campi di concentramento in Albania

il lupo è arrivato – e  noi che facciamo?

di Marco Ronconi
in “Jesus” del dicembre 2024

 

«Il problema dei campi di concentramento in Albania non è che sono uno spreco di denaro, ma che sono campi di concentramento»

È vero che a forza di gridare «al lupo, al lupo», alla fine ci si stanca e si finisce per abbassare la guardia. Temo tuttavia che oramai sia inutile, perché il lupo è arrivato. L’ho pensato assistendo a un battito al bar sulla vicenda dei migranti fatti «ospitare» dall’Italia in strutture appositamente costruite in Albania. Entrambi gli interlocutori erano contrari, ma la motivazione su cui si sono più soffermati è stata lo spreco di soldi pubblici che, alla fine, per migliorare la sicurezza della nostra nazione ossia per imprigionare un migliaio di persone in attesa di giudizio – quindi di per sé innocenti fino a prova contraria – al di fuori dei confini (e quindi anche delle tutele giuridiche fondamentali), si spenderà oltre mezzo miliardo di euro in 5 anni.
Il primo ha fatto un paragone con la capienza di un carcere come Rebibbia, a Roma: con quella cifra forse si sarebbero potuti costruire altri istituti detentivi in grado di contenere un numero ben maggiore di persone. L’altro ha fatto un rapido conto del costo per ogni migrante detenuto chiedendosi cosa si sarebbe potuto produrre in alternativa, ma a quel punto avevo già finito di  ascoltare. Sia nel film La vita è bella di Benigni che nello spettacolo Ausmerzen di Marco  Paolini si racconta che al tempo del fascismo e del nazismo, per spiegare la matematica ai
bambini, si chiedeva loro di calcolare quante famiglie tedesche o italiane sarebbero state
aiutate se si fosse dirottato su di loro il denaro speso per curare gli etilisti o per occuparsi dei
malati di mente. Ricordo i brividi quando vidi quelle due scene e li ho riconosciuti identici
quando ho ascoltato poche settimane fa quella discussione.
I campi di concentramento, di lavoro e di sterminio non nacquero improvvisamente sotto i
governi nazifascisti. Furono preparati con pazienza, facendo fare all’opinione pubblica un
passo alla volta, iniettandogli dosi progressive di veleno. Quando alla fine apparvero, nessuno
più ne discuteva la legittimità, semmai il meccanismo di funzionamento. Per Adolf Eichman,
ancora decenni dopo la loro fine, la questione non era quanti vi morivano e le condizioni in cui vi erano costretti, ma l’uso più efficiente possibile delle risorse. Da più di dieci anni non solo tolleriamo, come Stato Italiano, ma addirittura sovvenzioniamo campi di tortura in Libia,
trafficanti di esseri umani mascherati da poliziotti in giro per il Mediterraneo, governi più o
meno autoritari che imprigionano e abusano di persone che vorrebbero fuggire da situazioni
altrettanto tremende. Lo facciamo tacidando la coscienza sotto una dose crescente di parole e
ragionamenti venefici. All’inizio queste pratiche erano incredibili e infatti per un certo tempo
le si è semplicemente negate, poi si è distrutta l’autorevolezza di chi ne denunciava l’esistenza,
ci si è inventato un sacco di nomi falsi per nascondere il male che si perpetrava (in Libia si
chiamano «Centri per l’accoglienza», ad esempio), ad esempio) e infine ci si è convinti della
loro ineluttabilità difendendola con una violenza senza pudore. Oggi si discute della loro
efficienza. Come però ha scritto Stefano Feltri riprendendo la portavoce di Sea Watch, Giorgia
Linardi: «Il problema dei campi di concentramento in Albania non è che sono uno spreco di
denaro, ma che sono campi di concentramento»