p. Maggi commenta il vangelo della domenica

croce
DIO FARA’ GIUSTIZIA AI SUOI ELETTI CHE GRIDANO VERSO DI LUI 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM

XXIX domenica del tempo ordinario (20 ottobre 2013)
Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Il versetto iniziale di questo brano, Luca capitolo 18, i primi otto versetti, riferisce che Gesù diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Ebbene questo versetto può ingannare e sviare l’attenzione del lettore: non si tratta dell’insegnamento sulla preghiera – o sulla preghiera insistente – tema che Gesù ha già trattato – ma sulla realizzazione del Regno di Dio.
L’insegnamento di Gesù sulla preghiera, al capitolo 12 di questo vangelo è molto chiaro. E’ l’invito a non preoccuparsi, come fanno i pagani, ma ad essere sempre pienamente fiduciosi nell’azione d’amore del Padre. Gesù aveva detto: “E voi non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno”.
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Quindi non c’è neanche da chiedere al Signore perché il Signore non viene incontro ai nostri bisogni, ma li precede addirittura. Ma quello che Gesù ha a cuore è “Cercate piuttosto il suo Regno e queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Questo sta a cuore a Gesù, ed è questo il tema: la realizzazione del Regno di Dio. Perché? Liberati quindi da ogni preoccupazione questi discepoli sono invitati a lavorare per realizzare il Regno di Dio, cioè la società alternativa dove anziché accumulare si condivide, dove anziché comandare ci si mette a servizio degli altri, e per questo non c’è bisogno di salire in alto sopra alle altre persone, bensì di scendere. Questo è il Regno di Dio, la società alternativa che fa parte del progetto di Dio sull’umanità.
Per questo Gesù l’ha posto nell’unica preghiera che ha insegnato, il Padre Nostro, dicendo “venga il tuo regno”, che non si riferisce alla venuta di qualcosa che ancora non c’è, ma qualcosa che si allarga e si estende. Infatti, dal momento che c’è una comunità di uomini, di discepoli, di donne, che accolgono le beatitudini, il Regno c’è già.
Gesù aveva detto “Beati voi poveri”, quelli che hanno fatto questa scelta della società alternativa, “perché vostro è il Regno di Dio”. Non dice che il Regno sarà, il Regno c’è.
Quindi si tratta di ampliare, di estendere ancora gli effetti di questo Regno. Ebbene, questo Regno si deve allargare grazie all’impegno dei credenti che operano per il progetto di Dio sull’umanità, che è quello – come ha cantato Maria nel Magnificat – di disperdere i superbi, di rovesciare i potenti dai troni e di rimandare i ricchi a mani vuote.
Questo è quello che Gesù vuole e che i discepoli devono realizzare. Questo è il Regno di Dio. Per questa ragione Gesù ai farisei che gli chiedono beffardi: “Quando verrà questo Regno?” perché pensano che sia un’utopia irrealizzabile, ha risposto: “Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, non è qualcosa di clamoroso, di sensazionale, che scende dall’alto. E nessuno dirà: ‘Eccolo lì’ oppure ‘Eccolo là’. Ecco il Regno di Dio è in mezzo a voi”.
Sono piccole comunità di credenti che hanno accolto il messaggio di Gesù e iniziano quest’opera di liberazione dell’umanità. Pertanto il brano in questione, questo capitolo 18 di Luca, i primi otto versetti, rappresenta un incoraggiamento alle comunità cristiane, le comunità del Regno,  che possono scoraggiarsi, avvilirsi vedendosi sole, fragili di fronte all’enormità dell’ingiustizia della società che le circonda, che è il loro stile.
E la preghiera è finalizzata alla realizzazione della giustizia del Regno di Dio. In questo è il significato dell’insistenza della preghiera. Gesù rassicura: Il Regno di Dio e la sua giustizia – Il termine giustizia in questo brano appare quattro volte, è questo il tema centrale – si realizzeranno.
Ma, perché questo diventi realtà, occorre da parte dei discepoli la rottura coni falsi valori della società, rottura che i discepoli ancora non hanno praticato. Per questo il brano si conclude con lo scetticismo di Gesù: “Ma il Figlio dell’Uomo quando verrà troverà la fede sulla terra?”
Gesù aveva parlato della venuta del Figlio dell’Uomo in coincidenza con la distruzione di Gerusalemme. Gesù l’aveva detto: Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’Uomo si
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manifesterà, nella rovina di Gerusalemme, nella distruzione del tempio Dio viene come liberato e quindi gli si permette di andare verso tutta l’umanità.
Ebbene i discepoli, quando Gesù si manifesterà, saranno ancora impegnati nella realizzazione del Regno di Dio? La finale del vangelo di Luca ne dubita. I discepoli non  hanno ancora rotto con i valori della società, frequentano il tempio – così finisce il vangelo di Luca – quel tempio che Gesù aveva definito un covo di ladri e di discepoli di Emmaus riconoscono ancora come “nostre autorità” gli assassini di Gesù.
Quindi tutto il brano è un invito a non scoraggiarsi per seguire colui che ha detto, in un altro vangelo, quello di Giovanni, “Coraggio io ho vinto il mondo!” Chi si impegna a favore della vita sarà sempre più forte della morte. Chi si impegna a favore della luce vincerà sulle tenebre.




Gli studenti francesi si ribellano all’espulsione della ragazza rom

 

protesta

una ventina di licei parigine  sono stati occupati per esprimere solidarietà alla ragazza rom kosovara espulsa dalla Francia mentre era in gita scolastica

Il caso di Leonarda Dibrani continua a scuotere la Francia. Migliaia di studenti transalpini sono scesi nelle piazze per protestare contro l’espulsione della giovanissima ragazza kosovara, residente da alcuni anni in Francia, e prelevata dalla polizia durante una gita scolastica per essere poi rimpatriata. I giovani francesi hanno protestato con grande forza contro il trattamento subito dalla loro coetanea, che ha scandalizzato una parte significativa dell’opinione pubblica. Le Monde informa come una ventina di licei parigini siano stati occupati per esprimere solidarietà a  Leonarda Dibrani così come a Khatchick Kachatryan, un altro ragazzino espulso sabato scorso in Armenia nonostante frequentasse un liceo della capitale francese. Ieri le strade di Parigi sono state percorse da migliaia di studenti che protestavano contro il governo socialista, prendendosela in particolar modo con il ministro degli Interni Valls. Le proteste non si sono svolte solo nella capitale transalpina, ma hanno avuto luogo anche in altre città francesi come Avignone. Oggi la mobilitazione degli studenti è stata ancora più massiccia, e cresce ancora di più l’imbarazzo della gauche, ritornata all’Eliseo solo l’anno scorso dopo quasi vent’anni di “esilio conservatore”.

La difficoltà del governo sono accresciute dalla ricostruzione dell’espulsione di Leonarda. La ragazza, come ha raccontato un’associazione per i diritti umani che ha rivelato il caso, sarebbe stata prelevata dalle polizia mentre era su un pullman durante una gita scolastica. Gli agenti hanno eseguito l’ordine di espulsione che spiccava da tempo sulla sua famiglia. Leonarda Dibrani viveva da cinque anni in un centro di accoglienza per i richiedenti asilo, a Levier, nel dipartimento del Doubs, ai confini con la Svizzera, assieme alla sua famiglia, composta dai genitori e da cinque figli. Da tre anni Leonarda frequentava la scuola pubblica. Il suo francese è perfetto mentre non parla più l’albanese, l’idioma prevalente del Kosovo, dove non risiedeva più dall’età di quattro anni. Da tempo si sapeva che la famiglia Dibrani fosse espulsa e rinviata nel Kosovo, come in effetti è avvenuto. In queste ore è emerso che il padre la picchiasse, così come capitava alla madre o alle sorelle di Leonarda. Le modalità da retata di polizia dell’espulsione hanno fatto scoppiare un’ondata di indignazione.  La portavoce del governo francese ha parlato di condizioni scioccanti, ribadendo però come i fatti debbano ancora essere confermati da un’indagine amministrativa. Il caso però ha messo in ulteriore difficoltà il presidente Hollande, crollato ormai al 25% di popolarità. L’opinione pubblica progressista si sta sempre più allontanando dal “suo governo”, mentre il ministro più popolare rimane Valls, che però è ormai apprezzato più da elettori di destra che di gauche.




i ‘cattoconservatori’ americani e papa Francesco

 

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

no, decisamente non va giù ai ‘cattoconservatori’ americani, come del resto anche ai nostri ‘atei devoti’ cavalcati da ‘il Foglio’ di G. Ferrara, papa Francesco colpevole di cedere troppo alla ‘cultura moderna’ rinnegando la certezza della dottrina tradizionale e scivolando rapidamente verso un soggettivismo e relativismo pericolosi!

I cattoconservatori americani e papa Francesco

di Massimo Faggioli
 

Papa Francesco ha incontrato finora quasi universale approvazione, ma se c’è un paese in cui i cattolici sono divisi su Bergoglio è la chiesa a stelle e strisce. Un articolo pubblicato dal Washington Post il 15 ottobre 2013 metteva il dito nella piaga, offrendo una piattaforma giornalisticamente credibile ad una platea di cattolici che usualmente parla a se stessa e ai propri adepti, nei loro circoli, le loro riviste, i loro blog. Ma il problema è reale, ed è tipico della chiesa americana e delle sue specificità. Da un lato, vi è una questione di rapporto tra cattolici e non cattolici americani, o, se si vuole, un problema di “quote di mercato”: un papa troppo ecumenico e troppo accogliente, che rigetta il meccanismo dell’esclusione per costruire una identità religiosa, rischia, agli occhi dei cattolici identitari americani, di indebolire il “brand” cattolico. Ma c’è una questione più interessante, interna al cattolicesimo americano: la chiesa Usa è altamente polarizzata e divisa al suo interno. La chiesa cattolica negli Stati Uniti vive a stretto contatto con un ambiente democratico, e in particolare in una democrazia che non è “consensuale” come le democrazie europee basate su alleanze multi-partitiche, ma è una democrazia “concorrenziale”, cioè con due partiti politici alternativi. In questo contesto democratico-competitivo, la Chiesa cattolica ha assorbito alcuni di questi meccanismi al suo interno, anche per quanto riguarda l’ethos della partecipazione nella Chiesa. La partecipazione nella chiesa degli Stati Uniti è guidata spesso da visioni “competitive”, alternative, più che da istinti “consensuali”. Risulta così chiaro perché i “valori non negoziabili” sono diventati così importanti per il cattolicesimo americano: non solo a causa del proverbiale puritanesimo degli americani (anche cattolici), ma anche a causa della cultura politica americana. L’ethos democratico è diventato parte della cultura della Chiesa, ma nella chiesa degli Stati Uniti questo ha creato più “concorrenza” che “consenso”. Papa Francesco ha iniziato il suo pontificato riaprendo programmaticamente le porte ad una lunga serie di esclusi da una chiesa dalle tendenze neo-esclusiviste. È ovvio che i cattolici conservatori siano i più scettici riguardo i nuovi accenti del pontificato di Bergoglio. Che queste voci scettiche arrivino dagli Stati Uniti ha a che fare non solo con la cultura religiosa americana, ma anche con quella politica – quella che sta portando il paese al default, alla bancarotta: quello che papa Francesco vuole evitare per la chiesa cattolica.




‘primato della coscienza’ e ‘relativismo’

vito-mancuso

il teologo V. Mancuso ne ‘la Repubblica’ di ieri risponde in modo eccellente e lucidamente argomentato non solo all’accademico olandese Jan Buruna e alle sue convinzioni che l’invito a seguire la propria coscienza come il luogo della ricerca della verità fatta agli atei da parte di papa Francesco sia in linea perfetta con “l’estremo individualismo della nostra epoca postmoderna”, ma anche alla critica che da diverso tempo , non solo ampi settori della destra americana, ma in modo particolare da noi su ‘il Foglio’ rivolgono a papa Francesco di rinnegare la posizione ortodossa tradizionale della chiesa cattolica per adottare o scivolare verso un ‘relativismo assoluto’ della verità

 Il primato della coscienza

di Vito Mancuso

 L’accademico olandese Ian Buruma affermava martedì su questo giornale che il pensiero di papa Francesco sul primato della coscienza “ben si accorda con l’estremo individualismo della nostra epoca” e, dichiarato il suo sconcerto al riguardo, presentava quale icona-simbolo della posizione papale niente di meno che Edward Snowden, l’uomo che per seguire la propria coscienza è giunto a svelare i segreti dello spionaggio statunitense. Ma che cosa ha a che fare questo estremo individualismo con la posizione papale? Ben poco, probabilmente nulla. Quando si parla di etica si tratta in primo luogo di rispondere a questa domanda: esiste il bene, il bene come qualcosa di universale e di oggettivo che vale per tutti senza dipendere dalle circostanze, oppure tutto dipende dalle circostanze e non esiste il bene ma solo il conveniente? Questa è la domanda numero uno della teologia morale. La domanda numero due consegue logicamente: ammesso che questo bene universale esista, qual è, come si riconosce, chi lo può riconoscere? La risposta del cattolicesimo, riprodotta alla perfezione nella lettera del Papa a Scalfari oggetto della polemica di Buruma e soprattutto di alcuni cattolici tradizionalisti, è semplice e chiara: 1) esiste un bene comune a tutti gli uomini, universale, oggettivo, che non dipende dalle circostanze o dai sentimenti o dalle emozioni, ma che si sostanzia nella natura delle cose; 2) tale bene consiste in ciò che favorisce la vita e come tale ogni uomo può riconoscerlo mediante la luce della propria coscienza. La capacità di conoscere il bene oggettivo mediante la coscienza soggettiva viene espressa dal cattolicesimo con il concetto classico di sinderesi, definito dal Catechismo “la percezione dei principi della moralità” (art. 1780; cf. anche Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 79, a. 12). Il termine viene dal latino synderesis, che riproduce il greco syneidesis, cioè appunto “coscienza”. La sinderesi esprime la capacità luminosa di ogni coscienza umana di riconoscere il bene anche a prescindere dal proprio interesse e dalle diverse circostanze storiche e geografiche, la capacità di sapere se si sta facendo il bene oppure no, fondando così ciò che Hans Jonas ha chiamato “il principio-responsabilità”, ovvero la capacità di giudizio responsabile, a sua volta fondato sulla realtà della libertà. Solitamente ci si riferisce a questa dimensione dicendo “luce della coscienza”, o anche “voce della coscienza”. È netta la differenza rispetto all’individualismo estremo che Ian Buruma attribuisce al Papa: l’individualismo definisce il bene a partire da sé, a suo uso e consumo, papa Francesco invece dice che il bene è oggettivo ma si può riconoscere e praticare solo passando attraverso la coscienza e che per questo “obbedire a essa significa decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male”. Il primato della coscienza (non ontologico, ma gnoseologico) è un concetto peculiare del cattolicesimo che papa Francesco non ha fatto altro che ripresentare, e il fatto che suoni tanto nuovo dovrebbe portare a seri interrogativi sulla qualità di un certo cattolicesimo di corte predominante negli ultimi decenni, smanioso di apparire ortodosso ma in realtà spesso amante del potere e tale da tradire lo spirito interiore più autentico del cattolicesimo. Esattamente in linea con quanto affermato dal Papa rispondendo a Scalfari, si muove un documento della Commissione Teologica Internazionale (organismo di nomina pontificia composto da una trentina di eminenti teologi) del 6 dicembre 2008 intitolato “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”. Dopo aver introdotto il principio della sinderesi, il documento magisteriale afferma che il bene morale “rende testimonianza a se stesso ed è compreso a partire da se stesso” (n° 56). In precedenza le diverse religioni erano presentate come “testimoni dell’esistenza di un patrimonio morale largamente comune”, il quale “esplicita un messaggio etico universale immanente alla natura delle cose e che gli uomini sono in grado di decifrare” (n° 11). Sono parole potentissime che indicano che per la vita morale non sono indispensabili leggi, codici, esteriorità,
autorità: esiste un messaggio etico “immanente” nella natura delle cose, e gli uomini, credenti o no, con la loro coscienza, sulla base della sinderesi, “sono in grado di decifrarlo”. Ne viene che ognuno con la sua ragione può essere in grado di stabilire cosa è giusto fare e cosa evitare, basta che sia onesto con se stesso. Naturalmente ciò non è per nulla facile, e per questo sono di aiuto le leggi, i codici e tutti gli apparati esteriori promossi dall’autorità, i quali però devono venire ultimamente vagliati, e per così dire autorizzati, dalla luce della coscienza. La tradizione cattolica è chiara al riguardo. Così la Bibbia: “La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare” (Siracide 37,14). Così san Paolo: “Tutto ciò che non viene dalla coscienza è peccato” (Romani 14,23). Così Gesù: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Luca 12,57). Tra le numerose auctoritates ecco il cardinale John Henry Newman: “Certamente se dovessi coinvolgere la religione in un brindisi al termine di una cena berrei alla salute del Papa, se vi farà piacere; ma prima alla coscienza, e poi al Papa”; ecco il Vaticano II: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria… nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali” (Gaudium et spes16); ecco il giovane Joseph Ratzinger: “Al di sopra del Papa come espressione del diritto vincolante dell’autorità ecclesiastica, sta ancora la coscienza individuale, alla quale prima di tutto bisogna ubbidire, in caso di necessità anche contro l’ingiunzione dell’autorità ecclesiastica” (citato da Hans Küng nel primo volume della sue Memorie); ecco il Catechismo attuale: “L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza” (art. 1800). Ed ecco la Commissione Teologica al paragrafo 59 del documento citato: “Soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione”; e subito di seguito: “La legge morale non può essere presentata come l’insieme di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione”. Questo è il nucleo della più genuina tradizione cattolica: il processo della decisione è eminentemente personale. Nessun individualismo quindi, semmai personalismo, che è ben altra cosa. Possono perciò stare tutti tranquilli: papa Francesco è perfettamente cattolico! Ma proprio per questo egli riproduce il paradosso già avutosi con il cardinal Martini, di riuscire a essere veramente universale e a toccare il cuore di molti, non credenti compresi.




acido contro un bimbo rom

bel giglio

 Napoli, quel gesto disumano dell’acido contro un bimbo rom

Piangeva, gridava, teneva le manine sugli occhi mentre sul giubbino comparivano fori enormi a contatto con quel liquido, quasi sicuramente dell’acido

 La testimonianza è di una passante che ieri mattina si trovava in via Andrea Doria, Napoli, quartiere di Fuorigrotta. Le “manine” erano quelle di un bambino rom. Le teneva sugli occhi perché qualcuno da un balcone del palazzo al civico 22 gli aveva gettato addosso dell’acido, probabilmente muriatico. Anche la mamma, che era accanto a lui, è rimasta ustionata al volto.

Sul sito de il Mattino, il giornale che ha lanciato la notizia, ci sono le immagini della maglietta del piccolo: una maglietta gialla bruciata dall’acido all’altezza della spalla, un foro ben visibile.

Mi chiedo che cosa ci può essere di più orrendo e vigliacco che colpire in questo modo un bambino innocente e la sua mamma. Forse solo rinchiuderli in un lager e gassarli come hanno fatto i nazisti, i camerati di quel tale morto centenario nel suo letto e le cui spoglie sono oggi oggetto di culto per nuovi aspiranti aguzzini.

Pare che spesso, dai balconi del civico 22, piovano sui rom che stazionano in strada secchi di acqua e rotoli di carta igienica per farli allontanare. “Ogni giorno ci arrivano segnalazioni da più quartieri, di incendi, minacce, atteggiamenti ostili nei confronti dei rom che prima non registravamo, tranne in casi clamorosi come l’incendio del campo di San Giovanni” dicono dall’Opera Nomadi di Napoli.

Oggi qualcuno è andato oltre.

Qualcuno potrebbe dire che prova pena per quel bambino ma reiterare comunque le lamentazioni su questi individui brutti sporchi e cattivi che turbano la quiete delle loro civili abitazioni. Qualcuno potrebbe dirmi di andare ad abitare vicino a un campo rom, se mi piacciono tanto gli zingari.

Io vi chiedo di fermarvi a pensare al significato di quell’atto. Alla disumanità di chi pensa di risolvere “il problema rom” togliendoli semplicemente di mezzo. O almeno nascondendoli alla vista dei probi cittadini, come polvere sotto il tappeto.

Come se non fossero uomini, donne e bambini ma rifiuti.

Che pena.




voglio confutare il papa Francesco

Ognuno ha “la sua idea di bene”?

 da liberale, dico no a Bergoglio

 Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

così Umberto Minopoli, ‘ateo devoto’ come lui stesso si definisce, in una lettera al direttore de ‘il Foglio’, Giuliano Ferrara, delineando nelle posizioni di papa Francesco, specie in riferimento alle riflessioni sulla ‘coscienza individuale’ il rischio di ‘individualismo ‘ addirittura ‘radicale’

il rischio è, ovviamente solo immaginato dalla ‘paura’ tipica di chi fa di un tradizionalismo (non della tradizione) ,di linguaggio e di sostanza, qualche cosa di essenziale e insuperabilmente immodificabile nella sua rigidità

è interessante notare che il testo sembra scritto quasi da un teologo della liberazione, la cui teologia fa comodo a ‘il Foglio’ e all’autore della lettera pur di non compromettere un’impostazione e un linguaggio (anche solo questo!) consacrati da un rigido tradizionalismo premoderno

 Da ateo (un po’ devoto), materialista e liberale vorrei provare a confutare il Papa. E a difendere l’idea laica e liberale di “bene” dalle insidie del soggettivismo del gesuita Bergoglio. Scalfari ha sbagliato a non confutare l’affermazione relativistica di Bergoglio: “Ognuno ha la sua idea di bene”, che matura e si forma nella “coscienza individuale”, unico vero tribunale e autorità del concetto di bene. Questa tesi è errata. Da un punto di vista cristiano. Ma, anche e soprattutto, da un punto di vista laico e liberale. Anzi è una regressione, una degradazione, una distorsione di un fondamentale assunto della modernità, della laicità e del liberalismo. Per questi ultimi, mi permetto di obiettare, il vero concetto valevole di edificazione a “valore” specificamente umano e fondativo di civilizzazione non è affatto l’astratta “idea di bene” autoedificata da ognuno nel suo foro interiore che, così declinata, conduce al massimo di “relativismo” radicale. Il “valore” liberale autentico non è il Bene ma il “bene comune”. Cioè un’idea relazionale, altruista, sociale che distingue e segna la soluzione di continuità tra “regno animale” e specificità “umana”. Strano che un Papa abbia steccato su questo. Il tratto distintivo che fa dell’uomo un valore e della “vita umana” un valore non contendibile per un cristiano dovrebbe essere non il fatto che l’uomo ha una “coscienza individuale” come sostiene Bergoglio, ma il fatto che possiede, unico tra i viventi, una tendenza “altruista”: un’idea naturale a strutturare comunità e a valorizzare il bene collettivo, la solidarietà, il comportamento sociale come valore superiore a ogni idea puramente individuale di bene. Il concetto di “persona” che il cristianesimo ha trasferito nelle costituzioni liberali è irriducibile a un individualismo radicale. “Persona” è in sé un valore relazionale: esiste e si giustifica solo in un contesto di socialità e di convivenza strutturata intorno a un’idea di bene non individuale (a ogni vivente e persino a una pianta si potrebbe attribuire un comportamento orientato opportunisticamente a un bene individuale) ma “comune” e collettivo. L’assunto “ama il prossimo tuo come te stesso” è la più potente e dirompente delle prescrizioni cristiane ma anche il meno elusivo dei valori che il cristianesimo veicola nelle compassionevoli e solidaristiche “costituzioni” che il liberalismo occidentale consegna alla storia del progresso umano e della civilizzazione. Ecco il “pizzico” di devotismo, di rispetto e di gratitudine che ogni autentico liberale dovrebbe concedere alla “cultura” cristiana.

Materialisticamente la moderna biologia, quella che si è dedicata alla decrittazione e traduzione dell’informazione contenuta nel genoma umano, sostiene, a ragione, che l’idea di “bene comune” e di comportamento altruistico orientato a strutturare comunità è la vera e unica specificità che distingue l’alfabeto genetico umano da quello di ogni altro vivente. Nella costruzione sociale umana le “comunità” ecco il punto, non sono entità ristrette, puramente naturali, istintive, limitate a cerchie parentali e fondate su un puro comportamento di autodifesa dal resto dei viventi, come funziona invece nel regno animale. Ma sono comunità allargate perché finalizzate, attraverso la divisione del lavoro e la specializzazione delle attività, alla valorizzazione del “bene comune” come condotta che produce il miglioramento della specie. Le grandi sintesi culturali dell’occidente – cristianesimo, illuminismo, liberalismo – hanno cercato di strutturare un corredo di valori e di concetti che fungessero da driver e meccanismi di protezione del funzionamento della comunità umana strutturata sul concetto di “bene comune”. La “società” è in occidente un prodotto culturale che funziona solo in un’accezione di “coscienza collettiva” irriducibile all’idea di “bene” come prodotto della coscienza individuale. Azzarderei a dire, come sostiene un grande libro migliorista – “L’ottimista razionale” di Matt Ridley – che l’individuo è il tratto che accomuna la geografia e l’alfabeto genetico dei viventi. E’ invece il sociale – “cervello sociale”, “cultura” tecnologica, divisione del lavoro, altruismo – il tratto che distingue l’umano da ogni altra versione del vivente. Ciò che lega insieme questa specificità umana è, insomma, il “bene collettivo” come comportamento migliorativo e più pagante per l’individuo rispetto al “bene” come astratta costruzione individuale. Ma come, insorgono i soggettivisti e gli individualisti radicali, dove va a finire con questa idea sociale e collettiva di bene il tribunale interiore, il foro individuale, la costruzione liberale dell’individuo come massimo dei valori fondativi della libertà liberale? L’idea di libertà liberale non è affatto soggettivistica.

Il “foro individuale” non è, per i liberali, il perimetro irriducibile del castello della libertà. E’ un valore difensivo: dalle invasioni, prevaricazioni e deformazioni del funzionamento sociale, delle istituzioni comunitarie, delle strutture della convivenza altruistica che non devono mai debordare  dall’equazione di  base della socialità liberale: l’individuo è orientato dal “bene comune” e il “bene comune” è la forma che realizza, nelle società liberali, il miglioramento della qualità della vita dell’individuo. Per me questo sarebbe, al fondo, un concetto cristiano. Stupisce non trovarlo nelle ruggenti affermazioni di Francesco.

Gnocchi e Palmaro Orgoglioso lamento cattolico – Ferrara La coscienza di due cristiani liberi

di Umberto Minopoli




espulsa ragazza rom mentre era in gita scolastica

ragazza rom espulsa

sempre più frequenti le forme di intolleranza che il governo francese, soprattutto nella persona del suo ministro dell’interno, esprime nei confronti del popolo rom

Francia, espulsione di ragazza rom fa tremare il governo socialista

L’espulsione di Leonarda e della sua famiglia dalla Francia fa tremare la Gauche al potere. Oggi questa ragazza rom di 15 anni si trova in un appartamento di due stanze a Mitrovica, nel nord del Kosovo, paese di origine di suo padre. Ma né lei né i suoi fratelli conoscono una parola in albanese.

Il 9 ottobre, la polizia l’ha prelevata durante una gita scolastica per portarla in aereoporto, dove già l’attendevano i suoi famigliari.

Leonarda Dibrani: “Sono stata male, mi vergognavo di fronte ai miei compagni. Alcuni mi chiedevano: Perché la polizia ti sta cercando? Chi hai ucciso? E io non ho capito più niente, non sapevo cosa dire, mi sono messa a piangere”.

Nel mirino è finito Manuel Valls, il ministro dell’Interno di cui ora anche alcuni esponenti socialisti chiedono apertamente le dimissioni. “Quando una richiesta di asilo viene respinta e non ci sono più ragioni per rimanere sul suolo francese – si difende il ministro – la legge va applicata. E la legge prevede l’espulsione”.

Oltre a Valls, che da mesi predica fermezza su rom e migranti in generale, la scossa ha investito tutto il governo. Il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, è stato costretto a promettere che “se sono stati commessi errori, il provvedimento sarà annullato e la famiglia tornerà in Francia affinché il caso sia riesaminato”.

Un’indagine amminsitrativa è in corso e i primi risultati dovrebbero arrivare in meno di 48 ore. La legge francese non prevede che i minori possano essere fermati dalla polizia mentre sono a scuola o durante una gita di istituto.

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Lampedusa scive a Napolitano

lampedusa

 

Lampedusa al limite scrive a Napolitano: “Non abbiamo bisogno della vostra spettacolarizzazione, si riprenda le medaglie”

Una lettera durissima, quella scritta dai lampedusani al Colle, in cui, difendendo gli immigrati, i cittadini si scagliano contro le istituzioni, che abbandonano il popolo e spettacolarizzano le tragedie.

Lampedusa è arrivata al limite. E no, non ce l’ha con gli immigrati, ma con la politica. I lampedusani accolgono e difendono i clandestini, ma non tollerano più le false lacrime delle istituzioni che, dopo la tragedia del 3 ottobre, si sono riempite la bocca di belle parole, per poi ridimenticarsi della situazione in cui versano i cittadini e i migranti.

Per questo, l’Associazione Culturale Askavusa ha deciso di rompere il silenzio e protestare contro quella stessa politica che interviene solo a fronte di incredibili tragedie, dimenticandosi però che sono anni che uomini, donne e bambini muoiono nel Canale di Sicilia, senza che nessuno ne dica niente. E di fronte a quella che ritengono un’ipocrisia, hanno scelto di restituire al Presidente della Repubblica le medaglie al valore ottenute nel 2011 e nel 2012.

E’ una lettera dura e significativa, quella che l’Associazione invia al Colle, nel quale si denuncia l’abbandono da parte dello Stato, sottoposto ad un “golpe”, che dimentica i cittadini. Annunciando la restituzione, i lampedusani spiegano come il gesto sia da imputare al dolore, alla rabbia e allo strazio a cui hanno assistito.

“Rifiutiamo la spettacolarizzazione mediatica con cui il naufragio del 3 ottobre scorso è stato rappresentato e diffuso dall’industria dell’intrattenimento”, hanno scritto. “Dietro la morbosità con cui la fabbrica delle lacrime e del cordoglio del “lutto nazionale” provano a confezionare il format della rappresentazione della tragedia, dietro i riflettori, le conferenze stampa, le visite ufficiali, crediamo ci sia molto altro che vada denunciato.”

“Di fronte ad una strage come quella appena consumatasi, di fronte alle centinaia di corpi ancora ostaggio di un mare che certo non ha colpe pari a quelle della società umana, non accettiamo che ci sia chi venga sull’isola promettendo e assicurando”, aggiungono. “Non accettiamo più che ci si riempia la bocca di promesse, che si diano in pasto alle televisioni le lacrime di circostanza, le commozioni di rito, le figure degli “eroi” e dei salvatori, lasciando poi che le prime pagine si occupino d’altro, che i riflettori si spengano, che i giornalisti ripartano, lasciando tutto così come era prima.”

“A partire dalla legge 40/1998, legge che sicuramente Lei conoscerà bene dato che porta anche il Suo nome”, ricordano ancora “l’Italia ha avviato una prassi di vero e proprio stato di eccezione, sancendo la detenzione ed il trattenimento di quanti non avevano commesso alcun reato.” “Con l’inasprirsi delle norme in materia di immigrazione”, poi, “la situazione è andata via via peggiorando. Il business dell’”accoglienza” si articola oggi lungo una rete di strutture e di centri detentivi che, appaltati a strutture varie, rendono i migranti materia prima di un processo di produzione di profitto che ha luogo in una costante dinamica emergenziale.”
“Come all’Aquila, come in Val di Susa”, ribadiscono. “Militarizzazione, gestione di emergenze alimentate ad arte, sospensione dei diritti e stato d’eccezione per creare laboratori di controllo sociale e di repressione.”

“L’ingerenza imperialista e neo-coloniale dei paesi cosiddetti occidentali destabilizza e rende subalterne intere aree geopolitiche, generando così fenomeni di emigrazione sempre più consistente”, si legge ancora. “Una emigrazione necessaria al capitalismo finanziario dei nostri giorni, il cui conflitto con il lavoro vivo necessita che si impongano nuove forme di governo e di istituzioni e che il mercato stesso del lavoro delle società europee venga stravolto. Occorrono dunque gli immigrati”, proseguono, “come manodopera di riserva, clandestina, sommersa, ricattabile, come marginalità sociale su cui far poggiare una riforma in senso neo-oligarchico delle società europee.”
“Accanto alla marginalità migrante si colloca”, però, “il disagio sociale di quanti, italiani, vivono ormai processi espulsivi di subordinazione, di impoverimento, di negazione della dignità, di quanti lasciano il nostro paese vestendo ancora una volta, anche loro, i panni che in passato abbiamo dovuto troppo spesso vestire, quelli degli emigranti”, che, però, sottolineano non sono quelli della “fuga dei cervelli”, ma le “migliaia che ogni anno lasciano il paese per poter anche solo avere la speranza di un lavoro che garantisca la sussistenza.”

“Così, sullo stesso scoglio di terra, nel canale di Sicilia, il migrante detenuto in un centro indegno, destinato a divenire un ingranaggio del motore del grande sfruttamento continentale”, ricordano e denunciano, “respira la stessa area della donna di Lampedusa che non può partorire sull’isola, perché non vi sono le strutture sanitarie adeguate, di chi rischierà di morire durante un disperato trasferimento in elicottero sulla terraferma per una emergenza che un ospedale avrebbe potuto benissimo affrontare, del bambino costretto in strutture scolastiche inadeguate, di un cittadino che è costretto a pagare i carburanti più cari d’Europa e che magari, essendo pescatore, è costretto a demolire la barca, perché il carburante è troppo caro.”

“Assistiamo ad un continuo scarica barile tra i vari rappresentanti delle istituzioni’”. “Quegli stessi”, affondano ancora, “che negli ultimi anni sono stati colpevolmente muti rispetto alla situazione di Lampedusa, che solo dopo il grande fatto di sangue è stata oggetto di una qualche grottesca attenzione.”

“Riteniamo che la crisi politica delle società europee stia sempre più privando l’Italia della propria sovranità”, scrivono ancora dall’Associazione. “Abbiamo perduto quella monetaria e siamo sempre più esposti ad un’erosione dell’autonomia e della capacità decisionale delle nostre istituzioni politiche. Una governance economico-politica, espressione delle élite tecnocratiche finanziarie e bancarie, impone ormai le proprie direttive e i propri selezionati referenti alle società europee ed alle loro istituzioni, senza che i loro cittadini siano in grado di opporvisi.”
“Per di più”, aggiungono, “l’Italia è succube ed asservita agli interessi militari e di ingerenza imperiale degli USA. Il nostro territorio, alla stregua di una colonia, è disseminato di istallazioni e basi militari e la vicenda del MUOS di Niscemi è solo l’ultima grottesca dimostrazione di uno svuotamento di senso dell’intero apparato politico-istituzionale del paese.”

“A cosa servono e che senso avrebbero queste medaglie”, si domandano dunque i lampedusani, “dopo aver sottoscritto un golpe costituzionale, voluto dai poteri economici e finanziari, quale quello del pareggio di bilancio, che strozzerà qualunque possibilità di un futuro per il paese intero? A cosa servirebbero dopo aver appoggiato la criminale aggressione della Libia, dopo aver condiviso e avallato un’operazione criminosa come la destabilizzazione della Siria, dopo aver sottoscritto il commissariamento da parte dell’oligarchia finanziaria di un intero paese che era un tempo la seconda forza manifatturiera del continente?”

“Quelle stesse istituzioni che vorrebbero appuntarci medaglie sul petto sono quelle che alimentano la macchina infame dei CIE”, attaccano. “Della militarizzazione della Val di Susa, della dislocazione coatta de L’Aquila, delle infinite emergenze dei rifiuti, dei legami organici e strutturali con le mafie, del pareggio di bilancio, della politica neo-coloniale che produce migrazioni, delle missioni di guerra spacciate per umanitarie e delle riforme del mercato del lavoro che generalizzano precarietà e marginalità.”

“Noi proseguiremo sul nostro cammino”, concludono infine, “convinti che la crisi epocale che stiamo vivendo può ospitare, in sé, i germi potenziali di un futuro altro e diverso, di una società rinnovata. Ma non abbiamo bisogno né vogliamo che siano queste medaglie a poter fungere da conferma e da riconoscimento di quanto da noi tentato. Perché se ad appuntarle è la stessa politica che, dopo una tragedia come quella di giovedì scorso, invoca rafforzamenti di Frontex, approfittando ancora una volta della questione migratoria per implementare la stretta militare sul Nord Africa, siamo convinti che la nostra strada vada in tutt’altra direzione”.

fonte: articolotre.com




a proposito dei funerali di Priebke

funerali

la saggia posizione di B. Spinelli (su ‘la Repubblica’ odierna in merito ai funerali di Priebke:
SEPPELLIRLO SÌ RICORDANDO TUTTO

(Barbara Spinelli).

Tutto sta a non dimenticare chi è stato, a seppellirlo nel silenzio, a fuggire le cerimonie vistose; ma seppellirlo si deve. È quanto si può dire su Erich Priebke, l’ufficiale delle SS che sotto gli ordini di Kappler, capo della Gestapo a Roma, si rese colpevole dei 335 morti delle Fosse Ardeatine.

Tutto sta a non prendere il suo colore, a non somigliargli: a fare l’impossibile – mescolare pietà e orrore – perché l’impossibile e il difficile sono sorte dell’uomo che pensa, conosce se stesso, non segue l’istinto. I vocabolari che usiamo sono colmi di emozione, di sdegno, anche di argomenti etico-politici, ma non hanno nulla a vedere col dilemma dei giorni scorsi: che fare, del corpo di chi fu tuo assassino? Come rispondere alla provocazione inaudita che è stata tutta la sua esistenza, visto che Priebke fino all’ultimo non s’è pentito, giungendo sino a chiamare «cucine » le camere a gas, nel testamento?
In mezzo a tanta ira meglio probabilmente non usare parole così intime, e abissali: pietà, amore. E forse aveva ragione Nietzsche quando ci riteneva capaci, sì, di amore del prossimo, «cioè di noi stessi»: non però dell’incommensurabile
lontano, della radicale alterità. Forse amore e pietà sono parole troppo calde, mentre qui ci vuole qualcosa che trattenga l’istinto, che lotti contro la primordiale inclinazione naturale, che sia più asciutta e più imperiosa perfino del senso di giustizia. Meglio la parola Legge. Che non necessariamente coincide con il giusto,
o placa il dolore delle vittime.
Seppellire il nemico – come salvare il naufrago, o soccorrere la vedova e l’orfano: l’imperativo nasce da una cultura plurimillenaria, che oltrepassa l’ordine giuridico. Non a caso Antigone dà a quest’imperativo il nome di «legge non scritta», impartita dagli Dèi prescindendo dalle leggi della pòlis. Rispettare il corpo non più padrone di sé: dai tempi di Sofocle, prima che apparisse Cristo, è norma inviolabile. Il corpo stesso è pura incandescenza: non inumato esala miasma, contagio. Ricordiamo che nòmos, legge, è in origine la porzione di terra distribuita e assegnata. Compresa la porzione della tua tomba.
Tumulare il nemico non è amnesia, né amnistia. Il solo sospettarlo ci rende infinitamente sospetti: vuol dire che tumulare e scordare tendono a congiungersi, sono nelle nostre corde: anche questo è orrore. La memoria dei misfatti sopravvive alla morte: sinistro è dubitarne. Oggi Roma celebra il 70° anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto, e non commemoreremo meglio se avremo vietato a Priebke la sua porzione di terra. Se l’avremo consegnato ai lefebvriani della Confraternita San Pio X di Albano Laziale, che l’useranno politicamente. Se il sindaco di Albano avrà resistito al passaggio della salma in città, e il carro funebre sarà stato assaltato. Nulla è cancellato di quel che Priebke fece, e mai rinnegò. È normale (dunque norma condivisa) che la città di Roma tremi, e fatichi a seppellire chi disseminò morti ignorando ogni legge morale. Ma è norma anche dire a se stessi: «tra noi non così», la tomba gli spetta proprio perché lui la negò.
Colpisce il decreto severo del vicariato, che regge la Diocesi romana: nessun funerale in chiese o cimiteri; solo preghiere in casa del defunto. È previsto dal rito delle esequie, è nel diritto canonico, e gli italiani si sentono capiti. Ma non è scelta risolutiva, perché riguarda il funerale, non il seppellimento. I lefebvriani ne hanno profittato. Perché non è all’altezza – vertiginosa, labirintica – della domanda di Antigone: che si fa del corpo nemico? E cos’è questa cosa che non parla più e tuttavia dice: il corpo? È adeguato alla legge non scritta, non restituirlo alla terra? La casistica cattolica è conforme agli atti di Gesù?
Né possiamo sorvolare lo scabroso, nascosto nelle pieghe dei decreti vicariali: lo sconcertante diniego opposto a altre sepolture, su cui varrà la pena meditare. Nel 2006, la stessa diocesi negò i funerali a Welby, reo di eutanasia e suicidio. Fu sorda alla domanda della moglie, credente e praticante. Il rifiuto dei funerali di Priebke è forse difendibile, ma se non s’accompagna a un ravvedimento su Welby tutto si confonde e pericola. In qualche modo i due dinieghi producono un grumo atroce, accomunano. La Chiesa non potrà uscirne se non con una conversione, separando Welby da Priebke. Che si faccia ammenda e la sua morte sia dopo sette anni onorata. Che siano sconfessate le parole di Ruini, allora vicario di Roma: la Chiesa poteva concedere il rito religioso, purché si potesse dire che erano mancati nel ribelle «piena avvertenza e deliberato consenso». Lo ha rammentato Adriano Prosperi domenica su Repubblica: «Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina». Il vicariato apparve a tanti, cattolici e non, «gelidamente crudele». Tanto più la scelta oggi, mischiata com’è col caso Welby.
C’è chi ha chiesto, per non sperdere il dolore inflitto da Priebke, che il corpo venisse cremato d’imperio e le ceneri gettate non in una fossa, ma «in una fogna». Questo è prendere il colore dei morti, mimetizzarsi col male. Questo è dare tutto il potere alle Erinni, che lavano il sangue col sangue: solo di giusta vendetta
e cruenza è fatto il loro mondo. Perché ancora non regnano gli Dèi che prescrivono leggi più forti del diritto del sangue, e le Erinni ancora non sono tramutate. Son tramutate non allontanando il ricordo dell’ira, ma mettendole al centro della Città, nell’Areopago, a futura memoria, e chiamandole non più Vendicatrici ma Benevole, Eumenidi.
Per questo i vocabolari vanno usati con timore e pudore: tanto bollente è la traccia lasciata dalle Furie. Forse le parole più misurate sono state dette da chi ha proposto di seppellire Priebke fuori dalle mura di Roma. Oppure da quel veterano inglese, Harry Shindler: che «il boia Priebke venga seppellito nel cimitero tedesco di Pomezia. Sarà in compagnia dei suoi pari, visto che in quel cimitero ci sono soldati tedeschi che presero parte a parecchie stragi in Italia, come quella di Marzabotto. Sarà in buona compagnia».
Ricordo personalmente quel cimitero. Nei primi ‘60, gli allievi della scuola tedesca a Roma erano condotti regolarmente alla necropoli. Ancora non era cominciata la
politica della memoriatedesca.
Ne ho ricordo perché frequentavo quella scuola. In due, ci rifiutavamo di andare e s’accendevano discussioni. Non mi offendeva che i compagni ci andassero, ma
comeci andavano: senza pensarci, dato che «era nel programma». Penso che lì il corpo di Priebke avrebbe il suo posto. Avrebbe il suo posto anche in Germania, forse: nella città natale di Henningsdorf. Su Wikipedia, Priebke è annoverato tra «i figli e le figlie della città». Sarebbe appropriato e decente che Henningsdorf si dicesse pronta a accogliere la salma, prima o poi. Senza attendere che l’Italia lo chieda. Quale che sia la soluzione, una cosa pare chiara: la crudeltà con cui Priebke infierì non giustifica che noi s’infierisca sulle sue spoglie. Non è nemmeno la legge del taglione, perché occhio per occhio ha un significato preciso e non c’è modo di pareggiare i suoi misfatti. Né è questione di perdonare. Solo gli uccisi potrebbero.
Al tempo stesso non possiamo dimenticare chi siamo, oggi. La nostra storia recente non edifica. Il corpo di Saddam Hussein mostrato in TV quando fu estratto dal buco dov’era nascosto fu un abominio. Così quello di Bin Laden gettato in mare e rimosso. E Gheddafi linciato sotto gli occhi plaudenti dell’occidente. Fermiamoci un momento, prima di esibire certezze morali. Restare umani non è cosa facile. Perché nell’umano abita con tutta naturalezza il disumano delle Erinni, e perché Priebke, come nel racconto di Borges, è «simbolo di una detestata zona» della nostra anima.

Da La Repubblica del 16/10/2013.




riflessioni a margine del funerale di Priebke: cos’è più grave?

funerali

meravigliose parole, secche e giustamente indignate, di M. Serra nella ‘amaca’ odierna a margine della morte e del funerale di Priebke:

Bisogna essere grati alla piccola comunità lefebrvriana per il suo farsi carico (anche prima del caso Priebke) di un incommensurabile scandalo, così bene esposto dal loro portavoce: è più grave – dice – avere dato la comunione a Luxuria che celebrare i funerali di Priebke. E dunque un transessuale è più colpevole di un assassino; trasgredire la morale tradizionale è più grave che ordinare un eccidio di innocenti; fornicare è più grave che uccidere; accettare la libertà sessuale è più destabilizzante che accettare il genocidio, e dunque sul secondo si può anche chiudere un occhio, sulla prima bisogna essere inflessibili. Rovesciando il vecchio slogan: “Fate le guerra, non l’amore”. Su questo – ripeto – incommensurabile scandalo si regge, se non tutto, buona parte del dolore, del sangue e dell’odio che affliggono l’umanità. Il terrore del sesso è il motore primo di questa visione della vita, e della società, totalmente paranoica, e ancora bene attiva sebbene parecchio incrinata, negli ultimi due secoli, dalla potenza della libertà. Sono sicuro che non solamente il manipolo di catto-fascisti lefebrvriani (tal quali i talebani) ma anche molti insospettabili benpensanti provano più disagio di fronte a un “frocio” che di fronte a un nazista