la croce di Cristo e quella dei tanti crocifissi di oggi

 papa Francesco

non dimentichiamo i tanti crocifissi di oggi


nell’udienza dedicata al Triduo pasquale papa Francesco ha ricordato:
“quando andiamo a Messa è come se andassimo al Calvario”

Papa: non dimentichiamo i tanti crocifissi di oggi

 

“Non dimenticare i tanti, troppi crocifissi di oggi”. È l’invito, a braccio, per il Venerdì Santo, di cui il Papa ha ripercorso il significato, durante l’udienza di oggi, trasmessa in diretta streaming dalla biblioteca privata del Palazzo apostolico e dedicata al triduo pasquale “Adorando la Croce, rivivremo il cammino dell’Agnello innocente immolato per la nostra salvezza”, ha detto Francesco: “Porteremo nella mente e nel cuore le sofferenze dei malati, dei poveri, degli scartati di questo mondo; ricorderemo gli ‘agnelli immolati’ vittime innocenti delle guerre, delle dittature, delle violenze quotidiane, degli aborti…”.

Il testo integrale

“Davanti all’immagine del Dio crocifisso porteremo, nella preghiera, i tanti, troppi crocifissi di oggi, che solo da lui possono ricevere il conforto e il senso del loro patire”, ha sottolineato il Papa, che poi ha proseguito a braccio: “E oggi ce ne sono tanti: non dimenticare i crocifissi di oggi, sono l’immagine del Crocifisso: Gesù, e in loro è Gesù”. “Da quando Gesù ha preso su di sé le piaghe dell’umanità e la stessa morte, l’amore di Dio ha irrigato questi nostri deserti, ha illuminato queste nostre tenebre”, l’immagine usata da Francesco, che ancora a braccio ha commentato: “Anche il mondo è in tenebre. Facciamo la raccolta di tutte le guerre che in questo momento si stanno facendo, di tutti i bambini che muoiono di fame, che non hanno educazione, di popoli interi distrutti dalle guerre, dal terrorismo, e di tanta, tanta gente che per sentirsi un po’ meglio ha bisogno dell’industria della droga che uccide. E’ una calamità, è un deserto. Ci sono nel mondo piccole isole che conservano ancora la voglia essere di essere migliori, ma diciamoci la realtà: in questo calvario di morte è Gesù che soffre, con i suoi discepoli”.

Il Papa: il bene trionfa sempre sul male, la vita vince sempre la morte

Il Sabato Santo è “il giorno del silenzio”, ma “nelle tenebre del Sabato santo irromperanno la gioia e la luce con i riti della Veglia pasquale e in tarda serata il canto festoso dell’Alleluia. Sarà l’incontro nella fede con Cristo risorto e la gioia pasquale si prolungherà per tutti i cinquanta giorni che seguiranno”. Lo ha ricordato il Papa, nella catechesi dell’udienza di oggi, trasmessa in diretta streaming dalla Biblioteca privata del Palazzo apostolico e dedicata al triduo pasquale. “Colui che era stato crocifisso è risorto!”, ha proseguito Francesco: “Tutte le domande e le incertezze, le esitazioni e le paure sono fugate da questa rivelazione. Il Risorto ci dà la certezza che il bene trionfa sempre sul male, che la vita vince sempre la morte e la nostra fine non è scendere sempre più in basso, di tristezza in tristezza, ma salire in alto. Il Risorto è la conferma che Gesù ha ragione in tutto: nel prometterci la vita oltre la morte e il perdono oltre i peccati”.

Francesco: “Chi serve il denaro è contro Dio”

“I discepoli dubitavano, non credevano. La prima a credere e a vedere è stata Maddalena, l’apostola della Resurrezione, che è andata a raccontare che Gesù l’aveva vista, l’aveva chiamata per nome, e poi tutti i discepoli l’hanno visto”. Lo ha detto, a braccio, il Papa, nella catechesi dell’udienza di oggi, trasmessa in diretta streaming dalla Biblioteca privata del Palazzo apostolico, Francesco si è soffermato su un altro episodio particolare che ha a che fare con la Resurrezione. “Le guardie, i soldati che erano nel sepolcro per non lasciare che venissero i discepoli e prendessero il suo corpo lo hanno visto, lo hanno visto vivo risorto. I nemici lo hanno visto. E poi hanno fatto finta di non averlo visto. Perché? Perché sono stati pagati”. “Qui è il vero mistero”, ha commentato ancora a braccio, che ha a che fare con “quello che Gesù disse una volta”: “Ci sono due signori nel mondo, due: Dio e il denaro. Chi serve il denaro è contro Dio. Qui il denaro ha fatto cambiare la realtà. Avevano visto la meraviglia della Risurrezione, ma sono stati pagati per tacere. Pensiamo, tante volte, uomini e donne cristiani sono stati ‘pagati’ per non riconoscere nella pratica la Risurrezione di Cristo, e non fanno quello che Cristo ci ha chiesto di fare come cristiani”.

“Anche quest’anno vivremo le celebrazioni pasquali nel contesto della pandemia”

“Cari fratelli e sorelle, anche quest’anno vivremo le celebrazioni pasquali nel contesto della pandemia. In tante situazioni di sofferenza, specialmente quando a patirle sono persone, famiglie e popolazioni già provate da povertà, calamità o conflitti, la Croce di Cristo è come un faro che indica il porto alle navi ancora al largo nel mare in tempesta. La croce di Cristo è il segno della speranza che non delude; e ci dice che nemmeno una lacrima, nemmeno un gemito vanno perduti nel disegno di salvezza di Dio”. Con queste parole il Papa ha concluso la catechesi dedicata ai riti centrali della Settimana Santa, nella seconda Pasqua che ci apprestiamo a celebrare in tempi di Coronavirus, con le necessarie misure restrittive dovute all’emergenza sanitaria purtroppo ancora in corso. “Chiediamo al Signore che ci dia la grazia di servirlo, di riconoscere questo Signore, e di non lasciarci pagare per dimenticarlo”, l’appello finale.

Da domani i giorni centrali dell’anno liturgico: si apre il Triduo pasquale

“Da domani a domenica vivremo i giorni centrali dell’Anno liturgico, celebrando il mistero della Passione, della Morte e della Risurrezione del Signore”. Aveva spiegato il Papa riferendosi al Triduo pasquale, che comincia domani primo aprile, Giovedì santo.
“Questo mistero lo viviamo ogni volta che celebriamo l’Eucaristia”, ha spiegato a braccio a proposito del Giovedì Santo: “Quando noi andiamo a messa, non solo andiamo a pregare, andiamo a rinnovare, a fare di nuovo questo mistero pasquale. E’ importante non dimenticarlo: è come se andassimo al Calvario”. “La sera del Giovedì Santo, entrando nel Triduo pasquale, rivivremo nella Messa in Coena Domini, cioè una messa dove si commemora l’ultima cena, quanto avvenne durante quel momento”, ha ricordato Francesco: “È la sera in cui Cristo ha lasciato ai suoi discepoli il testamento del suo amore nell’Eucaristia, ma non come ricordo, ma come memoriale, come sua presenza perenne. Ogni volta che si celebra l’Eucaristia si rinnova questo mistero della redenzione. In questo sacramento, Gesù ha sostituito la vittima sacrificale con sé stesso: il suo Corpo e il suo Sangue ci donano la salvezza dalla schiavitù del peccato e della morte, la salvezza da ogni schiavitù. È la sera in cui Egli ci chiede di amarci facendoci servi gli uni degli altri, come ha fatto lui lavando i piedi dei discepoli”. “Un gesto che anticipa l’oblazione cruenta sulla croce, che è stata un’oblazione di servizio a tutti noi”, ha spiegato il Papa: “Quel servizio del suo sacrificio ci ha redenti tutti. E infatti il Maestro e Signore morirà il giorno dopo per rendere mondi non i piedi, ma i cuori e l’intera vita dei suoi discepoli”.

una riflessione sul giovedì santo

“come ho fatto io fate anche voi”

meditazione di E. Bianchi per giovedì santo 2020 

OMELIA IN COENA DOMINI (anno A)

Con questa liturgia noi tentiamo, possiamo solo tentare, di entrare nel mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza che riviviamo in questi tre giorni santi della passione, morte e resurrezione del Signore.

È soprattutto l’ascolto della Parola che ci permette di partecipare a questo mistero: ciò che abbiamo ascoltato come Legge nel libro dell’Esodo (Es 12,1-14), la memoria eucaristica che fa Paolo ai cristiani di Corinto (1Cor 11,23-32) e il vangelo della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15) ci narrano alcuni aspetti della Pasqua del Signore, e noi nella nostra povertà di anno in anno cerchiamo di scrutarli, di conoscerli un po’ di più, per poter passare dalla conoscenza all’amore del Signore, dalla conoscenza al realizzare quotidianamente ciò che ci viene rivelato.

Il mistero pasquale mi appare sempre di più inesauribile, e sempre di più ho coscienza della mia inadeguatezza alla ricezione e alla trasmissione di questa parola del Signore. Però, convinto come sono che ciò che deve essere fatto, deve essere fatto e fatto bene – questa è l’unica convinzione che mi accompagnerà fino alla morte –, ancora una volta questa sera cerco di spezzare la Parola in mezzo a voi. E guardando, in un esercizio di discernimento, a ciò che è più urgente soprattutto per la nostra comunità, sosto quest’anno sulla seconda lettura, sul passo di Paolo riguardante l’istituzione dell’eucaristia da parte di Gesù. Mi fermo solo su alcune parole, senza la pretesa di commentare l’intero brano. Ma sono precisazioni, quelle che ci vengono date dal messaggio di Paolo, urgenti e decisive per la vita cristiana di ognuno di noi e di ogni comunità.

* * *
Innanzitutto l’Apostolo ricorda ai cristiani che quell’azione che essi compiono al cuore delle loro comunità, in particolare nel giorno del Signore, è un’azione che lui ha ricevuto direttamente dal Signore, e che lui ha trasmesso a loro, cristiani di Corinto, annunciando la buona notizia del Vangelo. Paolo ha ricevuto un’azione, un gesto, delle parole che vengono dal Signore stesso! L’eucaristia non è qualcosa che la chiesa si è data o che qualcuno ha normato: è semplicemente un’azione ricevuta dal Signore e che sempre deve essere trasmessa ai credenti in lui nella pienezza del mistero che contiene.
Ecco perché Paolo innanzitutto precisa: “Nella notte in cui Gesù fu tradito, consegnato”, dunque nella notte del tradimento, nella notte del non riconoscimento, nella notte dell’abbandono da parte di tutti i discepoli. Se c’è un’ora di negazione dei legami nella comunità del Signore, è proprio quella: e proprio in quella situazione Gesù consegna il gesto e le parole eucaristiche. Questo è già un messaggio di per sé: “la notte in cui fu tradito”, e significativamente la chiesa nella liturgia occidentale ce lo fa ripetere in tutte le preghiere eucaristiche. “La notte in cui fu tradito”, e si potrebbe dire: “la notte in cui fu abbandonato”, “la notte in cui fu rinnegato da Pietro”. Questo è davvero il contesto in cui Gesù fa il dono dell’eucaristia, fa il dono – lo vedremo – dell’alleanza, ma proprio quando l’alleanza è esistenzialmente rotta, infranta da parte di tutti quelli che appartenevano alla comunità del Signore. In quella notte Gesù consegna gesto e parole: questa è l’eucaristia, il memoriale essenziale alla vita di ogni chiesa. Nella notte in cui è smentita l’alleanza, Gesù celebra la sua alleanza con i suoi. Dovremmo accogliere in tutta la sua verità scandalosa questo contesto del dono dell’eucaristia, avvenuto quella notte non perché era l’ultima notte prima dell’arresto, ma perché era la notte in cui Gesù subiva esattamente ciò di cui noi siamo capaci come uomini: tradire, rinnegare, abbandonare.
Da tutti i vangeli appare con chiarezza che Gesù vuole fare una cena, un pasto di alleanza con i suoi discepoli. Ha voluto, ha progettato questo pasto, ha mandato addirittura dei discepoli perché lo preparassero, e quando è venuta l’ora ha dichiarato: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa cena con voi” (cf. Lc 22,14). Significativamente il quarto vangelo non sta neanche a dirci se quella era una cena pasquale, come precisano i sinottici: ciò che è importante, secondo Giovanni, è che si tratta di una cena di alleanza. Se guardiamo ciò che veramente fonda quella sera, non è tanto la Pasqua in sé, quanto l’alleanza. Per questo tutto quel pasto viene riassunto nel rito del pane e nel rito del vino, in un parallelismo che genera un grande significato. Pane e vino, elementi essenziali del pasto giudaico, in questa cena assumono un significato che trascende la loro materialità: Gesù ha voluto quel pasto non solo per mangiare e per bere, sempre in un contesto di preghiera e di liturgia, ma ha voluto soprattutto, attraverso quel pane e quel vino, celebrare l’alleanza.
Per questo Paolo ricorda che “Gesù prese il pane, rese grazie (eucharistésas) e lo spezzò (éklasen)”: Gesù rende grazie, cioè dice una parola di benedizione a Dio, e nella lode, nella benedizione, nel ringraziamento a Dio spezza il pane. Qui è l’essenziale, ed è qualcosa dell’eucaristia che noi non meditiamo abbastanza, forse anche perché nelle nostre eucaristie lo spezzare il pane non riceve nessun significato da parte di chi le celebra. E invece lo spezzare il pane è importante, è essenziale. Gesù prende il pane nelle mani, cioè un pane che lui riceve e accoglie da Dio; riconosce che è un dono che viene da Dio; poi lo spezza, lo divide, lo condivide. Ecco la frazione del pane.
Il pasto è un’azione dell’uomo – certamente soltanto gli uomini sanno farlo, non così gli animali – ma in quel pasto il credente riceve, ringrazia e condivide. Il pane lo si riceve per condividerlo, per “romperlo”, perché sia distribuito a tutti quelli che stanno attorno alla tavola, in modo che tutti condividano lo stesso pane. Così Gesù costituisce la comunità della tavola, di quelli che partecipano allo stesso pane, che dunque sono partecipi alla comunione, sono koinonoí e formano una koinonía, una comunione (questo è il linguaggio di Paolo). La tavola eucaristica di Gesù non è definita dall’essere giusti o ingiusti: non ce n’erano quella sera, a quel pasto eucaristico, di persone degne. Ma Gesù proprio in quel contesto ha dato il pane dicendo: “È il mio corpo per voi”. Mangiando di questo pane, nutrendosi tutti dello stesso cibo, si vive la stessa vita che è la vita di Gesù, quella di cui il suo corpo era la manifestazione più reale possibile. Tutto questo fino a essere un solo corpo, il corpo di Cristo, il corpo di cui Cristo è il capo e di cui noi siamo le membra, indegni ma membra. Questo è il dinamismo eucaristico reale e profondo, di fronte al quale le nostre preoccupazioni sulla presenza reale non solo sono inadeguate, ma sono svianti e soprattutto poco intelligenti.
Proprio ripetendo questo gesto e queste parole, come gesto e parole di Gesù, da quella sera del tradimento fino al giorno del suo ritorno nella gloria, entriamo in questa dinamica spirituale in cui diventiamo corpo di Cristo e il Cristo diventa la vita in noi. L’eucaristia è questo, non è altro! È essere alla tavola del Signore, nella quale lui spezza il suo corpo, cioè ci dà la sua vita. Non possiamo dimenticare che quella sera Gesù ha spezzato il pane per dodici apostoli che lo abbandonavano, lo rinnegavano, lo tradivano; come durante la sua vita aveva spezzato il pane con gli amici a Betania; come aveva spezzato il pane mangiando a casa dei peccatori; come aveva spezzato il pane con le folle che andavano da lui e capivano poco di ciò che lui diceva e faceva. La verità è che Gesù ha spezzato il pane con ogni sorta di commensali, tutti peccatori!
Ma Paolo, dopo aver fatto memoria di questo primo rito eucaristico, in cui l’eucaristia è una comunione in Cristo di uomini chiamati dal peccato, dalla condizione di peccatori, ci ricorda in parallelo il secondo rito: “Allo stesso modo … prese il calice, dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me’”. Le parole sul calice approfondiscono ancor di più la vita comunitaria, la koinonía, indicata soprattutto dal pane spezzato, perché precisano che questa vita è vita nell’alleanza. Ciò che la tradizione di Gerusalemme, secondo Marco e Matteo, attesta: “Questo è il mio sangue dell’alleanza” (Mc 14,23; Mt 26,27), è detto in modo chiaro dalla tradizione antiochena seguita da Luca (Lc 22,25) e da Paolo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. Ecco il termine qualificativo: “nuova alleanza”. L’alleanza tra Dio e Israele era stata rotta – “Questa alleanza, la mia alleanza, voi l’avete infranta!” (cf. Ger 31,2) –, e per questo Dio ne aveva promessa una nuova (cf. Ger 31,31), che proprio Gesù inaugura: quel calice che Gesù ha tra le mani è la nuova alleanza nel suo sangue. Ormai per entrare nell’alleanza con Dio occorre fare parte dell’alleanza nuova, nel senso di ultima e definitiva, l’alleanza siglata nel sangue di Gesù. Quel calice, grazie alla parola efficace di Gesù, contiene il suo sangue, e quel sangue è la nuova alleanza, o – se si vuole – quella vita di Gesù è la nuova alleanza. Perché se il Servo aveva ricevuto come missione di essere “alleanza per tutte le genti” (cf. Is 42,6), Gesù ha come missione di essere lui stesso l’alleanza nuova e definitiva, per sempre, che non potrà mai essere infranta, alleanza eterna. E così con questo secondo segno e con queste parole vediamo che quella che era una koinonía è anche un’alleanza.
Potremmo dire, parafrasando il commento di Paolo alle parole sul pane: “Poiché c’è un solo calice, noi comunichiamo all’unica vita che è Gesù Cristo, perché beviamo a un unico calice”. Il sangue è la vita, e Gesù l’ha spesa in un sacrificio esistenziale, non un sacrificio rituale come quelli che avvenivano al tempio: non c’è rito nel sacrificio di Gesù, ma c’è piuttosto l’offerta della sua vita, di tutta la sua esistenza, a Dio e ai fratelli. Guai se noi vedessimo nel calice solo il sangue della passione del Signore, solo l’atto puntuale della sua morte: il sangue è tutta la vita di Gesù, tutta la sua vita umana che è stata un sacrificio esistenziale, una vita di servizio, di cura, di “amore fino alla fine” (cf. Gv 13,1) dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Gesù è vissuto così, leggiamo un po’ meglio i vangeli: non si è preoccupato molto del nostro peccato, si è preoccupato della sofferenza che trovava tra noi. Questa è la verità di Gesù Cristo, che dovremmo ricordare proprio noi che tante volte parliamo a nome suo e siamo capaci di vedere più il peccato che la sofferenza degli uomini. Non dimentichiamo come la Lettera agli Ebrei ha riletto il sacrificio di Cristo, in un’ottica davvero cristiana: “Venendo nel mondo”, cioè facendosi uomo, “Gesù dice” a Dio, quasi pregando: “‘Non hai voluto né sacrifici né offerte rituali, … non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato, perché non ti piacevano ed erano inefficaci. Allora ho detto: Ecco, io vengo … per fare, o Dio, la tua volontà’” (cf. Eb 10,5-7; Sal 40,7-9).
È questo il sacrificio esistenziale di Gesù: tutta la sua vita, significata dal sangue che è la vita di ogni uomo, è stata donata pienamente, totalmente a Dio e agli uomini. Dunque la koinonía, che ci viene ricordata dallo spezzare il pane, nel segno del calice appare alleanza nuova e definitiva, “alleanza eterna” – dirà ancora la Lettera agli Ebrei (Eb 13,20) –, che non viene mai meno. Paolo non precisa che questo sangue dell’alleanza è “versato per la remissione dei peccati” (Mt 26,27), “versato per le moltitudini” (Mc 14,24), “versato per voi” (Lc 22,20), ma ciò è sottinteso, perché dove c’è alleanza non c’è più peccato, i peccati vengono rimessi ed è instaurata una comunione con Dio più forte della separazione del peccato.
L’eucaristia è dunque questa comunione in alleanza nella quale ciascuno di noi resta con la propria responsabilità. Il Signore l’ha a offerta a tutti: a Giuda che lo tradiva, a Pietro che lo rinnegava, a quei discepoli insipienti e senza nessuna coraggiosa convinzione. Erano quelli gli invitati di Gesù, come siamo noi questa sera. Ognuno di noi può chiedersi se non è Giuda, se non è Pietro, se non è uno dei discepoli che hanno abbandonato Gesù. Ciò che ci chiede Paolo è di “riconoscere il corpo di Cristo”: solo se si riconosce il corpo e il sangue di Cristo, cioè la sua vita, non si ha la condanna; e solo chi non riconosce la vita di Cristo “mangia e beve la propria condanna”, perché non vede il dono che Dio gli fa.

i neologismi di papa Francesco ritenuti interessanti dall’Enciclopedia Treccani

11 neologismi di papa Francesco esaminati dalla “Treccani”

di Gelsomino Del Guercio

da Spuzzare a Mafiarsi: così l’enciclopedia italiana più autorevole esalta il linguaggio innovativo del papa

Nel ricorso a una lingua “seconda” come l’italiano, papa Francesco si rivela un innovativo inventore di neologismi. Per la prima volta l’enciclopedia Treccani parla della “lingua” di Francesco, con un intervento del professore Salvatore Claudio Sgroi, linguista dell’Università di Catania.
«Se certamente nella pronuncia lascia trasparire tracce della sua lingua nativa (per es. nell’uso delle doppie, o della realizzazione della “s”, della “z”), al livello sintattico, morfologico e lessicale si rivela invece “più italofono” degli stessi italo-nativofoni. Inevitabilmente il suo messaggio innovativo, si avvale di forme neologiche, che focalizzano concetti-chiave del suo apostolato», afferma Sgroi. Che poi, analizza 11 neologismi di Papa Francesco.

Spuzzare

L’analisi della Treccani inizia un famoso vocabolo coniato nel viaggio apostolico a Napoli. «Si ricorderà il prefissato intensivo s-puzzare ‘puzzare’: «la società corrotta spuzza» (discorso a Napoli, 21 marzo 2015). Questo termine risale al piemontese (dei nonni) spussè ‘puzzare’, indebitamente “normalizzato” (o banalizzato) e depotenziato nel denominale puzzare in non pochi giornali cartacei e on line, e in telegiornali nazionali.

Misericordiare

Il misericordiando quale resa del lat. miserando (intervista nel sett. 2013 di Antonio Spadaro S.I.) nel motto Miserando atque eligendo. Lo stesso Pontefice così commenta il proprio uso: «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».

Nostalgiare

Un altro dei neologismi di Papa Francesco è nostalgi-are (omelia del 31 dicembre 2014): «difenderci dalla nostalgia della schiavitù, difenderci dal ‘nostalgiare’ la schiavitù», dallo sp. nostalgiar (1906).

Mafiarsi

E il pronominale mafiar-si (stessa omelia): «quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a ‘mafiarsi’, quella società si impoverisce fino alla miseria». In italiano c’è invece l’intransitivo denominale mafiare ‘comportarsi da mafioso’. In sp. mafiarse appare in una precedente omelia in spagnolo del Papa (Google libri).

Commosso ‘scosso, turbato’

In seguito alla strage compiuta dall’Isis a Parigi nel novembre 2015, Papa Francesco in una intervista telefonica del 15 novembre, aveva dichiarato di essere «commosso e addolorato». Un commosso, apparentemente un po’ flebile, non molto adeguato alla gravità dell’evento, se non fosse che si tratta di un calco dello sp. conmovido che vale ‘scosso, turbato’.
Leggi anche:‘Spuzzare’ e ‘Messicanizzane’. Gli ultimi bergoglismi che fanno discutere

Zizzaniere

Un quasi “neologismo” lo ha pronunciato nel 2016. «Nella Chiesa ci sono gli ‘zizzanieri’, quelli che dividono e distruggono le comunità con la lingua» ha detto Papa Francesco il 12 maggio 2016, durante la Messa del mattino a Casa Santa Marta. Un calco strutturale sullo spagn. cizañero agg. e sost. (1599); in italiano decisamente poco comune ma pur presente (cfr. Google libri) nel 1962: «Quell’analfabeta, […] xenofobo e zizzaniere» e nel 1986 «il seminatore e il zizzaniere».

Inequità

«La perdita del senso di giustizia e la mancanza di rispetto verso gli altri […] ci hanno portato a una situazione di ‘inequità’» si è potuto leggere nel suo volume “Solo l’amore ci può salvare” (Libreria Editrice Vaticana 2013). Ancora un esempio di calco strutturale di in-equità sul prefissato sp. in-equidad, ingiustizia (dal lat. iniquitāte(m)).
Leggi anche:Un podcast per imparare tutte le nuove parole coniate dal Papa

Disisperanza

Tra i neologismi di Papa Francesco, eccone un altro: «Semina speranza, olio di speranza, profumo di speranza, non aceto di amarezza e di disisperanza». Il Papa pronunciava queste parole nell’udienza generale del 31 maggio 2017, piazza San Pietro). Un ulteriore derivato dal prefissato sp. des-esperanza ‘mancanza di speranza’, ‘non-speranza’ (neoformazione).

Nostalgioso

«’I Re Magi erano “nostalgiosi” di Dio’» si è sentito dire nell’omelia per la festa dell’Epifania (6 gennaio 2017) da parte di Papa Francesco: calco strutturale sullo sp. nostalgi-oso, neologismo ispano-americano (1938).
Prima dell’uso del Papa, nostalgi-oso esisteva potenzialmente in italiano, ma è grazie a papa Francesco, che si è realizzato in italiano, in virtù della regola di derivazione condivisa con lo spagnolo.
Leggi anche:“Misericordiando” con papa Francesco

Dormire come un legno

In una intervista radiofonica alla fine del 2016 il Papa ha dichiarato: “Dormo come un legno. Il giorno delle scosse del terremoto, non ho sentito nulla, eh?”, che ricalca lo sp. dormir como un leño. Un italo-nativofono si sarebbe forse aspettato con altro paragone dormo come un sasso. La resa letterale dello sp. sarebbe stata dormire come un ciocco, ma scartata in quanto decisamente poco usata.
Il paragone con il “ciocco”, va anche detto, è vitale nei dialetti italiani, dal nord al sud. Un solo es. il piemontese dormir como un such, ma anche nel Lazio: dormi’ come ‘n ciocco de’ legno, o nel sic.: M’ava durmutu commu un zuccu e lignu e in non poche lingue moderne (cfr. fr. dormir comme une souche).

Rapidazione

Non meno intrigante è un altro dei neologismi del Papa: rapidazione. Nel discorso del 17 febbraio 2017 agli universitari di “Roma Tre”, Papa Francesco ha voluto denunciare come nel mondo della globalizzazione «anche la fretta, la celerità della vita ci fa violenti». «Gli olandesi ‒ ha sottolineato ‒ avevano inventato una parola, “rapidazione “, come la progressione geometrica nel tempo, […]. Quando arriva alla fine è più veloce, si va più rapidi, con il pericolo di non avere il tempo di fermarsi per poter assimilare, pensare, riflettere» (Treccani.it).

i clochard morti per strada non sono un problema di decoro pubblico – è in gioco una questione di umanità

i clochard morti nell’indifferenza


A Torino e Modena senza dimora uccisi dal freddo, in Sardegna aggrediti e derisi dai minori sui social Caritas: ostilità crescente. Nosiglia: le risposte non sono i dormitori di massa

Siamo di fronte a un problema di decoro pubblico o è in gioco una questione di umanità? Con il freddo e le nuove restrizioni imposte da Comuni, si riaccende una grande emergenza sociale

Siamo di fronte a un problema di decoro pubblico o è in gioco una questione di umanità? Con il freddo e le nuove restrizioni imposte da Comuni, si riaccende una grande emergenza sociale 

di Andrea Zaghi 

Mostafa è morto a Torino poche ore fa, Filippo è morto qualche giorno prima di Natale ad Arzachena in Sardegna, stessa sorte per un ghanese trovato domenica scorsa a Formigine, nel Modenese. Scarti. Abbandonati a loro stessi, alle prese con il freddo dell’inverno, spesso derisi, maltrattati, picchiati e dati a fuoco. Un problema per tutti, anche per chi vorrebbe aiutarli. Nell’Italia alle prese con la pandemia e con la crisi politica, accade anche questo. E non è la prima volta. Mostafa Hait Bella, di origini marocchine, vende fiori in uno dei mercati del centro di Torino. Poi perde il lavoro e la casa, vive in auto e poi perde anche quella. Allora vive per strada. S’arrangia, molti nel quartiere lo conoscono. Dorme nel dehors di un bar: ogni mattina a svegliarlo sono proprio i gestori del locale.

E sono loro a trovarlo morto ieri mattina alle 7.30. Cause naturali, pare. Aveva 59 anni. Adesso nella rete circola una foto di lui, con i capelli crespi e grigi e una chitarra gialla in mano. La morte di Mostafa arriva in una città che discute da giorni proprio sul destino dei senzatetto in strada. Un problema di decoro pubblico e di sicurezza, ma anche una questione di umanità resa più assillante dalla pandemia e dalla crisi. Una questione sulla quale Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, è più volte intervenuto e che sarà tema di due incontri previsti in settimana con le istituzioni locali. «Spesso si fa un discorso teorico, senza avere mai visto in faccia queste persone – spiega l’arcivescovo –. Non servono solo a dormitori di massa».

Dura la reazione della Comunità di Sant’Egidio di Torino che dice: «Resta la cruda realtà di una morte evitabile, che chiede di non essere classificata come fatalità o, persino, come libera scelta, ma chiama alla responsabilità di tutti, a partire dalle istituzioni». Mostafa «era una persona conosciuta da tempo» viene spiegato dai servizi sociali comunali che lo descrivono come «molto gentile, cordiale ed educato », ma che aveva rifiutato «di trascorrere la notte in una casa di accoglienza ». L’ultimo incontro con il personale del servizio itinerante notturno, è avvenuto proprio sabato scorso. Più incerta, per adesso, la storia di un uomo di 60 anni, originario del Ghana irregolare e senza fissa dimora, che è stato trovato morto domenica pomeriggio in un casale abbandonato di Formigine, nel Modenese.

A dare l’allarme è stato un connazionale che è stato il primo a trovarlo nel rifugio. L’uomo era adagiato nel proprio letto. Pare fosse malato e che vivesse lì da alcuni mesi per ripararsi dal freddo, in una stanza spoglia, due pentole sul vecchio pavimento di cotto, sacchi di plastica piene di vestiti. Un’ombra svanita. Non un’ombra ma concreto bersaglio di angherie era invece Abdellah Beqeawi, di 54 anni, per tutti Filippo, clochard anche lui marocchino che viveva da decenni ad Arzachena, in Gallura, morto ufficialmente per infarto la sera del 22 dicembre scorso, nel parcheggio sotterraneo di un supermercato. La realtà che sta emergendo è però un’altra.

La Procura di Tempio Pausania ha aperto un’inchiesta, sono indagati sei ragazzini, di cui cinque minorenni (tra i 14 e i 16 anni di età), per le percosse subite da Filippo. Secondo quanto si vede in alcuni video, che da tempo girano sui social, nei giorni precedenti la morte del clochard. Si vede Filippo aggredito dai ragazzini più volte. In un video un ragazzo lo colpisce con un calcio alla schiena; in un altro, un ragazzo fa finta di offrirgli una sigaretta, per poi spegnergli la cicca sul palmo della mano, prima di colpirlo alla pancia con un calcio. Anche Filippo aveva scelto di vivere in strada nonostante la Caritas e il Comune gli avessero offerto un alloggio. «C’è un sentimento che sta crescendo fatto da una sorta di ostilità rispetto a coloro che sono in qualche modo diversi rispetto alla nostra ordinarietà», dice Pierluigi Dovis da vent’anni alla guida della Caritas diocesana di Torino che aggiunge: «È necessario ridefinire un modello di welfare locale che in molte parti d’Italia si è iniziato a costruire ma che non è concluso. Ma dobbiamo accelerare la capacità di intervento intorno alla persona». E poi ancora: «Servono investimenti che non possono essere delegati al solo volontariato oppure solo alla Chiesa. Si tratta di una situazione complessa che non può essere risolta con soluzioni facili».

la protesta di p. Zanotelli contro la politica xenofoba dell’Unione Europea

Migranti

padre Zanotelli

“politica Ue xenofoba prepara altri Olocausti”



la denuncia del missionario pacifista:

“L’Europa ci usa per fare il lavoro sporco”

duro j’accuse di padre Alex Zanotelli alla politica migratoria della Ue: “Razzista e xenofoba che prepara altri Olocausti. Non possiamo tacere”. Il missionario comboniano, in prima linea da sempre per gli ultimi, annuncia il nuovo digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti 

”Come essere umano e missionario, erede del sogno di quel povero Gesù di Nazareth – osserva padre Zanotelli all’Adnkronos – sono obbligato a protestare per come l’Europa e l’Italia continuano a trattare i profughi che bussano alla nostra porta. E’ inaccettabile che dal gennaio 2020 fino al gennaio 2021 abbiamo lasciato morire nel Mediterraneo oltre ottocento profughi che fuggivano dai lager libici. Il Mare Nostrum è diventato Cimiterium Nostrum dove potrebbero essere sepolti centomila esseri umani. E’ inaccettabile che il governo italiano blocchi per futili ragioni le navi salva-vite, mentre assistiamo a sempre più naufraghi. E’ inaccettabile che il governo italiano finanzi (anche a nome della Ue) il governo libico di El- Serraj che tiene i migranti in orribili lager dove gli uomini vengono torturati e le donne stuprate”.

Il pensiero del sacerdote comboniano va ai lager libici e alle condizioni inumane dei migranti sulla rotta Balcanica:

“E’ inaccettabile che nel 2020 la cosiddetta Guardia costiera libica, finanziata dall’Italia, abbia intercettato a mare e riportato nei lager libici ben 11.000 rifugiati. E’ inaccettabile che la Ue costringa almeno 18.000 rifugiati a vivere negli inferni di Lesbo e nelle altre isole greche. E’ inaccettabile che la Guardia costiera greca abbia speronato gommoni carichi di profughi in fuga dalla Turchia per arrivare nelle isole greche. E’ inaccettabile l’enorme sofferenza inflitta sui profughi che percorrono la ‘rotta balcanica’ che è diventata un’autentica Via Crucis. E’ inaccettabile che l’Italia respinga a Trieste i profughi della ‘rotta balcanica’ e li consegni alla polizia slovena che a sua volta li consegna a quella croata. E quest’ultima li deporta in Bosnia: fuori dall’Europa! E’ inaccettabile che la Ue non si commuova davanti allo spettacolo di migliaia e migliaia di profughi afghani, pakistani… nel campo di Lipa(Bosnia), abbandonati da tutti, in questo gelido inverno balcanico”.

Padre Zanotelli chiede anche di rompere il silenzio sul blocco degli eurodeputati che volevano verificare di persona le condizioni dei migranti sulla rotta Balcanica:

“E’ inaccettabile che quattro eurodeputati fra cui Bartolo siano stati bloccati dalla polizia croata e impediti dal recarsi al confine con la Bosnia. E’ inaccettabile che la Ue usi l’Italia, la Grecia, la Turchia, la Slovenia, la Croazia per fare il lavoro sporco di tenere nel ‘limbo’ i disperati della terra che bussano alla porta della ricca Europa”.

Il missionario comboniano a questo proposito chiama in causa il presidente del Parlamento Ue:

“Trovo inaccettabile la risposta del presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, che in una lettera ad Avvenire in risposta a un appello su Lesbo afferma che tutto questo ‘ripropone l’egoismo dei governi nazionali e la mancanza di poteri della Ue in materia di immigrazione e di asilo’. La verità invece è che la Ue non vuol accogliere questi profughi e usa nazioni come l’Italia, la Grecia… per fare il lavoro sporco. E vengono pagate per questo”.

Padre Zanotelli chiede agli uomini di Chiesa di intervenire e cita l’appello dell’arcivescovo di Palermo:

“Non possiamo tacere. ’La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male – ha scritto il cardinale Lorefice – da qualunque parte provenga. La sua via non è la neutralità, ma la profezia. La Costituzione della Repubblica e il Vangelo ci chiedono di alzare la voce e di coinvolgere i cittadini italiani perché il nostro paese prenda le distanze da queste barbarie che massacrano corpi, vite, volti umani… e si adoperi anche a livello europeo per una soluzione umanamente sostenibile’”.

“Per questo – conclude padre Zanotelli – noi come ‘Digiuno di Giustizia in solidarietà con i migranti’ saremo il primo mercoledì del mese, 3 febbraio, in piazza Montecitorio davanti al Parlamento dalle 15 alle 18 , in nome di quanti in altre piazze italiane, nelle case e nei monasteri digiuneranno con noi”

per una chiesa di minoranza ma libera e creativa

quale futuro per il cristianesimo?

di Enzo Bianchi

in “Vita Pastorale” del febbraio 2021

Sempre di nuovo è attuale la domanda posta da Gesù: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede
sulla terra?» (Lc 18,8). In particolare, tale interrogativo deve inquietarci in questo nostro tempo di crisi del
cristianesimo, di diminutio della sua presenza, della sua “esculturazione” dal nostro Occidente. Da circa trent’anni si è
spento l’entusiasmo post-conciliare e si è preso atto — come osservava Michel De Certeau — che anche il tentativo di
riforma della liturgia e della fede della Chiesa non solo non aveva sortito i frutti sperati ma aveva addirittura
allontanato dalla vita cristiana porzioni di credenti tradizionali. Il grande teologo francese e amico carissimo JeanMarie Tillard, quale testamento di una vita spesa nel dialogo teologico ecumenico tra le Chiese, alla fine del secolo
scorso lasciava uno scritto appassionato dal titolo significativo: Siamo gli ultimi cristiani?
Ma già il teologo Joseph Ratzinger nel 1969 e, più recentemente in qualità di pontefice, aveva cercato di rispondere
alla domanda circa il futuro della fede e con profetica capacità visionaria indicava come ipotesi feconda quella di una
Chiesa di minoranza; una Chiesa piccola comunità di fedeli, povera e spogliata di tanti privilegi accumulati nella
storia ma libera perché creativa; una Chiesa non settaria, capace di essere lievito fino a orientare la società. Benedetto
XVI ha sempre creduto nelle minorités agissantes, nelle minoranze creative, e sperava che l’evolversi della crisi
conducesse a questa nuova forma del vivere la Chiesa.
Altri ancora, soprattutto nell’area culturale francese e mitteleuropea, hanno cercato risposte e formulato ipotesi
diverse in merito. Molto conosciute e riprese le quattro ipotesi di Maurice Bellet (2001). La prima prevede la
scomparsa del cristianesimo senza troppi sussulti né lamenti: una sorta di arretramento indolore nel quale il
cristianesimo rimarrà nella memoria per i suoi monumenti, le opere d’arte e alcuni testi di sapienza antica. La
seconda ipotesi, non molto dissimile dalla precedente, intravede il cristianesimo morto come fede, ma presente nella
società con i suoi valori. La terza ipotesi non vede vicina la fine della fede cristiana e delle Chiese, ma pensa a un
loro trascinarsi nella storia senza profezia: una presenza che soddisfa il bisogno religioso e, dunque, mantiene i riti e
le modalità della religione. L’ultima, infine, quella che l’autore si augura per il cristianesimo, è una sua ripresa da
capo, una sua rinascita grazie all’unica Parola di vita, il Vangelo. Solo da un nuovo inizio, infatti, la fede cristiana
potrà di nuovo divampare come fuoco e dare una nuova forma al vivere la Chiesa.
Non dovremmo neppure dimenticare le letture della crisi fatte da storici come Jean Delumeau o da sociologi come
Danièle Hervieu-Léger, più esigenti e critici nei confronti dell’istituzione ecclesiale, con l’emissione di un verdetto di
morte, in mancanza di un rapido mutamento e di una vera conversione. O si pensi ad analisi di teologi come Ghislain
Lafont, che immagina un cattolicesimo diverso, o di Christoph Theobald, che chiede il mutamento, la riforma
continua e l’attestarsi di una Chiesa ecumenica fondata sul sensus fidei del popolo di Dio, impegnato in un cammino
sinodale.
In un mio contributo del 2004 avevo tentato di rispondere con urgenza alla domanda: Quale futuro per il
cristianesimo? Là avanzavo analisi che oggi mi sento di confermare, anche se l’accelerazione della crisi in questi
ultimi quindici anni ha ulteriormente mutato lo status ecclesiae, soprattutto nel nostro Occidente. Che cosa esplicitare
oggi? Con il ministero petrino di Francesco sono stati messi in moto alcuni processi, che vanno riconosciuti: la vita
della Chiesa ha ripreso una dinamica che, se non si fermerà e giungerà ad alcune realizzazioni di riforma, aiuterà i
cristiani ad attraversare la crisi e a vivere nella storia come minoranza profetica eloquente. Se, però, questi processi
rimarranno solo abbozzi o, peggio, parole, credo che la delusione sarà tale che la vita della Chiesa ne resterà debilitata
in modo grave e la diaspora già esistente diventerà addirittura non leggibile, non più sentita come presenza.
Anche perché la novità di questi ultimi anni è proprio l’ “esculturazione” del cristianesimo e della Chiesa, non
possiamo ignorarlo. Basta conoscere i mass media per rendersi conto che in essi ormai non appaiono più “notizie”
riguardanti la fede e la Chiesa, se non quelle che provocano scandalo, mentre le correnti culturali non tengono più
conto delle voci e degli eventi cristiani. Mi permetto solo di far notare che tra i consigli di cento libri da leggere apparsi
in occasione del Natale su un noto inserto culturale italiano, non appariva nessun testo di autori cristiani. Ormai “il
mondo cristiano”, che nel mondo non c’è più, è ignorato senza ostilità ma nella forma dell’indifferenza.
Ecco qual è, a mio avviso, il problema della nostra presenza tra gli umani: l’indifferenza. Se non sapremo più
evidenziare la differenza cristiana allora, come sale che ha perso il suo sapore, come fuoco sepolto dalla cenere, non
saremo più in grado di dire qualcosa di significativo nella compagnia degli uomini. La differenza cristiana richiede
anzitutto la fede in Gesù Cristo vivente perché Risorto, una fede nel Regno che viene. Ma oltre a questo primato della
fede, nutrita alla fonte del Vangelo, occorrerà l’edificazione di comunità che siano davvero tali: veri luoghi di amore
reciproco e di servizio degli ultimi; comunità che vivano la sinodalità, il camminare insieme in una comunione
plurale; comunità che non si isolano, non diventano settarie, ma stanno con simpatia e spirito di fraternità in mezzo
agli uomini e alle donne del nostro tempo. Solo in questo modo si potrà dare una risposta credibile alle più svariate
forme di populismo che «riducono i simboli religiosi a marcatori culturali identitari che non sono associati a una
pratica religiosa», come osserva Olivier Roy nel recente saggio L’Europa è ancora cristiana?
Se il Vangelo fornirà l’ispirazione profonda alla vita cristiana, sarà manifesto a tutti che i credenti sono uomini e donne
riuniti in una nuova comunione: è in questa semplice e radicale differenza che consiste la dimensione pubblica e
comunitaria della prassi evangelica. Dunque una comunità cristiana che nel mondo non “sta contro” il mondo,
animata da una logica di concorrenza e contrapposizione. Scriveva provocatoriamente Friedrich Nietzsche alla fine
del XIX secolo: «Già la parola “cristianesimo” è un equivoco: in fondo è esistito un solo cristiano e questi mori sulla
croce. L'”Evangelo” morì sulla croce. […] Soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla
croce, soltanto questo è cristiano. Ancora oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino necessaria:
l’autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi. Non una credenza, bensì un fare, soprattutto un nonfare-molte-cose, un diverso essere».
Il cristianesimo è nato da una grande crisi: quella di Gesù e dei suoi discepoli la sera dell’ultima cena, con il tradimento
da parte di uno di loro. Dobbiamo esserne certi: il Signore Gesù ci ha preceduti nella crisi, dunque in essa non ci
abbandona.

una secca bacchettata di papa Francesco ai vescovi italiani – speriamo che questa volta capiscano davvero

il papa bacchetta la Cei:

“bisogna fare un sinodo”

messaggio a tradizionalisti e ultra progressisti: il Concilio va seguito

Papa Francesco

papa Francesco

La bacchettata del Papa ai vescovi è secca: in questi cinque anni la Chiesa italiana non si è mossa. Verso che cosa? Una maggiore apertura da raggiungere attraverso un sinodo. Parola, questa, indigesta a non pochi presuli al di qua del Tevere, magari abituati a gestire le proprie diocesi con modalità poco collegiali. La Conferenza episcopale italiana (Cei) da anni fa resistenza a un’assemblea, anche per il timore di tensioni, scontri e spaccature, considerate le varie anime e sensibilità che si registrano tra i prelati.

Il dibattito sull’opportunità di un’assise nelle Sacre Stanze era stato lanciato il 2 febbraio 2018 dalla rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica, con un articolo del direttore padre Antonio Spadaro. E poi il 21 settembre 2019 padre Bartolomeo Sorge (scomparso a novembre), nel suo ultimo articolo per il quindicinale dei Gesuiti, aveva ragionato sul Sinodo dando le premesse storiche: uno scritto molto apprezzato da Papa Bergoglio. 

Ieri Francesco – nel discorso all’ufficio catechistico nazionale della Cei – ha lasciato trapelare il suo disappunto: i prelati non hanno messo in pratica le indicazioni da lui ricevute al Convegno nazionale di Firenze, nel novembre 2015. Messaggio forte e chiaro. «Dopo cinque anni – ha scandito Bergoglio – la Chiesa italiana deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo», momento di confronto sui grandi temi. «Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare». Dopo un promemoria del maggio 2019, sotto forma di invito, questa volta il Pontefice usa il verbo «dovere». E rinfresca la memoria sull’obiettivo più grande: «Una Chiesa sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». La «Chiesa in uscita» che predica fin dalla prima ora.

Nell’udienza di ieri papa Francesco ha anche colto l’occasione per avvertire tradizionalisti e ultra progressisti, i due estremi del «recinto cattolico» che – rispettivamente – rifiutano le riforme del Concilio Vaticano II o al contrario promuovono «fughe in avanti» con sacerdozio femminile e preti sposati: «Il Concilio è magistero della Chiesa. Se non lo segui o l’interpreti a modo tuo, tu non stai con la Chiesa». 

nel giorno della memoria dell’olocausto …

giornata della memoria

“non dimenticare l’orrore, perché l’ignoranza alimenta l’odio”

Il messaggio dell’Arci:

“Contro ogni razzismo e intolleranza affermare invece il valore della pace, della libertà, dei diritti umani”

i bambini ebrei rinchiusi nel lager di Auschwitz

i bambini ebrei rinchiusi nel lager di Auschwitz

Il messaggio dell’Arci (Associazione ricreativa e culturale italiana) vuole ricordare quanto successo nei lager, nel Giorno della Memoria:

“Si celebra  il Giorno della Memoria per ricordare il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa arrivarono ad Auschwitz mostrando al mondo l’orrore del campo di concentramento, uno dei luoghi del genocidio nazista, liberandone i pochi superstiti. Una giornata per non dimenticare l’Olocausto, a 76 anni di distanza, quanto mai attuale, in un momento in cui negazionismo, suprematismo, razzismo e antisemitismo continuano a rappresentare in molti paesi un pericolo da non sottovalutare. Neanche in Italia dove, solo pochi giorni fa, un’operazione della polizia negli ambienti dell’estrema destra suprematista ha portato all’arresto di un 22enne a Savona con l’accusa di aver costituito un’associazione neonazista finalizzata alla pianificazione di stragi, come quella di Utoya in Norvegia, e di aver creato delle chat dove istigava alla violenza contro gli ebrei. Una giornata per non dimenticare come dall’orrore dell’Olocausto sia nata anche la nostra Costituzione, per non permettere mai più il ripetersi di simili tragedie ma per affermare invece il valore della pace, della libertà, dei diritti umani. Sono questi i valori ai quali si richiama da sempre anche l’Arci, contro ogni fascismo, razzismo, odio, discriminazione e intolleranza”.

morire da soli è disumano anche in tempi di covid – una riflessione del teologo G. Piana

disumano continuare a

morire da soli

e non si dica che non si poteva fare diversamente

di G. Piana

l’assenza di una persona amica che ti sta accanto, che ti prende per mano o ti fa il dono di una carezza rende tutto molto più tragico e desolante

ANADOLU AGENCY VIA GETTY IMAGES
Ponte San Pietro, Bergamo. La prima fase dell’emergenza Covid (4 aprile 2020)

una riflessione di Giannino Piana, scrittore, teologo, già docente di Etica cristiana all’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Libera Università di Urbino e di Etica ed economia alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino

Tra gli aspetti più gravi della pandemia da coronavirus nella quale siamo tuttora immersi quello più drammatico è stato (ed è) senz’altro costituito dallo stato di abbandono in cui si sono venuti a trovare negli ospedali e nelle case di riposo malati gravi ed anziani costretti a vivere le ultime ore della loro esistenza senza l’accompagnamento dei propri familiari o delle persone care che avrebbero voluto avere accanto.

Abbiamo tutti negli occhi – e non potremo a lungo cancellarla – l’immagine di quel macabro corteo di camion militari che portavano in cimiteri lontani dal paese di origine le casse di una serie di persone decedute senza poter ricevere l’ultimo saluto da parte dei propri congiunti ai quali, per un certo periodo, è stato persino impedito di partecipare a un rito di commiato.

Si sa che la morte è un’esperienza individuale, che comporta un livello marcato di solitudine, ma le modalità con cui è stata vissuta (ed è tuttora vissuta) da molti anziani (e non solo) in questo tempo di pandemia ha qualcosa di inquietante. L’assenza di una persona amica che ti sta accanto, che ti prende per mano o ti fa il dono di una carezza rende tutto molto più tragico e desolante. Per non dire del trauma non facilmente rimarginabile di chi è venuto a sapere della gravità della situazione del proprio congiunto di cui apprendeva in seguito, magari a distanza dal momento in cui era avvenuta, la notizia della scomparsa.

Si è toccato qui con evidenza il livello più basso di disumanizzazione di cui è capace la nostra civiltà tecnologica. E non si dica che non si poteva fare diversamente. Certo l’esigenza di salvaguardare dal rischio del contagio ambienti delicati come quelli che ospitano malati e anziani, evitando il diffondersi del virus, era una giusta precauzione alla quale occorreva far fronte. Ma forse una maggiore inventività avrebbe potuto trovare vie praticabili per combinare le misure necessarie a tutela della salute con le esigenze non meno importanti di garantire la vicinanza delle persone sofferenti ai propri affetti, non dimenticando che anche questo fa parte (e in misura rilevante) del processo di cura.

Per questa ragione merita un plauso particolare la giunta della Regione Toscana che, sollecitata dall’Associazione “Tutto è vita onlus” e dalla Fondazione Meyer, nonché dal parere della Commissione regionale di bioetica (CRB), ha approvato all’unanimità su proposta degli assessori alla Sanità Simone Berrini e agli Affari sociali Serena Spinelli una serie di dispositivi concreti che consentono ai pazienti ricoverati in ospedali, case di cura e residenze sanitarie di poter ricevere visite da parte dei loro familiari, pur nel rispetto delle norme anti-Covid.

Le misure previste, che riguardano in maniera prioritaria (ma non esclusiva) le persone affette da patologia grave o con prognosi infausta e che sono già in parte esecutive, sono la chiara testimonianza della possibilità di fare un passo avanti sul terreno della umanizzazione delle cure, e meritano di essere segnalate nella speranza che possano essere assunti provvedimenti analoghi anche nell’intero Paese. È in gioco il livello di civiltà della nostra società.

il Censis ci vede peggiorati – siamo più egoisti e cattivi per le regole anti-covid

“italiani in regressione psicologica collettiva, siamo diventati peggiori”

Giuseppe De Rita (Censis) sugli effetti delle regole anti-Covid

“dal rintanamento in sé nasce l’egoismo e da lì la cattiveria”

Più paurosi, passivi, cattivi. Sono gli italiani nella pandemia, visti da Giuseppe De Rita, presidente del Censis, intervistato da ‘Libero’. “Già nel rapporto Censis di dicembre veniva fuori che l’opinione sotterranea di molti italiani è ‘meglio sudditi che morti’. In nome della paura stiamo accettando vincoli e modi di comportamento che inibiscono la nostra vitalità e la ricerca di obiettivi comuni. Assistiamo così a un rannicchiarsi degli italiani entro se stessi, nel proprio egoismo, da cui derivano processi, se non di degrado, almeno di regressione psicologica collettiva”.

“Ciò riguarda soprattutto la condizione di vivere quasi da popolo internato -aggiunge De Rita-. Quando parliamo di internamento, pensiamo a un carcere, un manicomio, un convento di clausura. In tutti questi casi il meccanismo interno è l’infantilizzazione. Cioè si trattano le persone come bambini, dicendo loro: questa cosa non la puoi fare, questa cosa non la puoi mettere, ti devi lavare bene.
Ovviamente non viviamo in senso stretto in internamento, però molte assonanze ci sono: l’obbligo di rispettare regole di minimale comportamento igienico, l’uso della mascherina come divisa da internato, e l’idea che non si possa uscire neanche per andare al bar sono diventati fatti normali. E questo è molto pericoloso. Dal letargo, cioè dallo stato di indolenza, sarà più facile uscire, dall’internamento no”.

“La storia sociale di questo Paese non è mai stata pacifica. Non siamo gente tranquilla, ma persone che si sono odiate a morte, hanno fatto guerre civili. Questa tendenza si è acuita con la pandemia: ora ci sentiamo protetti solo quando siamo con noi stessi, e se c’è qualcuno intorno per noi è un pericolo. Dal rintanamento in sé nasce l’egoismo e da lì scatta la cattiveria”, conclude De Rita, secondo cui però alla fine “credo che prevarrà la propensione alla accettazione e non alla rivolta. La bontà del potere ci garantirà sempre la cassa integrazione, un ecobonus, un incentivo per fare smart working. E così, anziché contestare, accetteremo passivamente il declino”.

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