il commento al vangelo della domenica

LA SCUOLA VERDE
il commento di E. Ronchi al vangelo della XXXIII domenica del tempo ordinario
Marco 13,24-32
Scene apocalittiche, nel vangelo come nella storia nostra.
In quei giorni il sole si oscurerà, la luna si spegnerà, le stelle cadranno dal cielo.
Un mondo che va alla deriva? Guarda più a fondo, con occhi di profeta: in realtà è un mondo che rinasce.
Dalla pianta di fico imparate: quando il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Gesù ci porta alla scuola delle piante, perché le leggi dello spirito e le leggi della realtà, in fondo, coincidono.
Il fico è la pianta più citata nelle scritture. Più del grano, più della vite. Era l’albero piantato davanti casa, la cui ombra e i cui frutti rimandavano alla serenità del vivere, alla dolcezza della Parola, alla presenza di qualcuno che, dentro casa, manda avanti e cura la vita.
Imparate dalla sapienza degli alberi: l’intenerirsi del ramo, la linfa che riprende a gonfiare i suoi piccoli canali, è una sorpresa che non dipende da te. Uno stupore ogni volta nuovo.
Così anche voi sappiate che egli è vicino, è alle porte. Dio è qui; e dice vita, dice primavera.
Da una gemma di fico, piccola realtà incamminata verso la sua pienezza, imparate il futuro del mondo: il mondo non è finito, concluso così com’è; il creato è una realtà germinante.
Da una gemma imparate Dio: tra i suoi cento nomi c’è anche ‘germoglio’ (inôn, sl 72,17): “il suo nome è perennità, in faccia al sole. Inôn è il suo nome”. Non la perennità fissa della pietra, bensì quella dell’alba, del rinascere. Una perennità di germogli.
Mi mette pace, allegria, speranza, buon umore, immaginare e pensare Dio come germinazione a primavera; non un ramo secco, un legnetto da ardere nel fuoco, ma un tralcio verde.
E sopra si aprono gemme come occhi, come stelle verdi.
Passeranno i cieli e la terra ma le mie parole non passeranno. Passano il sole e la luna, si sbriciola la terra, ma le mie parole sono un sole che non tramonta, perché scolpite nel cuore dell’uomo.
Gesù ci convoca tutti a dare fiducia al futuro, a credere che il cammino della storia è, nonostante tutte le smentite, un cammino di salvezza.
Il Vangelo parla di stelle che cadono, il Profeta Daniele parla di stelle che salgono a ripopolare il cielo: “Uomini giusti e donne sante salgono nella casa delle luci, dove risplenderanno come stelle”.
Cercali, guardali, ringraziali i giusti e i limpidi che vivono attorno a te, i profeti di oggi, che si sono impregnati di luce, per te.
Germogli benedetti, imbevuti di cielo, intrisi di Dio, oasi di speranza. Sono tanti, e “ognuno è un proprio momento di Dio” (Turoldo), ognuno sillaba del Verbo, ognuno consonante di quella “speranza che è il presente del nostro futuro” (Tommaso d’Aquino).
Il mondo non finirà nel fuoco, ma nella suprema bellezza.

un invito alla riflessione al popolo ebraico della diaspora

LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA DIASPORA

Redazione Missione Oggi

Roma, 23 ottobre 2024

Carissimi Ebrei della Diaspora,

vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.

Insieme al dolore per le vittime e all’esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quell’azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sull’intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.

L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.

A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.

Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.

Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere, ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.

Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale di Israele.

Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.

Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.

Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”. Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’Onu, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie, i moniti e le accuse, dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.

Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, un’interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.

La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.

Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento Nostra aetate del Concilio Vaticano II, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la Fratres omnes di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e dell’ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in Oceania e altrove.

Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.

Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dall’inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la soluzione a due Stati, anche ove mai fosse stata possibile e auspicabile in passato, e la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.

Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.

Primi firmatari: Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione; Domenico Gallo, giurista; Elena De Monticelli, filosofa; Raffaele Nogaro, vescovo cattolico; Claudio Grassi, legislatore; Felice Scalia, gesuita; Luigi Ferrajoli, giurista; Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia; Stefania Tuzi, storica dell’architettura; Francesco Di Matteo, avvocato; Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista; Massimo Zucconi, architetto; Fulvio De Giorgi, ordinario di filosofia; Agata Cancelliere, insegnante; Giorgio Rivolta, docente di pedagogia; Santino Di Dio, impiegato; Raffaele Luise, giornalista; Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo; Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace; Nicola Colaianni, già magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari; Antonio Malorni, biochimico; Paolo Cento, legislatore; Mario Menin, direttore di Missione Oggi; ecc.

il commento al vangelo della domenica

si può dare di più
il commento di Giovanni Berti al vangelo della  XXXII domenica del tempo ordinario, anno B
Marco 12,38-44
In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere»
Quando si prepara la celebrazione della Messa, una delle cose importanti è la scelta dei canti dell’assemblea. Questi non sono un riempitivo e basta, ma parte integrante della preghiera e si devono scegliere in base al Vangelo, in base al momento della messa e anche in base ad una eventuale festa o ricorrenza del giorno. Per il momento dell’offertorio di questa domenica, dopo aver letto il racconto della vedova che getta nel tesoro due spiccioli, e che per Gesù è un esempio, mi verrebbe da suggerire la canzone di Tozzi, Ruggeri e Morandi che ha vinto Sanremo nel 1987: “Si può dare di più, perché è dentro di noi. Si può dare di più senza essere eroi. Come fare non so, non lo sai neanche tu. Ma di certo si può dare di più…”.
Si può dare di più… e non mi riferisco alla quantità del denaro da gettare nel cestino che gira tra i banchi, ma alla propria vita.
Gesù è dentro il Tempio di Gerusalemme, la massima espressione fisica della tradizione religiosa di Israele. Il Tempio conteneva l’arca dell’Alleanza con le Tavole della Legge, cioè il segno del dono che Dio aveva dato al popolo. Nel Tempio si raccoglievano anche il denaro e i beni che dovevano poi essere distribuiti ai poveri, perché Dio liberatore e misericordioso, invitava il popolo a fare la stessa cosa con i poveri.
Ma purtroppo non era più così, e Gesù denuncia questo storpiamento della religione. I capi religiosi e coloro che dovevano essere di esempio invece di preoccuparsi di donare, prendevano e pretendevano. Erano preoccupati di apparire buoni, generosi e religiosi, ma non si preoccupavano di esserlo per davvero. Gesù denuncia uno stile di vita dove “si può prendere di più”, dove appare come un vero eroe da imitare chi è capace di accumulare beni e potere.
Ma lo sguardo attento di Gesù si posa su una figura “invisibile”, solo a chi guarda con superficialità. Gesù mette in luce un gesto piccolo ma carico di Dio, e nel quale Gesù stesso riconosce tutta la sua vita. Gesù vede questa povera vedova, anche se già essere “vedova” a quel tempo significava dire “povertà”, dato che era una donna senza protezione e in balia di chi la poteva sfruttare rimanendo impunito.
Quella vedova compie un gesto razionalmente assurdo, ma evangelicamente perfetto: dona due spiccioli che corrispondono a tutto quello che ha per vivere. Questa donna dona per i poveri tutta sé stessa. È un povero che salva il povero, è una persona povera di mezzi ma ricca di umanità, e che vede nel donare la vera libertà e la strada della ricchezza umana. Per Gesù questa donna, di cui non sappiamo il nome, è l’immagine perfetta della sua missione: da Dio si è fatto essere umano per donare tutto sé stesso per amore.
Questo sguardo di Gesù, capace di vedere un piccolo gesto di amore in mezzo a tanto egoismo e apparenza, mi ispira e mi invita a raffinare il mio sguardo e la mia capacità di vedere il bene.
Lo sguardo attento di Gesù, che da un lato denuncia e dall’altro indica una strada di vera umanità, è lo stesso che sono chiamato ad avere anch’io, verso me stesso, verso la comunità cristiana e il mondo.
Cosa in me è solo apparenza, ricerca di consenso e finta bontà? Cosa invece sono capace di fare per gli altri, quali piccoli gesti di generosità riconosco in me e che mi cambiano la vita, mi rendono più ricco in umanità e mi fanno sembrare davvero più simile a Gesù? Concretamente oggi, in questo momento, in questa mia situazione di vita, quali sono i due spiccioli di generosità che posso subito dare?
Anche come Chiesa siamo chiamati a dare, anche se diventiamo più poveri di numero, di consenso e di beni. Anche se tante chiese, conventi, oratori, strutture ecclesiali chiudono, non possiamo mai diventare così poveri da non poter donare e fare gesti rivoluzionari come quello della povera vedova.
Forse la canzone di Sanremo “Si può dare di più” non la possiamo cantare a Messa, anche perché sono tanti altri i canti belli e adatti, ma potrebbe davvero diventare il motivetto interiore che ci diciamo personalmente e come comunità di fronte alle povertà di tanti fratelli e sorelle, difronte alle povertà del mondo e contro egoismi e guerre: “si può dare di più… perché è dentro di noi…”
Possiamo dare di più perché ce lo abbiamo scritto dentro con il Battesimo!

il commento al vangelo della domenica

I DUE CUORI

 il commento di E. Ronchi al Vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario

Qual è, fra tutti, il più grande comandamento?

Aiutaci a ritornare al semplice, al principio di tutto… Gesù lo fa, uscendo dagli schemi con una risposta che tra i comandamenti non c’è. Che bella la libertà, l’intelligenza anti conformista di Gesù, icona limpidissima della libertà e dell’immaginazione.

La risposta comincia con un verbo: tu amerai, al futuro, a indicare una storia in-finita, perché l’amore è il futuro del mondo, perché senza amore non c’è futuro per l’umanità. 

Amerai con tutto il cuore; non da sottomesso, ma da innamorato.

Qualcuno ha proposto un’altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e con il cuore d’ombra, amalo con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; come puoi, come riesci, magari col fiatone, quando splende il sole e quando si fa buio, e a occhi chiusi quando hai un po’ paura, anche con le lacrime. Santa Teresa d’Avila in una visione riceve questa confidenza dal Signore: “Per un tuo ‘ti amo’ rifarei da capo l’universo”. 

In fondo, nulla di nuovo. Le stesse parole le ripetono i mistici di tutte le religioni, i cercatori di Dio di tutte le fedi, da millenni.

La novità evangelica è nell’aggiunta inattesa di un secondo comandamento, che è simile al primo… Il genio del cristianesimo dice: amerai l’uomo è simile all’amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio. Il prossimo ha volto e voce, fame d’amore e bellezza, simili a Dio.

Cielo e terra non si oppongono, si abbracciano. Vangelo strabico, verrebbe da dire: un occhio in alto, uno in basso, occhi nel cielo e piedi per terra.

Ma chi è il mio prossimo? Gli domanderà un altro dottore. Ho trovato una risposta che mi ha allargato il cuore, quella di Gandhi, un non cristiano: “il mio prossimo è tutto ciò che vive con me, su questa terra”, le persone, ma anche l’acqua, il sole, il fuoco, le nuvole, le piante, gli animali.

Sorella madre terra e tutte le sue creature.

Il comandamento diventa: Ama la terra come ami te stesso, amala come l’ama Dio. Vivere è convivere, esistere è coesistere. Non già obbedire a comandamenti o celebrare liturgie, ma semplicemente, meravigliosamente, felicemente: amare.

«Dio non fa altro che questo, tutto il giorno: sta sul lettuccio della partoriente e genera» (M. Eckhart).

Che cosa genera? Amore, che è vita.

il commento al vangelo della domenica

«sedeva lungo la strada a mendicare»

il commento di Ester Abbattista al vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario

L’episodio evangelico di questa domenica si colloca a Gerico, dove probabilmente Gesù si trova di passaggio in quella che sarà la sua salita verso Gerusalemme

 Mc 10,46-52

L’episodio evangelico di questa domenica si colloca a Gerico, dove probabilmente Gesù si trova di passaggio in quella che sarà la sua salita verso Gerusalemme. E di salita propriamente si tratta, dato che Gerico si trova a circa 200 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme è a circa 800 metri sopra tale livello.

Inoltre la Gerico di Gesù è quella del tempo erodiano, contrassegnata dalla residenza estiva di Erode e da altri palazzi e ben distante dall’antica Gerico del tempo dei Giudici. I resti di tale cittadina si possono vedere ancora oggi proprio all’uscita del waddi Kelt, il letto del torrente per la maggior parte dell’anno secco, che segna il percorso che nel deserto di Giuda collegava la città a Gerusalemme. Un percorso, quindi, in pendenza (quasi mille metri di dislivello) e tortuoso, spesso e volentieri luogo privilegiato dai briganti per imboscate e rapine.

Il testo di Marco ci dice che Gesù era in partenza da Gerico, quindi sulla via principale, «insieme ai suoi discepoli e a molta folla». Probabilmente incuriosito dal calpestio di tante persone un cieco di nome Bartimeo, che letteralmente potremmo tradurre con «figlio di Timeo» o, secondo l’ipotesi di alcuni, ancora più letteralmente con «figlio di una persona onorata», chiede che cosa sta avvenendo.

Il primo dettaglio significativo è proprio il contrasto tra il suo nome e la sua condizione, dato che l’essere cieco lo ha reso un mendicante, qualcuno che è posto ai margini della società e che ha bisogno dell’aiuto e della carità degli altri per sopravvivere. Il suo posto è sedere sul ciglio della strada e mendicare. Quando, però, gli viene detto che il trambusto che sente è dovuto al fatto che sta passando di lì «Gesù Nazareno», immediatamente incomincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».

Bargil Pixner, archeologo e biblista benedettino che ha vissuto tantissimi anni sia a Gerusalemme che in Galilea, in uno dei suoi testi, Con Gesù attraverso la Galilea: secondo il quinto Vangelo (1992), fa notare come la correlazione tra «Gesù Nazareno» e «Figlio di Davide» non sia affatto scontata. In altre parole, come mai Bartimeo chiama Gesù Nazareno «figlio di Davide»? Secondo Pixner si ha qui un indizio di una possibile correlazione tra l’essere di Nazaret e l’appartenere alla discendenza davidica, dato che, secondo il benedettino, era molto probabile che il villaggio di Nazaret fosse abitato da un clan davidico soprannominato «nezer» (germoglio), termine che compare in Is 11,1 per indicare la discendenza di Iesse, padre di Davide.

Tale particolare non solo può risultare interessante dal punto storico-geografico, ma apre a un’ulteriore comprensione del racconto marciano. Chiamandolo «figlio di Davide» e chiedendogli salvezza, Bartimeo riconosce in Gesù il messia davidico atteso. Non solo: nella sua cecità egli è capace di vedere oltre, di vedere ciò che gli altri – che continuano a zittirlo e rimproverarlo – non vedono, dato che nella risposta che gli era stata data il personaggio di passaggio era semplicemente «Gesù Nazareno», mentre per lui quel nome è la «visione» di qualcosa che va ben oltre.

Il grido e la richiesta di salvezza vengono uditi da Gesù che, fermatosi e fattolo chiamare a sé, gli chiede che cosa vuole che egli faccia. La risposta del cieco è: «Rabbunì, che io veda di nuovo!».

Di fronte a questa richiesta si può notare anche un altro particolare: l’ultima volta che Gesù si è imbattuto in un cieco, nel Vangelo di Marco (Mc 8,22-26), sulla riva del lago di Galilea a Betsaida, la guarigione operata è stata – passatemi il termine – «faticosa»: per due volte ha dovuto porre le mani sugli occhi di quel non vedente per ottenere il risultato desiderato. Qui, invece, non solo non compie alcun gesto, ma semplicemente constata che Bartimeo può tornare a vederci di nuovo, grazie alla sua fede: «Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada».

Come abbiamo visto, la capacità di vedere di Bartimeo era al di là di quella degli altri «vedenti», era una visione dal di dentro e, allo stesso tempo, dal «basso». Forse è proprio la sua condizione di emarginato, seduto sul ciglio della strada, che gli ha permesso di «vedere» quanto stava accadendo in un’altra prospettiva, una prospettiva capace di riconoscere la «salvezza».

E ora, riacquistata la vista anche «esteriore», non può che fare l’unica cosa che desidera davvero: seguire colui che salva, Gesù Nazareno, figlio di Davide.

Forse per capire davvero cosa sia importante fare, quale sia davvero la strada da percorrere per essere fedeli alla sequela del Signore, bisognerebbe cambiare prospettiva e guardare la realtà e i problemi che ci stanno davanti «dal ciglio della strada», seduti per terra come dei mendicanti. Lo sguardo «degli esclusi e delle escluse», a volte, è più penetrante e illuminante di coloro che sono principalmente (o forse unicamente) occupati e preoccupati a mantenere e/o salvaguardare solo la propria «inclusione».

è morto il fondatore della ‘teologia della liberazione’, Gustavo Gutierrez

in morte di Gustavo Gutierrez
di Tonio Dell’Olio

in “www.mosaicodipace.it” del 24 ottobre 2024

Non so dire se la vita di Gustavo Gutierrez sia stato un canto ma sicuramente è grido. In nome degli
impoveriti/empobrecidos e degli esclusi. È stata rivoluzione. Perché non può essere eresia la vita di
chi è schiacciato dall’ingiustizia. La teologia della liberazione, che lo celebra come padre, ha detto
semplicemente che il sogno di Dio rivelatosi in Gesù di Nazareth è di riconoscere la dignità di
ciascuno dei suoi figli che si riscoprono fratelli. Le parole “rassegnazione”, “sottomissione”,
“schiavitù” e “oppressione” non hanno condominio nel Vangelo di Cristo e la povertà è una parola
nobile da sposare mentre la miseria è una maledizione che non ammette giustificazioni. “Il grido del
mio popolo è giunto fino alle mie orecchie” dice Dio. Per questo la teologia della liberazione non è
un altro genitivo del pensiero su/di Dio ma piuttosto il tentativo di dare parola al sogno stesso di
Dio, al suo amore per tutte le creature. Se una teologia non è della liberazione che teologia è? Per la
prima volta i poveri si sono seduti in cattedra a spiegare la Bibbia. Senza parole se non quelle della
vita e dell’esodo. Questo è stato il parto di Gustavo Gutierrez che ha tracciato una strada che ora non
si ferma più perché scorre per mille rivoli con nomi e contesti diversi ma sempre come grido, canto
e cammino di liberazione.

la ‘teologia della liberazione’ perde anche il suo fondatore

in morte di Gustavo Gutierrez

di Stefano Biancu

Gustavo Gutiérrez

 

In morte di Gustavo Gutierrez

Nel giorno in cui mi raggiunge la notizia della sua morte, desidero ricordare Gustavo Gutierrez con devozione e affetto.

Ho avuto con lui tre lunghe conversazioni, durate ciascuna molte ore, nel 2015, in occasione di un mio soggiorno di sei mesi negli USA, presso la Notre Dame University dove Gustavo era professore.

Di quelle lunghe conversazioni conservo un ricordo bellissimo e vivo. Percepivo di trovarmi di fronte a un vero credente, a un uomo profondo, ironico (che mi parlava del senso dell’umorismo come di un luogo teologico). Un uomo generoso, che mi aveva dedicato intere ore, mentre i suoi colleghi concedevano abitualmente appuntamenti di non più di 8 minuti. Un uomo libero, senza rancore, nonostante avesse potuto diventare professore soltanto all’età di 75 anni, al termine di un processo canonico nei suoi confronti durato vent’anni e conclusi – come amava raccontare – con un « lei è cattolico».

Durante quegli incontri sentivo di trovarmi davanti a un uomo vero: non un personaggio, come talvolta accade quando si ha a che fare col clero e con gli accademici. Gustavo Gutierrez era stato studente di medicina, poi prete, assistente per decenni degli studenti e dei laureati cattolici del suo Paese, per poi farsi domenicano per devozione verso i suoi maestri di teologia, e in particolare Chenu. Era un uomo che aveva vissuto e questo lo si percepiva chiaramente.

Vorrei in questa occasione richiamare soltanto alcuni punti della teologia della liberazione, a partire dal libro Teología de la liberacíon (1971), di cui egli stesso mi ha voluto regalare una copia, e dalla prefazione all’edizione del 1988 del libro, dal titolo “Mirar lejos” (guardare lontano).
Teologia della liberazione è originariamente il titolo di una conferenza tenuta da Gutierrez a un incontro nazionale di laici, religiosi e preti nel ’68 a Lima e pubblicata nel 1969 a Montevideo, per iniziativa di Pax Romana.
La teologia della liberazione prende le mosse da un “hecho mayor”: l’irruzione dei poveri nella chiesa latinoamericana. Per la prima volta entravano sulla scena della storia coloro che ne erano da sempre stati assenti, iniziando così ad essere agenti del loro destino. Di qui la miopia di coloro che hanno interpretato la teologia della liberazione come una corrente teologica puramente intellettuale e non come un cammino di popolo. Fondamentali per lo sviluppo di questo cammino sarebbero state le conferenze dell’episcopato latinoamericano di Medellin (1968) e Puebla (1978), precedute da quella di Rio de Janeiro (1955) e a cui sarebbero seguite quelle di Santo Domingo (1992), Aparecida (2007).
L’opzione preferenziale per i poveri, centrale per la teologia della liberazione, è un principio dell’evangelizzazione stabilito a Puebla, laddove il termine « opzione » indica impegno e decisione e ha le sue origini in Giovanni XXIII, e in particolare nel RADIOMESSAGGIO A UN MESE DAL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II (11 settembre 1962): « In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri.»
Si tratta non di un ideale sociale, ma dell’opzione per il Dio del Regno che Gesù ci ha annunciato. Scriveva Gutierrez: « El motivo último del compromiso con los pobres y oprimidos no está en el análisis social que empleamos, en nuestra compasión humana o en la experiencia directa que podamos tener de la pobreza. Todas ellas son razones válidas que juegan sin duda un papel importante en nuestro compromiso, pero, en tanto que cristiano, éste se basa fundamentalmente en el Dios de nuestra fe. Es una opción teocéntrica y profética que hunde sus raíces en la gratuidad del amor de Dios, y es exigida por ella ».
Tra i frutti della teologia della liberazione Gutierrez annoverava il martirio di Oscar Romero: un martirio, mi ripeteva, che ha cambiato per sempre la teologia stessa del martirio. Non si è infatti semplicemente trattato di un martirio per la fede, ma per la carità e la giustizia.
Ci si sbaglierebbe tuttavia se si ritenesse il discorso della teologia della liberazione come un discorso da anime belle. Scriveva Gutierrez: « No se trata de de idealizar la pobreza sino, por el contrario, de asumirla como lo que es: como un mal; para protestar contra ella y esforzarse por abolirla”. “La pobreza cristiana, expresión de amor, es solidaria con los pobres y es protesta contra la pobreza ».
La natura della teologia della liberazione, amava ripetere Gutierrez, è di essere una lettera d’amore a Dio, alla chiesa e al popolo: « una carta de amor a Dios, a la Iglesia y al pueblo a los que pertenezco ».
Il messaggio profetico della teologia della liberazione è così il messaggio stesso del Vangelo: la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo. Della diffusione di questo messaggio, da oggi siamo tutti un po’ più responsabili.

Stefano Biancu

il commento al vangelo della domenica

ANCHE NEL POCO, ANCHE IMPERFETTO
Mc 10,35-45
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario
Ma chi sono questi uomini che si sono alzati e si sono messi in cammino dietro a Gesù? Non sono eroi, sono uomini complicati, alcuni perfino imbarazzanti, proprio come me.
Due di loro sono così irruenti e rumorosi che Gesù ha confezionato per loro un soprannome forte e bello: “figli del tuono”. Un complimento. Gesù era grande nel lodare!
I due fratelli si avvicinano: Cosa volete che io faccia per voi? Lo chiederà anche al cieco di Gerico, lui non cerca potere, vuole la luce: che io veda! Siamo tutti un po’ come Bartimeo, mendicanti di luce appesi a qualcuno che ci guardi e ci paghi una piccola moneta.
I due fratelli invece non chiedono luce, ma potere: facci sedere una a destra e uno a sinistra del tuo trono.
In questa richiesta riconosco la più diffusa di tutte le nostre umane preghiere, quando invochiamo di essere esauditi in ciò che paure, fragilità o passioni generano nell’intimo: volontà di prendere, salire, comandare. Tre verbi che fanno male. Perciò tre verbi maledetti.
Ci sono anche domande benedette, che nascono da fame di luce e di gioia, da amore che manca come il pane, da verbi benedetti, come dare, scendere, servire.
Ma neppure questo basta, perché non si prega per ottenere, ma per essere trasformati. Come suggerisce David Maria Turoldo: Io non sono ancora e mai il Cristo, ma sono questa infinita possibilità.
Non si prega per aggrapparci, ma per stupirci.
Dopo tre anni di strade, di malati guariti, di pane che traboccava dalle mani e dalle ceste, dopo tre annunci di morte in croce, è come se i discepoli non avessero ancora capito niente.
E Gesù, l’incredibile Gesù, invece di scoraggiarsi, riprende a spiegare ancora una volta il suo sogno di cieli nuovi e terra nuova.
Va bene, a patto che sappiate fare quello che io farò:
– potete bere il mio stesso calice?
– Come no, certo che possiamo!
E infatti, sotto la croce non c’era né l’uno né l’altro dei due fratelli.
E Gesù li chiama a sé di nuovo, consegna loro la chiave di volta del mondo in pace, in una espressione bellissima, ribadita con forza per tre volte: tra voi non sia così. Non così tra voi!
Nel mondo vincono i più forti, i più furbi, i più ricchi; tra voi non è così;
nel mondo hanno ragione i potenti, gli intelligenti, i più numerosi, tra voi non è così. Voi siete nel mondo ma non del mondo, non omologatevi al pensiero dominante.
“I grandi del mondo si costruiscono imperi con il dominio e la forza. Non così in Dio”. Lui non ha troni, si cinge un asciugamano, s’inginocchia davanti a ciascuno, il suo impero è quel poco di spazio che basta a lavare i tuoi piedi.
Da lì, dal basso cerca gli occhi d’ogni figlio, cerca le mie ferite per fasciarle con bende di luce.
Essere sopra l’altro è la massima distanza possibile dall’altro.
Dio invece si pone alla massima vicinanza: ai tuoi piedi.

il commento al vangelo della domenica

uguale a fiorire

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventottesima domenica del tempo ordinario

Mc 10, 17-30

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. (…)

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato.

Il vangelo si apre con una corsa verso Gesù: un tale gli corse incontro. Come chi ha fretta, chi è in ritardo e ha fame. E non sa che sta per affrontare un grande rischio: interroga Gesù per sapere la verità su se stesso, e non sarà capace di sopportarla.

Grande rischio, ma anche grande fortuna, se qualcuno scoperchia il pozzo della nostra vita e ci mostra chi siamo davvero.

Maestro buono, è vita o no, la mia? Domanda grandiosa. Tutta la bibbia ruota attorno a questo: sapere cosa è vita e cosa no.

È un appassionato, questo giovane, è uno convinto, ci crede. E incanta Gesù, quando risponde: ‘tutto questo che dici l’ho sempre osservato. Ma non mi ha riempito la vita’. Vive quella beatitudine che conosciamo tutti, dolce e amara, ma generativa: “Beati gli insoddisfatti, gli inquieti, perché diventeranno cercatori di tesori”.

Ora il giovane fa un’esperienza da brivido, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro: Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. Per Gesù guardare e amare sono la stessa cosa. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso subisce l’incantamento del Signore, non resiste a quegli occhi.

Invece la conclusione del racconto va nella direzione che non ti aspetti: “Una cosa ti manca, va’, vendi, dona ai poveri…”

Come i veri maestri Gesù risponde alzando l’asticella, creando visioni nuove, donando ali perché quel ragazzo possa volare più alto e più lontano. Vuoi vivere davvero? Sappi che la tua vita non è garantita dal tuo patrimonio economico, ma dal tuo patrimonio relazionale.

E poi vieni con me: mettiamo in tavola la vita. E lo facciamo per amore dei poveri, non della povertà. L’ideale del maestro di Nazaret non è un pauperismo che basta a se stesso, ma riempire di volti e di nomi il cuore di ognuno. Prima le persone, dopo le cose.

Nel vangelo offre due sole regole circa i beni materiali, semplicissime e rivoluzionarie. Primo, non accumulare. Secondo, quello che hai è per condividere. Quanto basta a capovolgere la direzione della vita.

Le bilance della felicità pesano sui loro piatti la valuta più pregiata dell’esistenza: dare e ricevere segni d’amore.

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Infatti il vangelo continua: Pietro allora prese a dirgli: Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio?

Avrai in cambio cento volte tanto, avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato. Il vangelo non è rinuncia, se non della zavorra che impedisce il volo, la bella notizia è una addizione di vita.

Chi prova a farlo, solo per frammenti certo, può dire:

“con gli occhi nel sole/

a ogni alba io so/

che rinunciare per te/

è uguale a fiorire” (M. Marcolini).

il commento al vangelo della domenica

“in principio non era così”

 

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario

Mc 10,2-16

In quel tempo, alcuni farisei domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; (…) Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».(…) Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo. Allora uno più uno uguale a uno.

Alcuni farisei vanno da Gesù per metterlo alla prova. Quello che gli chiedono è risaputo: “E’ lecito a un marito ripudiare la moglie?”. Chiaro che sì, la tradizione, avallata dalla Parola di Dio, lo permetteva.

Gesù prende subito le distanze e dice: “cosa vi ha ordinato Mosè?” Da buon ebreo, avrebbe invece dovuto dire “che cosa ci ha comandato Mosè?”.

‘Mosè ha permesso l’atto di ripudio’. Ebbene, Gesù prende le distanze anche da Mosè e sottolinea: “per la durezza del vostro cuore egli scrisse questa norma.

Afferma così qualcosa di enorme: La legge che noi diciamo di Dio non sempre riflette la sua volontà. E per questo non ha valore assoluto. Gesù non si ferma a redigere altre norme, non gli interessa regolamentare la vita, ma rinnovarla; custodire il fuoco, non venerare la cenere.

Come bambini che non comprendono, ci prende per mano e ci accompagna nei territori di Dio e del suo sogno iniziale: all’inizio Dio li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e i due diventeranno una carne sola.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Allora uno più uno uguale a uno.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome biblico del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo.

Allora il problema non è ripudio o non ripudio, separarsi o meno, ma è alla radice: si tratta della manutenzione, tenace, del sogno, perché l’amore è fragile e affamato di cure.

Se non ti impegni a fondo per le tue relazioni, se non dai loro tempo, se non le custodisci con fedeltà, con timore e tremore, le hai già ripudiate nel tuo cuore.

‘Portavano dei bambini a Gesù perché li toccasse. Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò’. L’indignazione è un sentimento proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria; è la reazione di Gesù per la profanazione del tempio (Gv 2,14).

Qui reagisce allo stesso modo, perché i bambini sono cosa sacra: a chi è come loro appartiene il regno di Dio.

Chi è come loro? I bambini non sono più buoni degli adulti, ma sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, sanno giocare tutto il giorno come i delfini, incuriositi da ciò che porterà loro, facili al sorriso e all’abbraccio. Il bambino fino ai 12 anni non ha obblighi verso la Legge, è ai margini, non ha riti da osservare, e Gesù lo addita a modello! Prima la persona e poi la legge!

Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino che si rialza da terra.

Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla non contaminato ancora.

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