siamo decisamente peggiorati! ci siamo incattiviti! – a proposito del suicidio di Seid Visin

Il vero messaggio di addio di Seid Visin è che siamo diventati peggiori

di Mario Giro

«Ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il
peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone»

Queste parole pesanti
come pietre le ha scritte Seid Visin, adottato da piccolo dall’Etiopia, tre anni fa. Due giorni fa si è tolto la vita e qualcuno le mette in relazione. Comunque sia sappiamo che il problema esiste: le sue parole contraddicono il film degli italiani brava gente. Contraddicono anche l’idea sovranista che una società chiusa e dell’autodifesa sia più sicura e giusta.
Non è così: per troppi anni abbiamo accettato la seminagione della zizzania dell’odio; ci siamo abituati a pensare che la minaccia veniva dall’esterno; ci siamo lamentati come se fossimo noi le
uniche vittime.
Oggi ci ritroviamo una società più dura, insensibile, all’interno della quale nuotano i serpenti del razzismo. Impressionano “gli sguardi scettici, prevenuti, schifati”: non le parole –che pur ci sono -ma gli sguardi.
Questo significa che nel profondo dell’Italia qualcosa si è rotto. Erano meglio, molto meglio le
nostre nonne: anche davanti allo straniero restavano umane e materne. Siamo peggiorati: a
quell’epoca, dopo la guerra e fino a qualche decennio fa, a nessuno sarebbe venuto in mente di
picchiare un disabile per strada, di insultare e tirare uova a un “ciccione” autistico, a sparare ai
“neri” o a schifare apertamente uno straniero.
Dobbiamo dircelo senza relativizzare: siamo peggiori. Su molte cose siamo migliorati: ci sono  meno omicidi di una volta, ad esempio. Ma in quanto a clima umano siamo decisamente peggiorati.
Ci giustifichiamo dicendo che avere i propri giudizi o pregiudizi non fa male agli altri. Invece no: fa male, fa molto male e Seid ce lo dice lucidamente. Certamente c’è una responsabilità delle destre che hanno manipolato politicamente la paura e il razzismo. Ma non è solo questo: tutti lo abbiamo in qualche modo accettato e tollerato. Tutti abbiamo pensato almeno una volta che gli immigrati erano troppi; tutti abbiamo consentito nel nostro vicino sguardi e pensieri razzisti e cattivi.
Una società incattivita si prepara al declino: questa è la vera crisi italiana che spiega quella
economica. Forse una volta si sarebbe detto che tale declino avrebbe provocato violenza e alla fine
la guerra. E’ ancora possibile che ciò accada: una società divisa e con pensieri di odio finisce
sempre male, si auto-avvelena. Ma anche se la guerra –quella vera- non scoppierà, ci sarà
certamente un’altra forma di conflitto diffuso che farà vivere peggio tutti. Nella sua lettera Seid
racconta la mutazione della società italiana di questi anni, vissuta sulla sua pelle. Narra anche di
come lui stesso ne sia stato contagiato. La vera pandemia italiana è lo scaricare le paure su capri
espiatori, che siano immigrati, stranieri, rom o altro.
Così perdiamo la nostra identità, invece che rafforzarla. Leggendo le lettere dei nostri soldati dal
fronte le troviamo più umane: durante la seconda guerra mondiale non parlavamo così nemmeno del
nemico. Altroché andare a Kasteloritzo a celebrare l’anniversario dell’Oscar a Mediterraneo: non
siamo più così. Siamo diventati antipatici e intossicati d’odio.

la religione degli italiani “gode di una discreta salute”

davvero in Italia non c’è più religione?

i numeri raccontano una storia
diversa
di Marco Marzano
in “Domani” del 31 maggio 2021

le geremiadi sulla fine del cristianesimo che si levano da molti ambienti cattolici e atei
devoti sono largamente esagerate e assomigliano a quelle di tanti professori sulla morte della
cultura e l’imbarbarimento della gioventù. La secolarizzazione è in atto, ma segue strade e sentieri
tortuosi e imprevisti. La chiesa, anche grazie alla popolarità enorme di cui gode il suo capo
supremo, gode di una discreta salute: quella di un paziente la cui morte è molto al di là da venire


Quando la pandemia sarà finalmente terminata dovremo cercare di capire quale impatto abbiano
avuto sui processi di secolarizzazione la sospensione di molte attività pastorali, la riduzione dei
posti disponibili nelle chiese, la chiusura prolungata degli oratori, il rinvio di prime comunioni,
cresime e matrimoni. Molti preti tracciano già oggi un bilancio apocalittico per la chiesa,
sostenendo che molti praticanti non torneranno più, che tanti bambini hanno rinunciato per sempre
all’iniziazione cristiana, che i fedeli più tiepidi hanno abbandonato i banchi delle chiese e che solo i
più caparbi e motivati faranno ritorno in parrocchia.
Non mancano naturalmente, nei ranghi del clero, coloro che ritengono tutto questo non una
disgrazia, ma una fortuna, che libera la chiesa dalla devozione stanca, meramente rituale e
conformistica di tanti cattolici per abitudine e restituisce alla comunità cristiana quella dimensione
di «piccolo gregge» giudicata ideale per un ritorno alle radici evangeliche.

La religiosità degli italiani

Ci sarà tempo per verificare l’esattezza di queste profezie «decliniste». Quel che possiamo fare
oggi è invece valutare ancora una volta la situazione della religiosità italiana precedente l’inizio
della pandemia. L’opportunità ci è data dalla presentazione, a cura di Critica liberale, del
quattordicesimo «rapporto annuale sulla secolarizzazione», ricco di dati quantitativi ricavati da
diverse fonti ufficiali. Tra i tanti numeri presenti nel rapporto ce ne sono almeno tre che, se
osservati nella prospettiva temporale di almeno un quindicennio, segnalano in modo chiaro un
distacco crescente degli italiani dalla tradizione cattolica.
Si tratta della percentuale di prime nozze di cittadini italiani (quindi non stranieri e non divorziati o
risposati) celebrate con rito civile sul totale delle prime nozze, che passa dal 20,7 per cento del 2004
al 31,3 del 2018, di quella dei nati vivi fuori dal matrimonio sul totale dei nati vivi, passata da poco
più del 10 per cento del 2002 al 32 per cento del 2018 e di quella delle «coppie non coniugate» sul
totale delle coppie che appare quasi quintuplicata tra il 2000 e il 2018. Da questi tre dati si può
ricavare un’indicazione piuttosto chiara: quando si tratta di decidere che forma dare alla vita di
coppia e al contesto della genitorialità un numero crescente di italiani (nel complesso ancora
minoritario) propende per un modello distante dalla tradizione religiosa cattolica.

Un rapporto stabile

Detto questo, va osservato che molti degli altri dati contenuti nel rapporto vanno in una direzione
decisamente diversa, e cioè testimoniano di una sostanziale stabilità nel rapporto tra gli italiani e la
chiesa cattolica. Si prenda, ad esempio, il dato relativo ai battesimi. È vero che la percentuale di
battezzati tra zero e sette anni sul totale dei nati vivi è scesa, in poco più di quindici anni, di ben
dieci punti, dall’85 per cento del 2002 al 76,8 del 2018, ma questo sembra più un effetto della
crescita della quantità di bimbi figli di immigrati che nascono sul territorio italiano che dell’aumento
significativo della decisione dei genitori italiani di non battezzare i loro piccoli (tra l’altro, il dato è
ormai stabile da una decina d’anni). Lo stesso discorso vale per prime comunioni e cresime, la cui
diminuzione in cifra assoluta è, almeno in parte, spiegabile con il calo demografico degli ultimi
anni. Molto elevato rimane anche il numero di ragazzi che si avvalgono dell’insegnamento della
religione cattolica a scuola, sceso in dieci anni, dal 2008 al 2018, di soli cinque punti percentuali,
dal 91 all’86 per cento. Una conferma della persistente solidità del legame tra gli italiani e la chiesa
cattolica si ricava infine dalla lettura dei dati relativi alla destinazione dell’8 per mille. Nel 2000
erano un terzo (esattamente il 33,41 per cento) i contribuenti che manifestavano la volontà di
destinarlo alla chiesa cattolica; nel 2018 è stata una percentuale di poco inferiore: il 31,8 per cento. In definitiva, il distacco degli italiani dalla chiesa cattolica è molto meno consistente e veloce di
quel che si afferma in molte analisi improvvisate e impressionistiche nelle quali si narra di un esodo
di massa dei nostri connazionali dalla tradizione che per secoli ha caratterizzato il paesaggio
religioso della penisola. Dobbiamo ammettere che la frattura investe più talune sfere (ad esempio, il
matrimonio) che altre (ad esempio l’educazione religiosa dei figli: il catechismo e i sacramenti) e
riguarda maggiormente, come ci dicono altre ricerche, le generazioni più giovani, gli under 40,
rispetto a quelle più anziane, gli uomini rispetto alle donne. Per giunta essa implica tanti altri piani
che non sono visibili in statistiche come quelle presentate nel rapporto e che riguardano anche la
fede e non solo la pratica, la dimensione intima e valoriale e non solo quella pubblica e dei
comportamenti e quindi non solo l’andare a messa la domenica o il pregare, ma anche il credere in
Dio, le concezioni dell’aldilà, le immagini del peccato e del male, eccetera. Sul tema, si veda
l’ottimo volume di Roberto Cipriani, La fede incerta. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia . Per
non parlare del tema ancora più complesso delle cause, dell’individuazione di quel che determina
in ultima istanza l’avanzata o la ritirata della faglia.

L’istituzione

Da ultimo è interessante rivolgere lo sguardo all’altro capo del rapporto, all’istituzione, alla chiesa
cattolica. Il rapporto contiene molti dati interessanti anche su questo versante, in particolare sul
«personale» a disposizione dell’organizzazione. Anche qui non manca qualche dato nettamente
positivo per la chiesa: ad esempio quello che riguarda i diaconi, praticamente raddoppiati in
vent’anni. In altri comparti abbiamo invece assistito a un calo drammatico: ad esempio, la quantità
di «religiose» in 20 anni è diminuita in modo drastico, dalle 113.295 unità del 2000 alle 75mila
scarse del 2018. Un crollo verticale, infinitamente superiore a quello dei sacerdoti diocesani (non
riportato nel rapporto) scesi, negli ultimi vent’anni, di sole tremila unità, da 35mila a 32mila. È vero
che l’età media del clero è cresciuta e che la quantità di ordinazioni è in diminuzione (nel 2008
erano stati ordinati 393 preti contro i 343 del 2018), ma anche qui la situazione è ben lungi
dall’essere catastrofica per la chiesa italiana. Per almeno tre ragioni: primo perché il numero
complessivo di sacerdoti rimane comunque altissimo se comparato a quello di altri paesi nel mondo
(nel nostro paese vive e lavora quasi il 12 per cento del clero di tutto il mondo!): secondo perché,
come già avviene in molti angoli del paese, l’arretramento può essere contrastato con l’importazione
di clero dal sud del mondo e infine perché l’effetto congiunto del calo demografico e della
secolarizzazione stanno riducendo in modo consistente l’attività complessiva del clero, adeguandola
di fatto alla diminuita disponibilità di personale.
Cito il caso più eclatante: nel 2000 circa 35mila sacerdoti celebravano 214mila matrimoni, i 32mila
presbiteri del 2018 ne hanno celebrati meno di 97mila. Difficile parlare di aumento del carico di
lavoro.
Il problema principale per la chiesa cattolica rimane quello degli spazi, dei presidi territoriali,
ovvero della gestione di un numero di parrocchie e di chiese ormai impossibile da tenere tutte aperte
con il personale a disposizione.

Un paziente in salute

Insomma, le geremiadi sulla fine del cristianesimo che si levano da molti ambienti cattolici e atei
devoti sono largamente esagerate e assomigliano a quelle di tanti professori sulla morte della
cultura e l’imbarbarimento della gioventù. La secolarizzazione è in atto, ma segue strade e sentieri
tortuosi e imprevisti. La chiesa, anche grazie alla popolarità enorme di cui gode il suo capo
supremo, gode di una discreta salute: quella di un paziente la cui morte è molto al di là da venire.

rischiamo di abituarci all’orrore

le foto choc

 i piccoli migranti morti

ma non possiamo abituarci all’orrore


l’orrore, un tanto al giorno, come una cura omeopatica somministrata ai nostri occhi, ci sta invadendo la coscienza e non ce ne accorgiamo
I piccoli migranti morti, ma non possiamo abituarci all'orrore
di Daniele Mencarelli

Nel settembre del 2015 il mondo gridò di orrore. Una fotografia stravolse l’opinione pubblica, fermò di colpo tutte le questioni interne ai singoli Stati, sembrò quasi cancellare qualsiasi forma di ordinaria amministrazione.

La fotografia era quella del piccolo Alan Kurdi, ritrovato senza vita su una spiaggia dell’Egeo. La sua famiglia, in fuga dalla Siria, tentò come altre migliaia di profughi di raggiungere l’occidente attraverso le tratte clandestine, nel loro caso dalla Turchia verso la Grecia. Partirono da Bodrum, ma il loro viaggio durò poco, pochissimo, il gommone sul quale viaggiavano si capovolse per il mare grosso e il peso eccessivo. Della famiglia Kurdi sopravvisse solo il padre, mentre la madre e i due figli, Ghalib e Alan, affogarono.
La fotografia di Alan con il volto nella sabbia, bagnato dalle onde del mediterraneo, con la sua magliettina rossa, i pantaloncini blu, ci rimase negli occhi per settimane. Una civiltà che permette una simile sciagura non è più una civiltà. Questo dissero, dicemmo, tutti. Talmente forte lo sdegno collettivo, e sincero, che in molti pensarono che quel sacrificio potesse aprire un nuovo capitolo della Storia. Una nuova era. Dove i bambini, tutti, ma proprio tutti, avessero stessi diritti e possibilità.

 

Il corpo restituito dal mare in Libia e a destra il piccolo Alan Kurdi

il corpo restituito dal mare in Libia e a destra il piccolo Alan Kurdi – Open Arms / Ansa

 

Poi l’umanità riprese la corsa, dimenticò quegli attimi di commozione, come succede sempre, in preda alla sua smania frenetica.
Qualche giorno fa, Oscar Camps, il fondatore della Open Arms, l’organizzazione non governativa che si occupa di aiuto ai migranti, ha diffuso delle fotografie scattate in Libia. Si vedono i corpi di tre bambini. Altre foto ritraggono adulti. Tre bambini, di cui uno neonato. Vittime di un naufragio, uno dei tanti.

Dalla foto di Alan Kurdi a queste sono trascorsi poco meno di sei anni. Un dato salta agli occhi, evidente per quanto preoccupante. Il piccolo siriano, la sua immagine straziante, divenne icona di una crisi che riguardava tutti, perché tutti hanno una coscienza e da che mondo è mondo i bambini si proteggono.

Perché tutto questo non è successo per quelli ritrovati in Libia? Perché quei tre corpi bambini non hanno prodotto nulla? Se ne è parlato per mezza giornata, poi basta. Qualsiasi spiegazione è a dir poco terribile. La prima cosa che viene in mente è questa: nel giro di poco meno di sei anni l’opinione pubblica, tutti noi, ha vissuto una specie di assuefazione-regressione all’orrore, al punto da rendere digeribile una foto che ritrae tre bambini morti su una spiaggia. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere questa, forse ancora più disumana della prima. Le foto diffuse da Camps sono state scattate a Zuwara, in Libia, e si sa, la nostra coscienza ha oggi un confine geografico, e quel confine è proprio il Paese nordafricano, tutto ciò che accade da lì in poi e affare di altri, ed è sempre lecito. E poi, a guardare bene, quei tre bambini erano dalla pelle scura. Ma delle spiegazioni possibili interessa il giusto. Anzi niente.

L’orrore, un tanto al giorno, come una cura omeopatica somministrata ai nostri occhi, ci sta invadendo la coscienza e non ce ne accorgiamo. È la storia. La nostra storia. Quella che fa di ogni sciagura del passato, dai lager ai roghi, qualcosa che deve ancora avvenire.

delusione e indignazione per le scelte di Draghi sull’immigrazione

lettera aperta

a Lampedusa conosciamo le vere storie di migranti


Forum Lampedusa Solidale 
Invito al premier Draghi per un nuovo sguardo sui diritti umani negati
A Lampedusa conosciamo le vere storie di migranti

 

la sua recente dichiarazione a proposito della garanzia dei salvataggi «in acque territoriali italiane» è – oltre che discutibile – totalmente illogica e contraria a quanto stabilito dalla normativa internazionale in tema di soccorso e salvataggio, oltre che in netto contrasto con la Costituzione e con il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo

Caro presidente Mario Draghi,

da mesi tutte le parti politiche, i media e i tecnici ribadiscono le altissime aspettative intorno al suo operato e quello dell’esecutivo che lei guida. A fronte di tanto apprezzamento dobbiamo però confidarle la nostra delusione e, non lo nascondiamo, a tratti anche la nostra indignazione per alcune scelte, non solo lessicali, riguardo al tema immigrazione. Le chiediamo la pazienza di leggerci e speriamo in una sua risposta. Noi viviamo a Lampedusa e sicuramente nessuno di noi vanta un curriculum paragonabile al suo né a quello dei suoi collaboratori. Tuttavia abbiamo esperienza, perché da anni siamo testimoni di ciò che avviene sulla frontiera.

Comprendiamo che nessuno può sapere tutto e sicuramente sul tema lei deve essersi affidato a collaboratori e consulenti che, è nostra opinione, la stanno esponendo a una interpretazione dei fatti che, sempre a nostro avviso, proprio per la considerazione di cui lei gode, non si addice alla sua riconosciuta statura morale, ancor prima che intellettuale. La prima cosa che vivere su quest’isola ci ha insegnato è che chi tenta di arrivare in Europa non è ‘UN’ pericolo ma è ‘IN’ pericolo. Ma quanto costa gestire la frontiera nell’ottica esclusivamente securitaria e di esternalizzazione?

La sua recente dichiarazione a proposito della garanzia dei salvataggi «in acque territoriali italiane» è – oltre che discutibile – totalmente illogica e contraria a quanto stabilito dalla normativa internazionale in tema di soccorso e salvataggio, oltre che in netto contrasto con la Costituzione e con il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo. Noi in questi anni abbiamo imparato a conoscere i nomi di uomini, donne bambini affogati nel Mediterraneo. Abbiamo partecipato alle sepolture di chi sulla propria tomba non ha neanche un nome.

Lei, presidente, conosce alcune di queste storie?

Ha mai ascoltato, come noi, i loro terrificanti racconti? Ecco perché ringraziare la sedicente ‘Guardia costiera libica’ per la cattura dei naufraghi in mare, secondo noi e secondo quanto riportato ancora in questi giorni nei report delle Nazioni Unite e della Procura presso il Tribunale internazionale dell’Aja, vuol dire ringraziare dei carnefici. Anche per questa ragione riteniamo che lei debba domandarsi se stringere accordi con i governi della Libia o della Tunisia, pagando miliardi di euro per delegare ad altri il lavoro sporco dei respingimenti, oltre che essere una strategia che non funziona, non fa altro che alimentare i crimini e legittimare i criminali.

Lo sa che bloccare le navi delle Ong nei porti non ha alcun effetto deterrente sulle partenze, ma aumenta il numero dei morti e sottrae testimoni alle tragedie del Mediterraneo? È a conoscenza del fatto che le 130 persone affogate il 23 aprile scorso sono rimaste per oltre 48 ore in vana attesa che qualcuno prestasse loro soccorso, nella piena consapevolezza delle autorità europee, compresa l’Italia? La Procura dell’Aja ha definito quella tragedia come «un crimine». Quei naufraghi si trovavano in acque internazionali; se dovesse accadere ancora l’Italia continuerà a disinteressarsi ai salvataggi pur avendo i mezzi per poter intervenire? Diverse chiese e comunità di fede hanno espresso preoccupazione per i diritti delle persone e anche papa Francesco, proprio riguardo a quella strage, ha chiesto di pregare «per coloro che possono aiutare ma preferiscono guardare da un’altra parte». Ma quale sarà il giudizio storico di tali condotte? Noi sappiamo che l’unica soluzione possibile per porre immediatamente fine a tutto ciò è aprire immediatamente canali legali e sicuri di ingresso in Europa; ripristinare un meccanismo certo di soccorso e sbarco in un luogo sicuro, come richiesto dalle Nazioni Unite, e tornare a presidiare il Mediterraneo, anche nell’interesse dei nostri tanti pescatori. Le chiediamo perciò di voler rispondere a queste nostre domande, e la invitiamo a venire a Lampedusa, dove potrebbe ascoltarci e ascoltare le storie che ci impediscono di restare in silenzio.

Forum Lampedusa Solidale

Il Forum Lampedusa Solidale nasce nel 2015 dall’incontro di associazioni, movimenti ecclesiali, organizzazioni di volontariato, parrocchiani, donne e uomini della società civile che condividono sia il desiderio di riappropriarsi dei luoghi, fisici e sociali, dell’accoglienza, sia la volontà di attivare percorsi di partecipazione per la cura dell’intera comunità isolana. L’attività svolta dal Forum non si limita, infatti, alla mera distribuzione di beni ai migranti che sull’isola approdano, ma punta a creare una rete di competenze e di servizi per chiunque sull’isola viva o si trovi a passare per qualsiasi motivo, formulando proposte e realizzando pratiche in grado di dare risposte concrete alle necessità e alla dignità degli stranieri e della comunità che li ospita.

i limiti del nostro paradigma capitalistico – per un diverso paradigma etico-sociale

consumare il mondo o salvaguardare il mondo? paradigmi opposti 

un testo di Leonardo Boff

la pandemia ci mette, sempre più, davanti ai limiti del nostro paradigma capitalistico. In queste breve, intenso, testo il teologo brasiliano Leonardo Boff ci offre spunti per un diverso paradigma etico-sociale

Leonardo Boff

“Consumare il mondo” o “salvaguardare il mondo” sono una metafora, frequente in bocca ai leader indigeni, che mettono in discussione il paradigma della nostra civiltà, la cui violenza li ha quasi fatti scomparire. Ora è stato messo sotto scacco dal Covid-19. Il virus ha colpito come un fulmine il paradigma del “consumare il mondo”, ovvero sfruttare senza limiti tutto ciò che esiste in natura in un’ottica di crescita / arricchimento senza fine. Il virus ha distrutto i mantra che lo sostengono: centralità del profitto, raggiunto attraverso la concorrenza, la più agguerrita possibile, accumulato privatamente, a scapito delle risorse naturali. Se obbediamo a questi mantra, saremmo sicuramente sulla strada sbagliata. Ciò che ci salva è ciò che è nascosto e invisibile nel paradigma del “consumare il mondo”: la vita, la solidarietà, l’interdipendenza tra tutti, la cura della natura e l’uno dell’altro. È il paradigma imperativo della “salvaguardia del mondo”.

Il paradigma del “consumare il mondo” è molto antico. Proviene dall’Atene del V secolo a.C., quando lo spirito critico irruppe e ci fece percepire la dinamica intrinseca dello spirito, che è la rottura di ogni limite e la ricerca dell’infinito. Tale scopo era pensato dai grandi filosofi, dagli artisti, compare anche nelle tragedie di Sofocle, Eschilo ed Euripide ed è praticato dai politici. Non è più il medén ágan del tempio di Delfi: “niente di troppo”.

Questo progetto di “mangiarsi il mondo” ha preso forma nella stessa Grecia con la creazione dell’impero di Alessandro Magno (356-323), che all’età di 23 anni fondò un
impero che si estendeva dall’Adriatico al fiume Indo in India.

Questo “consumare il mondo” si è approfondito nel vasto Impero Romano, rafforzato nella moderna era coloniale e industriale e culminato nel mondo contemporaneo con la globalizzazione della tecno-scienza occidentale, espansa in tutti gli angoli del pianeta. È l’impero senza limiti, tradotto nello scopo (illusorio) del capitalismo / neoliberismo con la crescita illimitata verso il futuro. Basta prendere come esempio, di questa ricerca di crescita illimitata, il fatto che nell’ultima generazione sono state bruciate più risorse energetiche che in tutte le precedenti generazioni dell’umanità. Non c’è luogo che non sia stato sfruttato per l’accumulo di merci.

Ma ecco, è emerso un limite insormontabile: la Terra, limitata come pianeta, piccola e
sovrappopolata, con beni e servizi limitati, non può sostenere un progetto illimitato. Tutto ha dei limiti. Il 22 settembre 2020, le scienze della Terra e della vita lo hanno identificato come l’Earth Overshoot Day, ovvero il limite dei beni e dei servizi naturali rinnovabili, fondamentali per mantenere la vita. Si sono esauriti. Il consumismo, non accettando limiti, porta alla violenza, togliendo alla Madre Terra ciò che non può più dare. Stiamo consumando l’equivalente di una Terra e mezzo. Le conseguenze di questa estorsione si manifestano nella reazione dell’esausta Madre Terra: aumento del riscaldamento globale, erosione della biodiversità (circa centomila specie eliminate ogni anno e un milione in pericolo), perdita di fertilità del suolo e crescente desertificazione, tra altri fenomeni estremi.

Attraversare alcuni dei nove confini planetari (cambiamento climatico, estinzione di specie, acidificazione degli oceani e altri) può causare un effetto sistemico, facendo crollare i nove e inducendo così il collasso della nostra civiltà. L’emergere del Covid-19 ha messo in ginocchio tutti i poteri militaristici, rendendo inutili e ridicole le armi di distruzione di massa. La gamma di virus precedentemente annunciata, se non modifichiamo il nostro rapporto distruttivo con la natura, potrebbe sacrificare diversi milioni di persone e assottigliare la biosfera, essenziale per tutte le forme di vita.

Oggi l’umanità è presa dal terrore metafisico di fronte ai limiti insormontabili e alla
possibilità della fine della specie. Il Great Reset del sistema capitalista è illusorio. La Terra lo farà fallire.

È in questo drammatico contesto che emerge l’altro paradigma, quello della “salvaguardia del mondo”. È stato allevato in particolare da leader indigeni come Ailton Krenak, Davi Kopenawa Yanomani, Sônia Guajajara, Renata Machado Tupinambá, Cristine Takuá, Raoni Metuktire e altri. Per tutti loro c’è una profonda comunione con la natura, di cui si sentono parte. Non hanno bisogno di pensare alla Terra come alla Grande Madre, Pachamama e Tonantzin perché la sentono così. Proteggono naturalmente il mondo perché è un’estensione del proprio corpo.

L’ecologia del profondo e dell’integrale, come si riflette nella Carta della Terra (2000), nelle Encicliche di Papa Francesco Laudato SI: come prendersi cura della nostra casa comune (2015) e Fratelli tutti (2020), e il programma “Pace, Giustizia e Preservazione del Creato” del Consiglio Ecumenico delle Chiese, tra gli altri gruppi, hanno assunto la “salvaguardia del mondo”. Lo scopo comune è quello di garantire le condizioni fisico chimico-ecologiche che sostengono e perpetuano la vita in tutte le sue forme, in particolare la vita umana. Siamo già nella sesta estinzione di massa e l’Antropocene la sta intensificando. Se non leggiamo emotivamente, con il cuore, i dati della scienza sulle minacce che pesano sulla nostra sopravvivenza, difficilmente ci impegneremo a salvaguardare il mondo.

Papa Francesco ha seriamente ammonito nella Fratelli tutti: “O ci salviamo insieme o nessuno si salva” (n. 32). È un avvertimento quasi disperato se non si vuole “gonfiare il corteo di chi va alla propria tomba” (Z. Bauman). Facciamo il salto della fede e crediamo in ciò che dice il Libro della Sapienza: “Dio è l’amante appassionato della vita” (11,26). Se è così, non ci permetterà di scomparire così miseramente dalla faccia della Terra. Lo crediamo e lo speriamo.

“il futuro delle nostre società è un futuro ‘a colori’ ”

il messaggio di papa Francesco per la Giornata del migrante e del rifugiato:

la Giornata si celebrerà il 26 settembre 2021

papa Francesco ha voluto dedicare il messaggio per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato a questo tema: “Verso un noi sempre più grande”, volendo così indicare un chiaro orizzonte per il cammino comune in questo mondo. Nel messaggio pubblicato oggi per la Giornata che si celebrerà il 26 settembre 2021, papa Francesco ha ricordato che “siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità”.

 

“Verso un noi sempre più grande”

Cari fratelli e sorelle!

Nella Lettera Enciclica Fratelli tutti ho espresso una preoccupazione e un desiderio, che ancora occupano un posto importante nel mio cuore: «Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”» (n. 35).

Per questo ho pensato di dedicare il messaggio per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato a questo tema: “Verso un noi sempre più grande”, volendo così indicare un chiaro orizzonte per il nostro comune cammino in questo mondo.

La storia del “noi”

Questo orizzonte è presente nello stesso progetto creativo di Dio: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”» (Gen 1,27-28). Dio ci ha creati maschio e femmina, esseri diversi e complementari per formare insieme un noi destinato a diventare sempre più grande con il moltiplicarsi delle generazioni. Dio ci ha creati a sua immagine, a immagine del suo Essere Uno e Trino, comunione nella diversità.

E quando, a causa della sua disobbedienza, l’essere umano si è allontanato da  Dio, Questi, nella sua misericordia, ha voluto offrire un cammino di riconciliazione non a singoli individui, ma a un popolo, a un noi destinato ad includere tutta la famiglia umana, tutti i popoli: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3).

La storia della salvezza vede dunque un noi all’inizio e un noi alla fine, e al centro il mistero di Cristo, morto e risorto «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Il tempo presente, però, ci mostra che il noi voluto da Dio è rotto e frammentato, ferito e sfigurato. E questo si verifica specialmente nei momenti di maggiore crisi, come ora per la pandemia. I nazionalismi chiusi e aggressivi (cfr Fratelli tutti, 11) e l’individualismo radicale (cfr ibid., 105) sgretolano o dividono il noi, tanto nel mondo quanto all’interno della Chiesa. E il prezzo più alto lo pagano coloro che più facilmente possono diventare gli altri: gli stranieri, i migranti, gli emarginati, che abitano le periferie esistenziali.

In realtà, siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità. Per questo colgo l’occasione di questa Giornata per lanciare un duplice appello a camminare insieme verso a un noi sempre più grande, rivolgendomi anzitutto ai fedeli cattolici e poi a tutti gli uomini e le donne del mondo.

Una Chiesa sempre più cattolica

Per i membri della Chiesa Cattolica tale appello si traduce in un impegno ad essere sempre più fedeli al loro essere cattolici, realizzando quanto San Paolo raccomandava alla comunità di Efeso: «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,4-5).

Infatti la cattolicità della Chiesa, la sua universalità è una realtà che chiede di essere accolta e vissuta in ogni epoca, secondo la volontà e la grazia del Signore che ci ha promesso di essere con noi sempre, fino alla fine dei tempi (cfr Mt 28,20). Il suo Spirito ci rende capaci di abbracciare tutti per fare comunione nella diversità, armonizzando le differenze senza mai imporre una uniformità che spersonalizza. Nell’incontro con la diversità degli stranieri, dei migranti, dei rifugiati, e nel dialogo interculturale che ne può scaturire ci è data l’opportunità di crescere come Chiesa, di arricchirci mutuamente. In effetti, dovunque si trovi, ogni battezzato è a pieno diritto membro della comunità ecclesiale locale, membro dell’unica Chiesa, abitante nell’unica casa, componente dell’unica famiglia.

I fedeli cattolici sono chiamati a impegnarsi, ciascuno a partire dalla comunità in cui vive, affinché la Chiesa diventi sempre più inclusiva, dando seguito alla missione affidata da Gesù Cristo agli Apostoli: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8).

Oggi la Chiesa è chiamata a uscire per le strade delle periferie esistenziali per curare chi è ferito e cercare chi è smarrito, senza pregiudizi o paure, senza proselitismo, ma pronta ad allargare la sua tenda per accogliere tutti. Tra gli abitanti delle periferie troveremo tanti migranti e rifugiati, sfollati e vittime di tratta, ai quali il Signore vuole sia manifestato il suo amore e annunciata la sua salvezza. «I flussi migratori contemporanei costituiscono una nuova “frontiera” missionaria, un’occasione privilegiata di annunciare Gesù Cristo e il suo Vangelo senza muoversi dal proprio ambiente, di testimoniare concretamente la fede cristiana nella carità e nel profondo rispetto per altre espressioni religiose. L’incontro con migranti e rifugiati di altre confessioni e religioni è un terreno fecondo per lo sviluppo di un dialogo ecumenico e interreligioso sincero e arricchente» (Discorso ai Direttori Nazionali della Pastorale per i Migranti, 22 settembre 2017).

Un mondo sempre più inclusivo

A tutti gli uomini e le donne del mondo va il mio appello a camminare insieme verso un noi sempre più grande, a ricomporre la famiglia umana, per costruire assieme il nostro futuro di giustizia e di pace, assicurando che nessuno rimanga escluso.

Il futuro delle nostre società è un futuro “a colori”, arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali. Per questo dobbiamo imparare oggi a vivere insieme, in armonia e pace. Mi è particolarmente cara l’immagine, nel giorno del “battesimo” della Chiesa a Pentecoste, della gente di Gerusalemme che ascolta l’annuncio della salvezza subito dopo la discesa dello Spirito Santo: «Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (At 2,9-11).

È l’ideale della nuova Gerusalemme (cfr Is 60; Ap 21,3), dove tutti i popoli si ritrovano uniti, in pace e concordia, celebrando la bontà di Dio e le meraviglie del creato. Ma per raggiungere questo ideale dobbiamo impegnarci tutti per abbattere i muri che ci separano e costruire ponti che favoriscano la cultura dell’incontro, consapevoli dell’intima interconnessione che esiste tra noi. In questa prospettiva, le migrazioni contemporanee ci offrono l’opportunità di superare le nostre paure per lasciarci arricchire dalla diversità del dono di ciascuno. Allora, se lo vogliamo, possiamo trasformare le frontiere in luoghi privilegiati di incontro, dove può fiorire il miracolo di un noi sempre più grande.

A tutti gli uomini e le donne del mondo chiedo di impiegare bene i doni che il Signore ci ha affidato per conservare e rendere ancora più bella la sua creazione. «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”» (Lc 19,12-13). Il Signore ci chiederà conto del nostro operato! Ma perché alla nostra Casa comune sia assicurata la giusta cura, dobbiamo costituirci in un noi sempre più grande, sempre più corresponsabile, nella forte convinzione che ogni bene fatto al mondo è fatto alle generazioni presenti e a quelle future. Si tratta di un impegno personale e collettivo, che si fa carico di tutti i fratelli e le sorelle che continueranno a soffrire mentre cerchiamo di realizzare uno sviluppo più sostenibile, equilibrato e inclusivo. Un impegno che non fa distinzione tra autoctoni e stranieri, tra residenti e ospiti, perché si tratta di un tesoro comune, dalla cui cura come pure dai cui benefici nessuno dev’essere escluso.

Il sogno ha inizio

Il profeta Gioele preannunciava il futuro messianico come un tempo di sogni e di visioni ispirati dallo Spirito: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). Siamo chiamati a sognare insieme. Non dobbiamo aver paura di sognare e di farlo insieme come un’unica umanità, come compagni dello stesso viaggio, come figli e figlie di questa stessa terra che è la nostra Casa comune, tutti sorelle e fratelli (cfr Enc. Fratelli tutti, 8).

Preghiera

Padre santo e amato,
il tuo Figlio Gesù ci ha insegnato
che nei Cieli si sprigiona una gioia grande
quando qualcuno che era perduto
viene ritrovato,
quando qualcuno che era escluso, rifiutato o scartato
viene riaccolto nel nostro noi,
che diventa così sempre più grande.

Ti preghiamo di concedere a tutti i discepoli di Gesù
e a tutte le persone di buona volontà
la grazia di compiere la tua volontà nel mondo.
Benedici ogni gesto di accoglienza e di assistenza
che ricolloca chiunque sia in esilio
nel noi della comunità e della Chiesa,
affinché la nostra terra possa diventare,
così come Tu l’hai creata,la Casa comune di tutti i fratelli e le sorelle. Amen.

Roma, San Giovanni in Laterano, 3 maggio 2021, Festa dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo 

Francesco

il vescovo Perego e il rinvio a giudizio di Salvini

“il rinvio a giudizio di Salvini sia un segnale importante anche dal punto di vista politico”

il commento dell’arcivescovo Perego

“certo non ha fatto il bene delle persone”

Il rinvio a giudizio dell’ex ministro dell’Interno per la vicenda Open Arms rappresenta

“il rispetto di una Costituzione che deve andare fino in fondo se un diritto fondamentale come il diritto di asilo non sia stato tutelato e poi è un segnale importante sul piano politico, è cioè di non fare cadere nel silenzio una tragedia che continuamente sta facendo morti”.

Lo sottolinea all’Adnkronos monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara da sempre in prima linea per i rifugiati anche come direttore generale della fondazione Cei Migrantes, riflettendo sul rinvio a giudizio per sequestro di persona disposto nei confronti del leader della Lega.

Salvini, uscendo dal Tribunale, ha commentato che andrà a processo a testa alta per avere fatto il “bene del Paese”. E’ così?

“Se avrà fatto il bene del Paese – osserva il ’vescovo dei migranti’ – lo deciderà la magistratura. Di certo non ha fatto il bene delle persone, tra loro anche malati rimasti per giorni in mezzo al mare; non ha dato l’ immagine di un Paese nel quale la Costituzione dispone la tutela per i richiedenti asilo. Quelle persone non sono state tutelate”.

L’arcivescovo di Ferrara-Comacchio ricorda quindi che

“l’Italia e gli altri Paesi europei devono superare quella immobilità ancora presente sulla riforma del regolamento di Dublino in modo tale che il principio di solidarietà venga tutelato. Abbiamo visto anche nella pandemia la debolezza dell’Europa sulla solidarietà, sia sul tema dell’immigrazione, del diritto di asilo, sia sul tema della salute perché di fatto si è andati in ordine sparso e su alcuni principi fondamentali della tutela della persona l’Europa è ancora da costruire”.

Da qui l’auspicio che

“questo rinvio a giudizio sia un segnale importante anche dal punto di vista politico: si vedrà se i diritti fondamentali sono stati lesi o meno. Oltretutto è chiaro che il respingimento che avviene anche oggi è un dato allarmante che non può lasciare in silenzio le forze in campo. Anche i continui ostacoli a
riorganizzare soccorsi in mare sono un altro segnale non positivo perché non solo non si interviene ma si ostacola chi interviene a tutelare la vita delle persone”.

il «virus dell’indifferenza», letale quanto il Covid, genera «ingiustizia sociale» e porta a scartare e sfruttare i poveri

papa Francesco

la politica non disprezzi i poveri, scartandoli o sfruttandoli a fini di potere

Videomessaggio ai partecipanti alla conferenza internazionale “A Politics Rooted in the People”. Francesco scrive ai vescovi del Brasile colpito dal Covid: «Il virus dell’indifferenza infetta l’umanità e genera ingiustizia sociale»

Papa Francesco

Francesco esprime il suo sostegno al loro lavoro che, a volte, «può risultare scomodo». «Alcuni – dice – vi accusano di essere troppo politici, altri di voler imporre la religione. Ma voi percepite che rispettare il popolo è rispettare le sue istituzioni, anche quelle religiose; e che il ruolo di queste istituzioni non è imporre nulla, bensì camminare con il popolo, ricordandogli il volto di Dio che ci precede sempre».

Nel filmato, interamente in spagnolo, Francesco si appella alla politica chiedendo, anzi, implorando di non disinteressarsi dei poveri, disprezzandone cultura e valori, anche quelli religiosi, «sia scartandoli sia sfruttandoli, a fini di potere». «Il disprezzo della cultura popolare è l’inizio dell’abuso di potere», afferma il Papa. «Quando il popolo è scartato – è la sua denuncia – viene privato non solo del benessere materiale, ma anche della dignità dell’agire, dell’essere protagonista della sua storia, del suo destino, dell’esprimersi con i suoi valori e la sua cultura, della sua creatività, della sua fecondità».

Anche la Chiesa viene chiamata in causa dal Pontefice: «Per essa è impossibile separare la promozione della giustizia sociale dal riconoscimento dei valori e della cultura del popolo, includendo i valori spirituali che sono fonte del suo senso di dignità».

Il Papa esprime quindi il suo “sogno” già rivelato nel libro: «Che tutte le diocesi del mondo abbiano una collaborazione sostenuta con i Movimenti popolari», perché «andare incontro a Cristo ferito e risorto nelle comunità più povere ci consente di riacquistare il nostro vigore missionario, perché così è nata la Chiesa, nella periferia della Croce». Se la Chiesa smette di interessarsi dei poveri, «rivive le vecchie tentazioni di trasformarsi in una élite intellettuale o morale», «una nuova forma di pelagianesimo o di vita essena».

Secondo il Vescovo di Roma, c’è un rischio grande che è quello di farsi contagiare dal «virus dell’indifferenza». Lo scrive nel messaggio ai vescovi del Brasile riuniti nella loro 58esima Assemblea Generale, che si apre con parole di vicinanza alle migliaia di famiglie del Paese latinoamericano, tra i più colpiti dalla emergenza sanitaria, che piangono la perdita dei loro cari a causa del Covid, e con un ricordo dei vescovi vittime sempre del coronavirus.

«Questo andarsene senza poter salutare, questo andarsene nella solitudine più spogliata è uno dei dolori più grandi che hanno quelli che ci lasciano», afferma Papa Francesco. Di fronte a un dramma così enorme, bisogna mettere da parte «divisioni e disaccordi» e lavorare uniti «per superare non solo il coronavirus, ma un altro virus che da tempo infetta l’umanità: il virus dell’indifferenza che nasce dall’egoismo e genera ingiustizia sociale».

Parole in linea con il videomessaggio inviato sempre oggi dal Pontefice al Congresso internazionale dedicato a santa Teresa d’Avila, dal titolo “Donna eccezionale”, mutuato dalla definizione di Paolo VI della santa. Il congresso termina oggi all’università cattolica della città castigliana, nel 50esimo anniversario del dottorato di santa Teresa.

Come all’epoca di Teresa (il XVI secolo), anche oggi «viviamo in “tempi difficili”, non facili, che hanno bisogno degli “amici fedeli di Dio”, amici forti», annota il Papa nel filmato. «La grande tentazione è quella di cedere alla disillusione, alla rassegnazione, al triste e infondato presagio che tutto andrà male». Ecco, proprio «quel pessimismo sterile, quel pessimismo di persone incapaci di dare la vita» rappresenta una grande piaga per l’umanità odierna perché «chiude le persone nei loro recinti protetti». Invece Dio chiama ad aprirsi e a farlo nel segno della misericordia: «Tale cammino – rimarca il Pontefice – non è aperto a coloro che si considerano puri e perfetti, i catari di tutti i secoli, ma a coloro che, consapevoli dei loro peccati, scoprono la bellezza della misericordia di Dio, che accoglie tutti, redime tutti e chiama tutti alla sua amicizia».

 

anche la chiesa e la sua teologia hanno bisogno di una rifondazione?

CHE NE SARA’ DELLA CHIESA SENZA UNA NUOVA TEOLOGIA?

di Augusto Cavadi

 
è urgente anche, e per certi versi prioritariamente, una rivoluzione mentale. Nessuna riforma ecclesiale sarà incisiva e duratura senza una riforma del pensiero, del modo di concepire Dio e il mondo. Insomma: senza una nuova teologia

Ciò che leggiamo nel Vangelo secondo Luca (2,34- 35) a proposito di Gesù (“segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori”) lo possiamo ripetere per ogni “spada che trafigge l’anima” (ivi) dell’umanità, come la pandemia in corso nel mondo. Nell’ordinarietà del quotidiano possiamo procedere ambiguamente, in una sorta di zona grigia fra incredulità e fede, rimandando a data da destinarsi le domande cruciali sulla vita e sulla morte: ma, quando alcune calamità ci colpiscono più direttamente e più insistentemente, siamo costretti a sbilanciarci. Se non col pensiero, almeno nei fatti: con i gesti, i comportamenti privati e pubblici. Abbiamo assistito così, in questi mesi, alla divaricazione più netta delle correnti compresenti nel vasto mondo della cattolicità. Negli ambienti conservatori, tradizionalisti (le cui opinioni – espresse per esempio negli articoli di “Corrispondenza romana” – riesco a seguire solo per dovere di informazione), è stato un tripudio di suppliche, rosari, novene, processioni più o meno clandestine, benedizioni impartite per via aerea da elicotteri appositamente noleggiati… Gli ambienti più inquieti, più critici, sono stati spiazzati da questa sorta di “rivincita” del sacro che è apparsa come un salto indietro di alcuni secoli nella storia della devozione cattolica. Troppo ovvia la domanda: se Dio può fermare l’epidemia, perché aspetta le nostre preghiere per agire? Ha forse bisogno del sacrificio di migliaia di uomini e donne prima di muoversi a pietà? Nel mezzo, per così dire, Papa Francesco: se la scena di questo vecchio che avanza claudicante, sotto la pioggia sferzante, in una piazza San Pietro deserta, ha senza dubbio impressionato l’immaginario collettivo, non si può negare che per alcuni di noi il suo pellegrinaggio ad un’icona della Madonna per chiedere la fine dell’epidemia è risultato sconcertante. Questo scenario ci suggerisce molte riflessioni di cui posso qui evocarne solo qualcuna. Che ne sarà della Chiesa di papa Bergoglio? Ad ogni enciclica, ad ogni sinodo, ad ogni omelia siamo costretti a constatare che il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto: un passo avanti e uno indietro, un passo a sinistra e uno a destra, un saltello in alto e una flessione in basso. Ci siamo ripetuti a vicenda che da solo un papa non può riformare una Chiesa e che c’è bisogno di un movimento dal basso che lo sostenga e lo solleciti. Vero. Ma questo movimento dal basso che strumenti deve mettere in atto? Raccogliere firme, organizzare cortei, promuovere convegni, convocare assemblee, scrivere sui quotidiani, esprimersi sui social network…tutto giusto. Ma anche sufficiente? Non so se per deformazione professionale, ma mi sento obbligato a precisare che è urgente anche, e per certi versi prioritariamente, una rivoluzione mentale. Nessuna riforma ecclesiale sarà incisiva e duratura senza una riforma del pensiero, del modo di concepire Dio e il mondo. Insomma: senza una nuova teologia. E qui casca l’asino. Per quanto ne posso capire, papa Francesco e i suoi sostenitori sono indeboliti da un patrimonio intellettuale appartenente a un ‘paradigma’ (direbbe Küng seguendo Fayerabend) ormai insostenibile. Il Dio della Bibbia e della tradizione teologica occidentale è troppo antropomorfico per reggere l’urto dell’evoluzionismo darwiniano, della fisica quantistica e delle nuove teorie cosmologiche; il Cristo della devozione tradizionale è molto più vicino al pantocratore delle cattedrali normanne della mia Sicilia che al Gesù dei vangeli; la Chiesa cattolica è troppo simile all’impero romano d’occidente che alla famiglia dei discepoli erranti per il mondo, dotati solo di un bastone e di una bisaccia. Con questa visione teologica complessiva, mi pare non si vada molto lontano. In Italia la maggior parte dei teologi sembra non avvertire neppure le colossali dimensioni di questa problematica: tranne poche eccezioni (tra cui Carlo Molari, Cosimo Scordato, Vito Mancuso), sono solo alcuni biblisti (come Ortensio da Spinetoli, Franco Barbero e Alberto Maggi) a ricercare nuove prospettive sul divino. In occasione di questa pandemia, su iniziativa di don Paolo Scquizzato, è uscito un volume (La goccia che fa traboccare il vaso. La preghiera nella grande prova) che – pur nella varietà dei punti di vista – procede in questa direzione. Per fortuna ci sono nel mondo – cattolico e soprattutto protestante – dei ricercatori più coraggiosi come il gesuita Roger Lenaers (autore, tra l’altro, di Cristiani nel XXI secolo? Una rilettura radicale del credo) o il Vescovo episcopaliano John Shelby Spong (autore, tra l’altro, di Perché il cristianesimo deve cambiare o morire) che avanzano critiche radicali a quella impostazione che – non so quanto felicemente – definiscono ‘teismo’. Di questi tentativi non sapremmo nulla se l’agenzia di stampa “Adista” non ce ne parlasse spesso e se studiosi come don Ferdinando Sudati e Claudia Fanti non avessero pubblicato in italiano libri come cavad, Il cosmo come rivelazione, Una spiritualità oltre il mito. Personalmente sono convinto che questi studi sono più convincenti nella pars destruens che nella pars construens : ma se non si fanno ipotesi, se non ci si confronta creativamente e liberamente, si resta muti. La ‘destra’ cattolica ha duemila anni di volumi (dagli apologisti del II secolo a Joseph Ratzinger) cui attingere per riproporre la solita minestra (che l’opinione pubblica istruita tende a rifiutare sempre più diffusamente): gli altri abbiamo troppo poco in mano e dobbiamo darci da fare. Cioè: da pensare, da discutere, da scrivere, da divulgare.

di Augusto Cavadi, 27 Giugno 2020, www.zerozeronews.it

in morte di Hans Kung un teologo libero a servizio del vangelo

E’ MORTO HANS KUNG, UN GRANDE TEOLOGO
LIBERO E IMPERTINENTE. A SERVIZIO DEL VANGELO
un ricordo di Daniele Rocchetti
Ricordo la prima volta che lo incontrai. Ero a Gerusalemme con don Roberto Pennati, A quel tempo si potevano ancora visitare internamente gli edifici sulla Spianata. Don Roberto ed io riconoscemmo Kung dentro la magnifica Cupola della Roccia. Ci salutammo e uscimmo fuori insieme. In un perfetto italiano, ci parlò a lungo del suo sogno di Chiesa e terminò la chiacchierata raccontandoci una barzelletta. Impertinente.
—–
Anni fa – poco prima che terminasse il pontificato di Giovanni Paolo II – memore di quell’incontro gli chiesi un’intervista che mi accordò subito e che allego qui sotto. Un dialogo che bene racconta la prospettiva con cui il teologo svizzero – otto volte dottore honoris causa, insignito del premio Karl Barth dall’Unione delle Chiese evangeliche di Germania – ha interpretato il suo impegno a servizio della Chiesa.
Una postilla. Nella redazione della rivista dove lavoravo, discutemmo a lungo se pubblicare o meno l’intervista. Alla fine per prudenza decidemmo di soprassedere. Avevamo già avuto “richiami” e non volevamo prestare il fianco ad ulteriori problemi. Era il “clima” che spirava nella Chiesa di allora.
—–
Hans Küng è , certamente, uno dei teologi cattolici più conosciuti e discussi. Perito conciliare al Vaticano II, uomo di punta della teologia tedesca, autore di una serie di testi che, agli inizi degli anni settanta, avviano, a volte polemicamente, una riflessione all’interno della comunità cristiana. Le sue posizioni sui temi della morale sessuale, il celibato dei preti, il ruolo del papa, hanno fanno molto discutere e lo hanno portato a continui scontri con la gerarchia. Il caso diventa pubblico nel 1979 quando gli viene revocata la possibilità di insegnare come teologo cattolico in una facoltà teologica; nel medesimo anno l’Università di Tübinga procede a nominarlo professore ordinario, indipendente da una facoltà, di teologia ecumenica e a riconfermarlo con lo stesso status accademico alla direzione dell’Istituto per la ricerca ecumenica – a sua volta scorporato dalla Facoltà cattolica di teologia. Questo gli ha permesso di lavorare alacremente sui temi dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. Finito a non molto tempo fa, nonostante l’età, Küng ha continuato a muoversi da un capo all’altro del mondo per portare il suo messaggio di pace tra le religioni. Il ruolo di promotore di un’”etica mondiale” è quello che oggi più lo caratterizza, senza per questo trascurare altri argomenti scottanti, dall’azione pastorale della Chiesa alla morale sessuale, con prese di posizione che continuano a fare di lui un personaggio controverso.
Sono passati molti anni dalla morte di Papa Giovanni XXIII: che ricordo ne ha? Cosa ha rappresentato per la chiesa e per il mondo?
A mio avviso, Giovanni XXIII è stato il papa più significativo del ventesimo secolo, il solo che il popolo cattolico aveva già da tempo beatificato senza bisogno delle prove dei miracoli. Con lui si è inaugurata una nuova stagione nella storia della chiesa cattolica. E’ Giovanni XXIII, nonostante la forte resistenza della curia romana, ad aprire la chiesa, ancora arroccata nel paradigma medievale controriformistico e anti-moderno, verso la via dell’aggiornamento, verso una proclamazione del Vangelo al passo con i tempi, verso una comprensione con le altre chiese cristiane, con l’ebraismo e con le altre religioni mondiali, verso un contatto con i paesi dell’Est, verso una giustizia sociale internazionale (pensi all’enciclica Mater et Magistra del 1961) e verso l’apertura al mondo moderno e all’affermazioni dei diritti umani (la Pacem in Terris del 1963). Con la sua condotta collegiale, papa Roncalli ha rafforzato il ruolo dei vescovi manifestando una nuova percezione pastorale dell’ufficio papale.
Lei ha partecipato come teologo – perito al Concilio Vaticano II. L’assise conciliare quale via ha aperto alla chiesa? Quali sono gli elementi di novità?
Certamente l’atto più significativo del pontificato di Giovanni XXIII è stato l’annuncio – il 25 gennaio del 1959 – del Concilio Vaticano II. Fu un atto che sorprese la chiesa e il mondo intero. Come ho scritto nel mio libro pubblicato da Rizzoli nel 2001 (La chiesa cattolica. Una breve storia.) è stato un punto di svolta decisivo. Con il Vaticano II, il cattolicesimo – malgrado tutte le difficoltà poste dal medievale sistema romano – ha tentato di ripercorrere i mutamenti di paradigma in una volta sola: ha infatti integrato fondamentali aspetti sia del paradigma riformatore, sia di quello illuministico e moderno.
Cosa ha voluto dire concretamente?
Vuol dire che il Concilio, integrando il paradigma riformatore, ha riconosciuto, per la prima volta, la complicità cattolica nella separazione della chiesa il bisogno sempre costante di riforme. Una volta si diceva “Ecclesia sempre reformanda”: occorreva cioè un costante rinnovamento nella vita e nella dottrina della chiesa secondo il Vangelo. Con il Concilio Vaticano II questo è diventato un principio anche per la chiesa cattolica. Non solo: con l’assise conciliare, le altre confessioni cristiane sono state finalmente riconosciute come chiese. Inoltre, sono state prese in considerazione una serie di centrali istanze evangeliche. Almeno in principio, ma spesso anche in termini pratici: un nuovo rispetto per la Bibbia nella liturgia, nella teologia e nella vita sia della chiesa che dei singoli credenti; l’introduzione della lingua volgare nella liturgia e una riforma della celebrazione eucaristica più legata alla comunità. Pensi anche alla rivalutazione dei laici, attraverso l’ammissione agli studi di teologia e alla formazione dei consigli parrocchiali e diocesani; all’importanza delle chiese locali e delle conferenze episcopali nazionali.
Per quanto riguarda il paradigma moderno?
Anche in questo caso i passi in avanti – almeno sulla carta – sono stati parecchi. Con il Vaticano II si è avuta una chiara affermazione della libertà di religione e di coscienza oltre che dei diritti umani in generale; un positivo cambio d’atteggiamento nei confronti dell’ebraismo e delle altre religioni al punto da riconoscere che la salvezza è possibile anche fuori dal cristianesimo, persino per gli atei e per gli agnostici, se essi agiscono in accordo con le loro coscienze. Inoltre, si è registrato un nuovo e positivo atteggiamento nei confronti del progresso moderno, a lungo condannato, e verso il mondo secolare, soprattutto per la scienza e la democrazia. E’ chiaro che tutto questo ha coinvolto profondamente la percezione della chiesa stessa. Il Concilio ha definitivamente chiuso con quel modello di chiesa intesa come una sorta di impero sovrannaturale che era rimasto intatto dall’XI secolo. In quel modello, il papa era posto al vertice come un sovrano assoluto a cui seguiva poi l’ “aristocrazia” dei vescovi e dei preti e infine – relegato ad una funzione del tutto passiva – il popolo dei credenti. Si voleva superare questa immagine di chiesa clericalizzata e trionfalistica per giungere all’immagine di “popolo di Dio”, comunità di credenti costantemente in cammino nel mondo. In questo modo si sono richiamate verità ignorate per secoli: coloro che ricoprono uffici ecclesiastici non sono sopra del popolo di Dio, bensì al suo interno. Essi non sono governanti ma servi!
Qualcosa però non ha funzionato del tutto.. Quali sono, a suo avviso, i punti di arresto della chiesa contemporanea rispetto alle indicazioni conciliari?
Non dico nulla di nuovo sostenendo che, sin dall’inizio, la macchina della curia fece tutto ciò che poteva per tenere sotto controllo il Concilio, avviando una lotta costante con i padri conciliari, la cui maggioranza – solida del resto – era progressista. La morte di Giovanni XXIII peggiorò alquanto la situazione e nei lavori si giunse spesso a forme di compromesso che impedirono un reale e radicale rinnovamento. Molte questioni furono accantonate: un nuovo ordine per la nomina dei vescovi, la riforma della curia e, soprattutto, del papato stesso. Addirittura, con la fine del Concilio assistemmo tutti ad una vera e propria restaurazione. Nonostante alcune concessioni, il rinnovamento si è fermato, al punto che molti parlano – e giustamente, a mio avviso – di “tradimento” del Concilio. Un tradimento che, in tutto il mondo, ha alienato una massa crescente di cattolici dalla chiesa. In poche battute: al posto delle parole programmatiche conciliari, vi sono le parole di un magistero spesso conservatore e autoritario; al posto dell’ “aggiornamento” nello spirito del Vangelo vi è una nuovamente una “dottrina cattolica” tradizionale e integrale (rigorose encicliche sulla morale, un catechismo tradizionale): al posto di una “collegialità” del papa con i vescovi vi è nuovamente un centralismo romano che, nella nomina dei vescovi e nell’assegnazione delle cattedre teologiche, pone se stesso al di sopra degli interessi delle chiese locali. Non solo: invece del “dialogo” vi è un rafforzamento del sistema inquisitoriale e un rifiuto della libertà di coscienza e di insegnamento all’interno della chiesa; invece dell’ “ecumenismo” si pone l’accento su tutto ciò che è romano-cattolico…
Da tempo, lei sta lavorando attorno al progetto di un’etica mondiale. Cosa vuol dire e cosa rappresenta?
Bisogna precisare, anzitutto, che un’etica mondiale non significa l’unità di tutte le religioni. Sarebbe, naturalmente, illusorio. Non significa neanche una “superstruttura” che comprenda tutte le religioni e nemmeno un sistema etico preciso alla stregua di quelli elaborati da Aristotele, Tommaso d’Aquino o Kant. Significa, semplicemente, che – come dicono le più grandi tradizioni religiose e filosofiche dell’umanità – alcuni standard e valori elementari ed etici dovrebbero oggi essere condivisi da tutte le persone. Penso, ad esempio, alle “regole d’oro”. “Chiunque tu sia, uomo o donna, bianco o nero, ricco o povero, giovane o vecchio, devi essere trattato umanamente, non in modo inumano, bestiale”. O a quella di antica tradizione, che risale fino a Confucio: “Non fare agli altri ciò che non vuoi che gli altri facciano a te”. Il Vangelo va ancora oltre, dicendo: “Fa agli altri ciò che vuoi che gli altri facciano a te”, “Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne due”. Da tutti questi, derivano, evidentemente, i più comprensibili imperativi dell’umanità: non assassinare, non mentire, non rubare, non abusare del sesso.
Nonostante l’attuale stagnazione del dialogo ecumenico, i cristiani non potranno fare a meno di ritrovarsi insieme. Lei parla spesso di “diversità riconciliata”. Cosa vuole dire?
Qui non funziona l’idea di una chiesa unitaria o il “rientro” di tutte le altre confessioni cristiane nella chiesa cattolica. Chi la pensa in questo modo, si è opposto duramente al Vaticano II. Vedo però, dal punto di vista ecumenico, un lento crescere assieme. Sia nella base che nei vertici. In fondo, l’eredità del Concilio è stata anche la moltiplicazione di commissioni di lavoro dove si è incominciato a parlarsi e a riconoscere il valore della diversità. Certo, le resistenze sono ancora tante. Però malgrado l’attuale “depressione ecumenica” io nutro la fondata speranza che la cristianità troverà presto la strada verso un paradigma ecumenico. Per le nuove confessioni, il tempo del confessionalismo è finalmente passato. Ho scritto e detto più volte che una cristianità uniforme non è né probabile né desiderabile. Ma dopo l’abolizione di tutte le scomuniche reciproche, verrà un tempo non più caratterizzato da tre confessioni antagoniste (ortodossa, cattolica, evangelica) ma solo da tre attitudini di base complementari.
Cosa ha voluto dire per lei essere fedele alla Chiesa cattolica?
Vorrei dirle, anzitutto, che mi sono sempre sentito un prete e un teologo cattolico. Sia la gente che gli studenti dell’università mi considerano tale, anche se i vescovi, per paura di Roma, non lo ammettono. Sono invitato in tutto il mondo da istituzioni cattoliche, anche se, dal 1979, la Congregazione per la dottrina della fede e il Papa affermarono senza mezzi termini che “non potevo più insegnare teologia e non potevo più venire considerato un teologo cattolico”. Avevo messo in discussione i dogmi relativi al ruolo del Pontefice e alla gerarchia della Chiesa e sognavo (ma questo lo sogno ancora) una chiesa più vicina al Vangelo e più disposta alla riforma…
Lei conosce molto bene l’Islam. Oggi sono in molti a sostenere il pericolo di una deriva fondamentalista di questa religione. Lo ritiene possibile?
In tutte le religioni, anche nel cattolicesimo, esistono tendenze che spingono ad una deriva più radicale della fede. Lo stesso termine fondamentalismo è nato nel mondo evangelico americano agli inizi del secolo scorso. Personalmente, per quanto riguarda l’Islam, spero che vinca la tendenza di un mondo musulmano che dà grande peso alla religione ma, insieme, vuole la democrazia e la tolleranza.. Nel mondo musulmano, anche se non sempre ce ne accorgiamo, si stanno facendo progressi, pure a riguardo della condizione della donna. Ho molti contatti con personalità del mondo islamico e nessuna di queste si è mai espressa a favore dello “scontro di civiltà” e all’uso della religione come strumento di affermazione politica… Il contrario di quanto avviene, ad esempio, in alcune parti del mondo occidentale. Per questo sono stato contentissimo che il Papa si sia pronunciato contro la politica di guerra americana.
Daniele Rocchetti
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