lo slogan blasfemo: “Dio, Patria, Famiglia”

Enzo Bianchi :

“Dio, patria e famiglia”

ecco perché quello slogan è una bestemmia

in  La Repubblica 

Siamo in un’ora in cui difetta il pensare, il riflettere, e anche il linguaggio ne risente. Non solo si impoverisce ma si fa rozzo, barbaro e ricorre agli slogan. D’altronde lo sappiamo tutti: quando manca il pensiero si alzano i toni e si fanno risuonare parole per provocare emozioni, e questo vale ovunque, fino ai comizi di piazza.

Essendo vecchio non dimentico le scritte sbiadite sui muri rimaste dall’epoca fascista: “Credere, Obbedire, Combattere!”, “Autorità, Ordine, Giustizia!”, “Dio, Patria, Famiglia!”.

Mi pare significativo che siano tornate a risuonare oggi: “Dio, Patria, Famiglia” è uno slogan che mi turba. Perché queste tre parole messe una dopo l’altra, fatte bandiera e labaro tra gente che si pensa forte, per me risuonano non solo come sinistre, ma come una bestemmia. Parole di un tempo e di una cultura che non vorrei vivere.

Come cristiano sono convinto che la parola “Dio” è un termine eminente ma insufficiente, dietro il quale si celano emozioni che sono proiezioni umane. La maggior parte delle immagini che ci forgiamo di Dio sono perverse. Come cristiano sono convinto che solo Gesù ha raccontato e mostrato chi è Dio.

Il Dio di Gesù non ama essere proclamato, né invocato contro qualcuno, ma ama che lo si pensi il “Dio con noi”. Non ha bisogno che lo difendiamo né che lo imponiamo nella società in cui viviamo. Gli si reca offesa se lo si strumentalizza come un elemento identitario, se lo si trascina nell’agone politico.

Quanto alla Patria, per fortuna la mia generazione non ha più servito l’ideologia nazionalista, un idolo in nome del quale, nelle guerre, si sacrificavano tante vite umane. Amiamo la nostra terra, ma anche quelle degli altri, convinti che “ogni terra per il cristiano è straniera e ogni terra straniera per il cristiano è patria”, come si legge in A Diogneto, il testo di un cristiano del II secolo, quando i cristiani potevano vivere come minoranze in dialogo e in pace nella marea pagana dell’impero romano. No, per noi oggi non è più bello morire per la patria.

Quanto alla “Famiglia”, quella che poteva essere invocata non esiste più, è andata in frantumi con il paternalismo, la sottomissione delle donne, l’impossibilità per i giovani di prendere la parola. Nasciamo in una famiglia e da essa siamo accolti, e questa è una grazia grande. Ma quando dobbiamo costruire una vita cerchiamo l’amore al di fuori della famiglia.

Significa che anche la famiglia è insufficiente: non dobbiamo farne un mito o un idolo. È necessario vigilare contro il familismo che forgia una ideologia non a servizio dell’amore umano, ma dei controllori dell’ordine morale.

Ci scandalizziamo se questi slogan sono gridati oggi in Russia dal potere religioso e da quello politico, ma poi permettiamo che siano proposte come programma nella nostra stanca e vecchia, ma sempre valida, democrazia. L’idolo è sempre un falso antropologico, fonte di alienazione. “Dio, Patria, Famiglia!”: tre parole che se gridate sono una bestemmia e dovrebbero rappresentare per tutti lo spettro di una prigione.

il Crocifisso e la maggior parte dell’umanità di oggi che vive crocifissa

i crocifissi di oggi e il Crocifisso di ieri

di Leonardo Boff

in “Confini” – http://confini.blog.rainews.it/ – del 12 aprile 2017

 

Oggi la maggior parte dell’umanità vive crocifissa dalla povertà, dalla fame, dalla scarsità d’acqua e dalla disoccupazione. Crocifissa è anche la natura lacerata dall’avidità industriale che si rifiuta di accettare limiti. Crocifissa è la Madre Terra, esausta fino al punto di perdere il suo equilibrio interiore, evidenziato dal riscaldamento globale. Uno sguardo religioso e cristiano vede Cristo stesso presente in tutti questi crocifissi. Per avere assunto pienamente la nostra realtà umana e cosmica, lui soffre con tutti i sofferenti.

La foresta abbattuta dalla motosega significa colpi sul suo corpo. Negli ecosistemi decimati e per l’acqua inquinata, lui continua a sanguinare. L’incarnazione del Figlio di Dio ha una misteriosa solidarietà di vita e di destino con tutto quello che lui ha assunto, con tutta la nostra umanità e tutto ciò che esso implica di ombre e di luci. Il Vangelo di Marco, narra con parole terribili la morte di Gesù. Abbandonato da tutti, in cima alla croce, si sente anche abbandonato dal Padre di misericordia e bontà. Gesù grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? E dando un forte grido, Gesù spirò” (Mc 15,34.37). Gesù non muore perché tutti moriamo. È stato assassinato nel modo più umiliante del tempo: inchiodato ad una croce. Sospeso tra cielo e terra, agonizzò per tre ore sulla croce. Il rifiuto umano può decretare la crocifissione di Gesù, ma non può definire il senso che lui ha dato alla crocifissione che gli fu imposta. Il Crocifisso ha definito il significato della sua crocifissione come solidarietà con tutti i crocifissi della storia che, come lui, erano e sono vittime di violenza, di relazioni sociali ingiuste, d’odio, d’umiliazione dei piccoli e di rifiuto della proposta di un Regno di giustizia, fratellanza, compassione e amore incondizionato. Nonostante il suo impegno solidale verso gli altri e il Padre, una terribile e ultima tentazione invade la sua mente. La grande lotta di Gesù, ora che sta per morire, è con il suo Padre. Il Padre di cui lui ha avuto esperienza con profonda intimità filiale, il Padre che lui aveva annunciato come misericordioso e pieno di bontà, Padre con tracce di madre amorevole, il Padre il cui regno ha proclamato e anticipato nelle sue prassi liberatorie, questo Padre ora sembra abbandonarlo. Gesù passa attraverso l’inferno dell’assenza di Dio. Verso le tre del pomeriggio, minuti prima della fine, Gesù gridò a grandi voce: “Eloì, Eloì, lamá sabacthani: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Gesù è sull’orlo della disperazione. Dal vuoto abissale del suo spirito, esplodono domande spaventose che modellano la tentazione più terribile subita dagli esseri umani e ormai da Gesù, la tentazione della disperazione. Si chiede: “Non era assurda la mia fedeltà? Senza senso la lotta sostenuta, per gli oppressi e per Dio? Non sono stati vani i rischi che ho corso, le persecuzioni che ho sopportato, il processo legale-religioso umiliante in cui sono stato sottoposto alla pena capitale: la crocifissione che sto soffrendo?” Gesù è nudo, indifeso, completamente vuoto davanti al Padre che è in silenzio e così rivela tutto il suo Mistero. Gesù non ha nessun altro a cui aggrapparsi. Per gli standard umani, ha fallito completamente. La stessa certezza interiore svanisce. Anche se il sole è tramontato al suo orizzonte, Gesù continua ad avere fiducia nel Padre. Così grida con voce potente. “Padre mio, Padre mio!” Al culmine della disperazione, Gesù si dona al Mistero veramente senza nome. Egli sarà l’unica speranza oltre qualsiasi speranza. Non ha più alcun sostegno in te
stesso, soltanto in Dio, che si nascondeva. La speranza assoluta di Gesù può essere compresa solo sul presupposto della sua disperazione. Dove è abbondata la disperazione, ha sovrabbondato la speranza. La grandezza di Gesù è quella di sopportare e superare questa tentazione scoraggiante. Questa tentazione lo porterà all’abbandono totale a Dio, una solidarietà senza restrizioni con i fratelli e le sorelle anch’essi disperati e crocifissi nel corso della storia, una spoliazione totale di se stesso, un dedicazione assoluta di se stesso in funzione degli altri. Solo allora la morte è morte e può anche essere completa: la rende perfetta a Dio e ai suoi figli e figlie che soffrono, ai suoi fratelli e sorelle più piccoli. Le ultime parole di Gesù indicano questa consegna, non dimessa e fatale, ma libera, “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). “Tutto è compiuto” (Gv 19,30). Il Venerdì Santo continua, ma non ha l’ultima parola. La risurrezione, come irruzione dell’essere nuovo è la grande risposta del Padre e la promessa per tutti noi.

(per gentile concessione dell’autore pubblichiamo questa meditazione pasquale del teologo brasiliano Leonardo Boff, traduzione di S. Toppi e M. Gavito: tratto da finesettimana.it)

grido contro l’indifferenza

preghiera al termine della mia giornata

sento l’inesorabile trascorrere del tempo
mi accorgo di un altro giorno passato
cerco le ragioni del mio esistere ….
trovo te, Signore della mia vita

ti conosco nel profondo del mio cuore
ti amo nella miseria del vivere quotidiano
ti incontro nell’amore dei fratelli
ti patisco nella sofferenza umana

Dio, che sei come Gesù di Nazareth mi ha mostrato e ‘praticato’
ti prego per i fratelli che affogano nel mare
ti prego per i fratelli che si fanno nelle strade
ti prego per i fratelli che sentono la fame

… e poi, ti prego per me Signore,
dammi la forza di provare, sempre, come te,
la commozione viscerale per la sofferenza
di questa umanità distrutta dalla mia e globalizzata indifferenza !

sul cristianesimo del futuro

Oltre le religioni, l'amore. Un libro di Adista e Gabrielli Editore sul cristianesimo del futuro

oltre le religioni, l’amore

un libro di Adista e Gabrielli Editore sul cristianesimo del futuro

 
da: Adista Notizie n° 17 del 07/05/2016
Nell’arco della storia, le religioni hanno fatto tutto e il contrario di tutto: hanno legittimato sistemi di dominio e suscitato movimenti di liberazione; hanno invocato il nome di Dio per benedire il capitale e incoraggiato la creazione di società anticapitaliste, hanno invitato ad amare il prossimo come se stessi e hanno, di fatto, contribuito ad opprimerlo, calpestarlo, umiliarlo, massacrarlo. Cosa c’è allora che non funziona nella nostra idea di Dio, nella nostra visione della religione? È da qui che si muove la ricerca teologica impegnata nella formulazione del cosiddetto paradigma post-religionale, al centro del libro Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana, primo frutto di una collaborazione tra Il Segno dei Gabrielli e Adista (2016, pp. 239, euro 16,50; il libro può essere acquistato anche presso Adista, scrivendo ad abbonamenti@adista.it; telefonando allo 06/6868692; o attraverso il nostro sito internet, www.adista.it). Curato dalla nostra redattrice Claudia Fanti e da don Ferdinando Sudati, il libro raccoglie gli interventi (alcuni dei quali già pubblicati in forma ridotta sulle pagine di Adista) di John Shelby Spong, María López Vigil, Roger Lenaers e José María Vigil – quattro tra i nomi più prestigiosi, brillanti e amati della nuova teologia di frontiera –, accomunati dalla tesi che le religioni così come le conosciamo siano destinate a lasciare spazio a qualcosa di nuovo e non ancora facilmente prevedibile, ma sicuramente aprendo all’insopprimibile dimensione spirituale dell’essere umano un futuro ricco di straordinarie possibilità.

Con i loro miti e i loro dogmi, con le loro leggi e la loro morale, le religioni sono state a lungo il motore del sistema operativo delle società. Ma, almeno nella forma che ci è familiare, non sarebbero destinate, secondo gli autori, a durare per sempre. “Per sempre” sarebbe la spiritualità, intesa come dimensione profonda costituiva dell’essere umano, non la religione, che ne costituisce la forma socio-culturale concreta, storica e dunque contingente e mutevole. In questo senso, allora, post-religionale non starebbe a significare post-religioso né post-spirituale, ma più in là del religionale, cioè più in là di ciò che hanno rappresentato le religioni agrarie, quelle religioni, cioè, che si sono formate durante l’età neolitica, quando la nostra specie, passando dalle tribù nomadi di cacciatori e raccoglitori alla vita sedentaria in società urbane legate alla coltivazione della terra, ha dovuto necessariamente creare dei codici che le permettessero di vivere in società, con un diritto, una morale, un senso di coesione sociale e di appartenenza. Un ruolo, quello delle religioni neolitiche, che, come evidenzia il clarettiano spagnolo, naturalizzato nicaraguense, José María Vigil, sta ormai venendo meno di fronte alla profonda metamorfosi che l’essere umano sta vivendo: una trasformazione radicale delle strutture conoscitive ed epistemologiche, con tutti i relativi cambiamenti nel modo di conoscere, nei postulati e negli assiomi millenari su cui l’umanità si basava inconsapevolmente.

Di certo, però, anche nella nuova veste che saranno chiamate ad assumere, le religioni, viste ora non più come un’opera divina, ma come una costruzione degli stessi esseri umani (sia pure spinti dalla forza del mistero divino), «dovranno concentrarsi – sottolinea José María Vigil – sul compito essenziale, che non cambierà: aiutare l’essere umano a sopravvivere diventando sempre più umano». Solo che «questo compito, benché sia quello di sempre, potrà essere espresso con un grande e creativo ventaglio di possibilità». E a chi teme la perdita d’identità, cristiana o più strettamente cattolica, il teologo brasiliano Marcelo Barros, nella sua prefazione, risponde non a caso citando le parole di un amico rabbino, secondo cui «noi siamo umani non tanto per quello che ci costituisce (nella nostra identità originale) quanto per la possibilità di trasformarci o di lasciar evolvere quello che ci costituisce, senza smarrirci».

Che ne sarà allora in questo quadro della tradizione di Gesù? Riuscirà il cristianesimo nell’impresa di trasformare se stesso, reinterpretando e riconvertendo tutto il suo patrimonio simbolico in vista del futuro che lo attende? Riuscirà a liberarsi di dogmi, riti, gerarchie e norme, di tutti quei rituali religioni che, spesso e volentieri, hanno finito per sovrapporsi al Vangelo, per complicare anziché favorire la nostra relazione con Dio e con l’altro?

Il compito non è di certo semplice, richiedendo un lavoro al tempo stesso decostruttivo per superare tutto ciò che è ormai diventato obsoleto – e costruttivo – per esplorare i modi in cui sviluppare in pienezza la nostra dimensione spirituale. Di sicuro, come evidenzia il vescovo episcopaliano John Shelby Spong (sulla cui figura e sulla cui opera si sofferma più estesamente, nella sua introduzione, don Ferdinando Sudati), gli esseri umani continueranno ad aver bisogno di riunirsi, di condividere, di celebrare, di alimentare la loro spiritualità, ma senza più strutture e rapporti di potere che riproducano il potere paternalistico di un Dio in senso teista. Di un Dio, cioè, inteso come «un essere dal potere soprannaturale, che vive nell’alto dei cieli ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà», un essere con poteri miracolosi da supplicare, servire e compiacere, di fronte a cui prostrarsi come uno schiavo di fronte al padrone. Tuttavia, pur nella necessaria – dolorosa ma alla fine liberante – rinuncia all’immagine di un essere soprannaturale che ci faccia da genitore, il messaggio originario della fede cristiana – è la convinzione di fondo attorno a cui ruota la riflessione degli autori – non perde nulla di veramente essenziale, restando inalterata, come spiega il gesuita belga Roger Lenaers, «la confessione di Dio come Creatore del cielo e della terra, inteso come Amore Assoluto, che nel corso dell’evoluzione cosmica si esprime e si rivela progressivamente, prima nella materia, poi nella vita, poi nella coscienza e quindi nell’intelligenza umana, e infine nell’amore totale e disinteressato di Gesù e in coloro in cui Gesù vive». Come pure resta invariata «la confessione di Gesù come la sua più perfetta auto-espressione e la comprensione dello Spirito come un’attività vivificante di questo Amore Assoluto».

È a questo complesso compito di riformulare il messaggio cristiano in un linguaggio che possa risultare nuovamente rilevante e significativo che hanno rivolto le loro riflessioni, e dedicato la loro vita, gli autori di questo libro, ma a cui guardano con interesse e passione anche tutti coloro che avvertono la necessità di trasformare radicalmente la propria religiosità, proprio per sentirsi più vicini «alla Vita che Gesù ha difeso e a cui ha dato dignità», come spiega nel suo modo impareggiabile la scrittrice cubana-nicaraguense María Lopez Vigil. E così scoprire che, in questo viaggio iniziato nell’età adulta della nostra vita spirituale, non si è in fondo perso nulla di importante. Che, come sottolinea Claudia Fanti nella presentazione, «il nostro bagaglio è ora molto più leggero, ma c’è ancora tutto quello di cui abbiamo veramente bisogno». E che, anzi, «questo bagaglio diventato così lieve ci permette ora di camminare più spediti, di godere realmente di tutto ciò che ci circonda, sentendoci parte di questo paesaggio e cogliendone tutta la struggente bellezza. Ci permette di sentire il respiro dell’universo, il nostro indistruttibile legame con la Vita, con l’Amore senza limiti».Barros 1

Che è, poi, la stessa conclusione di Marcelo Barros: «Oltre le religioni: l’amore».

caro papa Francesco, questa volta ti scriviamo anche noi …

caro papa Francesco,

siamo un gruppetto di persone, composto da laici, religiosi e sacerdoti, che si è praticamente formato attraverso l’amicizia con i Rom e Sinti, una lunga amicizia frutto di frequentazioni e di vita vissuta dentro i loro campi.

In effetti i Sinti e i Rom sono stati i protagonisti del nostro incontro di fede e del cammino che stiamo portando avanti ancora nella Chiesa. Anche per questo, siamo molto riconoscenti ai Rom, perché è l’amicizia con loro che dà senso e arricchimento alla nostra esperienza.

A vario titolo siamo stati un’espressione dell’UNPReS (Ufficio Nazionale Pastorale Rom e Sinti) della Migrantes, fino a quando, per una riforma infelice si è demandato alle diocesi, non solo la responsabilità pastorale, il che è più che giusto, ma si è abolito l’ufficio nazionale che sensibilizzava e richiamava l’attenzione su questo ambito, che aveva il compito di preparare specificamente gli operatori pastorali e far sorgere una pastorale specifica e coordinata a livello nazionale, anche questo legame si è in parte affievolito. Ci dispiace che questo lungo cammino di Chiesa si stia disperdendo, anche se rimane ancora il legame con le nostre Chiese e comunità di appartenenza che ci fa sentire inviati a vivere, annunciare e scoprire la bellezza del Vangelo con questo popolo che vive in gran parte nelle periferie e ai margini delle nostre città. Un tempo ci piaceva definirci come la “Chiesa che vive in carovana”.

Vorremmo scriverti tante cose, innanzitutto la simpatia che nutriamo verso di te, la tua parola e il tuo stile ci fa sentire in comunione e giustificano il nostro stare dentro e a fianco la vita dei Rom e Sinti.

Ci siamo interrogati varie volte sull’utilità di scrivere queste nostre impressioni. A distanza di qualche mese abbiamo deciso di farlo e di diffondere questo nostro scritto, nella speranza che possa essere compreso e accolto.papa4

Quello che ci spinge a scriverti, con spirito fraterno, è il discorso che hai tenuto all’udienza con i Rom e Sinti in occasione dell’anniversario del pellegrinaggio a Pomezia di cinquant’anni fa. Pure noi eravamo presenti all’udienza e agli appuntamenti dei giorni precedenti e uno di noi ha partecipato anche a quello di Pomezia.papa7

Sostanzialmente noi, nelle parole che hai rivolto ai Sinti e Rom non abbiamo ritrovato lo Spirito di quel cammino pluridecennale di una Chiesa (sia pur piccola e fragile) che vive a contatto con questo popolo. Una Chiesa che con uno sguardo di Fede, cerca e trova anche in questo popolo, il riflesso del Volto Misericordioso di Dio. Siamo convinti che la loro vita continua ad essere per noi un “luogo teologico”, dal quale veniamo anche noi “evangelizzati” da loro. E’ possibile “vivere il Vangelo con i piedi dentro queste periferie”, che in genere sono i campi Rom-Sinti. Lo stupore nello scoprire che c’è anche un “magistero” che fiorisce dalle periferie, da chi vive al margine della società. Non a distanza ma da dentro: condividendo, accompagnando e custodendo amicizie, percorsi anche difficili, ma vissuti insieme. La nostra “missione” non è tanto quella di organizzare progetti, nemmeno quella di volerli integrare nei nostri schemi o di porci come risolutori del “problema Rom”, anche per il fatto che per noi questo popolo non è affatto un ‘problema’, come lo è per i più, ma un’opportunità umana e spirituale. Desideriamo semplicemente essere una “presenza ponte” capace di accogliere, di bene-dire, di comprendere punti di vista diversi dai nostri e di raccogliere con cura e attenzione la voce dello Spirito che sussurra, attraverso le vite dei Sinti e Rom, il Suo Magistero. papa3

Alcuni di noi vivono ancora dentro dei campi Rom, c’è anche chi ha speso la sua vita in questi “mondi di mondi”, imparando a conoscerli e ad amarli per come sono, con i loro difetti e le loro ricchezze.

Condividendo la loro vita, ha significato per ognuno di noi dei cambiamenti, graduali ma arricchenti, non sempre facili o scontati. Siamo riconoscenti a loro perché ci hanno permesso di entrare nelle loro vite, ci siamo lasciati accompagnare da loro e questa fiducia ci ha permesso di vedere e leggere la realtà con occhi diversi, fino a scoprire, quasi con stupore e meraviglia che anche “il punto di vista” di chi vive nelle carovane, nelle baracche dei campi merita attenzione, rispetto e ascolto. Siamo testimoni di perle di Vangelo, nascoste nelle loro esistenze, che nonostante il disprezzo e il pregiudizio di cui sono spesso vittime brillano e illuminano dando senso anche alle nostre vite. Ma per notare questa loro ricchezza, è importante spogliarsi dei pregiudizi presenti e radicati nella maggioranza, e che purtroppo non mancano neanche in chi li avvicina a fin di bene. L’abbassamento può avvenire a condizione di saper perdere le nostre rigidità mentali, sociali e religiose. La condizione, almeno per noi è “stare dentro” questo mondo. Non può certo avvenire a distanza. A distanza le cose si vedono sfocate, notiamo solo quello che a noi disturba, difficile percepire le sfumature o i suoi contorni, si rischia di non comprendere in profondità la realtà, le sue dinamiche.papa2

Scusaci se te lo diciamo con franchezza, il tuo discorso rivolto ai Sinti e Rom ci è sembrato un pò distante, perché abbiamo sentito riproporre più o meno gli stessi schemi della maggioranza che osserva le cose a distanza, spesso si limita fare discorsi moralistici: dovete cambiare, scuola, minori, legalità, integrazione..ma senza accompagnamento, senza abbassamento. In altre occasioni e contesti, invece sei riuscito a immergerti, capire le situazioni e fare una lettura altra, coraggiosa e non per niente scontata. Ecco questa lettura “altra” ci è sembrata assente nel tuo intervento, eppure il cammino della Chiesa che vive in carovana, da Pomezia ad oggi, ci ha reso sensibili a questa lettura altra e alta.

I campi Rom e Sinti sono quelle ‘periferie’ di cui ci parli e solleciti la Chiesa a prestare attenzione e ascolto.

E’ un’immagine che ci piace tanto, stimolante ed arricchente: per noi i campi Rom sono un “luogo teologico” da contemplare innanzitutto, perché sovente “lo Spirito Santo precede l’arrivo e l’azione dei missionari” ( Evangeli Nuntiandi).

Sì certo, siamo ben consapevoli delle difficoltà, delle ferite che ci sono all’interno, come ci sono, in modi diversi, in ogni gruppo sociale; alcune sono ben visibili, altre più nascoste e spesso passano inosservate, inascoltate. Contempliamo e celebriamo la vita, fatta di resistenze, di attenzione, di lotta, di fatiche, di paure, di violenza, di prevaricazioni, di riconciliazioni, di gioie, di attaccamento alla vita, nonostante tutto, di sogni e di delusioni.. Come tutte le periferie, sono spazi dove il bello e il brutto convivono insieme, si attraversano, si contagiano, ma per noi rimangono spazi di Vita, perché riconosciamo che anche nei loro campi, ci sono manifestazioni di vita buona. Quasi mai questo emerge, si fa risaltare invece solo ciò che è brutto, si sottolinea esclusivamente la devianza o il maltrattamento di pochissimi. Eppure, questa periferia, la vita dei Rom, ha qualcosa da insegnare nella Chiesa e con essa alla società. Così è successo a noi.Presidente-Museveni_Papa-Francesco

Tempo fa hai usato l’immagine (bellissima!) del pastore con l’odore delle pecore. L’abbiamo sentita adatta alla nostra esperienza , calzante con la nostra vita a fianco dei Rom e Sinti. Il loro “odore” è anche un po’ il nostro, e il nostro si è trasmesso un po’ a loro e spesso questo disturba non pochi, sia dentro la Chiesa che nella società. C’è chi vorrebbe spruzzare del deodorante sulle pecore, per coprire il loro odore, e renderlo simile al nostro presunto profumo, più presentabile ai nostri occhi (nasi).
Sono molti oggi che avvicinano queste periferie dei Rom con in mano i “deodoranti”, sentendosi incaricati, inviati a decidere cosa devono fare, cosa devono cambiare, decretando anche i tempi e le modalità. Quasi sempre ciò avviene sulle loro teste, senza alcun coinvolgimento e partecipazione dei diretti interessati. La nostra esperienza invece, proprio perché cerchiamo di contemplare la vita che pulsa nei campi, ci dice che i Sinti e Rom sanno cosa è il meglio per il loro futuro, quali strade intraprendere e cosa cambiare.
Vediamo il rischio che non pochi si avvicinino alle periferie solo perché sono colpiti dal degrado, animati solo della volontà di voler cambiare gli altri attraverso i loro occhi; molti si avvicinano, entrano anche nei campi, ma fanno fatica ad accompagnare, ad abbassarsi e sedersi a mani vuote nelle loro esistenze per comprenderle meglio. E’ triste questo: non trovare la strada per saper riconoscere i valori che l’altro ci può comunicare.

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Un’ultima nota riguarda il silenzio di una triste realtà che coinvolge migliaia di Rom in Italia e non solo, senz’altro toccava la maggioranza di quelli che erano presenti all’udienza: la realtà degli sgomberi e il suo uso politico. Ci saremmo aspettati almeno un accenno di condanna per il fatto che, sull’altare della sicurezza e del consenso elettorale, vengono scartati interi nuclei famigliari, buttati per strada e abbandonati a se stessi, privati dei loro diritti riconosciuti anche dalla Legge: tanto sono “zingari”!

Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.”

(papa Francesco ai movimenti popolari dell’America Latina)

Caro Papa Francesco ti abbracciamo forte, sappi che la nostra fiducia in te non è per nulla scalfita, ma ci preme farti conoscere anche questo lungo e arricchente cammino pastorale che stiamo portando avanti, anche grazie ai Sinti e Rom che ci accolgono e sostengono con la loro fiduciosa amicizia.

Ti auguriamo ogni bene e mentre ti chiediamo la benedizione del Signore, sappi che preghiamo per te, insieme a tanti Sinti e Rom che ti ammirano e ti guardano con amicizia.

suor Carla  e suor Rita Viberti (campo Rom Torino)

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p. Luciano Meli (Lucca)

luciano meli

don Piero Gabella (Brescia)

Piero Gabella

don Agostino Rota Martir (campo Rom Pisa)

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Marcello  Palagi  e Franca Felici (Carrara – Avenza)

Marcello e Franca

Marzo 2016

Gli zingari lo usano facebook? il C.C.I.T. 2015

 

ccit 2015

 il C.C.I.T. 2015 in Romania sull’uso, le opportunità e i rischi nell’utilizzo dei nuovi media da parte dei rom

 

Gli zingari, il popolo rom, utilizza facebook, conosce e usa i social media? Sicuramente più di quanto possiamo pensare e meglio di quanto possiamo immaginare. Ma era scontata e retorica questa domanda per il ‘Comitato Cattolico Internazionale per la evangelizzazione del popolo degli Zingari’ (C.C.I.T.) che, a conoscenza di questo, ha voluto dedicare quest’anno appunto al rapporto tra il popolo rom e i nuovi mezzi di comunicazione la propria riflessione annuale.

 

Si è svolto infatti nei giorni scorsi (24 – 26 aprile 2015) a Ciofliceni – Snagov in Romania, in un monumentale convento di frati carmelitani italiani (malinconicamente vuoto a cose normali!), con un intenso programma di lavoro, di dialogo e riflessione, il 39° incontro del C.C.I.T., rivivendo – con entusiasmo e gratitudine a Dio e ai rom – il proprio cammino quarantennale scandito ogni anno in un diverso paese europeo, come dialogo tra il popolo rom e gli operatori nella pastorale di evangelizzazione e missionarietà come incarnazione in questo popolo. Le sfide della comunicazione nelle comunità di zingari sono state appunto al centro di questo C.C.I.T. 2015.

40 candeline

Dopo il momento di preghiera del venerdì sera (24 aprile) che ha inteso rivivere la ricchezza spirituale dei 40 anni di cammino e condivisione del Comitato col popolo rom con tanto di lancio di palloncini e un buon bicchiere di ‘vino dell’amicizia’, il sabato (25 aprile) è stato vissuto con intensità di riflessione e dialogo con conferenze, comunicazioni e gruppi di lavoro.

Anche il Vaticano, come sempre peraltro, ha inteso far arrivare  il senso della propria solidarietà e partecipazione con un messaggio suorain cui molto opportunamente si sottolinea quanto grave e ingiusto sia il modo in cui dai media si veicola un’immagine negativa di questo popolo usando nei suoi confronti “il linguaggio … generalmente simile a quello riservato ai delinquenti comuni e ai protagonisti della cosiddetta ‘cronaca nera’”.

Il coordinatore pro-tempore p. Claude Dumas, lui stesso rom, Claudeha fin dalla introduzione ai lavori, evidenziato che “i giovani zingari utilizzano sempre più questi nuovi mezzi per comunicare tra loro … e vediamo fiorire su facebook dei passi interi della bibbia o del vangelo …”, anche se ne coglie subito lucidamente anche i rischi e i limiti: “c’è un rischio: il vangelo non è un prodotto formattato che si porta come un pacchetto o un ‘kit pronto per l’uso’ ”.

‘Le sfide della comunicazione nelle comunità zigane’ sono state analizzate dal professore dell’ordine dei gesuiti p. Florin-Joan Silaghi, mettendo in evidenza come con questi mezzi di comunicazione “gli zingari comunicano elementi di carattere personale che prima avevano l’abitudine di esprimere solo faccia a faccia … e, con l’aiuto di contenuti audio-visivi, comunicano affinità, orientamenti, gusti, desideri e molto spesso la loro appartenenza culturale, sociale o religiosa”.

I gruppi di lavoro e di approfondimento diversificati per aree geografico-linguistichegruppo hanno approfondito tutto questo arricchendolo delle esperienze concrete, della amicizia e della frequentazione quotidiana col popolo rom.

Significativa la presentazione da parte di p. Agostino Rota Martir di tre foto agostinoche da sole parlano il linguaggio chiaro della modificazione di usi e costumi, anche quelli più impegnativi e più coinvolgenti l’identità culturale stessa di questo popolo, conducendo la riflessione sullo stretto crinale in delicato e precario equilibrio tra le ‘potenzialità della rete’ ma anche le sue ‘ambiguità’, le possibilità di ‘conoscenza’ ma anche le possibilità di ‘inganno’, di ‘progresso’ ma anche di ‘rischi’, di ‘comodità’ ma anche di dipendenza/schiavitù’.

La celebrazione eucaristica del sabato sera e della domenica mattina (25 26 aprile) hanno accresciuto in noi la consapevolezza che come operatori nella pastorale tra i rom e i sinti santa messa“siamo inviati per rivelare loro la loro dignità di figli e figlie di Dio” (dall’omelia di Claude Dumas) oltre che a scorgere i doni che da sempre Dio nel suo Spirito ha disseminato anche nella loro cultura e destinati ad arricchire il  mondo.

La mattinata della domenica ha visto un resoconto sulla situazione del popolo rom in Romania con le ricostruzioni storiche e le attualizzazioni di p. Teodor Lucian Lechintan (‘La difficile sopravvivenza dei roms di Romania’) e di Violeta Barbu (‘I roms della Romania’): conferenzaambedue hanno sottolineato la difficile convivenza della società maggioritaria con questo popolo, ma anche le responsabilità delle chiese (soprattutto quella ortodossa) nella non accettazione e accoglienza di questo popolo fino a forme di vera schiavitù! : “c’è un solo problema di proporzioni monumentali, quello della Romania stessa, incapace di riconoscere la propria responsabilità storica della schiavitù dei rom e incapace di sviluppare politiche sostenibili per l’integrazione sociale della loro popolazione” (V. Barbu). Per il rom rumeno Damian Draghici, membro del Parlamento Europeo (citato dal vescovo Petru nella sua omelia della concelebrazione domenicale) le cose dovrebbero essere molto più semplici: “siamo tutti uguali, perché Dio ci ha creati lo stesso giorno”.

Come sempre una gita turistica alla città ospitante ma soprattutto la condivisione gioiosa, festosa, ‘abbondante’ (“vi sarà dato in abbondanza … “) dei cibi caratteristicicena3 dei tanti paesi di provenienza dei molti  partecipanti, vivacizzata dalle musiche e dai balli di una band di rom rumeni,   band1funzionato come la ciliegina sul buon dolce che l’incontro ha rappresentato, arricchendo, irrobustendo e addolcendo e affinando la nostra amicizia, fra noi e col popolo rom. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la difficile vita da zingari …

 

il cattivissimo Salvini! ma … e i ‘buoni’?

lo sappiamo e siamo tutti d’accordo che Salvini è il più cattivo, il cattivissimo nei confronti del popolo rom: non teme di usare perfino parole borden-line come ‘demolire’ e ‘radere al suolo i campi rom’ ammiccando ad una possibile ‘soluzione’ del ‘problema’, anzi dell’emergenza delinquenziale (che altri, meno furbi di lui hanno espresso più chiaramente nei social media invocando la necessità di portare a compimento ciò che in orrendi ‘campi’ di concentramento non è stato fatto in ‘risolutivo’), aggiungendo solo in un secondo tempo che tale operazione andava fatta ‘ovviamente’ solo dopo che i campi fossero svuotati: ma intanto chi doveva capire ha raccolto l’ammiccamento … non molto tempo fa frasi simili le ha pronunciate anche nei confronti degli immigrati che su barconi del tutto improbabili si dibattevano disperatamente tra i flutti in alto mare … dunque lo sappiamo: Salvini è cattivo e basta!
salvini
Ma i buoni?  dove sono i ‘buoni’? cosa fanno i nostri bravi amministratori e politici e parroci e fedeli che riempiono le chiese per pasqua e gli animatori e i programmatori di una vita alternativa per loro e sulle loro teste … ?
Sembra ormai generalizzato l’atteggiamento di amministratori, anche di sinistra, anzi soprattutto di sinistra, di contrattare un posto nel campo o l’erogazione della luce o dell’acqua con il rispetto di norme di regolamenti scritti spesso senza la minima conoscenza di quelle dinamiche quotidiane di vita che solo a chi ha con loro una lunghissima frequentazione e amicizia sono note. A volte viene perfino spontaneo dire: “almeno Salvini parla chiaro dicendo semplicemente quello che pensa!” Quanti amministratori o persone che intendono ‘occuparsi’ di loro per risolvere il ‘problema’ che loro sono a se stessi e alla convivenza ‘civile’ fingono di scandalizzarsi alle sue parole ma di fatto quotidianamente si comportano in ugual modo? Si faccia una prova, si entri in qualsiasi campo o struttura abitativa costruita ‘per loro’ secondo i nostri gusti e criteri, e si interroghi i rom che si incontrano: avremmo risposte di questo tenore appena raccolte nel campo rom di Coltano – Pisa – (Pisa il cui sindaco è stato strombazzato come il migliore ‘risolutore’ del ‘problema’ rom in ambito regionale e nazionale!):

 

 rottamazione rom
un libero scambio di battute tra Rom  

Cosa ne sa la gente italiana della nostra vita? Ho paura che per noi è ormai finita. Sai che novità quella di Salvini? Perchè quando sgomberavano i campi di Rom,chi si scandalizzava? Perchè forse lo facevano senza le ruspe, con dolcezza? Lo hanno sempre fatto tutti: destra o sinistra che differenza fa? Tutti si riempiono la bocca di integrazione, bello ma quello che sanno fare è renderti la vita impossibile. Ad esempio quelli del Comune parlano di integrazione, ma ci disprezzano e non lo nascondono neanche.

Ci tolgono i documenti anche senza motivo, ad esempio rinnovare un Permesso di Soggiorno qui a Pisa dobbiamo aspettare non 30 giorni, ma sette, otto mesi e non ti dicono neanche il motivo.

E senza permesso di soggiorno non puoi fare niente, vivi una vita sospesa e speri che qualcuno abbia un pochino di comprensione e compassione. Ma non è più come prima.
 
Figurati trovare un lavoro per un Rom. La gente ti guarda sempre male, con sospetto anche quando sei a fare la spesa con i tuoi bambini, anche a scuola i nostri figli sono spesso disprezzati e visti con diffidenza.
Chi ti aiuta oggi? Quando arriva un finanziamento dalla Regione per noi Rom, si inventano cose perchè i soldi se li prendono solo i gage..sulla nostra pelle e convinti di farlo per il nostro bene. E’ assurdo e noi facciamo la fame..la nostra vita continua ad essere “rasa al suolo”, con o senza Salvini!
rom Torre del Lago
credo di poter dire che non basta essere animati da buoni propositi perché ogni modalità di relazione nei confronti dei rom e ogni opera che viene realizzata per risolvere ‘il loro problema’ sia considerata giusta, adeguata, rispettosa … una bella vignetta di Snoopy dice giustamente che al mondo “nessuno ha fatto più danni di quelli che credevano di fare bene!”
mi piace riportare qui sotto un documentino che ho firmato con alcuni amici che da tanti anni conoscono non dal di fuori il popolo rom ma, per così dire, ‘dal di dentro’, sia per un lunghissimo rapporto di amicizia che da trenta o quarant’anni realizzano quotidianamente con esso, sia perché ne condividono concretamente la vita abitando fisicamente con loro, condividendo con loro la difficile quotidianità della marginalità, delle ingiustizie e spesso delle violenze che questo popolo ogni giorno subisce … e non solo da Salvini!

credere di far bene

 

 

 

VITA DA ZINGARI (VISTA DA NOI) E LA VITA VISTA DAI ROM..PUNTI DI VISTA DIVERSI!

 

Siamo un piccolo gruppo sorto grazie ai Rom e ai Sinti,  ognuno di noi vive in forme e tempi diversi il proprio rapporto con loro, ma è certo che loro sono il collante del nostro gruppo, in un certo senso anche la fonte dell’amicizia che ci unisce.

Il gruppo è sorto spontaneamente e  ha come unica caratteristica l’amicizia con i rom e le loro famiglie, molte di queste vivono in campi, altre vivono in case o in insediamenti “abusivi”. Un’amicizia di lunga data, non mediata da progetti, e di questo ne andiamo anche un po’ fieri.

Non siamo un’Associazione, una ONG e tantomeno un gruppo di volontari con lo scopo di risolvere o alleviare le difficoltà dei Rom o quello di proporre possibili soluzioni al “problema Rom”.  Ognuno di noi vive la sua vicinanza con i Sinti e Rom, chi per ragioni della propria fede e appartenenza a vario titolo alla Chiesa, chi per senso di umanità verso questa gente e  ha arricchito la nostra stessa fede e la nostra vita.

Vorremmo fare alcune nostre libere e spontanee considerazioni, anche come reazione all’articolo pubblicato su Mosaico di Pace di Ottobre, dal titolo: “Vita da zingari”, firmato da Cristina Mattiello.

  1. E’ certo che il primo atteggiamento a chi si interessa a vario titolo dei Rom e della loro vita,  è la conoscenza di questi mondi variegati e diversi tra di loro, ma anche la stima nei confronti dei Rom stessi. Spesso questo atteggiamento  in tanti operatori, lo si da per scontato, ma dalla nostra esperienza constatiamo in tanti di loro diffidenza, pregiudizio e sospetto. Quindi è facile constatare che il tentativo di “risolvere il problema Rom”, fin dall’inizio parta con il piede sbagliato, per poi finire proprio con il peggiorare ulteriormente la loro già fragile esistenza.

Senza stima non si costruisce niente, anche se si ha tra le mani il miglior Progetto.

 

  1. Ogni popolo, compreso quello dei Rom e Sinti, ha il diritto della propria auto-determinazione. Perché  lo riconosciamo quasi automaticamente a tanti popoli, invece per i Rom questo non avviene? Da decenni ormai sono continuamente assaliti da assistenti, operatori, Associazioni, Cooperative di vario genere.. Quanti Progetti di ogni tipo, abbiamo visto scorrere sulle loro teste, quante soluzioni si sono accavallate sulle loro vite, per poi rivelarsi fallimentari e quasi sempre incolpare i Rom del loro insuccesso. Le soluzioni che in questi decenni sono state proposte, non hanno fatto altro che incancrenire il problema.

La loro auto-determinazione, spesso viene sacrificata in nome di un bene stabilito da altri, al di fuori del loro mondo, o per lo meno non sufficientemente conosciuto e quasi sempre (ieri come oggi) senza una loro reale partecipazione e coinvolgimento. A loro in genere spetta adeguarsi al “benefattore/salvatore” di turno. E’ uno dei tanti luoghi comuni, tra i più diffusi anche tra coloro che si occupano di Rom, quello di credere che loro hanno bisogno di qualcuno che decida al posto dei Rom, nel bene e nel male.

C’è sempre qualcuno pronto a suggerire come organizzare la loro vita: che la lavatrice non va messa in quel posto, che i bambini devono vestire in altro modo, chi devono frequentane e chi no, chi può e non può venire a visitarli, che la casa è la soluzione del problema Rom, che i Rom non sono più nomadi, che i campi devono essere superati, che non devono andare più ad accattonare perché non è dignitoso, che non bisogna accendere più fuochi all’aperto, che bisogna stare nello spazio assegnato, che l’integrazione è fare questo e non quello, che le regole bisogna rispettarle sempre, anche quando sono state sottoscritte sotto forma di ricatto o per incutere paura o semplicemente pensate e scritte in qualche ufficio “competente”, ma quasi mai stipulate ufficialmente, nel rispetto di regole democratiche, con le parti interessate: alla pari!

Noi con le nostre Associazioni, con le più fantasiose politiche sociali studiate ad hoc.. pensiamo di dover essere noi a trovare per loro le soluzioni, con convegni nazionali/internazionali, dibattiti, seminari, studi.. i Rom invece decidono della loro vita attorno ad un fuoco o bevendo insieme una tazza di caffè, consultandosi tra di loro. Luoghi e tempi diversissimi e distanti tra loro. I nostri a lunga programmazione, i loro invece, hanno il respiro breve, perche seguono quelli della loro esistenza, fatta di sensazioni, possibilità da cogliere al volo, clima che si respira in un dato momento, paure.. I nostri luoghi cercano la visibilità, i loro invece sono più nascosti, lontani dai centri di decisione, seguono altre mappe, altri canali, ma sono il cammino che loro seguono perché fiutano la vita.

  1. Rimanere in balia di chi ha un potere più alto del loro, di chi ha la possibilità e la capacità di accedere a finanziamenti destinati ai Rom, ma che mai un Rom potrà intascare o gestire, perché questo toccherà sempre ad altri: incaricati a gestire al posto loro.  Sembra proprio essere la  condizione di vita dei Rom e Sinti, ieri come oggi.

Progetti pensati da altri. E i fatti recenti di Roma vanno proprio in questa direzione..solo Roma?                   Quasi sempre,  questi Progetti (finanziati) presentati dalle Amministrazioni locali e Associazioni, hanno come una delle finalità la volontà di disgregare le comunità Rom, che è un modo per cercare di cancellarli.

Oggi il diritto di parola è accordato a chi propone soluzioni, possibilmente quelle a noi congeniali. E’ il tempo della “politica del fare”, ed  è uno dei rischi che vediamo diffondersi:  basta perdere tempo con tentennamenti e analisi sociologiche e antropologiche, che portano a nessun risultato, “vogliamo risultati e alla svelta, basta attendere”. Ora bisogna indicare soluzioni, percorsi chiari e risolutivi, perché i Rom devono finalmente integrarsi, altrimenti non ci può essere futuro per loro”.

Ma quale futuro? Il loro o il nostro futuro?

  1. Anche oggi chi si occupa dei Rom (del resto come ieri), non fa altro che parlare di casa, che bisogna guardare oltre i campi, che l’Italia è il paese dei campi, l’unico in Europa, che è poi una bugia perché di campi Rom e Sinti ce ne sono un po’ ovunque nei paesi Europei: Inghilterra, Francia, Irlanda, Spagna..di simili ai nostri, altri strutturati diversamente, ma pur sempre campi. Basta fare una semplice ricerca in Internet con Google per scoprire l’esistenza di campi un po’ ovunque.

Campi = ghetti sembra una equazione scontata. Ne siamo sicuri? Il campo è solo e sempre ghetto?

Spesso parlando dei campi “nostrani” si dice che bisogna chiuderli perché sono dei ghetti, in quanto non aiutano l’integrazione, perché si trovano in posti isolati, lontani dalle città e dai servizi..e c’è anche del vero in questo. Ma, si dà per scontata, come unica alternativa possibile al campo-ghetto,  sempre e solo la casa. Per noi è invece è una soluzione semplicistica e miope.     Nei loro paesi di origine, lo si sente dire spesso da chi sostiene la casa come unica “soluzione”, i Rom vivevano e vivono in case e non nei campi. Ma vivono tutt’ora in autentici quartieri ghetto scomodi e spesso distanti dai centri, più o meno come i nostri campi.

Il campo è anche lo spazio della sopravvivenza per tanti Rom,  ma è anche quello della relazione, è il respiro che permette a tanti di loro di vivere e di affrontare la vita. Ovunque i Rom cercano e si costruiscono uno “spazio a loro misura” dove poter vivere..è questo che molti Rom cercano, sia qui da noi, come nei loro paesi di origine:  in quartieri ghetto o nei campi Rom in  Italia o in altri paesi Europei.

I quartieri di Rom della ex Jugoslavia o dei Balcani, fatti prevalentemente di case, alloggi  e baracche non sono poi tanto diversi dallo “spirito” dei campi Rom, rispecchiano lo stesso modo di vivere lo spazio, che è diverso dal nostro, è un modo di stare insieme. In effetti i campi, con tutti i loro limiti che ben conosciamo, riproduce questo “stile di stare insieme”, che la nostra società ormai ha perso da tempo e che spesso giudica negativamente o frettolosamente e lo rimuove e colpevolizza.

I campi sono, con tanti limiti e le loro contraddizioni, lo spazio condiviso, spazi nei quali la relazione costituisce il soggetto e l’arricchisce.  La nostra società (quella Occidentale in genere), invece tende a isolare, la persona viene percepita come separata, appartata..”appartamento” appunto!

Ridateci per cortesia il campo di prima, almeno c’era più vita, in questo villaggio (nuovo) la gente non si parla più, è un casino!”

Con ciò non vogliamo negare o nascondere che spesso i campi di oggi stanno diventando invivibili anche per gli stessi abitanti e bisognerebbe analizzare con saggezza e ponderazione le cause. E una di queste, per noi è riconducibile anche all’intervento delle politiche sociali, che spesso rischiano di peggiorare di molto il tessuto già fragile delle stesse comunità Rom.  La domanda che noi ci poniamo è la seguente: perché anche lo “spazio” all’interno degli stessi campi Rom sta degenerando e i campi stanno perdendo la loro specificità?  Quanto è dipeso dalla scelta dei Rom?

  1. Politiche sociali e sicurezza.

Oggi constatiamo un po’ ovunque, che le politiche sociali hanno rinunciato alla loro tipica “missione” di ascolto e di prevenzione del disagio e di accompagnamento, preferendo di fatto allinearsi più alle politiche della sicurezza e del controllo, che dare risposte a questi disagi.  Con i Rom è quasi scontato, complice anche la politica che in questi ultimi anni non ha voluto affrontare il tema della povertà, preferendo rimuoverla e nasconderla. Spesso assecondando gli “imprenditori della paura”, diffusi in tanti settori sia della politica e della stampa. Così facendo si rischia di speculare solo sulla sicurezza e non sulle cause del disagio in sé, questo vale in particolar modo per le popolazioni Rom, ma si allarga anche sui settori deboli della nostra società: immigrati, profughi, poveri, cittadini italiani senza casa.

Ciò che notiamo da diverso tempo è una vera “assenza di cuore” nelle politiche sociali verso i deboli in genere. Il rischio è che questo vuoto oggi, come ieri è sostituito da altri interessi di varia natura, in primis quello economico, appetibile a molti, forse a troppi: sempre sulla pelle dei Rom, arrivando a constatare come anche la “politica” ruba sui Rom e sulle fasce deboli della popolazione.  Perché l’integrazione proprio perché costa, oggi è diventata una affare che fa gola a tanti.

  1. “Basta campi”.. e poi?

Oggi lo dicono tutti, in tutte le salse. Molti di questi mai hanno messo piede in un campo, mai hanno conosciuto realmente un Rom, mai hanno partecipato ad una loro festa, nemmeno ascoltato un loro desiderio o raccolto un loro timore. Basta campi è un mantra che si ripete da ogni parte..senza la minima conoscenza della realtà, oggi è di moda dirlo: “Basta campi”, che coincide, il più delle volte a: “basta Rom”.

Noi la pensiamo in maniera diversa. Innanzitutto, perché spetta a loro scegliersi il loro futuro, non noi. Tutto all’più, quello di saper accompagnare e sostenere la loro scelta, che sia la casa, un terreno, un campo o altro. Oggi quando si parla dei campi Rom si sottolineano solo gli aspetti negativi, che anche noi condividiamo, frequentandoli o vivendoci dentro li conosciamo bene, ma le analisi e le cause di tanto degrado spesso sono assenti. Perché i campi hanno subito questo degrado? E’ solo imputabile tutto ai Rom?  Senz’altro loro hanno delle colpe, ma non tutte!

I campi Rom sono anche l’unico spazio, dove i Rom si sentono “custoditi”, sostenuti ed aiutati (non dagli operatori, assistenti sociali..) da altri Rom. I campi Rom sono anche il frutto di relazione umane, di valori che aiutano le persone a guardare la vita a crescere e confrontarsi.  Cose che non sempre avvengono in un anonimo appartamento posto in un quartiere periferico della nostra città. Anzi, è più facile che un Rom si senta giudicato, additato e rifiutato, visto con sospetto e con la stessa diffidenza del Rom che vive in un campo. Spingendoli a vivere in case, in nome di una presunta integrazione,  spesso non si fa che alimentare ancora più intolleranza verso i Rom. Abbiamo visto anche il fallimento di tante famiglie Rom incentivate dai servizi sociali ad andare a vivere in case o appartamenti. E’ vero che molte famiglie Rom lo hanno scelto, e altre lo desiderano; ma è anche vero che molte non ce l’hanno fatta, andando ad accrescere le fila del disagio sociale cittadino. Stranamente all’interno di un campo Rom, non esiste il disagio sociale nelle forme tipiche di un quartiere cittadino, non c’è lo “scarto”, è più facile che questo si manifesti invece, con le nostre politiche sociali, i nostri progetti. A volte il degrado di un quartiere, può essere peggiore di quello di un campo Rom.

Il campo, con tutte le sue difficoltà, i suoi disagi, comprese le sue contraddizioni interne (che abbiamo visto aumentare  in questi ultimi anni), nonostante tutto..permette a tanti  Rom di “sentirsi accarezzati”: con i tempi che corrono non è certo poca cosa!

Meglio la “carezza di una semplice baracca” di un campo Rom, che la paura di un futuro incerto gestito da cuori anonimi e freddi. Perché la “casa” non è questione di sole mura..è anche spazio condiviso, vissuto insieme: “Per favore, ridatemi il campo di prima, quando stavamo nelle nostre povere baracche..c’era più vita.

 

don Agostino Rota Martir – Pisa

  1. Luciano Meli – Lucca

Sr. Rita Viberti – Torino

Sr. Carla Viberti – Torino

don Piero Gabella Brescia

Marcello Palagi – Massa Carrara

Franca Felici – Massa Carrara

f Flavio Gianessi – Reggio Emilia

 

27 Gennaio 2015 – Giorno della Memoria

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

‘auguri scomodi’ per un buon natale

 

 

in occasione delle festività natalizie mi piace rivolgere a tutti gli amici i migliori auguri, i meno scontati e formali, i più sentiti, convinti e ‘forti’: lo faccio con il testo e il video degli ‘auguri scomodi’  che il Vescovo Don Tonino Bello rivolgeva alla sua Diocesi, sempre attuali, anzi i migliori che riescano a toccare ancora oggi, a distanza di anni, le corde più profonde dell’animo umano e cristiano (solo un genio e un gigante della spiritualità poteva formularli così!):

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“Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo.
Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario.
Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!
  • Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
  • Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
  • Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, il progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
  • Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
  • Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
  • Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
  • I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
  • Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
  • Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano.
  • Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
  • I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio.
  • E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.
  • Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.”
  • Tonino Bello

 

Tonino Bello1

 

 

il popolo della pace in marcia

la marcia della pace Perugia-Assisi

 

 

volantino

 

 

a cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, si è svolta la XX edizione della Marcia della Pace Perugia -Assisi.
 più  di centomila persone si sono messe in cammino, domenica 19 ottobre, per dare voce alla domanda di pace che sale da ogni parte del mondo e per dire basta a tutte le guerre. 

quelli di Verona


la Marcia per la pace Perugia-Assisi è organizzata dal Comitato Promotore Marcia Perugia-Assisi.
 parte dai Giardini del Frontone di Perugia alle 9.00 e arriva alla Rocca Maggiore di Assisi alle 15.00, dove si svolge la manifestazione conclusiva.marcia dell pace

 

 

è stata una bellissima giornata (e non solo per il tempo!) dove tanti giovani, uomini e donne hanno voluto ancora una volta ricordare a tutti che la pace è un diritto e che è solo con l’impegno di tutti nel diffondere una cultura di pace che questo obiettivo si può realizzare

In centomila marciano per la pace (e chiedono lavoro)

di R. I.
in “Corriere della Sera” del 20 ottobre

Cento colpi per ricordare cento anni di guerre. Si è aperta così ieri mattina, con il fragore delle esplosioni trasmesso dagli altoparlanti, la ventesima edizione della Marcia della Pace di Assisi. Tra striscioni, bandiere e arcobaleni, quasi 100 mila i partecipanti che hanno percorso a piedi i circa 24 chilometri tra Perugia e Assisi. Per dire basta ai conflitti, un secolo dopo la Prima guerra mondiale. Ma non solo. Perché per portare la pace, quella sociale, è fondamentale anche il lavoro, quest’anno tema centrale della manifestazione. In prima fila c’erano infatti gli operai dell’Ast di Terni, impegnati in una difficile vertenza per salvare oltre 500 posti a rischio. Il presidente della Camera, Laura Boldrini, che si è unita alla marcia nell’ultimo tratto, li ha incontrati: «Farò il possibile, non buttatevi giù», ha detto, sottolineando la necessità di una task force istituzionale che affronti la vicenda. «La pace sociale si basa anche sul diritto al lavoro, che è un diritto costituzionale». Dopo quello del capo dello Stato, anche papa Francesco ha inviato un messaggio: «La Marcia sia un’occasione per un maggior impegno nella diffusione della cultura della solidarietà, ispirata ai valori morali e al servizio della persona umana e del bene comune». In marcia la vicepresidente di Montecitorio, l’umbra Marina Sereni, don Luigi Ciotti, la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, quello del consiglio regionale, Eros Brega, oltre al sindaco di Perugia, Andrea Romizi. Ma i protagonisti sono stati i cittadini, tra cui moltissimi ragazzi e bambini di 177 scuole.

assisi

Hanno sfilato 277 enti locali, 479 associazioni, 526 città e rappresentanti di ogni regione. Qualche defezione, in polemica con la Tavola della pace, che ha promosso la manifestazione. «San Francesco attende i suoi testimoni di pace per incoraggiarli nel loro impegno quotidiano in una situazione drammatica di presenza di guerre e assenza di lavoro», aveva detto alla vigilia padre Enzo Fortunato, direttore della Sala stampa del Sacro convento. «Siamo qui perché non vogliamo più vedere vittime» ha spiegato Flavio Lotti, coordinatore del comitato promotore . 

 

Perugia-Assisi

Quel popolo dei 100mila che dice “no” a guerre e polemiche

di Luca Liverani
in “Avvenire” del 21 ottobre 2014

Chi temeva una Perugia-Assisi sotto tono è stato smentito. Nonostante la crisi, che ha ridimensionato le trasferte organizzate da associazioni, scuole o singoli. Nonostante le defezioni polemiche di alcune grandi associazioni e il mancato sostegno dei sindacati. Domenica mattina da Perugia su fino alla Rocca di Assisi ancora una volta – come da oltre un ventennio è sfilato un popolo di 100mila persone non rassegnate a una congiuntura economica decisa altrove, alle guerre a cascata in Medio Oriente, in Africa, persino in Europa, alle epidemie ignorate fin quando non bussano a casa nostra. Un fiume di gente diversa, ma fermamente unita nella volontà di esserci. Non per voglia di protagonismo – difficile, in un evento di massa, ignorato totalmente dai grandi quotidiani nazionali, eccezione fatta per alcune tv: TV2000, Rai3, RaiNews e Sky. Perché mai allora da Abbiategrasso a Zugliano gruppi, famiglie, parrocchie e associazioni si sono sobbarcati un viaggio faticoso, per poi affrontare 25 chilometri a piedi? La molla allora non può essere stata che lo scatto morale, l’indignazione civile, la compassione umana per le troppe offese all’umanità perpetrate a tutte le latitudini. La necessità insopprimibile di tanti italiani perbene e civili di fare e di dire qualcosa per un mondo meno disumano. Segno che la Marcia della Pace ha ancora un fortissimo appeal . Tornano alla memoria, più attuali che mai, le parole di San Giovanni Paolo II ai giovani della Gmg del 2000: «Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro… vi sforzerete di rendere questa terra sempre più abitabile ». «Non c’era nulla di retorico in quei 15 chilometri di gente – ragiona all’indomani della Marcia il coordinatore Flavio Lotti – giunta da ogni parte senza troppe etichette e distinguo, ciascuno con le propie ragioni e tutti con qualcosa di positivo in testa e tra le mani. La Marcia è riuscita a unire un pezzo importante della famiglia umana che non vuole lasciarsi trascinare nello sprofondo della III Guerra mondiale». Così la Marcia è iniziata col rimbombo di cento rintocchi, uno per ogni anno di questo secolo 1914-2014, perché «Cent’anni di guerre bastano», come si leggeva nel tema della Marcia. E allora in marcia «per la diffusione della cultura della solidarietà, ispirati ai valori morali e al servizio della persona umana e del bene comune», come ha scritto Papa Francesco.

 

 

 

festa della circoncisione al campo rom

circoncisione

 

 

 

 

 
ricevo  da p. Agostino Rota Martir queste informazioni che volentieri pubblico:

 

circoncis

 

 

 

 

Ciao, ieri festa al campo per la circoncisione (fatta in ospedale) di tre bambini. Molto sentita e celebrata dai Rom: musica, balli, colori e mangiare per tutti e non sono mancati i fuochi d’artificio, brevi ma vivaci.

 

circoncisio

Abbiamo dipinto su un grande pannello la bandiera dei Rom, per chi non la conosce: i colori azzurro (cielo) e verde (la terra) e la ruota che ricorda il lungo cammino dei popoli Rom.
Ciao Ago 
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