Quei lager made in Italy

Un reportage tv andato in onda su Tv7 (Raiuno) svela indirettamente anche le ambiguità dell’attuale missione militar-umanitaria. La denuncia delle reali condizioni in cui versano i rifugiati somali detenuti in Libia per conto dell’Italia. Ad Agrigento cerimonia senza bare per le vittime del naufragio del 3 ottobre fra le polemiche. Il sindaco: «Questi funerali sono una farsa di Stato»
«Freedom… freedom freedom», il televisore rimbomba di grida quasi sincopate: sono persone giovani, alcune adolescenti, che urlano, cantano, ritmando dietro le sbarre di prigioni-container. È il reportage di Amedeo Ricucci sulla condizione reale dei migranti africani nella nuova Libia, andato in onda venerdì su Tv7. Un documento, eccezionale quanto inequivocabile, che illumina le responsabilità italiane.  Il giornalista Rai, già collaboratore del manifesto, ha raccontato la disperazione di tremila immigrati rinchiusi in un centro di detenzione a 50 km da Tripoli, controllati armi alla mano da miliziani del Jebel Nafusa «che sanno fare la guerra», tutti catturati mentre erano in procinto di lasciare il territorio libico per raggiungere l’Italia e l’Europa. In fuga dalla guerra e dalla miseria della Somalia. Sono loro stessi a dirlo. Ma ora vivono da molti, moltissimi mesi rinchiusi nelle gabbie dei «centri di accoglienza» libica, i campi di concentramento che l’Italia finanzia e organizza con le “autorità” libiche. E dal reportage emerge che in quella condizione ci sono più di 50mila persone e che altrettante sono state rispedite nei luoghi di provenienza. Mentre urlano da dietro le sbarre il bisogno di libertà, di una condizione migliore della fame, delle guerre. Per «il diritto di cambiare il mio destino» ripete ossessivamente un ragazzo recluso. Smistati come animali. Infatti sono stati raccolti prima nell’area dello zoo di Tripoli prima di finire nell'”accoglienza” dei containerlager. E vengono tenuti in galera per noi. Perché quei campi di concentramento altro non sono che il risultato diretto dei trattati voluti dall’Italia e firmati con la Libia, prima tra Gheddafi e Berlusconi (con approvazione bipartisan del parlamento italiano) e poi riattivati dopo l’ottobre 2012 con le nuove “autorità” dopo la caduta nel sangue del Colonnello libico. E che ora vengono ripristinati dal governo Letta-Alfano come risposta ai naufragi a mare dei barconi e alle stragi di Lampedusa e Malta. La denuncia del reportage televisivo sulla condizione reale dei migranti africani sequestrati in Libia, arriva negli stessi giorni in cui solerti funzionari del governo italiano trattano con il “governo” libico sui rimpatri, la sicurezza dei porti e il pattugliamento a mare. Mettiamo le virgolette alla parola governo, perché in Libia non esistono autorità, le istituzioni ufficiose centrali per “governare” usano milizie armate spesso contrapposte, come dimostrano la cattura recente del premier Zeidan, gli assalti e gli incendi dei ministeri, gli attentati alle ambasciate e l’uccisione, solo venerdì scorso, del capo della polizia. Sarebbe davvero interessante sapere con quale banda armata tratta il governo Letta-Alfano. Intanto l’Italia ha avviato, senza discuterne in parlamento, la «missione militare-umanitaria» per il soccorso a mare dei barconi di esseri umani in fuga e per il contrasto dell’immigrazione clandestina. Una commistione d’intenti che rischia di trasformarsi, in mare, in pericolosa ambiguità. Come definire altrimenti la doppiezza governativa? Con il cittadino Letta che si augura la fine della Bossi-Fini e il ministro Alfano che la difende e che insiste sulla perseguibilità del reato di clandestinità. Due le soluzioni, entrambi sulla pelle delle persone migranti. Male che vada, come purtroppo è prevedibile – al di là dell’umanità dei militari impegnati e delle storiche regole del mare – il contrasto umanitario che perseguita il reato di clandestinità pretende aggressività, volontà d’ordine, repressione, abbordaggio contro gli scafisti, recupero e accompagnamento al porto vicino più sicuro e anche a quello di provenienza. È l’ingaggio strabico che non è stato dichiarato da nessuno, ma che così dovrà essere applicato. Senza memoria di quello che fu nel marzo 1997 la tragedia annunciata della Kater I Rades, contrastata in mare dalla Sibilia della Marina militare che provocò 108 vittime, perché applicava il blocco navale militar-umanitario deciso davanti all’Albania dall’allora governo di centrosinistra. E invece, bene che vada, l’attuale missione militar-umanitaria, riporterà gli esseri umani che ci ostiniamo a considerare clandestini, in Libia (o a Malta perché tornino il Libia o a Lampedusa perché poi tornino in Libia), nei lager descritti nel reportage di Amedeo Ricucci. Una inchiesta, la sua, che dovrebbe essere vista dal parlamento italiano, che dovrebbe sentire l’autore nelle sue commissioni esteri e interni. Ci auguriamo che accada. Temiamo invece che non accadrà nulla. Solo un rumoroso silenzio militar-umanitario e tante lacrime e parole di circostanza ai funerali senza bare ad Agrigento delle 387 vittime del massacro di Lampedusa. Solo le ultime delle migliaia delle quali siamo responsabili.
 Tommaso Di Francesco – ‘il manifesto’

La sedicenne di Modena che ci svela il nostro abisso

nel bicchiere

un bel commento di Concita De Gregorio sulla violenza di gruppo su una sedicenne da parte dei suoi amici  avvenuto a Modena in un contesto di festa di gente ‘bene’:

Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco, non è nemmeno un gioco

di CONCITA DE GREGORIO

Ce l’avete, ce l’avete avuta una figlia di sedici anni? Che si veste e si trucca come la sua cantante preferita, che sta chiusa in camera ore e a tavola risponde a monosillabi, che quando la vedete uscire con il nero tutto attorno agli occhi pensate mamma mia com’è diventata, ma lo sapete, voi lo sapete che è solo una bambina mascherata da donna e vi si stringe il cuore a vederla uscire fintamente spavalda. Dove va, a fare cosa, con chi. Ve li ricordate, i vostri sedici anni? Quando Facebook non c’era e passavate pomeriggi al telefono fisso a dire no, sì, ma dai…, e poi quando vostro padre vi diceva ora basta, libera quel telefono vi chiudevate in camera, anche voi, a scrivere a penna su quaderno ché il computer non c’era, e se c’era era uno solo, enorme, sempre spento, inaccessibile. Ecco, fate lo sforzo di ricordare perché una ragazza di sedici anni è quella cosa lì, da sempre e per sempre anche se cambiano i modi e le mode, i vestiti e le canzoni, i modi di parlarsi perché con la chat si fa più in fretta ma è uguale, in fondo.
È come stare pomeriggi interi al telefono, a canzonare il tempo a prenderlo in contropiede e ingannarlo. Una ragazza di sedici anni è una persona a cui la vita deve ancora succedere e non lo sa, e ha un po’ paura e un po’ fretta, e molto desiderio che passi veloce il momento e che arrivi quello, alla meta dei diciotto, in cui “nessuno mi può obbligare, ora”.
Io non lo so, nessuno lo sa tranne lei e quelli che erano lì, cosa è successo alla ragazzina di Modena che  –  dicono gli investigatori, i parenti, ora anche gli adulti che rivestono incarichi pubblici – una sera d’estate a una festa di compagni di scuola è stata violentata da cinque, sei, non è sicuro quanti amici. Amici, attenzione. Nessun livido, nessun graffio, nessun segno di violenza che segnali la sopraffazione fisica in senso proprio. Erano compagni di scuola. Alcuni maggiorenni da poco, varcata l’agognata meta dei diciotto, altri, almeno uno, no. Aveva bevuto lei, avevano bevuto probabilmente tutti perché come sa chi si guarda intorno gli adolescenti, oggi, bevono. Superalcolici, moltissimo. Costano meno delle droghe, spesso si trovano nelle case già disponibili all’uso. Shortini, alla mescita. Pochi euro a bicchiere, nessuno chiede la carta d’identità. Bevono i quindicenni come i trentenni, uguale.
Io non lo so com’è andata, quella sera, in una casa della più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano. Uno faceva il palo, scrivono gli agenti di polizia, gli altri a turno nella stanza “avevano rapporti sessuali completi” con la ragazzina. Non c’è niente di più algido di una relazione, niente di meno adatto a descrivere il tumulto, il disordine, lo sgomento, la resa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva, cosa diceva? Non si sa, nessuna relazione può raccontarlo.
Dicono, i verbali, che erano tutti ragazzi “incensurati e di buona famiglia”. Aggiungono, le cronache, che sono passati quasi due mesi dall’evento e che nessuno  –  nessuno  –  ha fatto un gesto o ha detto qualcosa, né a scuola né in famiglia, nelle molte famiglie coinvolte, che somigliasse alla presa d’atto di un reato, o quanto meno di una vergogna, di una colpa, di un dispiacere. Niente, silenzio. Il sindaco ieri ha detto che “inquieta che questi ragazzi non distinguano il bene dal male”. Inquieta, certo. Pone il problema della responsabilità. È loro, che geneticamente, naturalmente non sanno distinguere o è della generazione che li ha cresciuti, e non gli ha fornito i ferri essenziali per l’opera di elementare distinzione? È dei figli o dei padri, la colpa?
Anni fa, a Niscemi, Caltanissetta, un gruppo di minorenni massacrò di botte, strangolò con un cavo di antenna e gettò in una vasca di irrigazione una coetanea, Lorena Cultraro, 14 anni. Era incinta, rivelò l’autopsia. Uno degli assassini, quindicenne, chiese al giudice, dopo aver confessato l’omicidio: “Ora che le ho detto cosa è successo posso tornare a casa?”. A vedere la tv, a giocare alla play. Tornare a casa. Era il 2008, cinque anni fa. Si scrissero articoli sgomenti, intervennero psicologi di fama, dissero che certo in quelle zone del Paese, al Sud, è tutto più difficile. Zone d’ombra, povertà di mezzi e di sapere, l’adolescenza sempre un enigma. Ora, cinque anni dopo, siamo a Modena. Emilia culla di bandiera di democratica civiltà e di sapere. Certo questa ragazzina non è morta, per sua fortuna. Forse non ha nemmeno lottato per evitare quel barbaro rituale che chissà, magari era proprio quello che l’avrebbe fatta diventare grande, finalmente. Forse per qualche tempo ha pensato: è stato quello che doveva essere.
Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.
Verrà il giorno in cui capiremo l’abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l’anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all’harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.

 

     

 


 

 

L’ecocidio? Un crimine. L’iniziativa dei cittadini europei

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La distruzione ambientale deve diventare un crimine per il quale le persone colpevoli devono essere ritenute responsabili. Per chiedere che l’ecocidio venga reso penalmente perseguibile in Europa, è stata lanciata dai cittadini europei la campagna “End Ecocide Europe”. L’obiettivo è quello di raggiungere un milione di firme.

La distruzione ambientale deve diventare un crimine per il quale le persone colpevoli devono essere ritenute responsabili. Questo crimine ha il nome di ecocidio, che sta ad indicare quei danni ambientali che stanno distruggendo il nostro pianeta e mettendo a rischio gli esseri umani, gli animali, gli ecosistemi.

Per far sì che l’ecocidio venga riconosciuto come crimine anche dalla normativa nazionale e comunitaria è stata lanciata la campagna “End Ecocide Europe”. Si tratta di un’iniziativa promossa dai cittadini europei per chiedere che venga reso penalmente perseguibile l’ecocidio in Europa, ovvero:

  • che sul territorio europeo sarà illegale commettere ecocidio;
  • che saranno illegali attività commesse da compagnie o cittadini europei anche al di fuori dell’Unione Europea;
  • che le compagnie non europee che commettono ecocidio non potranno vendere i loro prodotti nell’Unione Europea.

Attraverso questa iniziativa si invita dunque la Commissione Europea ad approvare una legislazione che proibisca, prevenga ed ostacoli l’ecocidio, ossia il danneggiamento estensivo, la distruzione o la perdita dell’ecosistema di un determinato territorio.

Potenziali casi di ecocidio possono essere ad esempio le sabbie bituminose di Alberta, la fratturazione idraulica (fracking), lo spianamento delle montagne o lo spopolamento degli alveari.

A sostegno di tali richieste servono un milione di firme. La Commissione Europea sarà a quel punto legalmente obbligata a considerare la proposta di legge di conversione dell’ecocidio in crimine.

È possibile firmare fino a gennaio 2014 sul sito www.endecocide.eu.

Da ilcambiamento.it

lettera al ministro dell’interno francese

leonarda

a margine della discussione pubblica che il caso dell’espulsione della ragazza rom mentre era in gita scolastica, un ex deputato della sinistra ha pubblicato sull’ Humanité una lettera a M. Valls, ministro dell’interno

la lettera è stata messa on line, con qualche perplessità (a motivo di qualche espressione non proprio elegante) e al tempo stesso con convinzione, dal sito www.garriguesetsentiers.org:

Manuel (Valls), ricordati… di Jean-Claude Lefort

Il comitato di redazione di “Garrigues et Sentiers” ha deciso, dopo discussione, di mettere on line questo articolo, che esprime un giudizio che merita di essere preso in considerazione. Deplora solo che le ultime righe, per il tono eccessivo e l’intenzione ingiuriosa, rovinino la moderazione e il ritegno del resto del testo.

Manuel, hai dichiarato su BFMTV che per te la situazione era molto diversa da quella dei rom, in quanto la tua famiglia spagnola era venuta in Francia per fuggire dal franchismo. Sei stato naturalizzato francese nel 1982. Franco è morto nel 1975. Sette anni prima della tua naturalizzazione. Quando sei diventato francese, quindi, non c’era più la dittatura in Spagna. Secondo le tue parole, quindi, tu avevi “vocazione” a ritornare nel tuo paese di nascita, in Spagna. Non lo hai fatto e capisco perfettamente, così come capisco molto bene il tuo desiderio di diventare francese. Senza ombra di dubbio. Tu avevi “vocazione” a tornare a Barcellona, in Spagna, dove sei nato, per usare le tue parole che riguardavano unicamente i rom. Chi ti sta scrivendo è un francese di origine zingara da parte di padre. Mio padre, zingaro e francese, nel 1936 è andato in Spagna a combattere il franchismo, armi in pugno, nelle Brigate internazionali. Per la libertà del tuo paese di nascita, e quindi quella della tua famiglia. Ne è morto, Manuel. In seguito alle ferite inflitte dai franchisti sul fronte della Jarama, nel 1937. Non ti chiedo alcun ringraziamento, e neanche la minima compassione. La rifiuto in anticipo. Sono onorato in verità perché lui ha fatto quella scelta, anche se ha privato la mia famiglia della sua presenza, quando io avevo solo nove anni e mia sorella diciotto. Poi è venuta la guerra mondiale. E i campi nazisti si sono aperti per gli zingari. Tu lo sai. Ma un numero enorme di zingari, di gitani e di spagnoli si sono impegnati nella Resistenza sul suolo francese. Avrebbe potuto esserci anche tuo padre. L’età l’aveva, perché è nato nel 1923. Georges Séguy e altri sono entrati in resistenza a sedici anni. Non gli rimprovero assolutamente di non averlo fatto, evidentemente. Ma ti chiedo il rispetto assoluto per le donne e gli uomini che si sono impegnati nella Resistenza contro il franchismo e poi contro il nazismo e il fascismo. Contro coloro che avevano fatto Guernica. Eppure, seguendo il tuo pensiero, essi avevano “vocazione” a ritornare o a restare nel loro paese d’origine, “quegli stranieri, eppure nostri fratelli” (1)… Manuel, “si” sono accolte la Romania e la Bulgaria nell’Unione europea benché quei paesi non rispettassero, e continuino a non rispettare, uno dei principi fondamentali per diventare o essere membri dell’Unione europea: il rispetto delle minoranze nazionali. Essendo sensibile, per ragioni evidenti, a questo tema, all’epoca mi ero molto preoccupato. In quanto deputato, sono andato a Bruxelles, alla Commissione, per provare e dire che quei paesi non rispettavano quella clausola fondamentale. Mi hanno riso in faccia, figurati. E oggi, in quei paesi, la situazione dei rom si è ulteriormente aggravata. Non migliorata, dico proprio “aggravata”. E hanno “vocazione” a restare nei loro paesi o a tornarvi? Si tratta allora, per te, di una specie umana particolare che potrebbe sopportare le vessazioni, le discriminazioni e le umiliazioni di ogni tipo? Quei paesi d’origine non sono dittature, certo. Ma non sono neppure delle vere democrazie però. Allora tu, lo spagnolo diventato francese, non capisci? Non capisci cosa significhi fuggire dal proprio paese? A meno che tu abbia delle concezioni molto speciali, per le quali ciò che vale per un rumeno non vale per uno spagnolo. Eppure sai che la parola “razza” scomparirà dalle nostre leggi. E giustamente, perché non ci sono razze, c’è una sola specie umana. E i rom ne fanno parte. La fermezza deve essere esercitata dove vi sono delle responsabilità. Non su poveri individui che non ne possono più. Saper accogliere e saper far rispettare le nostre leggi non sono due concetti antagonisti. Quando si è di sinistra, non si ha il manganello al posto del cuore. È un francese di
origine zingara che ti scrive, che scrive a te, solo recentemente diventato francese. È un figlio di militanti della “Brigata internazionale” che si rivolge a te. Ricorda: “Chi non ha memoria, non ha futuro”. Per il momento, Manuel, ho la nausea. Le tue dichiarazioni mi fanno vomitare, e anche peggio. I nostri padri avrebbero fatto tutto questo per niente, o per “questo”? Sono morti per la Francia, Manuel. Perché la Francia vivesse. Compresi “quegli stranieri, eppure nostri fratelli”.
*Lettera a Manuel Valls (ministro dell’interno francese) di Jean-Claude Lefort, ex deputato comunista, pubblicata su L’Humanité del 1° ottobre 2013.
(1) “ces étrangers, et nos frères pourtant”: citazione di una poesia di Louis Aragon (Strophes pour se souvenir), scritta per rendere omaggio ai resistenti “stranieri” arrestati dai tedeschi e fucilati il 21 febbraio 1944.

verso la giornata missionaria mondiale

bel giglio

Missione, dono della fede non dispendio di energie

Nel suo primo messaggio in occasione della Giornata missionaria mondiale, papa Francesco ha di nuovo fatto emergere il carattere profondamente pastorale del suo pontificato: si nota, infatti, che il “taglio” del messaggio è connotato da un’operatività ma anche da una riflessione che scaturiscono da un’esperienza di vivo e diretto contatto con le comunità cri- stiane locali, in particolare le diocesi e le par- rocchie, che rimangono comunque e sempre «il modello ecclesiale permanente e paradig- matico, lungo i secoli» per citare un’afferma- zione di papa Benedetto XVI. Allora, che significa per la Chiesa locale es- sere una Chiesa missionaria? Prendiamo spunto esattamente dal messaggio che papa Francesco ha reso pubblico la domenica di Pentecoste.
La fede, dono da donare. Richiamandosi all’anno della fede che si avvia alla conclu- sione, papa Francesco ci ricorda che «la fede è dono prezioso di Dio». E si tratta di «un dono che non si può tenere solo per se stessi, ma che va condiviso», pena il divenire «cristiani isolati, sterili e ammalati». Un’affermazione simile ha notevoli conse- guenze a livello pastorale. Il papa le ribadisce poco più avanti, quando afferma: «La solidità della nostra fede, a livello personale e comu- nitario, si misura anche dalla capacità di co- municarla ad altri… uscendo dal proprio re- cinto per portarla anche nelle periferie». Ciò significa che possiamo ritenerci cristiani pra- ticanti perché partecipiamo ogni domenica al- l’eucaristia e magari alimentiamo la nostra pratica religiosa con un attivo impegno all’in- terno delle varie attività di una parrocchia o di una comunità. Ma questo non basta per dirsi cristiani sani e portatori di frutto. Se un cristiano non apre la propria esperienza in- tima e profonda del Cristo a una dimensione di testimonianza, di annuncio, di missione, è un cristiano “malato”. E di cristiani “malati” le nostre chiese sono piene. Malati di che? Malati di intimismo, ma- lati di sterili sentimentalismi, malati di no- stalgia per una fede “di massa” che non c’è più, malati di sagrestie luccicanti e di liturgie ro- boanti; malati e asfissiati da una fede che non respira bene perché lascia chiuse le porte e le finestre all’incontro con l’altro, soprattutto con l’altro che fa fatica a credere e che spesso ci mette in discussione. Se non ci apriamo alla dimensione dell’an- nuncio, il cristianesimo malato ci contagerà e ci ucciderà molto più velocemente di qualsiasi persecuzione esterna. Chiaramente, questo comporta e richiede una profonda conver- sione pastorale, a partire anche dalle strutture che la sostengono. Sembra di sentire riecheggiare, in questo messaggio così come in molte altre sue affer- mazioni da quando Bergoglio è stato eletto ve- scovo di Roma, le parole e le tesi presenti nel documento finale della 5ª Conferenza del- l’episcopato latinoamericano di Aparecida (2007), che lo ha visto protagonista, e che parla esplicitamente di «conversione pasto- rale» come di uno stile credente che «esige che si passi da una pastorale di sola conservazione ad una pastorale decisamente missionaria. Solo così sarà possibile che l’unico pro- gramma del vangelo continui a entrare nella storia di ogni comunità ecclesiale con un nuovo ardore missionario, facendo sì che la Chiesa si manifesti come una madre che va in- contro, una casa accogliente, una scuola per- manente di comunione missionaria» (cf. DA 370).
La missione paradigma della vita cri- stiana e della pastorale. «La missionarietà – continua Francesco nel messaggio – non è un aspetto secondario della vita cristiana, ma un aspetto essenziale». E ancora: «La missio- narietà non è solamente una dimensione pro- grammatica nella vita cristiana, ma anche una dimensione paradigmatica che riguarda tutti gli aspetti della vita cristiana». Rischiando di sentirci accusati di eccessivo fanatismo per la missione, quasi dimenticando che prima di guardare ai problemi che ci sono “nel mondo” occorre guardare alla realtà “all’interno” delle nostre comunità (l’annosa questione della di- stinzione tra «missione ad extra» e «missione ad intra»), noi “addetti ai lavori” abbiamo spesso sottolineato che la sensibilizzazione missionaria all’interno di una comunità par- rocchiale o diocesana non è “una delle tante attività da fare”, ma uno stile, un modo di es- sere, una modalità di testimonianza cristiana che pervade completamente la vita di una co- munità. Come ci ricorda il papa, la dimen- sione missionaria all’interno di una comunità si rende concreta nella capacità di «portare con coraggio in ogni realtà il vangelo di Cri- sto, che è annuncio di speranza, di riconcilia- zione, di comunione, di vicinanza di Dio, della sua misericordia…, di amore di Dio che è ca- pace di vincere le tenebre del male e di gui- darci sulla via del bene». Allora, missione è soprattutto un modo di essere nella comunità, non una cosa in più da fare rispetto alle altre. Stabilire delle priorità nella prassi pastorale di ogni singola Chiesa locale ha certamente il suo significato e la sua importanza: non possiamo, tuttavia, permet- terci di ritenere che la dimensione missionaria possa essere considerata un affare per pochi, un’attività per tecnici, una specializzazione pastorale da affidare a chi ha maggior sensi- bilità verso temi come la mondialità, la soli- darietà, la cooperazione internazionale. Ri- schieremmo, nella migliore delle ipotesi, di delegare la missione a un gruppo di fedeli di élite; ma, ancor peggio, la vedremmo come un disturbo all’ordinarietà della prassi pastorale nelle nostre parrocchie; o, addirittura, la ren- deremmo un elemento snaturante dell’iden- tità della Chiesa, ridotta così – come disse il papa ai cardinali all’inizio del suo pontificato – alla stregua di una «ong pietosa» che fa delbene ma che non confessa né annuncia Cri- sto.
Inviare in missione non è una perdita, ma un guadagno. Il messaggio di Francesco, prima di concludere con un ricordo partico- lare per tutti i missionari e le missionarie sparsi in ogni parte del mondo e per i cristiani che vivono situazioni di particolare dramma- ticità e persecuzione a causa della loro fede, ci ricorda un altro aspetto importante, che as- sume sempre di più le caratteristiche di un fe- nomeno di attualità. Ci parla, infatti, del ge- neroso impegno delle giovani Chiese che «in- viano missionari alle Chiese che si trovano in difficoltà, non raramente di antica cristia- nità». Oltre a rilevare che si tratta di un feno- meno molto attuale e sentito nelle Chiese di antica tradizione (solamente in Italia con- tiamo almeno 3.000 tra sacerdoti, religiosi e religiose non italiani presenti nelle nostre co- munità), il papa ci ricorda che questo non de- v’esser visto come una perdita o una sconfitta, né per le Chiese di antica tradizione (in quanto incapaci di avere nuove vocazioni mis- sionarie) né per le giovani Chiese (che, la- sciando partire molti dei loro membri, po- trebbero sentirsi “svuotate” di nuove energie). Invita infatti le Chiese locali, soprattutto nella persona dei vescovi, a «sostenere con lungi- miranza e attento discernimento, la chiamata missionaria ad gentes, sapendo che «donare missionari e missionarie non è mai una per- dita ma un guadagno». E questa dev’essere un’attenzione «presente anche tra le Chiese che fanno parte di una stessa Conferenza epi- scopale o di una Regione», rilanciando così il concetto di missio inter gentes. Ciò significa che non possiamo accampare scuse: non è possibile rinunciare a una pro- fonda e seria pastorale vocazionale missiona- ria solo perché preoccupati di mantenere un numero adeguato di sacerdoti e religiose per le nostre comunità cristiane. Una pastorale di mantenimento non porterà mai frutto, perché induce una comunità a continuare a guardare a se stessa e ai suoi problemi, affogandovi dentro in quanto incapace di offrire una pro- spettiva nuova grazie ad un’ottica diversa e più obiettiva. Aprirsi alla missione ad gentes porta le Chiese di antica cristianità a ritrovare «l’entusiasmo e la gioia di condividere la fede in uno scambio che è arricchimento reci- proco». Insomma, lasciar partire missionari e mis- sionarie dalle nostre comunità non significa perdere “forza lavoro” o avere meno “operai nella messe” di casa nostra: significa piuttosto sapere che una fede donata è una fede raffor- zata, mentre una fede conservata – sia pure con tutti i buoni propositi e le migliori inten- zioni – rischia di ammalarsi e di morire soffocata.
don Alberto Brignoli Ufficio nazionale Cei per la cooperazione missionaria tra le Chiese

‘depaganizzazione’ del papato

Boff
una bella riflessione, questa, di L. Boff che sottolinea che la configurazione che il papato ha assunto storicamente  ha avuto come riferimenti e ispirazione meno il vangelo che contingenze storiche, soprattutto impostazioni imperiali e assolutistiche, del tutto dimentiche del “tra voi non sia così!”
urgentissima quindi una purificazione di questa immagine dai connotati, per tanti aspetti, paganeggianti!
 Papa Francesco e la depaganizzazione del papato
Le innovazioni nelle abitudini e nei discorsi di Papa Francesco hanno aperto una crisi acuta nei gruppi conservatori che seguivano rigorosamente le linee guida dei due Papi precedenti. Per loro è stato particolarmente intollerabile che il Papa avesse ricevuto in udienza privata uno dei promotori della “condannata” Teologia della Liberazione, il peruviano Gustavo Gutierrez. Sono storditi dalla sincerità del Papa, che riconosce gli errori nella Chiesa e allo stesso tempo, denuncia l’arrivismo di molti prelati, qualificando di “lebbra” lo spirito cortigiano ed adulatore di molti al potere, i cosiddetti “vaticanocentrici”.
Quello che veramente li ha scioccati è l’inversione che fa, mettendo al primo posto l’amore, la misericordia, la tenerezza, il dialogo, assieme alla modernità e alla tolleranza con le persone, anche con quelle divorziate ed omosessuali, e solo dopo le dottrine e discipline ecclesiastiche.
Si sentono già le voci più radicali che, con riferimento a Papa Francesco, chiedono per “il bene della Chiesa” (la loro, ovviamente) preghiere di questo tipo: “Signore, illuminalo o eliminalo”. La rimozione di papi scomodi non è una rarità nella lunga storia del papato. C’è stata un’epoca compresa tra 900 e 1000, quella chiamata “era pornocrática” del papato, in cui quasi tutti i papi sono stati avvelenati o uccisi.
Le critiche più frequenti che circolano nelle reti sociali di questi gruppi, storicamente superati e arretrati, accusano il papa corrente di dissacrare la figura del papato, secolarizzandola e rendendola banale. In realtà, essi ignorano la storia e sono ostaggi di una tradizione secolare che ha poco a che fare con il Gesù storico e con lo stile di vita degli Apostoli, ma ha molto a che fare con il lento paganesimo e con la mondanità della Chiesa, col seguire lo stile degli imperatori romani pagani e dei principi rinascimentali.
Le porte a questo processo sono state aperte nell’epoca di Costantino (274-337), che riconobbe il Cristianesimo, e da Teodosio (379-395), che lo impose come l’unica religione dell’Impero. Con il declino dell’Impero Romano, si sono create le condizioni perché i vescovi, in particolare quello di Roma, assumessero le funzioni di ordine e controllo. Questo è accaduto chiaramente con il Papa Leone I, il Grande (440-461), che fu proclamato prefetto di Roma per affrontare l’invasione degli Unni. Egli fu il primo anche ad usare il nome del Papa, una volta riservato solo agli imperatori. Ha acquisito maggiore forza con il Papa Gregorio Magno (540-604), proclamato anche lui prefetto di Roma, culminando poi con Gregorio VII (1021-1085) che si arrogò il potere assoluto religioso e laico: forse la più grande rivoluzione nel campo della ecclesiologia.
Le attuali abitudini imperiali, principesche e cortigiane di tutta la gerarchia, dei cardinali e dei papi si devono riferire soprattutto a papa Silvestro (334-335). Nella sua epoca era stata creata una falsificazione, la “Donazione di Costantino”, con l’obiettivo di rinforzare il potere papale. Secondo questa falsificazione, l’imperatore Costantino avrebbe donato al Papa la città di Roma e la parte occidentale dell’Impero. Con questa “donazione”, dimostrata come falsa dal Cardinale Nicola Cusano (1400-1460), erano inclusi l’uso delle insegne e dell’abbigliamento imperiali (porpura), il titolo di Papa, il pastorale d’oro, la mozetta sulle spalle adornata di ermellino e orlata di seta, la formazione della corte e la residenza nei palazzi.
Questa è l’origine delle attuali abitudini principesche e cortigiane della Curia Romana, della gerarchia ecclesiastica e dei cardinali, in particolare del Papa. Prende inspirazione dello stile degli imperatori romani pagani e dalla sontuosità dei principi rinascimentali. Quindi, è stato un processo di paganesimo e di mondanità della Chiesa come istituzione gerarchica.
Coloro che vogliono tornare alla tradizione rituale che circonda la figura del Papa non sono nemmeno consapevoli di questo processo storicamente chiuso e condizionato. Essi insistono su qualcosa che non passa attraverso il setaccio dei valori evangelici e per la pratica di Gesù.
Che cosa sta facendo il Papa Francesco? Sta restituendo al papato e all’intera gerarchia il suo vero stile, legato alla Tradizione di Gesù e degli Apostoli. In realtà, sta ritornando alla tradizione più antica, e realizzando una depaganizzazione del papato nello spirito del Vangelo, vissuto emblematicamente dal suo ispiratore San Francesco d’Assisi .
L’ autentica tradizione è dalla parte di papa Francesco. I tradizionalisti sono solo tradizionalisti e non tradizionali. Essi sono più vicini al palazzo di Erode e di Cesare Augusto che alla grotta di Betlemme e all’artigiano di Nazareth. Contro di loro c’è la pratica di Gesù e le sue parole sullo spogliamento, la semplicità, l’umiltà e sul potere come servizio e non come fanno i principi pagani e i grandi che soggiogano e dominano: “Ma tra di voi non deve esser così; anzi, il più grande fra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Papa Francesco parla a partire da questa originaria e più antica Tradizione, quella di Gesù e degli Apostoli. Perciò destabilizza i conservatori che sono rimasti a corto di argomenti.
Leonardo Boff è autore di Chiesa: carisma e potere, Record, Rio

Ratzinger “inedito”, il racconto del segretario del Papa

Ratzinger "inedito", il racconto del segretario del Papa
Il papa emerito Joseph Ratzinger 

Monsignor Xuereb, rimasto con Bergoglio, ha tratteggiato un ritratto per certi versi “privato” di Benedetto XVI. Dalla “scelta difficile ed eroica” delle dimissioni all’amore per gli animali e la natura, dalla “sensibilità rara se non unica” alla capacità di mettere a proprio agio l’interlocutore

di ORAZIO LA ROCCA

“Una scelta difficile ed eroica, ma presa con grande serenità”. E’ la “scelta” di lasciare il papato fatta da Benedetto XVI il 28 febbraio scorso, per la prima volta raccontata da monsignor Alfred Xuereb, attuale segretario di papa Francesco. Invitato a Pordenone a presentare il libro Per una ecologia dell’uomo sui discorsi di Ratzinger, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, monsignor Xuereb, maltese, è stato un testimone privilegiato delle storiche dimissioni di Benedetto XVI seguite dall’avvento di Bergoglio, essendo stato uno dei segretari di Ratzinger accanto al segretario “titolare”, il vescovo tedesco George Gaenswaen. Nel corso della conferenza di Pordenone e, successivamente, in una intervista alla Radio Vaticana, il fido collaboratore di papa Francesco ha raccontato episodi ed aneddoti della sua esperienza al servizio di Benedetto XVI presentandolo in una luce nuove ed inedita, poco conosciuta al grande pubblico. “L’ho voluto fare – ha specificato all’emittente pontificia nell’intervista esclusiva concessa a Luca Collodi – perché soffro troppo quando leggo giudizi errati e superficiali sulla  figura e l’opera di Joseph Ratzinger”.   Le dimissioni. Sull’abbandono del pontificato, monsignor Xueber si è detto “convinto che la scelta tanto difficile quanto eroica di Benedetto XVI di rinunciare al ministero petrino, non poteva non essere condivisa col fratello Georg con il quale c’è sempre stata da parte di papa Benedetto una splendida, singolare intesa”. “Con raffinata delicatezza mi informò, qualche tempo prima, della sua decisione e per confortarmi mi ha ripetuto per ben due volte: lei andrà col papa nuovo. E per questo lo ringraziai di cuore dicendogli che gli sarei stato grato per sempre”. Le visite di George Ratzinger al fratello papa per Xueber erano “un dolce spettacolo di un amore fraterno molto speciale. Benedetto lo prendeva sotto braccio, lo accompagnava, lo aspettava volentieri al pianoforte, gli spiegava con pazienza il significato di alcuni vocaboli italiani che non capiva”.
Continuità con i Papi precedenti. Nell’intervista, il segretario sostiene anche che tra gli ultimi papi, compresi Francesco e Benedetto XVI, c’è profonda continuità sia nei confronti della dottrina che in materia di difesa della natura ed amore verso gli animali. ”Voglio ricordare – ha spiegato – la sensibilità verso la natura che aveva Giovanni XXIII, che tra poco grazie a Dio verrà canonizzato. Lui, che era figlio di contadini, come non poteva avere sensibilità nei confronti del Creato?”. Sensibilità mostrata da Giovanni XXIII ”con i giardinieri” con i quali si incontrava spesso e volentieri durante le passeggiate. Come pure da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, del quale ha ricordato ”le uscite a respirare l’aria delle montagne”. Quella dei Papi, per Xueber ”è una storia, perché, appunto, fatta da Pontificati diversi ma connessi l’uno con l’altro. Altrimenti sarebbe solo un libro con vari episodi chiusi. Invece, sono dei capitoli”.
L’amore per gli animali. ”Papa Benedetto non ha amore solo per i gatti, ma per tutti gli animali”, ha rivelato mosnignor Xuerebe. ”La prima immagine che mi viene in mente – ha confidato – è che Papa Benedetto si scioglieva davanti agli animali, alla natura, gli piaceva stare fuori, quando uscivamo, per fare una scampagnata, anche quando veniva suo fratello dalla Germania. Ricordando, forse, i momenti in cui, in Germania, da ragazzo, andavano a fare gite nella natura”. ”Nei confronti degli uccellini – ha aggiunto il prelato maltese – posso raccontare un aneddoto. Qualche anno fa, in inverno, durante una passeggiata nei Giardini vaticani recitando il Rosario, notavamo spesso un merlo bianco. Alla fine del rosario mi chiedeva se si era fatto vedere, suggerendomi poi di andare a fare qualche foto del merlo. Con l’aiuto dei nostri fotografi, che hanno macchine migliori della mia, sono andato ed ho scattato alcune foto. Quando le ha viste, l’espressione era di meraviglia. Mi disse che erano foto da pubblicare. E qualche giorno dopo, le foto sono finite sull’Osservatore Romano”. ”Ancora: alla fine di un’udienza generale – ha raccontato don Alfred – alcuni, dalle parrocchie, portano statue raffiguranti Santi. Ricordo che dissi al Papa che un Santo da lui benedetto in una circostanza, aveva il cane accanto a sé. Mi rispose: ‘Alfred, non solo questi Santi sono simpatici, ma diventano più umani’. Una battuta che rivela la sua attenzione per la presenza del mondo animale accanto a questi uomini che diventano così Santi più vicini alla nostra vita quotidiana, potendo rivolgerci loro in confidenza. E’ molto bello questo”.
La sofferenza per gli errori su Ratzinger. “Devo dire che – ha detto il segretario papale – sento dentro di me, da un certo tempo, un impulso: quello di dare un contributo, piccolo quanto sia, a rivelare la vera identità di papa Benedetto. Soffro, quando sento commenti che sono lontani dal rappresentare il vero papa Benedetto. Io, che ho avuto la fortuna, la grazia, di conoscerlo da vicino vorrei raccontare la persona che ho conosciuto e se oggi parlo di lui, ricordando alcuni episodi della mia esperienza, lo faccio con la speranza di farlo conoscere meglio”.
Amore filiale. “Lo sto amando come può amarlo un figlio”, si è quindi lasciato andare monsignor Xueber. “Quand’ero con Papa Benedetto e qualcuno mi rivolgeva una domanda su di lui, ripetevo sempre: finché sono segretario dell’attuale pontefice, io non rispondo a nessuna domanda su di lui. Lo ripeto anche qui: finché sono con papa Francesco non dirò mai niente su di lui. Non conoscevo Benedetto e lo ho amato come un padre, più di un padre. Non conoscevo papa Francesco e lo sto amando come un figlio”. “Avendo avuto il privilegio di vivere per cinque anni e mezzo, giorno dopo giorno nel palazzo apostolico con papa Benedetto sento quasi un impulso dentro di me per correggere un po l’identità che è stata trasmessa di Benedetto XVI, in particolare negli anni del suo pontificato”. E ancora: “Posso dire che è una persona straordinaria da cui sono rimasto fortemente affascinato. Da un lato è un uomo di elevatissima cultura, un gigante per profondità e lucidità intellettuale, dall’altro presenta una disarmante semplicità e una sensibilità rara se non
unica. Sa costruire dei rapporti senza mai mettere a disagio il suo interlocutore, anzi l’aiuta a farsi sentire accolto ed apprezzato. E’ un uomo che ha l’arte di relazionarsi con gli altri stabilendo un approccio di naturalezza e di franchezza”. Entrando, infine, nel merito del volume che tratteggia il rapporto di Benedetto con il Creato, monsignor Xuereb ha sottolineato come la persona umana sia per Ratzinger “il coronamento dell’intera creazione perché immagine

i ‘teologi papisti’ e gli ‘atei devoti’ secondo ‘il foglio’

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

dopo le bordate a papa Francesco, il Foglio oggi corregge un po’ il tiro:

La difesa dopo le critiche a Francesco: “Non è un  rivoluzionario, parla solo un linguaggio nuovo”

Poche, irritate, parole, rispondendo a un lettore, sono state la replica di Giuliano Ferrara all’omelìa di papa Francesco «scatenato» contro ciò che considera le «false ideologie cristiane». «Invita a pregare dal profondo della coscienza cristiana e fedele, in un modo che sembra implicare la rinuncia al pensare, al dubitare o di converso all’ottemperare a un pensiero codificato nei secoli da filosofia e teologia», ha scritto l’Elefantino sul Foglio.

 

«Pensa così di salvare la Chiesa come libera associazione di moltitudini credenti, che non interferisce con l’uomo contemporaneo e ne rispetta le scelte di coscienza. Molti cari auguri».

Dopo settimane di articolesse di aperta contestazione, durante la messa nella Casa Santa Marta Bergoglio aveva parlato dei cristiani nei quali «la fede passa, per così dire, per un alambicco e diventa ideologia. E l’ideologia non convoca. Nelle ideologie non c’è Gesù: la sua tenerezza, amore, mitezza… Quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero», aveva continuato Francesco. Concludendo: «La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni».

Citando l’articolo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, intitolato appunto Questo Papa non ci piace, Salvatore Abbruzzese, sociologo delle religioni con cattedra all’università di Trento, esordisce dicendo: «Questa polemica non mi piace. Non mi piace questa sorta di disputa verbale dove ciascuno tira il mantello del Papa non facendo i conti con ciò che è. Non il capo di un partito, o il CEO di una multinazionale, ma il vicario del falegname di Nazareth che ha sulle spalle il peso delle speranze di un’intera umanità credente (e anche di tutta quella non credente che è in ricerca). Non si può ascoltare un Papa parlare della “coscienza” e pensare che la stia riducendo alle semplici opinioni personali, come se il vero non esistesse, come se Dio non ci fosse e non ci parlasse attraverso la ragione. Solo la nostra ragione riduttiva crede che in fondo al nostro cuore non ci siano che opinioni, che il bene non parli e non ci dica la verità». Federico Pichetto, docente di Patrologia e Cristologia all’Istituto di scienze religiose di Genova condivide l’espressione “iteologia” coniata ieri dal Giornale, «ma forse parlerei di ideo-teologia». Tuttavia, continua Pichetto, autore di alcuni interventi sul Sussidiario.net sull’accoglienza di papa Francesco tra gli atei devoti, «vengo incontro a queste persone che, non avendo chiaro che il cristianesimo non nasce da un magistero ma da un avvenimento, hanno paura che, cambiando il magistero scompaia il ruolo della Chiesa come tutela della civiltà». Certo, per chi vive la fede come «cortigiana di un’idea di società che deve affermarsi, Francesco è un innovatore eccessivo. Ma il cristianesimo è sempre stata un’esperienza di pluralità. Francesco non sta certo dicendo che i matrimoni gay vanno bene. Cambia solo il linguaggio della stessa missione. Si sente meno parlare di ragione e relativismo e più di coscienza, misericordia e povertà che pure appartengono alla tradizione cristiana». Assai critico sulla predicazione di Bergoglio si mostra invece Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso e titolare del seguitissimo blog Settimo cielo. Se l’obiettivo dell’omelìa di Bergoglio «era colpire quelle sistematizzazioni del pensiero cristiano che lui vede come una sorta di gabbia che imprigiona il nucleo vivo e infuocato del pensiero cristiano stesso, a mio giudizio questa preoccupazione è senza fondamento perché il problema della Chiesa negli ultimi decenni è stato opposto. Ovvero quello di essere smarrita, disancorata dai suoi fondamenti. Proprio per cercare di rispondere a questa crisi ci sono stati i pontificati di Giovanni Paolo II e più ancora di Benedetto XVI. In particolare Ratzinger ha cercato di dare un’architettura organica al pensiero cristiano. L’annuncio del vangelo non è innanzitutto l’annuncio della misericordia di Dio, ma anche il prologo del vangelo di Giovanni dove si parla del Logos che si fa carne. Purtroppo – conclude Magister – leggere il vangelo di Giovanni non è come ascoltare le prediche di Bergoglio. Sono molto diffidente della solidità di questo consenso che avvolge il Papa.

Perché mi pare costruito con una predicazione che ha sempre schivato i punti contestabili». Di giudizio opposto è padre Livio Fanzaga, il direttore di Radio Maria che non vuole tornare sulla sospensione di Gnocchi e Palmaro: «Nella meditazione a Santa Marta c’è l’impostazione spirituale di fondo di Francesco, che è poi l’unica cristiana. La fede è l’incontro con la persona di Cristo risorto, e quindi con la sua tenerezza, il suo amore, la sua mitezza. Questo incontro trasforma la vita. La persona di Cristo è al centro e la dottrina cristiana deve sempre portarci a questo centro irradiatore di vita. Se manca questo il cristianesimo scade a ideologia e moralismo.

Questo succede quando gli intellettuali cattolici smettono di incontrare Dio nella preghiera. Francesco fa quello che Gesù ha detto a Pietro: “Pasci le mie pecorelle”. Credo che Benedetto XVI, il Papa emerito, sia lui per primo felicissimo del dono che Dio ha fatto alla chiesa con papa Francesco».

 
 

“Leonarda può tornare, ma da sola”, “mai! crudele!”

leonarda

PARIGI  “Se vorrà proseguire la scuola in Francia, potrà farlo. Ma dovrà venire da sola”. Il presidente della Repubblica francese, Francois Hollande, rompe il silenzio sul caso Leonarda Dibrani, la quindicenne rom fermata dalla polizia mentre era in gita scolastica. Immediata la risposta della ragazza: “Non tornerei mai in Francia da sola, non abbandonerò la mia famiglia”.

Fino ad oggi il presidente non si era ancora espresso. Lo fa poco dopo la pubblicazione del rapporto d’inchiesta che ha definito “conforme alle regole” l’espulsione. Secondo l’Ispettorato che ha valutato il caso, la ragazza è stata espulsa con la sua famiglia perchè la richiesta di asilo era stata rifiutata. I Dibrani erano dunque irregolari, per questo Hollande ha precisato che Leonarda, se vorrà, dovrà tornare da sola: “Le garantiremo accoglienza”, ha assicurato il presidente. “È senza cuore”, ha detto la ragazza. “Non sono la sola a dover andare a scuola – ha fatto notare -, ci sono anche i miei fratelli e le mie sorelle”.

Nel rapporto che conferma la liceità dell’espulsione, viene allo stesso tempo criticata l’azione della polizia. “Non hanno dato prova del discernimento necessario”, dice il rapporto, che raccomanda di “evitare le espulsioni in ambito scolastico”. In effetti, è stato proprio questo il punto più controverso della vicenda. Il 46% dei francesi intervistati per un sondaggio, si è detto shoccato per la modalità in cui la polizia ha effettuato il fermo. Allo stesso tempo però, i francesi si dicono contrari ad un rientro della quindicenne e la sua famiglia.

protesta

Nei giorni scorsi migliaia di studenti si erano mobilitati contro la politica di espulsione messa in atto dal ministro dell’ Interno, Manuel Valls. Il risultato è stato il riesame della procedura di espulsione verso il Kosovo di Leonarda e della sua famiglia, su cui stasera probabilmente si pronuncerà lo stesso ministro.

Valls è finito al centro delle polemiche, attaccato da molti colleghi del partito socialista.

Ma stando a quanto riportano i sondaggi, la sua popolarità è in crescita. Il 74% dei francesi appoggiano il comportamento del ministro, già visto da molti come il successore del debole Hollande. Sempre secondo il sondaggio, condotto dal quotidiano Le Parisien, due francesi su tre non partecipano all’ondata di sdegno e di proteste.

il biblista p. Pagola commenta il vangelo della domenica

 

croce

commento di p. Pagola al vangelo di domani, domenica XXIX del tempo ordinario (20 ottobre 2013)

Lc 18, 1 – 8:

CONTINUIAMO A CREDERE NELLA GIUSTIZIA?

 Luca riporta nel suo vangelo una breve parabola per indicarci che Gesù la ha narrata per spiegare ai suoi discepoli come dovevano pregare sempre senza scoraggiarsi. Questo tema è molto caro all’evangelista che, in varie occasioni, ripete sempre la stessa cosa. Naturalmente, la parabola è stata letta quasi sempre come un invito a badare alla perseveranza nel rapporto tra noi e Dio e del nostro dialogo continuo con lui. Tuttavia, se osserviamo il contenuto del racconto e la conclusione a cui arriva lo stesso Gesù, ci accorgiamo che la chiave della parabola è

 la sete di giustizia. Fino a quattro volte si ripete l’espressione “fare giustizia”. più che un modello di discorso, la vedova del racconto è esempio ammirabile di lotta per la giustizia in mezzo ad una società corrotta che abusa dei più deboli.

 Il primo personaggio della parabola è un giudice che “non teme Dio e non gli importa niente degli uomini”. È l’incarnazione esatta della corruzione che viene denunciata ripetutamente dai profeti: i potenti non temono la giustizia di Dio e non rispettano la dignità e né i diritti dei poveri. Questi non sono dei casi isolati. I profeti denunciano la corruzione del sistema giudiziario in Israele e la struttura maschilista di quella società patriarcale.

 Il secondo personaggio è una vedova indifesa in mezzo ad una società ingiusta. Da un lato, vive subendo gli oltraggi di un “avversario” più potente di lei, e dall’altro, è vittima di un giudice al quale non gli importa in assoluto della sua persona e né della sua sofferenza. Così vivono milioni di donne di tutti i tempi nella maggioranza dei paesi.

 Nella conclusione della parabola, Gesù non parla del dialogo esatto da intrattenere con il Padre. Prima che niente, chiede fiducia nella giustizia di Dio: “Non farà Dio giustizia ai suoi eletti che gli gridano giorno e notte?”. Questi eletti non sono “i membri della Chiesa” bensì i poveri di tutti i paesi che vanno chiedendo giustizia. Di essi è il regno di Dio.

 Dopo, Gesù fa una domanda che è tutta una sfida per i suoi discepoli: “Quando verrà il Figlio dell’Uomo, troverà questa fede sulla terra?”. Egli non sta pensando alla fede come adesione dottrinale, bensì alla fede che è incoraggiamento per la vedova, modello di indignazione, resistenza attiva e coraggio per reclamare giustizia verso i corrotti.

 È tutto questo la fede ed il dialogo dei cristiani soddisfatti delle società del benessere? Sicuramente, ha ragione J. B. Metz quando denuncia che nella spiritualità cristiana ci sono troppi cantici e poche grida di indignazione, troppa compiacenza e poca nostalgia di un mondo più umano, troppa consolazione e poca fame di giustizia.

 José Antonio Pagola

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