sempre e comunque i più poveri fra gli italiani? Benché il libro sia disseminato di numerosi esempi di integrazione riuscita nelle comunità locali, avvenuta spontaneamente o più di rado guidata da amministratori capaci, non c’è dubbio che il non governo del flusso migratorio ha alimentato un contrasto fra svantaggiati. Risultato peraltro conveniente ai soliti ben noti attori politici. Né la legge Turco-Napolitano del1998, né tanto meno la Bossi-Fini del 2002 hanno consentito la pianificazione armonica dei flussi d’ingresso, orientandoli nella ricerca di lavoro regolare e di soluzioni abitative razionali. Per questo Accogliamoli tutti si conclude proponendo non solo l’abrogazione del reato di clandestinità, ma anche l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione; in luogo dell’irrealistica pretesa della normativa vigente, secondo cui l’incontro fra domanda e offerta di lavoro dovrebbe realizzarsi (chissà come) nei paesi d’origine. Nessuna faciloneria. Nessuna celebrazione delle virtù del multiculturalismo. Il libro prende in esame anche i nodi più difficili da sciogliere in materia giuridica, come la poligamia e la mutilazione genitale femminile. Fenomeni certo ultraminoritari che necessitano di una gestione coerente con il nostro diritto, ma al tempo stesso finalizzata alla riduzione del danno. Per esempio la Coop ha risolto il problema della macellazione rituale della carne halal dopo un confronto con la Lega italiana antivivisezione: d’intesa con le comunità islamiche, si procede allo stordimento elettrico preventivo dell’animale da macellare, garantendo così la “convivenza dei valori”. Con la buona volontà, le mediazioni si trovano. Purché si riconosca che stiamo costruendo un nuovo modello sociale di cui l’immigrazione sarà componente vitale, non marginale. Lo Stato moderno europeo costruì quattro secoli fa il suo apparato repressivo nella lotta al vagabondaggio e nel contenimento dei pericoli sociali della miseria. Ma la distinzione fondata allora fra i “nostri” poveri da segregare e/o proteggere, mentre i poveri “forestieri” erano semplicemente da cacciare, non regge più le dinamiche della geopolitica e della demografia. Ne consegue, come scrive la Kyenge, che l’immigrazione deve farsi «progetto»; perché senza di essa non c’è ripresa né «risorgimento». Accogliamoli tutti è proposta che sgomenterà una classe politica sprovvista di visione storica, sballottata negli anni scorsi nell’oscillazione fra la pietà e lo spavento delle emozioni popolari. Temo che non sia pronta a discutere queste ragionevoli proposte per salvare gli italiani e gli immigrati. Perfino dopo la tragedia di Lampedusa abbiamo sentito ministri riproporsi portavoce di una funzione di mero contenimento; fingendo di ignorare che, mentre loro facevano la faccia feroce, in Italia si estendevano aree di irregolarità e marginalità. Inutili sentinelle di guardia a un bidone.

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO

Manconi: perché conviene accogliere i migranti

di Alessandra Coppola

in “Corriere della Sera” del 24 ottobre 2013

Il tempismo è perfetto. A tre settimane dal più spaventoso dei naufragi nel Mediterraneo, nel pieno della discussione sul reato di clandestinità e sulla legge Bossi-Fini, esce per il Saggiatore un pamphlet dal titolo dirompente: «Accogliamoli tutti» (120 pagine, 13 euro). Spiazzante poi nel sottotitolo: «Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati». A firmarlo sono in due: il parlamentare del Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, e la sociologa Valentina Brinis, direttrice del sito italiarazzismo.it . Lui presidente lei ricercatrice della Onlus «A Buon Diritto». Una provocazione? «No, non è quello l’intento. Direi che è un libro licenzioso e saggio», sorride il senatore. All’apparenza «audacissimo», nel suo sviluppo «si affida interamente a dati demografici, economici e sociali». Una scossa a un dibattito imbrigliato dalle ideologie, dalle reazioni di pancia e dai buonismi, sulla scorta di un’analisi saldamente fondata sulle leggi, sulle ricerche scientifiche, sui numeri. Gli autori la materia la conoscono. Luigi Manconi da tempo. Nel testo fissa una data autobiografica: Sassari, autunno del 1988, l’incontro con un venditore africano dal barista ribattezzato col cognome locale «Carboni», in un tentativo spontaneo d’integrazione. «La società italiana ha risposto all’immigrazione con una inesausta capacità di adattamento intelligente e razionale — riflette —. Ma ciò che ora serve, e che finora è stata debolissima, è la politica: quella centrale e quella locale. Una politica che abbandoni definitivamente l’idea dell’immigrato o del richiedente asilo come un nemico o una minaccia sociale». Governare il fenomeno con una visione di più ampio orizzonte, allora. E da subito, indicano gli autori, abrogare il reato di clandestinità, superare le barriere dei flussi con l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione. La solita bontà della sinistra? Per nulla: «Noi non vogliamo affatto bene agli immigrati», scrivono Manconi e Brinis, di nuovo sul filo della provocazione. «Nessuna retorica della solidarietà, nessun terzomondialismo — spiega il senatore —. La convivenza interetnica è necessaria, sempre faticosa, talvolta dolorosa, ma è la sola via. L’alternativa è il conflitto razziale». Lo indicano le cifre, lo confermano gli scienziati sociali: «Favorire la regolarizzazione degli immigrati, garantire loro i diritti di cittadinanza, incentivare l’integrazione è la condizione necessaria perché ci siano più sicurezza e più benessere per tutti, anche in tempo di crisi». Sono sempre gli studi a certificarlo: quando hanno i documenti e una condizione stabile, gli stranieri delinquono meno degli autoctoni. I demografi aggiungono che gli italiani invecchiano (12 milioni gli over 65enni nel Paese): una trasfusione costante di energie diventa indispensabile. E a leggere i testi di economia si scopre che, se la disoccupazione italiana cresce più di quella straniera, è perché il nostro sistema produttivo è vecchio, inadeguato, e ha ancora bisogno di lavoratori sottopagati, poco qualificati, spesso sfruttati. Come sono i migranti. Quel titolo così provocatorio, allora, «intende ribaltare stereotipi e luoghi comuni — conclude Manconi —. E vuole evidenziare il senso di una proposta politica e culturale che, in apparenza, è radicale ma che, nei fatti, si rivela assai equilibrata. E corrisponde alle esigenze del nostro sistema economico e sociale, ai problemi posti dal calo demografico e dal bisogno di nuova forza lavoro che manifestano importanti settori produttivi». Accogliamoli tutti, in sostanza, perché ci conviene.




Papa Francesco ai detenuti: “Ingiustizie per i più deboli, i pesci grossi sono in libertà

 

 

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

“Dio è un carcerato dei nostri sistemi”, ha detto il Pontefice ai cappellani delle carceri italiane, invocando una “giustizia di speranza e di porte aperte”.

Anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella”. Papa Francesco affronta il tema dell’emergenza carceri. Prima dell’udienza generale in piazza San Pietro, il Pontefice parla a braccio davanti ai circa 200 partecipanti al Convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane promosso a Sacrofano, nei pressi di Roma, sul tema “Giustizia: pena o riconciliazione. Liberi per liberare”. Anche Dio “è un carcerato – ribadisce Francesco – dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, delle tante ingiustizie che è facile” applicare “per punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque”.

E’ probabile che nella data del 14 novembre il Papa salirà al Colle per incontrare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel messaggio alle Camere ha ribadito la necessità di amnistia e indulto per far fronte al sovraffollamento delle carceri. L’incontro, fanno sapere in Vaticano, è “molto probabile” che avvenga per quella data. Il capo dello Stato aveva reso visita ufficiale al Papa l’8 giugno, poche settimane dopo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio. Tradizionalmente i papi non hanno mai mancato di andare in visita al Quirinale nei mesi successivi all’elezione.

Il Papa ha rivolto un messaggio ai carcerati. “Per favore – ha detto Bergoglio ai cappellani- dite che prego per loro: li ho a cuore. Prego il Signore e la Madonna che possano superare positivamente questo periodo difficile della loro vita. Che non si scoraggino, non si chiudano”. Il Papa Francesco si augura una “giustizia di speranza e di porte aperte”.  ”Non è una utopia”, ha detto Bergoglio. “Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, – ha commentato – si può fare, non è facile perché le nostre debolezze ci sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, le tentazioni, ma si deve tentare, vi auguro che il Signore sia con voi e la Madonna vi custodisca, la madre di tutti voi e di tutti loro in carcere”.

“Quando telefono a detenuti mi chiedo ‘Perché non io?’, racconta il Papa ai cappellani. “Qua, ogni volta chiamo qualcuno di quelli di Buenos Aires che conosco, che sono in carcere, la domenica, e faccio una chiacchiera. Poi, quando finisco, penso: ‘Perché lui è lì e non io, che ho tanti e più meriti di lui per stare lì?’. E quello mi fa bene, eh? Perché lui è caduto e non sono caduto io? Perché le debolezze che abbiamo, sono le stesse e per me è un mistero che mi fa pregare e mi fa avvicinare a loro”. Così il Pontefice ai cappellani delle carceri italiane, durante l’incontro di questa mattina.




Siamo liberi? no! anzi si!!!

cammino

Siamo liberi?

di María López Vigil
in “Adista” – documenti – n. 37 del 26 ottobre 2013

Non siamo liberi di scegliere chi ci genera, da chi nasciamo, chi saranno nostro padre e nostra madre, i nostri fratelli o sorelle, quali geni ci saranno trasmessi in questa nuova combinazione con la quale il puro caso ci segna dal volto fino all’anima. Non siamo liberi di scegliere molto di ciò che ereditiamo nel gioco della vita. Però sì siamo liberi di decidere ciò che faremo, che personalità costruiremo con questo ingranaggio di geni unico e irripetibile, con i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, con le sue potenzialità, le sue possibilità e i suoi limiti. Non siamo liberi di sceglierci il sesso con il quale nasciamo, bambino o bambina, maschio o femmina, con un orientamento sessuale o con un altro. Però sì siamo liberi per apprendere e per decidere di vivere e gioire della nostra sessualità sempre come espressione di amore e di comunicazione, e mai come espressione di potere e di violenza. Non siamo liberi di scegliere il colore della nostra pelle. Però sì siamo liberi di non disprezzare o invidiare chi non ha il nostro colore. E lo siamo anche per rispettare, valorizzare e celebrare i colori di tutte le pelli. Non siamo liberi di scegliere la lingua con la quale impariamo a parlare o parole e sfumature con le quali diamo nome alle cose. Però sì siamo liberi di scegliere le parole di questa lingua che useremo, a chi le rivolgeremo e per quale motivo le utilizzeremo. Resi umani grazie al linguaggio, grazie al potere della parola potremo opprimere o liberare, insegnare o instupidire, potremo fare danni o sanare, creare e cambiare oppure ripetere e ancora ripetere. Potremo abbellire il mondo o renderlo più brutto. Potremo anche apprendere nuove lingue e nelle loro parole altre scoprire i molti altri accenti attraverso i quali altre genti danno nome alle cose del mondo. Non siamo liberi di scegliere la religione nella quale saremo educati. Perché tutte le religioni sono espressione del Paese, della cultura, del popolo o della famiglia nella quale nasciamo. Tutte sono cammini, differenti, alla ricerca della Realtà Ultima. Tutte possiedono scelte errate e svolte che si aprono su meravigliosi paesaggi. Però sì siamo liberi di accettare o rifiutare le credenze, i dogmi, le pratiche, i riti, i mediatori, le autorità della religione appresa. E lo siamo anche per rivedere queste tradizioni, per ripensarle e decidere se ci nutrono, se ci donano senso, allegria e libertà. O, al contrario, se sono sbarre di una prigione ideologica dove abbondano colpe, paure, repressioni, un carcere dal quale siamo liberi di scappare. Non siamo liberi di scegliere di nascere nella povertà o nella ricchezza, in una vita tranquilla o precaria. Però sì siamo liberi di scegliere se condividere o meno ciò che abbiamo, se correre o meno rischi nella lotta per fare meno diseguale questo mondo nel quale ci è toccato vivere, se vivere contemplando le ingiustizie del mondo o contribuire a trasformarlo. Non siamo liberi di scegliere il Paese in cui nasciamo. Però sì siamo liberi di scegliere un altro Paese in cui vivere, lavorare, lottare e anche morire. E in questo Paese di adozione siamo anche liberi di dare il nostro contributo perché vivano con dignità coloro che sono arrivati fino allo stesso porto però non liberi, ma spinti forzatamente dalla mancanza di lavoro, dalla fame, dalla guerra o dalla violenza. Non siamo liberi di smettere di aver paura, timore e finanche panico, uno dei due meccanismi che la saggia legge dell’evoluzione lasciò scritto dentro di noi e radicò nella nostra psiche per garantirci la sopravvivenza. Però sì siamo liberi di divenire padroni della paura, di confessare, senza vergognarci, che la proviamo e di accompagnare le paure dei nostri fratelli e le nostre sorelle finché non riescano a superarle. Non siamo liberi di scegliere l’epoca nella quale ci tocca vivere né determinare il modo con il quale  ci ricorderanno.

Però sì siamo liberi di lottare per la giustizia durante gli anni che ci sono dati da vivere, con le loro incertezze, le loro sfide e le loro speranze. Sì, siamo liberi per mettere in gioco tutto il cuore che abbiamo. Nel futuro, saremo ricordati per il fuoco che avremo saputo porre in questa lotta.




“Santità, intraprenda un viaggio nell’inferno degli abusi sessuali”

 

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

una lettera molto affettuosa (e anche molto pia e devota … ) a papa Francesco da parte di una signora americana che ha subito da giovane violenza sessuale e vuole ‘accompagnare’ il papa amato ad un passo non eludibile: farsi carico della croce dei peccati della chiesa:

Marco Politi
in “il Fatto Quotidiano”

del 22 ottobre 2013

C. M. è una signora americana dai capelli bianchi, ultrasessantenne. È stata abusata da bambina in una parrocchia dedicata a san Francesco. Dopo l’elezione di Bergoglio si è fatta coraggio e ha deciso di scrivergli una lettera. Non sapeva ancora che il nuovo papa a volte prende il telefono e cerca chi gli ha scritto. Voleva però che la lettera gli arrivasse. Così è partita dalla Pennsylvania, si è recata in Europa, ha cercato un vescovo di cui conosceva l’impegno nel combattere gli abusi sessuali compiuti dal clero ai danni di bambini e bambine, e gli ha consegnato la lettera. C.M. non sa se è stata poi recapitata a papa Francesco come le era stato promesso. Il testo rappresenta quel “grido di dolore”, che migliaia di vittime sconosciute e – ricorda l’anziana signora – spesso svilite da esponenti del clero ancora decenni dopo, rivolgono alla suprema autorità della Chiesa cattolica perché sia fatta giustizia. La questione di come contrastare più efficacemente i crimini di pedofilia e di togliere ai delitti la protezione di archivi ostinatamente chiusi è un capitolo del pontificato di papa Francesco ancora da scrivere. L’appello dell’anziana signora non è di chi alza la voce. Lo stile, pervaso di religiosità quasi poetica, potrà stupire qualche lettore europeo abituato al confronto- scontro. Ma la tradizione della fede in America è intrisa di immagini spirituali. E questa donna, una sopravvissuta all’inferno dell’abuso, ha fiducia in Francesco. Con delicata chiarezza gli chiede di affrontare il tema dei crimini sessuali nella Chiesa “senza cecità”, di entrare volontariamente nell’ “inferno degli abusi”, di non arretrare davanti al “calderone di peccati” della Chiesa. Di partecipare lucidamente alla “crocifissione” di migliaia e migliaia di bambini abusati. È proprio l’afflato religioso a rendere particolarmente forte l’appello di C.M. poiché nasce dall’interno del cattolicesimo profondo, lì dove si è scioccati per i crimini commessi da preti e ci si volge al papa di Roma perché sani le ferite inflitte da chi ha strumentalizzato il potere sacro. Guai, ricorda la Bibbia, quando gli umili sono calpestati e invocano il Signore. La lettera di C.M. è un documento tragico nella sua dolorosa mitezza. Potrebbe essere stata scritta da un’abusata o un abusato in qualsiasi parte dell’orbe cattolico. In America latina, in Asia, in Africa, in Europa, nella diocesi suburbicaria romana di Porto e Santa Rufina, dove il vescovo mons. Gino Reali – interrogato a proposito di un prete abusatore – ha risposto in tribunale: “Non posso correre dietro a tutte le voci… Faccio il vescovo, non l’istruttore”.

Santità, nostro prezioso Fratello Francesco: la pace di Dio sia sopra di voi, ora e sempre. Il mondo ha gioito quando il fumo bianco ha annunciato la scelta di uomo umile, che ha scelto il nome di Francesco – un santo che rinunciò ai suoi averi, persino alle sue vesti, iniziando il suo ministero nudo, senza alcuna protezione tranne quella di Dio. Vi scriviamo mosse da un profondo amore per voi e da un immenso dolore per la Chiesa e le sofferenze causate da esponenti della Chiesa… Vi invitiamo a compiere un viaggio all’inizio del vostro pontificato – un viaggio che richiederà tutto il vostro coraggio e la fiducia in Dio, che vi ama smisuratamente. Vi esortiamo a entrare volontariamente in ciò che sarà per voi Giardino di Getsemani, crocifissione, sepolcro e resurrezione mentre vi trasformate pienamente nel leader, di cui la Chiesa ha disperatamente bisogno. Nella vostra esperienza di crocifissione, se voi seguirete questa chiamata, voi resterete senza difese. Guarderete senza cecità nel calderone di peccati all’interno della Chiesa. Sperimenterete, con le braccia di Cristo strette affettuosamente intorno a voi, l’intensità delle sofferenze dovute all’attività e all’inattività di esponenti ecclesiastici attraverso i decenni e i secoli trascorsi. Sarete trafitti dalle male azioni della Chiesa a tutti i livelli. Sarete spogliato da ogni falsa illusione che possiate avere sulla Chiesa. Discenderete, come Gesù, nell’inferno della sofferenza. Sarete bagnati dalle sue lacrime e dalle vostre.
Sperimenterete il terrore di migliaia e migliaia di bambini, molti dei quali sono nuovamente traumatizzati da adulti da esponenti della Chiesa, che li sviliscono e impiegano manovre legali per evitare di assumere ogni responsabilità. Soffrirete il senso di vuoto di coloro, che ancora hanno paura di parlare. Sentirete il dolore che la Chiesa, usando la Scrittura, ha inflitto alle persone sulla base di razza, etnia, religione, genere e orientamento. Scavando profondamente nell’anima della Chiesa, scoprirete molti altri gruppi feriti. Sentite il loro dolore come se fosse il vostro. Non cedete alla tentazione di nascondervi da ciò che vedrete. Abbracciatelo. Soltanto sentendosi sinceramente amate le parti frantumate potranno essere guarite… Soltanto vivendo volontariamente la vostra crocifissione, potrete emergere pienamente come il leader, che siete chiamato ad essere. Soltanto allora sarete capace di parlare trasparentemente con la saggezza, la chiarezza, la gioia e la compassione del Cristo risuscitato… Sembra che San Francesco nel suo amore per la semplicità e la povertà abbia subito attacchi da parte dei propri frati, con il risultato delle sue dimissioni… Anche voi (papa Francesco) sarete attaccati dalla gente, specie da coloro che a ragione rifiutano di riconoscere ed affrontare i fallimenti della Chiesa… Voi siete il nuovo Francesco. Io solamente un fragile canale. Insieme a persone di tutto il mondo io vi trasmetto teneramente il messaggio indirizzato a voi: “Ripara la mia chiesa”. Entrate nella vostra crocifissione ed emergete come colui che, con grande tenerezza e vulnerabilità, restaura il corpo di Cristo a livello delle cellule. Curate anche il vostro corpo mentre fate il vostro cammino. È il veicolo attraverso il quale queste opere potranno essere compiute. Vostra in Cristo. Fatto con amore. C.M.




ironia del tempo che viviamo: la ‘profezia’ che parte dalla massima istituzione anziché dal basso

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

anche ‘il Foglio’ non può resistere di fronte al ‘ciclone Francesco’ e deve riconoscere in una ‘apologia disincantata’ una vera ironia dello Spirito che manifesta la sua creatività profetica più che nella ‘base’ ecclesiale, nei suoi vertici istituzionali: 

Apologia disincantata

di Marco Burini
in “Il Foglio” del 22 ottobre 2013

Non ho mai seguito tanto un Papa come negli ultimi sette mesi, e dire che sulla barca di Pietro ci sto da una vita. Prima non è che occupasse così tanto le mie giornate. Magari ne scrivevo per questo giornale, papista quant’altri mai, ma era solo uno degli argomenti sui quali esercitare i miei attrezzi del mestiere. Lo facevo volentieri, Ratzinger era (è) un teologo e questo mi bastava. Adesso no, è un’altra cosa, i piani mi si confondono. Sarà perché qui a Tv2000 lo seguiamo passo dopo passo, anche un po’ pedissequamente. Ci fa ascolto, e noi lo facciamo ascoltare e vedere il più possibile. Ma il problema è proprio questo, il palinsesto, che per un giornalista tende a sovrapporsi alla vita (ma temo sia un guaio diffuso: la comunicazione è la bolla in cui respiriamo e soffochiamo tutti). Non sono mai stato tanto inseguito da un Papa come negli ultimi sette mesi. E’ ovunque, in tutte le salse, in tutti i menu, cattolici e laici senza distinzione. Senza distinzione, purtroppo: noi cattolici – bestemmio in chiesa, mi rendo conto – dovremmo parlarne di meno, dovremmo sottrarci alla papolatria mediatica imperante, e in ogni caso non dovremmo ricondurre tutto a lui ma semmai fare di lui un punto di partenza per arrivare al nocciolo della questione, per dirla con quel vecchio cattolicastro di Graham Greene. Intanto però ne parlo anch’io, e me ne scuso, un po’ per combattere il senso di saturazione facendo un po’ d’ordine nelle mie idee, un po’ perché qualche giorno fa ho ingaggiato con Giuliano una piccola controversia teologica, una di quelle che ogni tanto ci piace affrontare faccia a faccia e che poi trovano spazio su questo giornale (e solo su questo, perché di controversie teologiche sull’Osservatore o sull’Avvenire non c’è traccia). Il fatto è che il direttore di questo giornale si è convinto, e lo ha ripetuto più volte, che questo Papa sia un abile predicatore, un gesuita maestro della dissimulazione – onesta, ça va sans dire – che di fronte al mondo si sta giocando la carta del cristianesimo tutto misericordia e amore, “un credere del cuore, relativizzabile al soggetto che sente cum ecclesia ma non razionalizzabile nello spazio del discorso pubblico”, e sta invitando i suoi a pregare “in un modo che sembra implicare la rinuncia al pensare, al dubitare o di converso all’ottemperare a un pensiero codificato nei secoli da filosofia e teologia”. Questo sarebbe un passo indietro o comunque alternativo rispetto al magistero dei due papi precedenti che invece hanno ingaggiato una battaglia culturale con il mondo moderno e le sue derive antropologiche nel nome di un’alleanza fede-ragione. Rispunterebbe così, con Bergoglio, lo spettro del “soggettivismo modernista”, la “morale dell’intenzione”, insomma un cristianesimo dove “la fede è tutto, la dottrina niente”, “una posizione del cuore, un flatus evangelico in presa diretta con il Signore”. Certo, se il cuore di cui parla Bergoglio fosse quello dei romantici e dei loro epigoni sanremesi; se l’amore che ci raccomanda fosse quello cantato prima dai trovatori e poi su su fino a Wagner, cioè una figura narcisistica e fondamentalmente gnostica (De Rougemont docet); se la misericordia con cui ci martella un giorno sì e l’altro pure fosse un affare puramente sentimentale, emotivo, Ferrara avrebbe ragione. Credo però che il lessico bergogliano sia schiettamente biblico. E la Scrittura ha giocato e gioca un ruolo fondamentale nella vita di quest’uomo non perché sia un prete, e quindi fa parte del corredo, ma perché c’è stato un momento in cui l’ha ripresa in mano e in controluce vi ha riletto la sua vita (succede in tutte le grandi storie di fede, da Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola). Ebbene, per la Scrittura cuore è sinonimo di libertà, è il luogo della scelta, dei ricordi e anche delle idee perché gli ebrei son gente pratica e non amano le astrazioni: tutto si decide nei precordi. L’amore, sempre biblicamente parlando, è uno strano impasto di eros e agape, Cantico dei Cantici e Prima lettera di Giovanni, iniziativa di Dio e linguaggio degli uomini. E, per dirla con Balthasar, solo l’amore è credibile. Ci vuole sprezzo del ridicolo per affermarlo, oggi che siamo tutti disincantati spettatori di naufragi altrui, eppure l’esperienza questo ci suggerisce: ciò che conta sono le persone care, quelle poche che amiamo e soprattutto quelle che ci hanno amato e che un giorno speriamo di rivedere, su questo solo possiamo spendere gli ultimi scampoli di fede che ci restano. Rileggersi, prego, le ultime pagine dei “Fratelli Karamazov” (ricordo che Dostoevskij è tra i preferiti di Bergoglio). Anche su “soggettivismo” e “protestantizzazione”, che pure qualche membro del Sacro collegio gli imputa sottovoce, ci andrei piano. Mi pare che il ruolo della chiesa nell’esperienza credente non venga affatto sminuita nella sua predicazione, tutt’altro. Basterebbe rileggere, anzi riguardare e risentire perché mimica e timbrica sono fondamentali, le sue ultime catechesi del mercoledì in Piazza San Pietro in cui ha commentato gli articoli del Credo che riguardano la chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. Altro che “presa diretta con il Signore”: extra ecclesia nulla salus! Con Bergoglio la dottrina non è in discussione – o meglio lo è come sempre perché, con buona pace di qualche giapponese ancora asserragliato nella foresta, lo sviluppo del dogma è un dogma – e tantomeno è in pericolo la tradizione. Diciamolo una buona volta: tradizione non è l’enorme monolite sospeso nell’aria che dipingono ossessivamente certi cattolici un po’ surrealisti e molto lefebvriani, un’entità fuori dal tempo, ma una cosa viva che passa di mano in mano, “quasi per manus traditae” come recita il Concilio di Trento (Trento, dico), di generazione in generazione. Insomma, il lessico bergogliano non va preso sotto gamba né frainteso. Certo, a volte è lui che non aiuta. Quando lo sento parlare di solidarietà mi viene il prurito perché è una parola totalmente sputtanata. Lui invece la usa in continuazione, il 22 settembre a Cagliari ha sostenuto che solidarietà “rischia di essere cancellata dal dizionario perché è una parola che dà fastidio, dà fastidio!”. A me pare esattamente il contrario: è un termine innocuo, a buon mercato, sulla bocca e nel portafoglio di tutti. Chi è così iena da rifiutare l’obolo per una buona causa? Chi oggi non fa solidarietà? Persino quando ricarichi il cellulare c’è un’opzione per devolvere automaticamente un euro in beneficenza! Un’aberrazione, a pensarci bene: il farsi prossimo del buon samaritano di evangelica memoria, gesto personale e concreto, si perverte in tic anonimo e irriflesso, si istituzionalizza e perde sapore. Ecco perché non mi è piaciuto quando ha raccomandato ai suoi di accontentarsi di un’auto piccola, cosa intelligente peraltro, pensando a “quanti bambini muoiono di fame”. Ma come, già non riesco a farmi carico di chi ho intorno e devo pure sentirmi in colpa per chi non ho mai visto e mai conoscerò? Sindrome di Lampedusa: rispondere sempre e di chiunque. Invece no. A meno che io non sia pazzo, posso essere responsabile soltanto di ciò per cui posso fare qualcosa davvero, concretamente, qui e oggi. Non è affatto la solidarietà che rischia di scomparire ma il farsi prossimo, la carità di evangelica memoria. Ci è rimasto il surrogato, ma non è la stessa cosa. C’è da dire però che Bergoglio su questo punto – malati, poveri, affamati – si sbatte parecchio. Sente l’urgenza del momento. E’ un Giona allegro, ben disposto, l’opposto del malmostoso profeta biblico che non ne voleva sapere di evangelizzare Ninive. Questo, che te lo dico a fare, è voglioso assai, non lo ferma nessuno. Ha una fretta dannata, sente un’urgenza epocale, un kairos. E quando lui stesso ha usato questo termine tecnico che piace tanto a noi teologi dilettanti, sull’ormai celebre volo di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, il 28 luglio scorso, avrei voluto abbracciarlo. Perché era la conferma che aveva colto nel segno, che aveva capito che non c’era tempo da perdere, che il momento è tragico non perché fede e ragione non hanno ancora trovato la giusta sintesi (schermaglie buone per noi intellettuali) e nemmeno perché i valori non negoziabili sono usciti dall’agenda dei palazzi sacri e non (si è cominciato a parlare di valori quando è finita la morale), ma perché stiamo andando in frantumi sotto il peso di un sistema disumano che ci toglie la terra sotto i piedi. Come uscirne prima che sia troppo tardi? Ci vuole un pensiero credente all’altezza, cioè un pensiero profetico, critico verso il potere. Altrimenti meglio scomparire prima di ridurci del tutto a folclore, a riserva di energia per altri mondi, come diceva De Certeau. Certo, è un’ironia dello Spirito che la voce profetica sia quella del Papa, ovvero l’istituzione suprema. Perché così si innesca una tensione continua che può mandare in cortocircuito l’apparato, e qualche segnale in questo senso c’è già… Il problema è che, come scrive Paolo Prodi, la chiesa ha smarrito da un pezzo la vocazione profetica e ha preferito buttarsi sulla mistica, le visioni, le apparizioni. “Dopo il Concilio Vaticano II non abbiamo avuto, salvo alcune eccezioni, lo sviluppo  della profezia che pure sembrava implicito nelle grandi intuizioni di Papa Giovanni XXIII e nelle deliberazioni conciliari sulla chiesa e il mondo moderno”. Si è scelta un’altra strada, quella dell’utopia, la via orizzontale dei movimenti ecclesiali di base e della Teologia della liberazione che ben presto “si trasformò in ideologia della rivoluzione”. E adesso si danno pure la pena di riabilitarla, quando non conta più nulla: la solita operazione di recupero fuori tempo massimo di cui sono specialisti i Sacri palazzi. Ci vuole la tempra dei profeti per scuotere questo mondo che cancella gli ultimi, “le piaghe di Gesù” come ama dire il Papa recuperando una squisita espressione della pietà popolare. Questa non è sociologia, questa non è rinuncia al pensiero. “Prima gli ultimi” non è una correzione di rotta, è il Vangelo di sempre che richiede una nuova intelligenza della fede. E qui il logos, maiuscolo o minuscolo, c’entra eccome, perché siamo tutti greci, oltre che ebrei, e quindi la lezione di Ratzinger, l’ultimo dei platonici ma non l’ultimo degli agostiniani, è tuttora valida. E la verità nascosta di quella lezione l’abbiamo vista l’11 febbraio: un gesto semplice ed epocale che è stato archiviato in fretta, non solo dalla comunicazione ma dallo stesso apparato ecclesiastico; invece lì c’è davvero qualcosa di profetico, un giudizio sul potere non neutro ma vissuto in prima persona. Se il papato imboccasse sul serio questa strada potrebbe tornare a essere fattore di novità istituzionale, come fu agli albori dell’età moderna quando gli stati nazionali si formarono ispirandosi proprio allo stato pontificio. Certo, oggi le condizioni sono diversissime, le istituzioni sono tutte in profonda crisi e la partita si gioca su scala globale. Bergoglio stesso ne è consapevole, tant’è vero che guarda soprattutto all’Asia, e non da oggi. Quand’era giovane voleva partire missionario in Giappone: i gesuiti ce l’hanno nel Dna, lo sguardo a est, fin da quando dovettero trangugiare la sconfessione romana di Matteo Ricci e compagni. Secondo me la stoffa del global player, come si usa dire, ce l’ha. Ma forse questo ragionamento da “mondanità spirituale” non gli si addice. Poi, certo piace, alla gente che piace, e vabbé, ma in una patria senza padri (ha ragione il lacaniano Recalcati) e in un mondo povero di leader è comprensibile. Piace ma non è affatto compiacente, non strizza l’occhio al mondo. “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?”, ha detto in quella famosa conferenza stampa ad alta quota. Tutti a esultare per la clamorosa apertura, finalmente un Papa umano e via banalizzando. Salvo trascurare quello che ha aggiunto subito dopo e cioè che “il problema non è avere questa tendenza, no, dobbiamo essere fratelli… Il problema è fare lobby di questa tendenza: lobby di avari, lobby di politici, lobby dei massoni, tante lobby…”. Il vero discrimine è questo, tra fraternità e confraternite; tra chi cerca il Signore, etero gay o trans che sia, e chi si trastulla col potere. Colui che giudica i cuori, in ogni caso, abita al piano di sopra. Bergoglio non ha bisogno di atteggiarsi a “omofilo” perché non è mai stato omofobo. E’ un uomo risolto, che sta bene nella sua pelle, è evidente. Ci sta tanto bene che si prende il lusso di dialogare con chi vuole, anche con i patriarchi dell’opinione pubblica. Eppure nel colloquio con Scalfari (confesso che l’ho invidiato: anch’io avrei tante cose da chiedergli) mi è parso più preoccupato di istruire i suoi che di vellicare l’ego del Fondatore; diciamo che quella è una tassa da pagare al sistema mediatico, è consapevole che il gioco non lo conduce lui. E poi oggigiorno basta essere un antidivo per diventare una star. Ma questi sono ragionamenti nostri, da addetti ai lavori. A lui in fondo preme scuotere la sua gente, la sua sposa che sì, è infedele, ma questo lo sapevamo dai tempi del profeta Osea. Obiezioni: telefona troppo, gigioneggia senza ritegno, è populista, peronista (nessuno sa bene cosa vuol dire ma funziona sempre con i latinoamericani). Che dite, con lui s’è persa l’aura del mistero, la sacralità della funzione? Benvenuti nel presente, l’ultimo Pastore Angelico ha lasciato questa valle di lacrime da un pezzo. Ma consolatevi, finché c’è un uomo sulla terra il sacro non scomparirà, si tratta piuttosto di captarne le tracce, come dei rabdomanti, nella città degli uomini. La messa in latino è un falso problema, se non per gli esteti. Per i credenti conta che la liturgia edifichi, in tutti i sensi, la comunità. In vita mia ho girato centinaia di chiese e sentito predicare migliaia di preti ma uno come don Sergio Colombo, parroco nel quartiere bergamasco di Redona morto pochi giorni fa, non l’ho più trovato: uomo del suo tempo, fervente sostenitore della svolta conciliare, celebrava e predicava da Dio, faceva pregare e cantare la sua gente con una finezza inconfondibile, senza bisogno di gregoriano (lasciamolo ai monaci) e di orpelli anacronistici (lasciamoli ai feticisti). Quanto al ridere e al fare casino, ce n’è già stato uno bollato come mangione e beone, amico di puttane e senzadio. Se il suo predecessore teorizzava il buonumore, Bergoglio lo incarna. Secondo me si sta pure trattenendo per senso dell’istituzione, altrimenti lo avremmo già incrociato sulla linea rossa del metrò a conversare con i viaggiatori. Come un buon parroco ha deciso di venirci incontro prima che sia troppo tardi, per lui e per noi. Molta gente ne è conquistata, altrettanta e forse di più è già stufa, ha cambiato canale. Per qualcuno è solo un’operazione di marketing ecclesiale, la sempiterna abilità dei preti di riciclarsi per conservare il potere. E i soldi. E le anime dei credenti. I quali, si sa, tutto fanno fuorché pensare con la propria testa. Gli addetti ai livori sono sempre all’opera, e pazienza. Ma per chi conserva ancora qualche briciolo di curiosità e benevolenza il consiglio è quello di aspettare. Il bello deve ancora venire, siamo solo all’inizio.