la suora che lotta contro il sessismo dentro la chiesa

«la chiesa può guarire dal sessismo in 24 ore»

 

suor Forcades

 

 

di Elisabetta Rosaspina

Monaca di clausura, indipendentista, attivista per il diritto all’aborto e per le unioni omosessuali, Teresa Forcades è una delle mistiche più ascoltate. «Francesco è un riformatore, l’amore è sempre un miracolo»

Monaca? Ebbene sì, di clausura. Catalana? Certo, per nascita e per appartenenza politica e sentimentale. Indipendentista? Eccome! Femminista? Da sempre. Negazionista sulla pericolosità del Covid 19? «No, questo è falso» protesta suor Teresa Forcades, benché tenga da tempo Big Pharma nel mirino: «Non può essere che il business farmaceutico domini nel mezzo di una pandemia», si è ribellata in un’intervista al periodico digitale catalano VilaWeb. Dubita dell’efficacia del metodo di vaccinazione in corso, è vero, «se crei l’immunità al virus, ma non lo elimini, lo inviti a mutare in una nuova variante». Ma «da un punto di vista scientifico non ha senso essere pro o contro la scienza» ha ricordato nella stessa occasione.

Teologa di fama internazionale

I suoi dubbi non sono profani, poiché suor Teresa Forcades, 55 anni, teologa di fama internazionale, figlia di un agente di commercio e di un’infermiera, è laureata in medicina interna a Buffalo, nello Stato di New York. Ha un dottorato in Salute pubblica e uno in Teologia fondamentale, conseguiti a Barcellona. Un Master of Divinity ad Harvard. Ha insegnato Teologia della Trinità e Teologia queer alla Humboldt-Universität di Berlino. La sua opinione conta nella comunità scientifica e in quella ecclesiastica. I suoi libri hanno un’ampia diffusione in patria e all’estero. Il New York Times le ha dedicato recentemente un ampio ritratto (che l’ha fatta molto arrabbiare), catalogandola nell’influente partito europeo dei no vax. Una testimone a favore delle teorie cospirazioniste. Ma lei non ci sta. Un partito, in realtà, l’ha fondato sul serio suor Teresa Forcades, assieme all’economista Arcadi Oliveres, scomparso qualche mese fa: Procés Constituent, a Barcellona, nel 2012. Uno schieramento repubblicano, anticapitalista, indipendentista che, appena nato, raccolse diecimila adesioni in sette giorni.

«Creatura del chiostro aperta al mondo»

Il Vaticano probabilmente non condivide appieno certe sue esternazioni sul diritto all’aborto e sulla legittimità delle unioni omosessuali, ma le riconosce titoli e competenze: «Benedettina, mistica, attivista, medico, creatura del chiostro e al tempo stesso aperta al mondo, perfino nelle sue istanze più estreme» è stata descritta dalla scrittrice Emanuela Canepa nel numero di gennaio del supplemento dell’ Osservatore Romano, Donne Chiesa Mondo .

Sta vivendo almeno due vite, apparentemente poco conciliabili: come fa?
«Non è stato programmato. Sono nata in una famiglia poco praticante dal punto di vista religioso. La mia relazione con Dio è scaturita da un’esigenza pratica. Nel 1995 cercavo un po’ di quiete per preparare un esame universitario e ho chiesto ospitalità al convento di Montserrat. È diventato la mia casa. Non era nei miei piani prendere il velo. Ma la vocazione è come una specie di innamoramento. Non si spiega. Si comincia a tremare e ci si chiede: che cosa mi succede? Sono entrata in monastero due anni dopo, ho lasciato la medicina per prepararmi ai voti».

 

Ma poi ha accumulato nuovi diplomi e specializzazioni.
«Sì. Quando ero novizia la madre badessa si era resa conto delle mie attitudini intellettuali. Mi ha spinto a riprendere gli studi. Il dottorato in Teologia mi pareva un’idea splendida. Avevo già studiato ad Harvard, ma dovevo ricominciare da zero. Ho avuto una crisi, ho pregato. Non ho avuto visioni, ho ricevuto una risposta interiore. Dopo Teologia, l’abbadessa mi ha chiesto: e perché non continuare con Medicina? Mi pareva che c’entrasse poco con la strada che avevo scelto ma mi sono lasciata convincere. Ho scritto un testo contro le multinazionali farmaceutiche. Era una denuncia sociale degli abusi dei quali avevo preso coscienza. Poi vennero le prime conferenze sull’omosessualità e la transessualità. Cominciò tutto dal punto di vista etico, ma ne parlavo anche dal punto di vista scientifico. Le mie erano critiche con cognizione di causa».

Nel 2015 i suoi superiori l’hanno autorizzata a lasciare la clausura per tre anni per dedicarsi agli impegni sociali e politici, alla causa catalana: non è insolito?

«No. Esistono due tipi di clausura: la costituzionale, che è la più antica ed è quella cui appartiene il nostro ordine; e la clausura papale. Per quanto mi riguarda, scaduti i tre anni, nel 2018 sono rientrata».

Sarà possibile sfondare il tetto di cristallo anche nella Chiesa?

«Nella Chiesa è un soffitto di cemento – ride -. Ma nella società extra ecclesiastica molte cose sono cambiate. Nel mio caso ho trovato uno spazio di crescita che non avrei trovato altrove. Il sessismo è nelle università, negli ospedali: io stessa, da monaca, mi sono resa conto di come obbedivo a stereotipi di genere. Ma quando le donne della Chiesa lo vorranno, la Chiesa smetterà di essere sessista in ventiquattr’ore. Perché il patriarcato lo abbiamo costruito assieme, uomini e donne. Tante donne pensano ancora che il loro compito migliore sia quello di accudire, prendersi cura degli altri, degli uomini. E la Chiesa enfatizza questo ruolo. Ma in un monastero femminile non ci sono uomini da accudire. Ci curiamo fra di noi».

Simone Weil nella bellezza trova Dio. E lei dove vede la bellezza?

«Per me la bellezza è spesso in un dettaglio: il piccolo gesto di una sorella del monastero, morta centenaria poco tempo fa. Muoveva appena un po’ il collo verso destra per ascoltare chi le parlava. Offriva all’interlocutore il suo orecchio. Era un piccolo gesto, epitome di bellezza. Per me, la bellezza è la figura di Gesù, che regge la croce al centro della folla, in un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio. In un mondo di menzogne e ingiustizia la verità scompare. La bellezza invece brilla per contrasto, come il bel volto di una bambina in un quartiere degradato. O come le note di un violino in un campo di concentramento». 
Ha già incontrato Papa Francesco?
«Non ancora. Vedo in lui una chiara intenzione di riforma. Ha cominciato dall’opacità finanziaria della Chiesa. So che vorrebbe fare di più. E comunque l’ambiente sta cambiando. Con i papati precedenti, persone come me, che parlano di omosessualità o di depenalizzazione dell’aborto, erano minacciate di sanzioni. Tutto ciò è scomparso dalla mia vita da quando c’è Francesco».

Lei crede ai miracoli? 

«L’amore è un miracolo. Ogni volta che una persona si apre alla verità per amore degli altri, è un miracolo».

per una fede che fa i conti con il paradigma culturale evolutivo odierno

educarsi ad una fede adulta

colloquio con Carlo Molari

a cura di Mariano Borgognoni
in “Rocca” n. 19 del 1 ottobre 2021

Don Carlo, è nota la sua collocazione nella prospettiva evolutiva del tempo tracciata dal pensiero
scientifico. Non vede però in essa anche il rischio di rimuovere il problema del male, vero punctum crucis, di gran parte della riflessione teologica, almeno da Agostino, e di ogni teodicea? Qual è la sua risposta al problema del male anche dentro i meccanismi stessi della natura al di là del male imputabile alla scelta degli uomini? E che senso ha l’incarnazione in una prospettiva evoluzionista?

Nella prospettiva evolutiva la perfezione non sta all’inizio della creazione, ma si colloca al termine di un processo nel tempo, che è necessario perché la creazione sviluppi le strutture che possano progressivamente accogliere i frammenti di quella Perfezione che continuamente l’azione di Dio offre. È dunque un processo nel quale l’imperfezione, il limite, in altre parole il male, è destinato ad accompagnare l’uomo e tutto il creato nel cammino verso il compimento.
Questa prospettiva, cui le scoperte scientifiche hanno dato un impulso decisivo soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, ha trovato sempre maggiore accoglienza nel pensiero teologico perché ha messo in rilievo un dato strutturale ineliminabile: il limite della creatura che, di per sé, non consente all’uomo e al creato di accogliere tutta la pienezza del dono di Dio, alla quale è pur sempre chiamato, se non attraverso un percorso di sviluppo delle strutture necessarie.
Bisogna precisare bene che non si tratta di un limite dell’azione di Dio (del tipo «se Dio solo volesse potrebbe…»), ma della natura stessa dell’oggetto della creazione. Così come diciamo che Dio non può fare che un cerchio sia un quadrato, allo stesso modo Dio, creando, non può che creare creature (un po’ come dire che Dio, creando, non può creare un altro Dio).
Le conseguenze di tutto questo sono ormai chiare: come detto, il limite, il male, è intrinsecamente connesso al nostro stato di creature, da sempre è così e sempre così sarà, pur con livelli e dinamiche destinate a evolvere, esse pure, con il progredire dell’umanità.
Il male, dunque, non è un’insorgenza indebita sopravvenuta per colpa di qualcuno, e la morte non è un destino cui non fossimo in origine soggetti: tutto questo non trova posto nelle evidenze scientifiche oggi disponibili, e, ormai, neanche nei modelli culturali che si sono affermati. È questo che ha portato Teilhard de Chardin ad affermare che il problema del male, teoricamente per la ragione, è risolto (ndr P.T. de Chardin, Comment je vois, 12 août 1948, in «Oeuvres de Pier Teilhard de Chardin», tome 11, Les directions de l’avenir, Edition du Seuil, Paris 1973, pp. 211 ss.). E ancora: i nostri mali sono il prezzo e la condizione stessa d’un compimento universale (P. T. de Chardin, Credo in questo modo, in «La mia fede», cit., p. 126).
Resta da capire come affrontare nella vita di tutti i giorni il problema del male, della sofferenza, dell’ingiustizia. Affrontato il nodo teorico esso permane sul piano esistenziale e pratico.
Se quel che ho detto è vero dal punto di vista teorico, dal punto di vista esistenziale il problema di come far fronte al male e al carico di sofferenza e di ingiustizia che l’accompagna – e che comunque deve essere «portato» in quanto, abbiamo visto, è un dato ineliminabile della nostra condizione di creature – resta e deve essere affrontato. È un aspetto che dobbiamo considerare in tutte le sue articolazioni di male causato e male subìto, di peccato, cioè di male consapevole, ma anche di male inconsapevole, dunque anche oltre la dimensione sacramentale della riconciliazione.
Lo sviluppo della vita spirituale, infatti, richiede una presa d’atto radicale del male e un lavoro per
eliminare in radice, o almeno portare sotto un certo controllo, anche quelle reazioni inconsapevoli, quegli atteggiamenti diventati consuetudini e quei comportamenti che sono abitudini di cui non ci sentiamo responsabili, ma che comunque inducono e diffondono attorno a noi negatività.
È al lavoro interiore che ci affidiamo per arrivare a portare il male, l’ingiustizia, la sofferenza in modo da continuare a essere manifestazioni dell’azione di Dio in noi e a non tradire il messaggio di cui vogliamo essere testimoni continuando ad amare e a offrire doni di vita nella difficoltà delle relazioni, nella morsa della sofferenza, nell’angustia dell’ingiustizia, nella tristezza del progressivo invecchiamento che ci debilita.
Perché sappiamo che il dono di Dio ci è sempre dato, che ogni giorno possiamo diventare capaci di novità di vita che ieri non conoscevamo, se a questo ci apriamo con fiducia per farne a nostra volta dono a chi ci sta vicino. Ogni giorno, così, consolidiamo i frutti colti nel nostro passato, alimentiamo la nostra speranza e ci prepariamo ad accogliere i doni che arriveranno, fiduciosi che né morte né vita, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio (Rm 8,38- 39). È così che, giorno dopo giorno, cresce la vita in noi, fino al traguardo ultimo in cui diventeremo viventi perché la Vita, in modi che non riusciamo nemmeno a immaginare, diventerà finalmente nostra.

Ho sempre trovato molto originale e interessante la prospettiva da cui ha affrontato il problema della salvezza e della vita dopo la nostra morte fisica. Ma ci salveremo tutti perché grande è la misericordia di Dio oppure alcuni o anche molti si perderanno? Magari non nell’impensabile eternità dell’inferno immaginata da un dio malvagio.

Noi non sappiamo in cosa consista la vita nuova, quella che ci aspetta come compimento al termine di questa esistenza. Le espressioni che normalmente utilizziamo – resurrezione, salita al cielo, paradiso e inferno – sono servite alle prime comunità cristiane per esprimere la grande e profonda esperienza di fede che la vita e l’insegnamento di Gesù avevano suscitato in loro e nelle loro comunità. Per esprimere la permanenza in loro della speranza di una vita al di là del presente, non potevano avere altro linguaggio che quello della resurrezione del corpo, della salita al cielo e dell’imminente ritorno di Gesù. In tutto questo noi dobbiamo vedere il tentativo di raccontarci e trasmetterci un’esperienza di fede profonda, non il succedersi di eventi storici che, fra l’altro, non corrispondono esattamente fra i diversi autori.
Noi oggi abbiamo conoscenze, riferimenti culturali e linguaggi molto diversi; ad esempio, sappiamo che dopo la morte il corpo è destinato a dissolversi nell’ambiente. È allora necessario che noi sviluppiamo, attraverso il lavoro interiore, un livello di vita spirituale, cioè di consapevolezza, di capacità di donazione, distacco dalle cose, che consenta al nostro spirito di entrare nella nuova dimensione della vita e, così, pervenire al compimento, il nome scritto nei cieli di cui parla Gesù, cioè la nostra definitiva identità di figli di Dio.
La domanda che così si pone è che cosa avverrà nel caso non si pervenga a sviluppare la nostra dimensione spirituale. La risposta non può che essere il venir meno dell’esistenza, un tentativo di vita che non ha attecchito e non è andato a buon fine. Certo è una posizione opinabile, ma io credo che valorizzi la storia e le dia un senso.

E la stessa immagine che noi ci facciamo di Dio o presente dentro la Scrittura medesima non va posta in discussione? Non c’è tanto, troppo, di antropomorfico e non dovrebbe forse la teologia soprattutto distruggere le false immagini di Dio? Cosa ne pensa della riflessione di molti teologi cristiani che stanno sviluppando un pensiero post-teista?

È inevitabile che in noi si formi, in qualche modo, un’immagine di Dio. È, anzi, necessario perché altrimenti non potremmo nemmeno pensare a Dio, né, di conseguenza, parlarne. I meccanismi stessi della nostra mente ne hanno bisogno.
Detto questo, è inevitabile, oltre che necessario, che il nostro processo di crescita culturale e lo sviluppo della nostra esperienza di fede nel tempo ci facciano cambiare l’idea che abbiamo di Dio: nessuno di noi ha più l’immagine che ne aveva da bambino. E non c’è dubbio che questo cambiamento che avviene a livello individuale debba essere riflesso nell’immagine che a livello di comunità ecclesiale viene proposta. L’immagine antropomorfa di un Dio intento a osservare le vicende umane e a intervenire è certamente inadeguata, sia per il livello raggiunto dalla riflessione teologica oggi, sia per le intuizioni che hanno posto radici a visioni ben più consone di Dio già secoli fa, nel cuore della tradizione cristiana stessa. Infatti, il farsi delle cose e il loro evolvere non richiedono interventi mirati di Dio, in quanto il potenziale di sviluppo delle cose è già inscritto nella loro stessa natura. Dio non fa le cose, ma fa sì che le cose si facciano.
Si tratta di un modello scaturito da una profonda intuizione, di Tommaso e in parte già prefigurata n Agostino, da secoli presente nella tradizione cristiana, per quanto non abbia avuto la forza di affermarsi rispetto al tradizionale e consolidato modello biblico. È però un modello che trae adesso dalla prospettiva evolutiva un fondamentale elemento di supporto e pone l’immagine di Dio ancora più lontano da qualunque rappresentazione antropocentrica se ne possa dare.

In una parte della sua opera parla delle sfide del pensiero ateo. Ci può spiegare come, secondo lei, è possibile rispondere ad esse e rendere ragione credibilmente della speranza che è in noi? Avere
insomma una fede adulta che non schiva le domande?

Il pensiero ateo merita da parte del teologo grande attenzione. Anche quando si finisce con il dissentire, resta il fatto che l’emergere di nuovi dati scientifici non può che apportare sviluppi nuovi che gettano ulteriore luce sul creato e sulla storia.
La difficoltà dell’interazione con il pensiero ateo risiede tutta nei riguardi della trascendenza, delfine ultimo delle cose e delle ragioni della nostra speranza, e dipende dal fatto che, se crediamo in una Forza che ci trascende e che in noi suscita conoscenza di verità e amore, è perché di questa forza noi veniamo facendo esperienza nella nostra vita. Si tratta di un’esperienza di novità che, pur veicolata da ciò che è intorno a noi, va al di là e ci indica un oltre. Ed è l’esperienza che facciamo ogni giorno che ci fa credere che non sia tutta un’illusione, ma la risposta a un ordine più grande del mondo che ci chiama e al quale sentiamo con tutto noi stessi di voler corrispondere.

Dentro l’orizzonte planetario, di cui lei parla, come Gesù può essere per noi oggi la radice di fondo della nostra fede, la ragione della nostra speranza, l’ancoraggio saldo che ci fa dire «se non avessi la carità…»?

Gesù, che cresceva in sapienza, età e grazia (Lc 2,52) e fu costituito Figlio di Dio in virtù della risurrezione dei morti (Rm 1,4), indica anche a noi, con la sua vicenda umana, la sua fede, il suo pregare, il cammino che siamo chiamati a percorrere oggi.
Come allora, è con il silenzio e la preghiera che possiamo arrivare a una comprensione profonda delle necessità dell’umanità e del mondo oggi; necessità che sono diverse da quelle del tempo di Gesù e richiedono risposte nuove a problemi che, di per sé, sono di un’ampiezza finora sconosciuta nella storia.
Questa è la via che Gesù ha tracciato: arrivare ad aprirci al Verbo eterno al punto da poter dire, con lui, io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30); che non è da intendersi in senso ontologico, ma nel significato operativo di: le opere che io compio, i pensieri che sviluppo, l’amore, il perdono, i doni che io offro non sono miei, ma del Padre. Perché è in questo abbandono fiducioso e totale a Dio che Gesù è arrivato a comprendere la strada, per quanto tragica e dolorosa, che doveva percorrere per rimanere fedele e dare testimonianza dell’amore di Dio che salva.
Noi viviamo in circostanze molto diverse, dobbiamo dunque trovare strade nuove per arrivare a testimoniare il medesimo amore di Dio. Non sono le opere di Gesù che siamo chiamati a imitare oggi; noi dobbiamo fare nostro il suo sentire nei confronti del mondo, il suo atteggiamento e la sua disponibilità all’ascolto, il suo modo di rapportarsi ai fratelli con compassione e misericordia, il suo convincimento della necessità di una conversione e di una preghiera continua, la sua fiducia nel Regno che viene, il suo abbandono totale nelle mani del Padre cresciuto in lui nella preghiera e nella fedeltà in tutte le circostanze: imparò l’obbedienza da ciò che patì (Eb 5,8).
Ed è questo stesso abbandono fiducioso in Dio, anche nelle circostanze più negative come la croce, che, oggi come allora, alimenta la nostra capacità di accogliere la sua azione in noi.
Possiamo così pervenire all’offerta di quei doni di amore e di riconciliazione oggi richiesti: è questa la nostra speranza di contribuire così al cammino dell’umanità verso il Regno cui è chiamata. Che questo sia possibile ce lo dice Gesù stesso: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste (Gv 14,12), parole che restano in noi come il fondamento della nostra speranza e del nostro impegno a individuare le nuove forme di fratellanza oggi necessarie per il futuro stesso della specie umana.
Solo così noi, sull’esempio di Gesù, consentiamo al Verbo di continuare a incarnarsi, cioè di farsi progressivamente carne in noi, quella carne che offriamo come «atto sacro», sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come dice Paolo in Rm 12,1.

“verso un noi sempre più grande” – il titolo della giornata del migrante

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA 107ma GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO 2021

[26 settembre 2021]

“verso un noi sempre più grande”

Cari fratelli e sorelle!

Nella Lettera Enciclica Fratelli tutti ho espresso una preoccupazione e un desiderio, che ancora occupano un posto importante nel mio cuore: «Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”» (n. 35).
Per questo ho pensato di dedicare il messaggio per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato a questo tema: “Verso un noi sempre più grande”, volendo così indicare un chiaro orizzonte per il nostro comune cammino in questo mondo.
La storia del “noi”
Questo orizzonte è presente nello stesso progetto creativo di Dio: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”» (Gen 1,27-28). Dio ci ha creati maschio e femmina, esseri diversi e complementari per formare insieme un noi destinato a diventare sempre più grande con il moltiplicarsi delle generazioni. Dio ci ha creati a sua immagine, a immagine del suo Essere Uno e Trino, comunione nella diversità.
E quando, a causa della sua disobbedienza, l’essere umano si è allontanato da Dio, Questi, nella sua misericordia, ha voluto offrire un cammino di riconciliazione non a singoli individui, ma a un popolo, a un noi destinato ad includere tutta la famiglia umana, tutti i popoli: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3).
La storia della salvezza vede dunque un noi all’inizio e un noi alla fine, e al centro il mistero di Cristo, morto e risorto «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Il tempo presente, però, ci mostra che il noi voluto da Dio è rotto e frammentato, ferito e sfigurato. E questo si verifica specialmente nei momenti di maggiore crisi, come ora per la pandemia. I nazionalismi chiusi e aggressivi (cfr Fratelli tutti, 11) e l’individualismo radicale (cfr ibid., 105) sgretolano o dividono il noi, tanto nel mondo quanto all’interno della Chiesa. E il prezzo più alto lo pagano coloro che più facilmente possono diventare gli altri: gli stranieri, i migranti, gli emarginati, che abitano le periferie esistenziali.
In realtà, siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità. Per questo colgo l’occasione di questa Giornata per lanciare un duplice appello a camminare insieme verso a un noi sempre più grande, rivolgendomi anzitutto ai fedeli cattolici e poi a tutti gli uomini e le donne del mondo.
Una Chiesa sempre più cattolica
Per i membri della Chiesa Cattolica tale appello si traduce in un impegno ad essere sempre più fedeli al loro essere cattolici, realizzando quanto San Paolo raccomandava alla comunità di Efeso: «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,4-5).
Infatti la cattolicità della Chiesa, la sua universalità è una realtà che chiede di essere accolta e vissuta in ogni epoca, secondo la volontà e la grazia del Signore che ci ha promesso di essere con noi sempre, fino alla fine dei tempi (cfr Mt 28,20). Il suo Spirito ci rende capaci di abbracciare tutti per fare comunione nella diversità, armonizzando le differenze senza mai imporre una uniformità che spersonalizza. Nell’incontro con la diversità degli stranieri, dei migranti, dei rifugiati, e nel dialogo interculturale che ne può scaturire ci è data l’opportunità di crescere come Chiesa, di arricchirci mutuamente. In effetti, dovunque si trovi, ogni battezzato è a pieno diritto membro della comunità ecclesiale locale, membro dell’unica Chiesa, abitante nell’unica casa, componente dell’unica famiglia.
I fedeli cattolici sono chiamati a impegnarsi, ciascuno a partire dalla comunità in cui vive, affinché la Chiesa diventi sempre più inclusiva, dando seguito alla missione affidata da Gesù Cristo agli Apostoli: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8).
Oggi la Chiesa è chiamata a uscire per le strade delle periferie esistenziali per curare chi è ferito e cercare chi è smarrito, senza pregiudizi o paure, senza proselitismo, ma pronta ad allargare la sua tenda per accogliere tutti. Tra gli abitanti delle periferie troveremo tanti migranti e rifugiati, sfollati e vittime di tratta, ai quali il Signore vuole sia manifestato il suo amore e annunciata la sua salvezza. «I flussi migratori contemporanei costituiscono una nuova “frontiera” missionaria, un’occasione privilegiata di annunciare Gesù Cristo e il suo Vangelo senza muoversi dal proprio ambiente, di testimoniare concretamente la fede cristiana nella carità e nel profondo rispetto per altre espressioni religiose. L’incontro con migranti e rifugiati di altre confessioni e religioni è un terreno fecondo per lo sviluppo di un dialogo ecumenico e interreligioso sincero e arricchente» (Discorso ai Direttori Nazionali della Pastorale per i Migranti, 22 settembre 2017).
Un mondo sempre più inclusivo
A tutti gli uomini e le donne del mondo va il mio appello a camminare insieme verso un noi sempre più grande, a ricomporre la famiglia umana, per costruire assieme il nostro futuro di giustizia e di pace, assicurando che nessuno rimanga escluso.
Il futuro delle nostre società è un futuro “a colori”, arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali. Per questo dobbiamo imparare oggi a vivere insieme, in armonia e pace. Mi è particolarmente cara l’immagine, nel giorno del “battesimo” della Chiesa a Pentecoste, della gente di Gerusalemme che ascolta l’annuncio della salvezza subito dopo la discesa dello Spirito Santo: «Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (At 2,9-11).
È l’ideale della nuova Gerusalemme (cfr Is 60; Ap 21,3), dove tutti i popoli si ritrovano uniti, in pace e concordia, celebrando la bontà di Dio e le meraviglie del creato. Ma per raggiungere questo ideale dobbiamo impegnarci tutti per abbattere i muri che ci separano e costruire ponti che favoriscano la cultura dell’incontro, consapevoli dell’intima interconnessione che esiste tra noi. In questa prospettiva, le migrazioni contemporanee ci offrono l’opportunità di superare le nostre paure per lasciarci arricchire dalla diversità del dono di ciascuno. Allora, se lo vogliamo, possiamo trasformare le frontiere in luoghi privilegiati di incontro, dove può fiorire il miracolo di un noi sempre più grande.
A tutti gli uomini e le donne del mondo chiedo di impiegare bene i doni che il Signore ci ha affidato per conservare e rendere ancora più bella la sua creazione. «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”» (Lc 19,12-13). Il Signore ci chiederà conto del nostro operato! Ma perché alla nostra Casa comune sia assicurata la giusta cura, dobbiamo costituirci in un noi sempre più grande, sempre più corresponsabile, nella forte convinzione che ogni bene fatto al mondo è fatto alle generazioni presenti e a quelle future. Si tratta di un impegno personale e collettivo, che si fa carico di tutti i fratelli e le sorelle che continueranno a soffrire mentre cerchiamo di realizzare uno sviluppo più sostenibile, equilibrato e inclusivo. Un impegno che non fa distinzione tra autoctoni e stranieri, tra residenti e ospiti, perché si tratta di un tesoro comune, dalla cui cura come pure dai cui benefici nessuno dev’essere escluso.
Il sogno ha inizio
Il profeta Gioele preannunciava il futuro messianico come un tempo di sogni e di visioni ispirati dallo Spirito: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). Siamo chiamati a sognare insieme. Non dobbiamo aver paura di sognare e di farlo insieme come un’unica umanità, come compagni dello stesso viaggio, come figli e figlie di questa stessa terra che è la nostra Casa comune, tutti sorelle e fratelli (cfr Enc. Fratelli tutti, 8).

Preghiera
Padre santo e amato,
il tuo Figlio Gesù ci ha insegnato
che nei Cieli si sprigiona una gioia grande
quando qualcuno che era perduto
viene ritrovato,
quando qualcuno che era escluso, rifiutato o scartato
viene riaccolto nel nostro noi,
che diventa così sempre più grande.
Ti preghiamo di concedere a tutti i discepoli di Gesù
e a tutte le persone di buona volontà
la grazia di compiere la tua volontà nel mondo.
Benedici ogni gesto di accoglienza e di assistenza
che ricolloca chiunque sia in esilio
nel noi della comunità e della Chiesa,
affinché la nostra terra possa diventare,
così come Tu l’hai creata,la Casa comune di tutti i fratelli e le sorelle. Amen.
Roma, San Giovanni in Laterano, 3 maggio 2021, Festa dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo

Francesco

le teologhe italiane di fronte ai femminicidi

coordinamento teologhe italiane

“uomini che uccidono le donne”

Perché ancora si raccontano i femminicidi normalizzando i gesti degli assassini? Perché l’idea che l’esistenza delle donne valga meno di quella dei maschi non è affatto tramontata, e si infila dappertutto. Allora ci sono dei passi seri da fare, ci sono delle responsabilità a cui nessuno può sottrarsi. Chiese e “uomini perbene” inclusi.
 

Se a qualche persona fosse sfuggito il fatto che non solo “altrove”, ma qui – qui da noi, nelle nostre città, nelle nostre case – c’è una tragedia che si consuma quotidianamente, le cronache delle ultime settimane avrebbero dovuto togliere ogni velo dagli occhi: 8 donne uccise in dieci giorni. Se contiamo dall’inizio dell’anno sono 86, di cui 72 uccise in ambito familiare-affettivo; e in 51 casi l’assassino è il partner o l’ex.

Morte non perché si trovavano a passare in mezzo a una sparatoria o a un attentato. Ma perché ciò che i loro assassini hanno voluto sopprimere era il loro essere donne: la parola “femminicidio” – diceva già anni fa Michela Murgia – non indica il sesso della morta; indica il motivo per cui è stata uccisa.

Il punto è questo, ormai dovremmo saperlo, e non è più tollerabile che lo si dimentichi e non lo si assuma in tutta la sua portata.

E invece siamo ancora qui – per fortuna insieme a tante altre – a denunciare il modo in cui questi crimini vengono raccontati sui mass media. I quali sì, lo vedono bene che si tratta di una faccenda tra uomini e donne; ma la normalizzano. Perché lei era “bella e impossibile” o aveva un top nero, lei voleva lasciarlo (poi magari in una riga in mezzo all’articolo si scopre che erano anni che lui la picchiava) e lui soffriva tantissimo, ed è un brav’uomo che salutava sempre (quindi lei l’ha sicuramente esasperato, altrimenti non sarebbe successo) e ha avuto un raptus, e lei non aveva cucinato e usciva troppo, e lui non sopportava che lei avesse un altro… Quindi, per forza che poi succede che la uccide, no?

“Per forza” in che senso?

Eh, no. “Per forza” si dice quando ti sfugge un oggetto dalle mani e la gravità lo fa cadere a terra. Non per un femminicidio, non per lo stupro, non per le forme molteplici di violenza domestica e nelle relazioni intime, non per le infamie perpetrate da gruppi di maschi su Telegram, non per il catcalling (che sarebbe ad esempio quando cammini per strada pensando ai fatti tuoi e dei maschi ti urlano «abbèlla, non sai che ti farei…» e sostengono che è un complimento mentre tu ti disfi di paura, di umiliazione, di rabbia; e loro lo sanno, lo sanno fin troppo bene, altro che complimento).

A meno che… a meno che anche quando un uomo uccide o violenta o molesta sessualmente una donna non si presupponga che c’è una legge forte e insindacabile quanto quella gravitazionale, a cui coloro che raccontano e commentano sia adeguano. La legge per cui il mondo è del maschio, e quello che una donna vive, sente, desidera non conta. La sua vita, la sua dignità, il suo corpo, la sua libertà, il suo consenso non contano, o comunque contano meno. E tutto sommato quello che un uomo fa per riportare una donna “al suo posto” (il posto deciso da lui) va bene. Magari uccidere no – quello si condanna – ma solo perché è un eccesso, non perché sia sbagliato il sistema in sé. È questo che ancora ci arriva – condito spesso da disgustoso voyerismo – dalle tastiere di tante redazioni.

Allora questo “per forza” va continuamente svelato per quello che è: la prova certa che una cultura patriarcale, sessista e violenta abita i nostri mondi privati e pubblici e fa da humus alle manifestazioni estreme che ben conosciamo. Le rende “ovvie” – al pari degli stupri di guerra, che di ovvio non hanno proprio niente. È per questo che l’indignazione dell’opinione pubblica, quando c’è, fatica a tradursi in coscienza collettiva, in azioni condivise, in cambiamenti strutturali.

Da teologhe cristiane diciamo

In sintonia con altre realtà di donne impegnate nell’analisi e decostruzione dell’universo simbolico e pratico che sorregge tale sistema, le teologhe femministe da molto tempo lavorano perché le Chiese prendano coscienza delle proprie complicità – passate e presenti – rispetto a un ordine gerarchico fra i sessi che non è compatibile né con i diritti umani né con il vangelo[1].

Alcune prospettive in particolare ci sembrano oggi irrinunciabili:

  • La violenza contro le donne riguarda le Chiese

Sembra scontato, ma non lo è: nelle Chiese cristiane – seppure con differenze fra le diverse confessioni – la violenza maschile contro le donne non è considerata una priorità, e anzi persistono ampie sacche di negazionismo e minimizzazione (sia in generale che rispetto ai numerosissimi casi che avvengono dentro le Chiese).

Spesso anche nei contesti e nei documenti più sensibili alla qualità delle relazioni – dal livello privato a quello politico – essa è dimenticata o evocata solo con brevi accenni che ne oscurano il carattere pervasivo, strutturale e paradigmatico.

C’è quindi bisogno di un lavoro sistematico e condiviso, che grazie al lavoro di tante studiose anche italiane può avvalersi di numerosi e qualificati strumenti utili per rileggere la tradizione, le teologie, le pratiche pastorali, l’ecclesiologia, l’uso dei testi biblici ecc. Perché il paradigma del dominio e della “voce unica” si infila anche nelle catechesi più moderne, nelle omelie più ispirate, nei convegni più illuminati, nei tiktok e nei blog più frizzanti.

  • Come e a cosa educhiamo?

Sappiamo che in molti modi la cultura occidentale trasmette ai maschi una mentalità di violenza contro le donne addestrandoli al dominio, al controllo, all’“onore”, alla superiorità; e questa stessa cultura tende a insegnare alle donne la sottomissione a questa violenza, ad accettare legami ingiusti, a esporsi a ciò che non le fa vivere e a credere che la sottomissione al desiderio maschile sia una via di realizzazione personale e un mezzo per rendere migliore il mondo.

Siamo quindi di fronte a un’emergenza anzitutto educativa, che richiede un livello di intervento profondo e costante, paziente e inesorabile per lavorare sui modelli culturali, per decostruire stereotipi di genere che annientano la vita, per imparare a essere uomini e donne in modo nuovo, insieme.

Riteniamo fondamentale l’impegno di coloro che – nell’ottica del comma 16 della L. 107/2015, dell’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030 e della Convenzione di Istanbul – si spendono per una pedagogia e una didattica capaci di decostruire quei messaggi e sostenere relazioni educative e paradigmi culturali fondati sulla parità, la dignità, la libertà e l’inclusione.

Crediamo però che anche nei contesti ecclesiali sia necessaria la stessa cura e attenzione nei percorsi educativi e formativi che coinvolgono l’infanzia, le fasce giovanili e le generazioni adulte, famiglie comprese: una generica “attenzione alla persona” non basta a decodificare e mutare la realtà.

  • La questione è maschile

La violenza contro le donne e il sistema che la sostiene non sono una “questione femminile”. Le donne ne fanno le spese, certo; possono adeguarsi; possono anche esserne complici, andando contro sé stesse.

Ma la questione è maschile, e sono gli uomini innanzitutto che devono assumerla, perché riguarda la costruzione della loro maschilità, l’eredità ricevuta, le scelte che si possono e si vogliono fare per uscire dalle gabbie di un’identità che è stata strutturalmente legata al dominio e al controllo sulle donne, all’autorità, all’illusione della non parzialità e dell’invulnerabilità. In questo senso nessun uomo, per quanto “perbene”, può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi.

Lentamente gli uomini cristiani stanno cominciando a seguire l’esempio dei gruppi maschili che da qualche tempo lavorano in questa direzione.

Auspichiamo che i passi di alcuni diventino di molti e di tutti, per avviarsi verso una maschilità che non tradisca, come invece è successo finora, quella paradigmatica di Gesù[2].

Molto del futuro delle Chiese – su cui grava anche la millenaria e distorcente associazione fra maschile e sacro – dipende dall’ampiezza e dalla profondità di questa conversione.

* * * *

[1] Si veda ad es. Elizabeth E. Green, Cristianesimo e violenza contro le donne, Claudiana, Torino 2015; Paola Cavallari (a cura di), Non solo reato, anche peccato. Religioni e violenza contro le donne, Effatà, Cantalupa 2018.

[2] La illustra ampiamente Simona Segoloni RutaGesù, maschile singolare, EDB, Bologna 2020.

le teologhe italiane e la violenza contro le donne

a proposito dei femminicidi

“la violenza contro le donne riguarda le Chiese” e non è “una questione femminile”

foto SIR/Marco Calvarese

“La violenza contro le donne riguarda le Chiese” 

È quanto scrive il Consiglio di presidenza delle teologhe italiane, in un comunicato sulla piaga dei femminicidi. “Nelle Chiese cristiane – la denuncia – la violenza maschile contro le donne non è considerata una priorità, e anzi persistono ampie sacche di negazionismo e minimizzazione (sia in generale che rispetto ai numerosissimi casi che avvengono dentro le Chiese). Di qui la necessità di “un lavoro sistematico e condiviso, che grazie al lavoro di tante studiose anche italiane può avvalersi di numerosi e qualificati strumenti utili per rileggere la tradizione, le teologie, le pratiche pastorali, l’ecclesiologia, l’uso dei testi biblici. Perché il paradigma del dominio e della ‘voce unica’ si infila anche nelle catechesi più moderne, nelle omelie più ispirate, nei convegni più illuminati, nei tiktok e nei blog più frizzanti”. “Siamo di fronte a un’emergenza anzitutto educativa, che richiede un livello di intervento profondo e costante, paziente e inesorabile per lavorare sui modelli culturali, per decostruire stereotipi di genere che annientano la vita, per imparare a essere uomini e donne in modo nuovo, insieme”, la tesi delle teologhe, che auspicano “una pedagogia e una didattica capaci di decostruire quei messaggi e sostenere relazioni educative e paradigmi culturali fondati sulla parità, la dignità, la libertà e l’inclusione”, anche nei contesti ecclesiali. La violenza contro le donne e il sistema che la sostiene non sono una “questione femminile”, il monito del documento: “Le donne ne fanno le spese, certo; possono adeguarsi; possono anche esserne complici, andando contro sé stesse. Ma la questione è maschile, e sono gli uomini innanzitutto che devono assumerla, perché riguarda la costruzione della loro maschilità, l’eredità ricevuta, le scelte che si possono e si vogliono fare per uscire dalle gabbie di un’identità che è stata strutturalmente legata al dominio e al controllo sulle donne, all’autorità, all’illusione della non parzialità e dell’invulnerabilità. In questo senso nessun uomo, per quanto ‘perbene’, può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi”.

‘oltre il campo’ per i rom ei sinti? un convegno della ‘migrantes’

Rom e Sinti

percorsi di inclusione, per andare “oltre il campo”

il convegno organizzato da Fondazione Migrantes e Associazione 21 luglio, con la diocesi di Roma

il vescovo Ambarus: «È fondamentale la comunità»

la testimonianza di Hanifa e Marijo. Loukarelis (Unar): «Non si può lasciare nessuno indietro. Ne va della qualità della democrazia»

Passare da un campo rom a un appartamento è possibile. Desiderare un futuro diverso per i propri figli, permettere loro di vivere in modo decoroso in un luogo dove ci sono l’acqua e la corrente elettrica non è un’utopia. Sognare di avere un lavoro non è un’illusione. Lo hanno testimoniato Hanifa e Marijo che ieri sera, 13 settembre, hanno preso la parola durante il convegno “Oltre il campo. Superare i campi rom in Italia: dalle sperimentazioni di ieri alle certezze di oggi”, organizzato da Fondazione Migrantes e Associazione 21 luglio in collaborazione con la diocesi di Roma. Un incontro che non ha messo in luce la vita nei campi «in maniera pietistica ma ha mantenuto lo sguardo sulla dignità delle persone, che va salvaguardata aiutando i rom a non sentirsi schiacciati», ha affermato il vescovo Benoni Ambarus, ausiliare della diocesi di Roma che ha anche la delega alla pastorale dei Rom e Sinti.

Marijo si trasferì con la famiglia in un insediamento abusivo a Tor di Valle quando aveva 4 anni. Hanifa ha abitato in un campo per dieci anni. «Vivere in un campo rom è un disastro – ha detto -. Non hai pace ma solo immondizia ovunque». Entrambi da poco più di un anno si sono trasferiti in appartamenti con le rispettive famiglie. Hanifa sogna di lavorare per i diritti umani, Marijo di aprire un salone di parrucchiere per garantire un futuro ai figli e ad altri rom. Vive a Torre Gaia dove è stato «accolto bene», i figli vanno a scuola e hanno fatto nuove amicizie. Sul concetto di accoglienza si è soffermato monsignor Ambarus che tirando le fila del convegno ha spiegato che «non basta una casa, non c’è bisogno di un approccio puramente economico che porta a chiudere un campo perché si spende meno e il criterio non deve essere solo la sicurezza. È fondamentale la comunità, termine abusato ma che si fatica a vivere. Comunità significa essere consapevoli che tutti sono esseri umani». A tal proposito ha ricordato che come diocesi di Roma l’auspicio è quello di «vivere il superamento di campi rom facilitando la creazione di legami di comunità tra parrocchie, associazionismo, istituzioni e tutte le realtà di un determinato territorio. Una sfida che non si può declinare solo a parole».

Anche don Giovanni De Robertis, direttore generale della Fondazione Migrantes, ha rimarcato che come Chiesa si deve rivendicare «la difesa della dignità di ogni essere umano in un momento in cui purtroppo alcuni, con sfrontatezza, ritengono che ci siano essere umani di serie A ed esseri umani che sono inferiori. Persone a cui spetta tutto, anche il superfluo, e altre per cui non c’è neanche l’indispensabile. La casa non è qualcosa di superfluo ma di essenziale».

Durante il convegno è stata illustrata una ricerca dell’Associazione 21 luglio pubblicata da Fondazione Migrantes che traccia un’analisi comparativa degli interventi messi in atto in dieci città italiane, con esempi virtuosi di comuni come Moncalieri, Palermo e Sesto Fiorentino, dove i campi rom sono stati chiusi favorendo percorsi di inclusione. La ricerca, per Triantafillos Loukarelis, direttore dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) presso la presidenza del Consiglio dei ministri, «indica una possibilità e un nuovo trend da parte delle amministrazioni locali, che hanno compreso finalmente che non si può lasciare nessuno indietro perché ne va della qualità della democrazia. È la dimostrazione che l’esclusione delle persone non ha nessun senso logico se non quella di una visione distorta della società».

Illustrando le linee guida per superare i campi rom e costruire percorsi di inclusione, che a Roma riguardano 400 persone, Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, ha spiegato che tra le azioni da compiere una volta individuati gli interventi e definite le risorse è imperativo che si prendano in carico tutte le famiglie dell’insediamento. «Non si tratta di una sola questione etica – ha detto – è anche e soprattutto un parametro di efficacia. È fondamentale prevedere interventi di inclusione condivisi e negoziati con ogni singola famiglia».

nata dietro le sbarre in una cella del carcere, una piccola rom

la piccola rom nata in carcere per colpa di una email

di Gad Lerner
in “il Fatto Quotidiano” del 14 febbraio 2021

Non ha trovato che minimo spazio una notizia che, in un Paese civile, avrebbe dovuto finire in prima pagina. La notte dello scorso 3 settembre nel carcere di Rebibbia, cioè nella Capitale d’Italia, una bambina è venuta al mondo dietro le sbarre di una cella. Non dico in infermeria. Proprio in cella l’ha partorita sua madre Amra, una rom di 23 anni arrestata per furto a fine luglio scorso. L’unica assistenza le è giunta dalla compagna di detenzione Marinela, a sua volta incinta al quinto mese, che poi ha avvolto la neonata in un asciugamano e, gridando, è finalmente riuscita a richiamare  l’attenzione delle guardie. Questo infame luogo di nascita la bimba non se lo troverà inscritto sulla carta d’identità, ma rimane il marchio di un destino segnato: nata in galera, perché nessuno ha risposto a una email della Garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, che il 17 agosto chiedeva di trasferire la donna nell’apposita casa famiglia protetta, di cui forniva nome, indirizzo e disponibilità. Mi piacerebbe poter sperare che almeno uno dei quattro candidati sindaci di Roma voglia assumersi l’impegno di un risarcimento, affinché la vita futura di questa creatura, e della sua giovane madre che ha già altri tre figli, non si riduca a un entra/esci dalla prigione ma – pur con tutte le difficoltà del caso – segua un percorso di reinserimento sociale. Trattandosi di rom, temo che sia un’illusione.
Viene riversata su queste donne l’accusa di farsi mettere incinte apposta per poter continuare a delinquere, il che giustificherebbe la loro detenzione. In realtà si tratta di pochissimi casi. Del resto,  fino a cinquant’anni fa, in Svizzera ne era contemplata la sterilizzazione forzata. Quelli del“rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave” devono mettere per forza nel conto anche i bambini in carcere. Magari fin dal primo respiro

 

nascere in carcere nel 2021, in Italia

di Giusi Fasano
in “Corriere della Sera” del 13 settembre 2021

«Dove sei nata?», le chiederanno chissà quante volte nella vita. «In carcere», risponderà lei. È venuta al mondo l’altra notte, nella casa circondariale di Rebibbia. Non sappiamo come si chiami ma certo sappiamo quale nome sarebbe di buon augurio, date le circostanze. Libera sarebbe il suo nome perfetto. Sua madre ha più guai che anni e lei, che è la quarta figlia, avrebbe dovuto proteggerla dall’arresto perché lo sanno tutti (o quasi) che una donna incinta non dovrebbe finire in cella. Invece no. La legge stavolta ha scelto la «misura di maggior rigore», come ha scritto la giudice che ha deciso di tenerla in cella temendo che la detenuta potesse tornare a «commettere fatti analoghi», cioè furti. Italiana di origini bosniache, 23 anni, senza lavoro, residente in un campo rom e con il compagno disoccupato, la mamma di Libera non aveva credibilità da offrire in pegno al sistema Giustizia italiano. Ma aveva il pancione, quello sì. E davanti a quella condizione sarebbe                     
toccato al sistema Giustizia garantirle un modo migliore per mettere al mondo la piccola. Dopo le prime contrazioni l’ha aiutata la sua compagna di cella, sono intervenuti medico e infermiera ma non c’è stato il tempo di portarla in ospedale. E sì che il suo legale aveva insistito per la revoca della carcerazione, la ragazza era stata anche ricoverata al Pertini di Roma per una minaccia di aborto pochi giorni prima di partorire. Ma niente: era rientrata in cella. La garante dei detenuti di Roma aveva scritto al tribunale proponendo di trasferirla in una casa rifugio per detenute con figli piccoli. Zero risposte. Così nascere in carcere, per Libera, è diventato di fatto un «danno collaterale» del curriculum penale di sua madre. Stanno bene, mamma e bimba, ma la storia in sé fa una tristezza infinita, come fanno tristezza i 25 bambini da zero a sei anni attualmente «detenuti» assieme alle loro madri nelle carceri italiane o negli Icam, gli istituti di custodia attenuata. Piccoli prigionieri degli errori degli adulti. Qualunque sia il crimine commesso dalle loro madri, i bambini dietro le sbarre sono una sconfitta per tutti. E sarebbe meraviglioso se con l’eco della sua storia la nostra piccola Libera facesse così tanto rumore da farli uscire tutti. Allora sì, nascere in carcere sarebbe almeno servito a qualcosa.

il bellissimo libro di C. Molari – ripensare il cristianesimo nell’attuale paradigma evolutivo

Il cammino spirituale secondo Molari. Rileggere il cristianesimo «nel nuovo orizzonte planetario»

il cammino spirituale secondo Molari

rileggere il cristianesimo «nel nuovo orizzonte planetario»

Chi avverte la necessità di una nuova immagine di Dio, de-antropomorfizzata, de-patriarcalizzata e maggiormente in linea con le acquisizioni scientifiche, pur senza voler rinunciare al suo carattere trascendente, provvidente e personale – senza cioè varcare la soglia del post-teismo al centro dei quattro volumi della serie “Oltre le religioni” – potrà trovare spunti di grande rilevanza nel libro del teologo Carlo Molari, pubblicato anche questo dalla Gabrielli editori, dal titolo Il cammino spirituale del cristiano. La sequela di Cristo nel nuovo orizzonte planetario(pp. 560, 28 euro, info@gabriellieditori.it).

Un libro, come spiega nell’introduzione il curatore del volume Francesco Nicastro, prevalentemente tratto dalle centinaia di pagine trascritte, e riviste dall’autore, dalle registrazioni dei corsi da lui tenuti a Camaldoli nel periodo 2012-2019, ogni anno su un tema specifico, e dedicato ai temi centrali del pensiero del teologo: le dinamiche della vita spirituale e di fede con le relative motivazioni di carattere concettuale e teorico. Ma anche un testo essenzialmente pratico sul come vivere la vita spirituale e giungere a quella pienezza a cui l’essere umano non può fare a meno di aspirare, con tanto di indicazioni sul lavoro interiore da svolgere a livello personale per aprirsi ai doni di amore, di giustizia, di condivisione, di solidarietà che l’azione di Dio fa fiorire nella storia. È un pensiero, quello di Molari, che si pone all’interno della prospettiva evolutiva abbracciata già dal gesuita antropologo Pierre Teilhard de Chardin, attingendo abbondantemente ai dati offerti dalle nuove scienze: dagli studi sul cervello a quelli sul tempo, dalla fisica del cosmo alla fisiologia, dall’antropologia agli studi storico-linguistici. Come spiega Nicastro, per Molari la vita e l’intero creato sono sospinti dall’evoluzione verso livelli sempre maggiori di complessità e di perfezione, la quale si colloca così non agli inizi della creazione ma alla fine di un percorso che, per l’essere umano, «chiama in causa preminentemente la dimensione spirituale». 

In questo processo, in cui il male è ineliminabile perché ricondotto alla natura di per sé limitata e incompiuta del creato – «quattordici miliardi di anni sono stati appena sufficienti per far emergere la libertà e la consapevolezza nell’essere umano» – l’azione di Dio si manifesta «secondo il concetto della creazione continua», già presente in Tommaso: non «un’attività che aggiunge qualcosa alla realtà che è in processo», precisa Molari, ma un’azione che «alimenta, sostiene, offre possibilità»: «non sostituisce mai le creature, non aggiunge qualcosa alle creature, ma fa fiorire dal di dentro».

E se non ci è dato conoscerla, in quanto posta fuori dal tempo e dallo spazio, e dunque inaccessibile alle nostre categorie mentali, possiamo però farne esperienza attraverso l’apertura al «dono di vita che continuamente ci viene offerto, ci alimenta e ci apre, nonostante limiti, difficoltà, sofferenze e fallimenti, a sempre nuove qualità di amore e di conoscenza», come ci ha insegnato Gesù nella sua esistenza storica, accogliendo e manifestando l’azione creatrice e misericordiosa di Dio nel tempo e diventando così paradigma di umanità piena e pienamente compiuta.

Qui, per gentile concessione della casa editrice, alcuni stralci tratti dalla seconda parte del libro, dedicata ai «nuovi orizzonti interpretativi»

 

Una forza creatrice che offre possibilità

una forza creatrice che offre possibilità

 da: Adista Documenti n° 31 del 11/09/2021

L’AZIONE DI DIO

(…). L’assunzione della prospettiva evolutiva comporta una conseguenza ben chiara nel modo di concepire l’azione creatrice di Dio. Io cito spesso Teilhard di Chardin, gesuita antropologo, perché già dagli anni ‘20 del secolo scorso, riferendosi al problema del male, precisava con insistenza la necessità di modificare e semplificare il modo di concepire l’azione creatrice, cioè l’attività di Dio in noi, nel senso che l’azione di Dio è una forza creatrice che continua a operare e alimenta il processo evolutivo, ma non si sostituisce mai alle creature.

È così che dobbiamo abituarci a pensare alla presenza di Dio e alla sua azione nella nostra vita; non perché questa sia una formulazione assoluta e definitiva, ma per superare quel dualismo che abbiamo visto essere conseguenza della prospettiva statica con la quale si guardava alla creazione e a tutta la realtà nella quale siamo immersi. Nel considerare l’azione di Dio dobbiamo dunque evitare di concepirla come un’attività che aggiunge qualcosa alla realtà che è in processo: l’azione di Dio non aggiunge ma alimenta, sostiene, offre possibilità, non sostituisce mai le creature, non aggiunge qualcosa alle creature, ma fa fiorire dal di dentro; proprio per questo è azione creatrice.

Creazione continua: «dal grembo stesso delle cose»

Questa prospettiva è presentata in modo veramente esemplare da papa Francesco in un preciso passaggio dell’enciclica Laudato si’ del 24 maggio 2015 in cui dice: «[Dio] ha voluto limitare se stesso – questa è una formula un po’ discutibile – creando un mondo bisognoso di sviluppo, dove molte cose che noi consideriamo mali, pericoli o fonti di sofferenza fanno parte in realtà dei dolori del parto, che ci stimolano a collaborare con il Creatore. Egli è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura, e anche questo dà luogo alla legittima autonomia delle realtà terrene. Questa presenza divina, che assicura la permanenza e lo sviluppo di ogni essere, “è la continuazione dell’azione creatrice”. Lo Spirito di Dio ha riempito l’universo con le potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo».

Voglio sottolineare due passaggi di questo testo di papa Francesco. «Egli è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura». «Questa presenza divina, che assicura la permanenza e lo sviluppo di ogni essere, “è la continuazione dell’azione creatrice”». Quest’ultima citazione del papa è tratta da S. Tommaso d’Aquino e indica proprio l’operare di Dio che chiamiamo azione creatrice e che, nell’orizzonte evolutivo, ha acquistato un significato molto più chiaro rispetto al passato, perché è così che l’umanità è evoluta nella specie di vita più complessa che noi conosciamo sulla Terra. Davvero un cambiamento di prospettiva profondo avvenuto in pochi secoli, questo dell’orizzonte evolutivo, uno sviluppo che incide profondamente sulla nostra modalità di vivere il rapporto con Dio. (…). Dal grembo stesso delle cose germoglia una novità. Questo è il modello della creazione continua che S. Tommaso d’Aquino aveva affermato, e a cui già S. Agostino aveva fatto cenno, perché è un modo molto coerente di pensare alla forza creatrice che offre possibilità facendo fiorire la perfezione. (…). Il modello della creazione continua è, dunque, un modello di per sé antico che in questa prospettiva acquista un’importanza notevole. Si tratta, infatti, di concetti che oggi riusciamo a capire meglio di quando S. Agostino e S. Tommaso scrivevano, dato che ora comprendiamo bene il senso delle strutture accoglienti che richiedono tempo per essere in grado di accogliere la perfezione e di farla fiorire.

Di qui la necessità della evoluzione, perché la creatura deve diventare il principio, essa stessa, della perfezione, per cui deve sviluppare le strutture accoglienti corrispondenti alla perfezione nuova. In questo senso possiamo dire che la creazione non è ancora finita, perché quasi quattordici miliardi di anni, l’età del nostro universo, non sono stati sufficienti a far sì che tutta la ricchezza contenuta nella perfezione divina e offerta all’umanità giungesse a pienezza nelle creature. Quattordici miliardi di anni sono stati appena sufficienti per far emergere la libertà e la consapevolezza nell’uomo. O in chi, nell’universo, esiste in forma libera e consapevole, almeno secondo le modalità che conosciamo qui sulla Terra. Come ho già accennato, io credo che sia molto plausibile che in altre parti dell’universo ci siano persone intelligenti e libere; anzi, credo che questo sia probabilissimo, se non sicuro, perché è impensabile che la forza creatrice si esprima in questo modo solo nel piccolo frammento dell’universo che è la nostra Terra, ai margini di una galassia che non è neppure particolarmente grande fra quelle esistenti. Certamente la forza creatrice, che è in azione, ha suscitato anche altrove forme di vita intelligente. Indipendentemente da queste considerazioni, è importante che ci rendiamo conto che la creazione non è ancora finita e sta continuando il suo processo, per cui possiamo attendere delle qualità umane nuove e anche forme nuove di fraternità, di giustizia, di organizzazione sociale, perché a queste corrispondono delle qualità spirituali che ancora non sono sorte ma che stanno sviluppandosi.

(…) Dio non fa il progetto, Dio offre alle cose di farsi il progetto, offre potenzialità, per cui le cose stesse si muovono verso un determinato fine. Certo il fine è indotto (vedremo il significato della “causa finale” che orienta verso un determinato fine) ma sono le cose stesse che si muovono verso questo fine. Il concetto di creazione è chiarito molto bene da questa definizione: non è come il fare le cose, ma come l’offrire alle cose di farsi. Ovvero, per riprendere il testo del papa, non è che Dio fa germogliare, ma è dal grembo delle cose che germoglia qualcosa di nuovo proprio in virtù di questa forza che alimenta, di questa energia che sostiene, di questo amore che avvolge, diciamo in termini cristiani. Così si è affinato il concetto di creazione, come l’offrire alle cose di farsi: questa è la potenza creatrice, non il fare le cose, ma l’offrire loro di diventare. (…).

Alcuni anni fa ci furono risonanze sulla stampa di un intervento di Stephen Hawking, lo scienziato che ha studiato i buchi neri, il quale diceva, appunto, che non è necessario alcun intervento divino, perché gli scienziati, come tali, possono individuare sempre tutti i meccanismi attraverso i quali gli eventi accadono, anche gli eventi iniziali. Perché c’è un meccanismo e un principio interno agli eventi per cui è sempre possibile individuare una causa. Anzi è necessario, e gli scienziati devono farlo. Questo è importante per noi credenti perché se anche la scienza arrivasse a dimostrare che l’energia è sempre esistita (teoria dei multiversi opposta all’universo), questo non sarebbe incompatibile con il concetto del Dio creatore, dato che resterebbe la dipendenza totale del creato da una forza superiore. La scienza può sviscerare tutti i segreti della creazione senza mai incontrare Dio, perché si muove solamente nell’ambito delle creature e del tempo; e così può arrivare a individuare le leggi del big bang perché sono sempre leggi interne al creato e, dunque, al tempo. (…).

La creazione come dipendenza, non come inizio nel tempo

Da quanto detto risulta come, a differenza del pensiero tradizionale che poneva la creazione all’inizio del tempo per un’azione di Dio e faceva di questo atto di Dio l’elemento costitutivo stesso della creazione, già nella riflessione teologica del medioevo S. Tommaso d’Aquino sosteneva che, di per sé, l’inizio non faceva parte della creazione, nel senso che sarebbe stata possibile anche una creazione che non avesse avuto un inizio. Si può dunque pensare, sosteneva S. Tommaso, che non sia l’inizio che determina la condizione creata, bensì la dipendenza delle cose create dal creatore. (…).

Nella prospettiva secondo cui non è l’inizio che è significativo ma la dipendenza, viene meno la rilevanza della considerazione temporale ai fini della creazione: infatti se è il nostro dipendere, la nostra dipendenza totale – e noi dipendiamo totalmente da Dio, dice S. Tommaso – che ci fa creature, allora questa condizione può darsi da sempre, anche in tutto il tempo e per tutto il tempo. Dal punto di vista logico, dunque, se non è l’origine la condizione che ci fa creature, ma la dipendenza, non è contraddittorio pensare una creatura che è sì da sempre, ma da sempre è creatura nel senso che da sempre dipende.

(…) Per tradurre questa condizione di dipendenza, questo esistere come dipendere totalmente, possiamo dire che l’azione creatrice avvolge le creature totalmente da sempre. Questo è un punto importante su cui riflettere: il nostro affidarci all’azione creatrice di Dio è legato all’esperienza della dipendenza, non all’origine; quando diciamo che dipendiamo, vuol dire che c’è un Principio, il principio che ci costituisce, la fonte della nostra vita. (…). Possiamo così concludere che l’esperienza che sta al fondo del nostro sentirci creature non è l’esperienza di aver vissuto un inizio, di questo non ricordiamo e non sappiamo neppure nulla, ma il cogliere la nostra totale dipendenza da forze più grandi di noi. Questo a tutti i livelli, fisico, biologico, psichico e spirituale, per chi ha esperienze spirituali: noi dipendiamo totalmente. E più la vita cresce e si sviluppa, e più la perfezione cresce, più la nostra dipendenza diventa profonda e coinvolgente. (…).

Questo ha un riflesso molto profondo nella nostra esperienza spirituale, quindi nel vivere il rapporto col Principio. Per Dio non ci sono interventi-eventi, Egli agisce su di noi come una forza che continua sempre, non può mai venire meno, c’è tutto da sempre, assieme al tempo che ha un inizio per l’uomo, ma non per Dio. (…). Il senso di dipendenza dal divino è (…) universale, di ogni tempo, religione e cultura. Per noi si tratta di purificare questa consapevolezza della dipendenza dalla forza creatrice non mettendola in relazione solamente all’atto creativo dell’inizio, ma vedendola come una dipendenza strutturale, continua. Questo perché noi non siamo ancora viventi, siamo un tentativo di vita che la Vita fa. La Vita vuole renderci viventi, ma per ora siamo come feti che dipendono dalla madre. Questa consapevolezza è essenziale per la vita spirituale, altrimenti non viviamo in modo autentico, che è quello di essere consapevoli della nostra condizione di creature, di dipendenza totale nel nostro operare e nel nostro esistere.

Due modelli: intervento divino o azione di creature

(…). Questo è il passaggio importante da chiarire bene: noi non chiediamo a Dio che faccia qualcosa al nostro posto. Certo, la fonte originale di tutto è sempre l’azione di Dio, ma Dio non fa nulla in più di quello che facciamo noi, e noi lo facciamo perché ci apriamo alla sua azione, accogliamo quella forza di vita che viene da lui; ma siamo noi che dobbiamo operare. È un concetto molto semplice, di per sé, ma si tratta di un modo di concepire l’azione di Dio che ha conseguenze notevoli, per cui richiede che purifichiamo l’idea che abbiamo dell’azione di Dio sulle creature. (…).

Creazione non vuol dire che Dio ha fatto le cose, ma che ha offerto alle cose di farsi per cui la realtà è diventata; il che è molto diverso: la realtà non è stata fatta, la realtà è stata alimentata al punto di farsi. È la realtà che realmente diventa, procede nel divenire e si sviluppa nel tempo. Dobbiamo capire bene la differenza: questa è l’azione con cui Dio crea e, in questa prospettiva, non c’è nessun momento in cui si coglie, di per sé, l’azione creatrice di Dio distinta dal divenire delle creature, perché l’azione creatrice è il divenire delle creature. (…).

Possiamo sintetizzare come segue le modalità con cui è stata concepita l’azione creatrice da parte di Dio.

I. Il modello della creazione iniziale attribuisce a Dio ab initio l’atto creatore con cui affida un’energia alla creazione e si riserva di controllare, intervenire e guidarne lo sviluppo nel corso della storia e del suo compimento. (…). Questa è stata la visione iniziale che alcuni presentano in modo ancora più radicale. Fra gli ebrei del 1500 è sorta la teoria dello tzimtzum che si diffuse nell’ambito della Cabala ebraica nel 1600-1700 e che alcuni hanno ripreso anche ai nostri tempi (…) per spiegare il male esistente nella creazione. Questo modello partiva da una concezione di Dio che prima occupava tutto lo spazio del cosmo e che all’inizio, all’origine della creazione, per dare lo spazio alle creature si è ritirato da un ambito e ha lasciato un vuoto in cui immetterle. “Si ritirava”, questo vuol dire tzimtzum, ritrarsi e lasciare lo spazio perché le creature possano esistere. (…).

Nella prospettiva cristiana che è stata ancora conservata nel Catechismo della Chiesa Cattolica c’è, in più, l’intervento diretto di Dio nella storia della creazione. Io credo che questo sia ancora un residuo delle visioni precedenti, per cui il modello evolutivo non è stato assunto completamente; lo si è assunto, cioè, con delle riserve per cui si continuano ad attribuire a Dio interventi in determinati passaggi del processo evolutivo.

II. Nella visione evolutiva non c’è nessun intervento di Dio; l’azione creatrice continuamente alimenta, offre possibilità alle creature – questo è il senso dell’azione creatrice – ma non si sostituisce mai alle creature. Anche i miracoli, in questa prospettiva, sono le creature che li compiono; sono sempre le creature, in virtù del loro rapporto con Dio, dell’apertura, della preghiera, della connessione profonda fra di noi, che operano anche i miracoli: sono eventi straordinari che richiedono una particolare intensità nell’accoglienza dell’azione di Dio, e quindi anche nella preghiera.

Si vede quindi bene la differenza tra i modelli. Il modello dell’azione creatrice tutta posta all’inizio, per cui Dio dà l’impulso riservandosi particolari interventi in determinate occasioni, con l’impulso affidato alle creature e il riserbo dello tzimtzum, il ripiegamento di Dio, per spiegare la libertà d’azione delle crea ture e il male nella creazione. Il modello evolutivo nel quale tutto questo non trova posto, né l’azione creatrice di Dio che interviene, né lo tzimtzum, il suo ritirarsi: la forza creatrice è continuamente all’opera e offre possibilità, ma non determina mai le creature. È necessario riflettere bene su come interpretare l’azione di Dio, perché c’è il rischio di cadere in una interpretazione di tipo magico o interventista, come se Dio fosse là a guardare e a dire “qui devo fare qualcosa in più, lì devo operare”. È un modo molto infantile di pensare all’azione di Dio, a questo Dabàr, a questa forza di vita che sta al fondo e che possiamo verificare proprio perché, abbandonandoci con fiducia, scopriamo di poter pervenire a forme nuove, a capacità nuove di amore, di misericordia, di perdono e così via. (…).

Occorre allora avere un modello ben chiaro dell’azione di Dio: Dio è sempre e solo creatore. In questo senso Dio non fa le cose ma offre alle cose di divenire; oppure, secondo la formula di Teilhard de Chardin, Dio non fa le cose ma fa sì che le cose si facciano. Ne consegue ciò che, per noi, implica il lavoro spirituale: aprirci all’azione di Dio ma decidere noi, operare noi, perché è a questo che il Signore ci chiama. (…).

Sovrabbondanza dell’offerta, libertà, casualità e chiamata dal nulla delle cose

Per questo c’è anche il caso: anche la casualità fa parte dell’azione di Dio la quale, in realtà, ci offre contemporaneamente molte possibilità. Per cui non dobbiamo pensare che Dio ci imponga qualcosa o ci faccia diventare quello che vuole Lui: Dio ci offre molte possibilità per diventare quello che possiamo essere. In questo senso parlare di un “disegno di Dio” su ciascuno di noi in un senso rigido, determinato, non è esatto e si presta ad ambiguità, a equivoci forti, come se noi dovessimo seguire solo una strada che ci è imposta. No. Dio ci offre molte possibilità, possiamo diventare tante cose: sempre immagini di Dio, sempre figli suoi, ma con modalità molto diverse. (…).

La possibilità, dunque, è sempre data, per quanto sempre attraverso il limite e le imperfezioni delle creature; limiti e imperfezioni che fanno sì che nel creato ci siano processi casuali e processi che falliscono nel diventare. Il cammino verso il compimento della creazione non è un processo deterministico: contiene delle componenti casuali, eventi che accadono e che ostacolano il processo stesso. Il caso non è sempre favorevole, ci sono sviluppi che bloccano il divenire e c’è involuzione proprio perché le creature sono imperfette e non compiute. (…)

Questo è il modo di interpretare l’azione di Dio nella storia: Dio offre possibilità, non le impone; è creatore, non ci sostituisce mai. (…). Dio non può sostituire mai le creature, ma offre loro le possibilità per giungere al traguardo definitivo. Anche il miracolo: sono sempre creature che lo fanno; certo perché si aprono all’azione di Dio in modo più profondo, ma sono sempre le creature che operano il miracolo. (…).

Creazione e creazionismo, l’intelligent design

A completamento di questa riflessione voglio evidenziare l’infondatezza delle polemiche tra scienza e fede che sono sorte, negli ultimi decenni del secolo scorso, sul modello dell’azione di Dio. Infatti, se polemiche di questo tipo in altri ambiti sono giustificate, non hanno senso in ordine alla creazione e all’evoluzione. Coerentemente a questo modo di pensare che si colloca nella prospettiva evolutiva (…), tutto ciò che accade nella natura e nella storia umana, tutto, ha una causa intrinseca: tutti gli eventi, anche quelli di cui gli scienziati non sanno ancora spiegare le dinamiche e le ragioni, hanno sempre un principio interno. Non bisogna mai ricorrere a Dio per spiegare un’emergenza di qualità nuove di vita, di forme nuove, di perfezione nuova. Cose che, invece, molti teologi del passato, e alcuni anche oggi, spiegano attraverso interventi divini, come se Dio aggiungesse qualcosa al processo della creazione: così il sorgere della vita e così l’origine dell’uomo. Ma se accettiamo realmente questo concetto di creazione nel senso più radicale, noi non dobbiamo supporre nessun intervento perché la forza creatrice è sempre presente e non deve aggiungere nulla; è la creatura che evolvendo rende possibile l’emergere di una perfezione nuova, di una qualità nuova che era già contenuta nella forza creatrice, ma che per emergere richiedeva del tempo (…).

I sostenitori del “progetto intelligente”, intelligent design (…), ammettono, almeno in parte, il processo evolutivo, ma sostengono che questo avviene seguendo un progetto ben determinato. Fra questi ci sono diversi credenti, anche cattolici, fra cui il cardinale di Vienna Schönborn, che nel 2007 scrisse un articolo sul New York Times per difendere questa posizione, suscitando la reazione di molti scienziati, anche di parte cattolica, che invece negano questa necessità. (…).

Il miracolo: «la tua fede ti ha guarito»

In questa prospettiva, nemmeno il miracolo è un’aggiunta che Dio fa all’azione delle creature: sono sempre le creature che operano il miracolo quando vivono la fede al punto da realizzare qualcosa di straordinario, quegli eventi fuori dall’ordinario che possono accadere. (…). In questo senso si capisce anche perché Gesù stesso, quando guariva, diceva sempre: la tua fede ti ha salvato e non “Dio ti ha guarito”. (…).

La preghiera è proprio l’espressione di questa accoglienza della forza della vita per poterla esprimere a beneficio degli altri e nostro: noi diventiamo realmente per il dinamismo della creazione che investe le creature che si aprono alla forza creatrice con atteggiamento di fede, con atteggiamento di accoglienza più profonda. (…).

La vita così come si è espressa sulla Terra – in altri luoghi, nel futuro, altre cose potranno essere scoperte a questo proposito – ha conosciuto uno sviluppo lentissimo delle qualità vitali: prima che sorgesse il pensiero, la consapevolezza, ci sono voluti, appunto, miliardi di anni, e la ricchezza della vita è tale che non possiamo escludere possibilità nuove che oggi ci sembrano impossibili. (…).

Se crediamo in Dio questo è pacifico: la vita è molto più grande delle forme limitate che ha assunto sulla Terra, per cui anche le manifestazioni che oggi possono sembrare straordinarie, possono diventare ordinarie. La vita è più grande di noi e può esprimersi in noi solo se accogliamo, se restiamo collegati con la Fonte. (…).

NOI SIAMO TEMPO: COSÌ ACCOGLIAMO L’AZIONE CREATRICE

(…) La prospettiva evolutiva implica un cambiamento profondo nel considerare la nostra identità, cioè quella pienezza di vita alla quale siamo chiamati e per la quale, in questa prospettiva, il traguardo è alla fine: noi andiamo verso la nostra identità, siamo chiamati a diventare, per raggiungere la pienezza di figli di Dio. Non partiamo già realizzati, partiamo con molte possibilità aperte davanti a noi che, però, un po’ alla volta noi veniamo determinando con le nostre scelte.

Il succedersi di frammenti di novità costituisce la realtà del tempo

È per questo che la prospettiva evolutiva mette in luce un dato che risulta in modo evidente dalla riflessione sulla nostra condizione di creature: cioè il fatto che noi siamo tempo, e quindi dobbiamo necessariamente imparare a vivere questa nostra condizione secondo le tre dimensioni del tempo: il passato, il presente, il futuro. La ragione del nostro essere tempo può essere espressa così: noi non possiamo accogliere quel flusso di vita che ci costituisce, quella forza che alimenta la nostra esistenza, in modo compiuto in un istante, ma solo attraverso una molteplicità di situazioni e di esperienze. Noi non abbiamo inizialmente gli spazi necessari per interiorizzare tutto il dono, tutta la ricchezza che ci è necessaria. Non possiamo, per fare un esempio, respirare o mangiare all’inizio dell’anno per tutto l’anno, abbiamo bisogno di una continuità di accoglienza perché non abbiamo gli spazi necessari. Anche le informazioni che ci sono necessarie per vivere le possiamo accogliere e interiorizzare a frammenti, l’una dopo l’altra, nelle diverse situazioni. Questa dipendenza, questa sintonia e questa accoglienza si sviluppano nel tempo perché abbiamo bisogno di allargare gli spazi di interiorità. Dalle creature sempre può germogliare qualcosa di nuovo, per cui ogni giorno noi siamo chiamati a interrogarci: “Che cosa di nuovo oggi l’azione creatrice mi offre? Che cosa di nuovo la vita oggi mi offre, che finora non ho accolto, anche nei miei rapporti con gli altri?”. Non semplicemente per la mia pigrizia, c’è anche questo a volte, ma proprio perché il tempo è il grembo fecondo dell’azione creatrice. (…).

Dio non è tempo. È, invece, il nostro sviluppo come creature che richiede tempo, perché non possiamo essere immediatamente il tutto, non possiamo accogliere tutta la perfezione in un istante: noi abbiamo bisogno di frammenti che si succedono a frammenti del diventare. Noi diventiamo, siamo in questo processo del diventare; ed è importante che ci rendiamo conto delle condizioni per diventare: Dio non aggiunge qualcosa a quello che noi siamo, ma ci offre la possibilità di diventare e questo diventare si realizza attraverso i gesti che compiamo, i pensieri che sviluppiamo, i rapporti che viviamo, tutto ciò che fa parte della nostra vita. È per questo che qualcosa di nuovo può sempre fiorire dal nostro cuore, dall’interiorità, ed è proprio in questa prospettiva che ci esercitiamo per sviluppare la nostra vita spirituale: per diventare. (…).

i poveri hanno a che fare con la democrazia? il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale dei poveri

giornata mondiale dei poveri

 ignorare i poveri mette in crisi il concetto di democrazia


il Messaggio per la V Giornata mondiale dedicata ai poveri e che sarà celebrata il prossimo 14 novembre dal titolo
“i poveri li avete sempre con voi”

Il Papa: ignorare i poveri mette in crisi il concetto di democrazia

di  Riccardo Maccioni

Occorre un differente approccio alla povertà. «Se i poveri sono messi ai margini, come se fossero colpevoli della loro condizione, allora il concetto stesso di democrazia è messo in crisi e ogni politica sociale diventa fallimentare». Nel Messaggio per la V Giornata mondiale a loro dedicata e che sarà celebrata il prossimo 14 novembre, papa Francesco si sofferma sul legame che c’è tra i poveri, Gesù e l’annuncio del Vangelo. Una riflessione che si riassume nella logica insegnataci da Cristo: «i poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano perché ci permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre». Hanno molto da insegnarci.

Il titolo del Messaggio, “I poveri li avete sempre con voi” (Mc 14,7), prende la mosse dall’episodio del Vangelo di Marco in cui una donna cosparge il capo di Gesù con del profumo molto prezioso suscitando l’ira di Giuda: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Una vicenda che permette al Pontefice di riflettere sul ruolo da protagoniste delle donne nella storia della rivelazione e su Gesù come «povero tra i poveri perché li rappresenta tutti», ne «condivide la stessa sorte». Una condizione che chiede un cambio di mentalità, cioè non considerare più i bisognosi come persone separate, destinatari di un particolare servizio caritativo ma da coinvolgere nel segno della condivisione e della partecipazione. Una lezione da imparare come scuola di salvezza.

«Se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere – spiega il Papa –, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo». L’esatto contrario della logica del profitto che condiziona le società di oggi, nelle quali «sembra farsi strada la concezione secondo la quale i poveri non solo sono responsabili della loro condizione, ma costituiscono un peso intollerabile per un sistema che pone al centro l’interesse di alcune categorie privilegiate. Un mercato che ignora o seleziona i principi etici crea condizioni disumane che si abbattono su persone che vivono già in condizioni precarie. Si assiste così alla creazione di sempre nuove trappole dell’indigenza e dell’esclusione» aggravate attualmente dalla tragedia della pandemia. Per uscirne, occorre vincere la sfida di «un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni».

A rischio è la stabilità stesse delle nostre democrazie, il loro fondamento. La povertà infatti «non è frutto del destino ma conseguenza dell’egoismo. Pertanto, è decisivo dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione. Ci sono molte povertà dei “ricchi” che potrebbero essere curate dalla ricchezza dei “poveri”, se solo si incontrassero e conoscessero!».

Occorre in definitiva un cambio nel modo di pensare, un diverso approccio alla povertà e ai poveri: «non possiamo attendere che bussino alla nostra porta – sottolinea Bergoglio –, è urgente che li raggiungiamo nelle loro case, negli ospedali e nelle residenze di assistenza, per le strade e negli angoli bui dove a volte si nascondono, nei centri di rifugio e di accoglienza…È importante capire come si sentono, cosa provano e quali desideri hanno nel cuore». Si tratta di recuperare i rapporti umani, di impegnarsi per restituire la dignità a chi rischia di perderla. «I poveri – diceva don Primo Mazzolari – non si contano, si abbracciano».

il testo integrale

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

V GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

domenica XXXIII del Tempo Ordinario
14 novembre 2021

«I poveri li avete sempre con voi»

(Mc 14,7)

 

1. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). Gesù pronunciò queste parole nel contesto di un pranzo, a Betania, nella casa di un certo Simone detto “il lebbroso”, alcuni giorni prima della Pasqua. Come racconta l’evangelista, una donna era entrata con un vaso di alabastro pieno di profumo molto prezioso e l’aveva versato sul capo di Gesù. Quel gesto suscitò grande stupore e diede adito a due diverse interpretazioni.

La prima è l’indignazione di alcuni tra i presenti, compresi i discepoli, i quali considerando il valore del profumo – circa 300 denari, equivalente al salario annuo di un lavoratore – pensano che sarebbe stato meglio venderlo e dare il ricavato ai poveri. Secondo il Vangelo di Giovanni, è Giuda che si fa interprete di questa posizione: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». E l’evangelista annota: «Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (12,5-6). Non è un caso che questa dura critica venga dalla bocca del traditore: è la prova che quanti non riconoscono i poveri tradiscono l’insegnamento di Gesù e non possono essere suoi discepoli. Ricordiamo, in proposito, le parole forti di Origene: «Giuda sembrava preoccuparsi dei poveri […]. Se adesso c’è ancora qualcuno che ha la borsa della Chiesa e parla a favore dei poveri come Giuda, ma poi si prende quello che mettono dentro, abbia allora la sua parte insieme a Giuda» (Commento al vangelo di Matteo, 11, 9).

La seconda interpretazione è data da Gesù stesso e permette di cogliere il senso profondo del gesto compiuto dalla donna. Egli dice: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me» (Mc 14,6). Gesù sa che la sua morte è vicina e vede in quel gesto l’anticipo dell’unzione del suo corpo senza vita prima di essere posto nel sepolcro. Questa visione va al di là di ogni aspettativa dei commensali. Gesù ricorda loro che il primo povero è Lui, il più povero tra i poveri perché li rappresenta tutti. Ed è anche a nome dei poveri, delle persone sole, emarginate e discriminate che il Figlio di Dio accetta il gesto di quella donna. Ella, con la sua sensibilità femminile, mostra di essere l’unica a comprendere lo stato d’animo del Signore. Questa donna anonima, destinata forse per questo a rappresentare l’intero universo femminile che nel corso dei secoli non avrà voce e subirà violenze, inaugura la significativa presenza di donne che prendono parte al momento culminante della vita di Cristo: la sua crocifissione, morte e sepoltura e la sua apparizione da Risorto. Le donne, così spesso discriminate e tenute lontano dai posti di responsabilità, nelle pagine dei Vangeli sono invece protagoniste nella storia della rivelazione. Ed è eloquente l’espressione conclusiva di Gesù, che associa questa donna alla grande missione evangelizzatrice: «In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto» (Mc 14,9).

2. Questa forte “empatia” tra Gesù e la donna, e il modo in cui Egli interpreta la sua unzione, in contrasto con la visione scandalizzata di Giuda e di altri, aprono una strada feconda di riflessione sul legame inscindibile che c’è tra Gesù, i poveri e l’annuncio del Vangelo.

Il volto di Dio che Egli rivela, infatti, è quello di un Padre per i poveri e vicino ai poveri. Tutta l’opera di Gesù afferma che la povertà non è frutto di fatalità, ma segno concreto della sua presenza in mezzo a noi. Non lo troviamo quando e dove vogliamo, ma lo riconosciamo nella vita dei poveri, nella loro sofferenza e indigenza, nelle condizioni a volte disumane in cui sono costretti a vivere. Non mi stanco di ripetere che i poveri sono veri evangelizzatori perché sono stati i primi ad essere evangelizzati e chiamati a condividere la beatitudine del Signore e il suo Regno (cfr Mt 5,3).

I poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano, perché permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre. «Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro. Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stesso. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 198-199).

3. Gesù non solo sta dalla parte dei poveri, ma condivide con loro la stessa sorte. Questo è un forte insegnamento anche per i suoi discepoli di ogni tempo. Le sue parole “i poveri li avete sempre con voi” stanno a indicare anche questo: la loro presenza in mezzo a noi è costante, ma non deve indurre a un’abitudine che diventa indifferenza, bensì coinvolgere in una condivisione di vita che non ammette deleghe. I poveri non sono persone “esterne” alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l’emarginazione, perché venga loro restituita la dignità perduta e assicurata l’inclusione sociale necessaria. D’altronde, si sa che un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia. Insomma, i credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui.

Abbiamo tanti esempi di santi e sante che hanno fatto della condivisione con i poveri il loro progetto di vita. Penso, tra gli altri, a Padre Damiano de Veuster, santo apostolo dei lebbrosi. Con grande generosità rispose alla chiamata di recarsi nell’isola di Molokai, diventata un ghetto accessibile solo ai lebbrosi, per vivere e morire con loro. Si rimboccò le maniche e fece di tutto per rendere la vita di quei poveri malati ed emarginati, ridotti in estremo degrado, degna di essere vissuta. Si fece medico e infermiere, incurante dei rischi che correva e in quella “colonia di morte”, come veniva chiamata l’isola, portò la luce dell’amore. La lebbra colpì anche lui, segno di una condivisione totale con i fratelli e le sorelle per i quali aveva donato la vita. La sua testimonianza è molto attuale ai nostri giorni, segnati dalla pandemia di coronavirus: la grazia di Dio è certamente all’opera nei cuori di tanti che, senza apparire, si spendono per i più poveri in una concreta condivisione.

4. Abbiamo bisogno, dunque, di aderire con piena convinzione all’invito del Signore: «Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Questa conversione consiste in primo luogo nell’aprire il nostro cuore a riconoscere le molteplici espressioni di povertà e nel manifestare il Regno di Dio mediante uno stile di vita coerente con la fede che professiamo. Spesso i poveri sono considerati come persone separate, come una categoria che richiede un particolare servizio caritativo. Seguire Gesù comporta, in proposito, un cambiamento di mentalità, cioè di accogliere la sfida della condivisione e della partecipazione. Diventare suoi discepoli implica la scelta di non accumulare tesori sulla terra, che danno l’illusione di una sicurezza in realtà fragile ed effimera. Al contrario, richiede la disponibilità a liberarsi da ogni vincolo che impedisce di raggiungere la vera felicità e beatitudine, per riconoscere ciò che è duraturo e non può essere distrutto da niente e nessuno (cfr Mt 6,19-20).

L’insegnamento di Gesù anche in questo caso va controcorrente, perché promette ciò che solo gli occhi della fede possono vedere e sperimentare con assoluta certezza: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo. Si tratta, pertanto, di aprirsi decisamente alla grazia di Cristo, che può renderci testimoni della sua carità senza limiti e restituire credibilità alla nostra presenza nel mondo.

5. Il Vangelo di Cristo spinge ad avere un’attenzione del tutto particolare nei confronti dei poveri e chiede di riconoscere le molteplici, troppe forme di disordine morale e sociale che generano sempre nuove forme di povertà. Sembra farsi strada la concezione secondo la quale i poveri non solo sono responsabili della loro condizione, ma costituiscono un peso intollerabile per un sistema economico che pone al centro l’interesse di alcune categorie privilegiate. Un mercato che ignora o seleziona i principi etici crea condizioni disumane che si abbattono su persone che vivono già in condizioni precarie. Si assiste così alla creazione di sempre nuove trappole dell’indigenza e dell’esclusione, prodotte da attori economici e finanziari senza scrupoli, privi di senso umanitario e responsabilità sociale.

Lo scorso anno, inoltre, si è aggiunta un’altra piaga che ha moltiplicato ulteriormente i poveri: la pandemia. Essa continua a bussare alle porte di milioni di persone e, quando non porta con sé la sofferenza e la morte, è comunque foriera di povertà. I poveri sono aumentati a dismisura e, purtroppo, lo saranno ancora nei prossimi mesi. Alcuni Paesi stanno subendo per la pandemia gravissime conseguenze, così che le persone più vulnerabili si trovano prive dei beni di prima necessità. Le lunghe file davanti alle mense per i poveri sono il segno tangibile di questo peggioramento. Uno sguardo attento richiede che si trovino le soluzioni più idonee per combattere il virus a livello mondiale, senza mirare a interessi di parte. In particolare, è urgente dare risposte concrete a quanti patiscono la disoccupazione, che colpisce in maniera drammatica tanti padri di famiglia, donne e giovani. La solidarietà sociale e la generosità di cui molti, grazie a Dio, sono capaci, unite a progetti lungimiranti di promozione umana, stanno dando e daranno un contributo molto importante in questo frangente.

6. Rimane comunque aperto l’interrogativo per nulla ovvio: come è possibile dare una risposta tangibile ai milioni di poveri che spesso trovano come riscontro solo l’indifferenza quando non il fastidio? Quale via della giustizia è necessario percorrere perché le disuguaglianze sociali possano essere superate e sia restituita la dignità umana così spesso calpestata? Uno stile di vita individualistico è complice nel generare povertà, e spesso scarica sui poveri tutta la responsabilità della loro condizione. Ma la povertà non è frutto del destino, è conseguenza dell’egoismo. Pertanto, è decisivo dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione. Ci sono molte povertà dei “ricchi” che potrebbero essere curate dalla ricchezza dei “poveri”, se solo si incontrassero e conoscessero! Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa di sé nella reciprocità. I poveri non possono essere solo coloro che ricevono; devono essere messi nella condizione di poter dare, perché sanno bene come corrispondere. Quanti esempi di condivisione sono sotto i nostri occhi! I poveri ci insegnano spesso la solidarietà e la condivisione. È vero, sono persone a cui manca qualcosa, spesso manca loro molto e perfino il necessario, ma non mancano di tutto, perché conservano la dignità di figli di Dio che niente e nessuno può loro togliere.

7. Per questo si impone un differente approccio alla povertà. È una sfida che i Governi e le Istituzioni mondiali hanno bisogno di recepire con un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni. Se i poveri sono messi ai margini, come se fossero i colpevoli della loro condizione, allora il concetto stesso di democrazia è messo in crisi e ogni politica sociale diventa fallimentare. Con grande umiltà dovremmo confessare che dinanzi ai poveri siamo spesso degli incompetenti. Si parla di loro in astratto, ci si ferma alle statistiche e si pensa di commuovere con qualche documentario. La povertà, al contrario, dovrebbe provocare ad una progettualità creativa, che consenta di accrescere la libertà effettiva di poter realizzare l’esistenza con le capacità proprie di ogni persona. È un’illusione da cui stare lontani quella di pensare che la libertà sia consentita e accresciuta per il possesso di denaro. Servire con efficacia i poveri provoca all’azione e permette di trovare le forme più adeguate per risollevare e promuovere questa parte di umanità troppe volte anonima e afona, ma con impresso in sé il volto del Salvatore che chiede aiuto.

8. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). È un invito a non perdere mai di vista l’opportunità che viene offerta per fare del bene. Sullo sfondo si può intravedere l’antico comando biblico: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso […], non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. […] Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo, infatti, il Signore, tuo Dio, ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano.Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra» (Dt 15,7-8.10-11). Sulla stessa lunghezza d’onda si pone l’apostolo Paolo quando esorta i cristiani delle sue comunità a soccorrere i poveri della prima comunità di Gerusalemme e a farlo «non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Non si tratta di alleggerire la nostra coscienza facendo qualche elemosina, ma  piuttosto di contrastare la cultura dell’indifferenza e dell’ingiustizia con cui ci si pone nei confronti dei poveri.

In questo contesto fa bene ricordare anche le parole di San Giovanni Crisostomo: «Chi è generoso non deve chiedere conto della condotta, ma solamente migliorare la condizione di povertà e appagare il bisogno. Il povero ha una sola difesa: la sua povertà e la condizione di bisogno in cui si trova. Non chiedergli altro; ma fosse pure l’uomo più malvagio al mondo, qualora manchi del nutrimento necessario, liberiamolo dalla fame. […] L’uomo misericordioso è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malfattori, buoni o siano come siano quelli che si trovano in pericolo, il porto li mette al riparo all’interno della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chiedere conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura» (Discorsi sul povero Lazzaro, II, 5).

9. È decisivo che si accresca la sensibilità per capire le esigenze dei poveri, sempre in mutamento come lo sono le condizioni di vita. Oggi, infatti, nelle aree del mondo economicamente più sviluppate si è meno disposti che in passato a confrontarsi con la povertà. Lo stato di relativo benessere a cui ci si è abituati rende più difficile accettare sacrifici e privazioni. Si è pronti a tutto pur di non essere privati di quanto è stato frutto di facile conquista. Si cade così in forme di rancore, di nervosismo spasmodico, di rivendicazioni che portano alla paura, all’angoscia e in alcuni casi alla violenza. Non è questo il criterio su cui costruire il futuro; eppure, anche queste sono forme di povertà da cui non si può distogliere lo sguardo. Dobbiamo essere aperti a leggere i segni dei tempi che esprimono nuove modalità con cui essere evangelizzatori nel mondo contemporaneo. L’assistenza immediata per andare incontro ai bisogni dei poveri non deve impedire di essere lungimiranti per attuare nuovi segni dell’amore e della carità cristiana, come risposta alle nuove povertà che l’umanità di oggi sperimenta.

Mi auguro che la Giornata Mondiale dei Poveri, giunta ormai alla sua quinta celebrazione, possa radicarsi sempre più nelle nostre Chiese locali e aprirsi a un movimento di evangelizzazione che incontri in prima istanza i poveri là dove si trovano. Non possiamo attendere che bussino alla nostra porta, è urgente che li raggiungiamo nelle loro case, negli ospedali e nelle residenze di assistenza, per le strade e negli angoli bui dove a volte si nascondono, nei centri di rifugio e di accoglienza… È importante capire come si sentono, cosa provano e quali desideri hanno nel cuore. Facciamo nostre le parole accorate di Don Primo Mazzolari: «Vorrei pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poverichi sono e quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa indicazione della coscienza e del cuore. […] Io non li ho mai contati i poveri, perché non si possono contare: i poveri si abbracciano, non si contano»(“Adesso” n. 7 – 15 aprile 1949). I poveri sono in mezzo noi. Come sarebbe evangelico se potessimo dire con tutta verità: anche noi siamo poveri, perché solo così riusciremmo a riconoscerli realmente e farli diventare parte della nostra vita e strumento di salvezza.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2021,
Memoria di Sant’Antonio di Padova

 

FRANCESCO

può il cristianesimo essere considerato una religione? quale teologia per il futuro

Quali compiti per la teologia del XXI secolo?

quali compiti per la teologia del XXI secolo?

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

 

la religione che non c’è

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

Gesù non ha fondato una religione: «ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana». In questa prospettiva, la teologia oggi deve aiutare a conoscere «il vero vangelo», distinguendolo da ciò che è stato aggiunto in un secondo tempo, per arrivare alla vera fede. Lo afferma il teologo belga José Comblin, già docente di teologia in Ecuador, Cile e Brasile, in una relazione tenuta a Santiago (Cile) durante le Giornate teologiche latinoamericane del 2009 – due anni prima della sua morte e pubblicata su Redes Cristianas l’8 maggio scorso.

Il nostro punto di partenza sarà la distinzione tra religione e vangelo. Il cristianesimo non è originariamente una religione e Gesù non ha fondato nessuna religione. Successivamente i cristiani hanno fondato la religione cristiana, che è una creazione umana e non divina. La religione è il prodotto della cultura umana. Esiste una grande varietà di religioni e tutte hanno la stessa struttura, sebbene molto diverse nella loro forma esteriore. Hanno tutti una mitologia, un culto e una classe dedicata al loro esercizio. In questo la religione cristiana non è diversa dalle altre. È anch’essa una creazione umana, prodotto di varie culture. La religione è una realtà fondamentale dell’esistenza umana. Pone il problema del significato della vita su questa terra, il problema dei valori, il posto dell’essere umano nell’universo e il problema della salvezza da tutti i suoi mali di questo mondo.   

La religione è stata ampiamente studiata dall’antropologia religiosa, dalla sociologia religiosa, dalla psicologia religiosa, dalla storia delle religioni. Tutto questo riguarda anche la religione cristiana. Essendo una creazione umana, la religione cristiana è cambiata e potrebbe ancora cambiare in futuro in base ai cambiamenti nella storia.    Questa è anche una delle grandi sfide del tempo presente, perché la religione cristiana è esaurita e non offre alcuna risposta all’orientamento della cultura odierna, tranne resti di passato.     Il vangelo di Gesù non è una religione. Gesù non ha fondato nessuna religione: non ha proclamato una dottrina religiosa o una mitologia, nessun discorso su Dio, non ha fondato nessun culto e non ha fondato nessuna classe clericale. Gesù ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana, aprendo una nuova epoca, l’ultima. È un messaggio per tutta l’umanità in tutte le sue culture e religioni. Si potrebbe dire che è un messaggio e una storia meta- politica. Poiché gli esseri umani non possono vivere senza religione, i discepoli di Cristo per 2000 anni hanno costruito una religione che era come il rivestimento del messaggio cristiano, con il pericolo di trasformare il cristianesimo in una religione. Il rivestimento religioso può nascondere il messaggio del vangelo o può guidare questo messaggio secondo l’evoluzione della storia. In molti casi la religione ha occultato il Vangelo. I cristiani hanno enunciato una dottrina usando molti elementi del giudaismo o delle religioni non cristiane né ebraiche, hanno creato un culto di uguale ispirazione e un intero sistema legale che inquadra un’istituzione molto complessa.     Possiamo affermare che la storia del cristianesimo è la storia di una tensione o di un conflitto tra religione e vangelo, tra una tendenza umana verso la religione e le voci o le vite di coloro che volevano vivere secondo il vangelo.   Le religioni sono conservatrici e trasmettono la fede in un mondo permanente in cui tutto riceve una spiegazione religiosa. La religione cambia inconsciamente, ma resiste a qualsiasi richiesta di cambiamento volontario. Molti cristiani e molte strutture cristiane lottano inconsapevolmente contro il Vangelo. C’è del vero in ciò che affermò Charles Maurras, un ateo francese del secolo scorso, quando disse che si congratulava con la religione romana per aver eliminato dal cristianesimo tutto il veleno del Vangelo. È un po’ esagerato, ma certamente suggestivo.      Il vangelo è cambiamento, movimento, libertà. Non può accettare il mondo che esiste, deve cambiarlo. Il vangelo è conflitto tra ricchi e poveri. All’interno della religione, ricchi e poveri fanno parte dell’armonia generale. Sono così perché deve essere così, sebbene i ricchi debbano aiutare i poveri ma senza cambiare la struttura creata da Dio o dai sostituti di Dio. La religione vuole la pace, sebbene in alleanza con i potenti. Il vangelo vuole il conflitto.     Il compito della teologia è mostrare la distinzione, individuare da un lato quello che è vangelo e dall’altro tutto quello che è stato aggiunto e che può o deve cambiare per essere fedele a quel vangelo. È liberare il vangelo dalla religione. La religione è buona se aiuta a cercare il Vangelo e a non dimenticarlo sotto il rivestimento religioso. Essa è una necessità umana, ma deve essere indagata e corretta.     La teologia è al servizio del popolo cristiano o anche non cristiano, affinché conosca il vero vangelo e possa arrivare alla vera fede e non a un sentimento religioso.     Per secoli la teologia è stata al servizio dell’istituzione per difenderla dalle eresie o dai nemici della Chiesa. Così è stato dopo il Concilio di Trento fino al XX secolo e in molte regioni fino al Vaticano II. È stato apologetico, arma intellettuale nella lotta contro le Chiese riformate e tutta la modernità, al servizio della gerarchia. In un certo senso, era un’arma diretta contro i laici perché non fossero sedotti dai nemici della Chiesa.   Fino al Concilio di Trento, la teologia era un commentario alla Bibbia, libera, aperta a tutti, come lavoro intellettuale gratuito. La Riforma è partita da teologi, e allora la teologia passò sotto lo stretto controllo della gerarchia.

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