la Lucca povera che emerge dal dossier sulla povertà e le risorse nella Diocesi di Lucca 2020

povertà a Lucca

aumentano richieste d’aiuto

gli italiani superano gli stranieri

1.653 richieste nel 2018, 1.904 nel 2019. Ma nel primo semestre 2020 ai Centri di ascolto della Diocesi di Lucca le domande sono aumentate (30%). Per la prima sono soprattutto gli italiani a chiedere aiuto

Nel primo semestre del 2020 a Lucca si è registrato un aumento considerevole del numero di persone che hanno richiesto aiuto rispetto al 2019. Alla fine di maggio le persone incontrate erano 979, circa il 30% in più rispetto a quelle registrate nello stesso semestre dell’anno precedente. Un dato perfino sottostimato, perché durante i mesi di diffusione massiccia dell’epidemia molti volontari sono stati interamente assorbiti dalle attività di aiuto e non sono riusciti a registrare nel programma di raccolta dati tutte le attività e i contatti avuti.

è quanto emerge dal dossier sulla povertà e le risorse nella Diocesi di Lucca 2020, intitolato

 “Vicinissimi a portata di mano”

In poco meno di 100 pagine sono riassunti i dati raccolti dai Centri di ascolto nel 2019, integrati con quelli raccolti nel primo semestre di quest’anno. L’obiettivo del Dossier, come ogni anno, è duplice: da una parte fornire informazioni sui meccanismi di impoverimento alle istituzioni e a tutta la comunità, dall’altra attivare tutti i soggetti nella costruzione di strategie di contrasto sempre più efficaci, anche attraverso la mobilitazione del potenziale civico presente sul territorio. A questi si aggiunge la lettura dello scenario pre-covid con la situazione conseguente alla diffusione del virus.

I dati del 2019

Il confronto dei dati 2019 con il parziale del 2020 fa emergere chiaramente che l’emergenza sanitaria si è innestata in un tessuto socioeconomico di per sé già ricco di fragilità e in esso ha contribuito ad accentuare la forbice delle disuguaglianze sociali pregresse. Lo scorso anno, infatti, dopo un periodo di stabilizzazione degli accessi si è registrato registrano un nuovo e significativo aumento di richieste di aiuto. Le persone accolte sono state 1.904, contro i 1.653 dell’anno precedente. Questo incremento è riconducibile in buona parte all’aumento di coloro che si sono rivolti per la prima volta ai Centri di ascolto (419 nuovi accessi).

Chi chiede aiuto?

I cittadini che si rivolgono al Centro sono nella grande maggioranza dei casi giovani. A Lucca e nella Piana di Lucca la fascia di età maggiormente rappresentata è quella 35-44 anni, mentre nelle altre zone (Versilia e Valle del Serchio) è 45-55 anni. Ma in generale il 68,61% delle persone accolte ha meno di 44 anni (contro il 41,13% dell’anno precedente). I cittadini con più di 65 anni, non in età da lavoro, costituiscono l’11,27% e quasi sempre sono di nazionalità italiana. Le donne sono più giovani degli uomini e risultano più rappresentate soprattutto nella fascia di età che va dai 25 al 44 anni. Il lavoro continua a rappresentare una delle dimensioni fondamentali intorno alle quali si sviluppa il percorso di impoverimento: il 63,28% delle persone incontrate è disoccupata. Nel 9,96% dei casi l’occupazione non basta a far fronte alle esigenze della famiglia. Un altro fattore di disagio è rappresentato dalla condizione abitativa. La casa, che, quando è presente, solitamente è in locazione (36,04%), costituisce una spesa che grava in maniera significativa nei percorsi di vita delle persone incontrate. Rilevante è anche il numero di soggetti che hanno un alloggio precario o sono senza alloggio (9.13%), oppure che ricorrono a forme di coabitazione temporanea con amici e parenti (8.56%). La povertà economica grave (60.43%) e le difficoltà nel mercato del lavoro (23.72%) rappresentano le principali problematiche per le quali i cittadini si rivolgono ai Centri in cerca di aiuto.

Più disuguaglianza con il lockdown

Quasi mille le persone incontrante nel primo semestre 2020. A questo si aggiunge il dato che mostra un aumento anche superiore al 100% nei servizi più facilmente monitorabili come quelli di risposta alla marginalità estrema e ai bisogni primari, che sono del resto gli unici servizi rimasti aperti in maniera continuativa durante il periodo del lockdown (ad esempio mense e centri distribuzione alimentare). È prevedibile che almeno una parte di queste persone continueranno a rivolgersi ai Centri di ascolto e ai servizi Caritas nel secondo semestre del 2020. Per il primo anno, inoltre, si assiste al sorpasso della presenza italiana (50,9%) rispetto a quella straniera (49.1%). Un dato interessante riguarda il fronte lavorativo. Oltre a una forte presenza di persone disoccupate, cresce il numero di persone che dichiarano di avere un’occupazione. Le domande di aiuto sono fortemente concentrate, ancora più che nel passato, sul disagio economico grave (73,3%) e sulle richieste di aiuto nella ricerca del lavoro.

Il vissuto dei volontari

Nella prima fase di sviluppo del virus e con l’inizio del lockdown (marzo-aprile) anche tra i volontari erano prevalenti sentimenti di incertezza e smarrimento di fronte a qualcosa di mai visto, cui lentamente però hanno fatto spazio la voglia di fare squadra per essere presenti e portare aiuto. Gli appelli a donare tempo per chi era in difficoltà hanno raccolto molti nuovi volontari, soprattutto giovani, che hanno potenziato e sostenuto la risposta nell’emergenza e anche nei mesi successivi. Tra maggio e ottobre, con la riapertura e poi l’arrivo della nuova ondata, da parte dei volontari c’è maggiore stabilità ma anche il timore di non riuscire a fare abbastanza. Ai 400 volontari già attivi, durante la fase del lockdown se ne sono aggiunti circa 240, di cui circa 20 scout, che hanno supplito alle difficoltà incontrate dalla metà circa dei volontari parrocchiali, per i limiti dell’età.




il messaggio dei vescovi italiani in questo tempo di pandemia

 
questo tempo di pandemia è tempo di speranza e rinascita

Consiglio permanente della Cei

Dire “con affetto” una “parola di speranza e di consolazione in questo tempo che rattrista i cuori”. È l’intento dichiarato – fin dalle prime righe – del Messaggio alle comunità cristiane in tempo di pandemia, diffuso oggi, martedì 24 novembre, dal Consiglio Permanente della Cei.
È un testo rivolto alle comunità ecclesiali proprio per sostenere un cammino di Chiesa in un periodo che può sembrare sospeso, ma che può divenire di rinascita. Scrivono infatti i vescovi che “la Parola di Dio ci chiama a reagire rimanendo saldi nella fede, fissando lo sguardo su Cristo per non lasciarci influenzare o, persino, deprimere dagli eventi”. Il testo, invitando anche i laici a un impegno a 360 gradi, sottolinea che questo, oltre che un tempo di “tribolazione” è anche un “tempo di preghiera” nelle sue diverse forme e un “tempo di speranza”. “Non possiamo ritirarci e aspettare tempi migliori, ma continuiamo a testimoniare la risurrezione”, si legge nel Messaggio, che conclude additando la prospettiva di “un tempo di possibile rinascita sociale”, anche perché la Chiesa sta impegnando le “migliori energie nella cura delle persone più fragili ed esposte”. “E’ sulla concreta carità verso chi è affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato – ricordano i vescovi – che tutti verremo giudicati, come ci ricorda il Vangelo”. 

 di seguito il testo completo del Messaggio

“Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione,perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12)

Fratelli e sorelle,
vorremmo accostarci a ciascuno di voi e rivolgervi con grande affetto una parola di speranza e di consolazione in questo tempo che rattrista i cuori. Viviamo una fase complessa della storia mondiale, che può anche essere letta come una rottura rispetto al passato, per avere un disegno nuovo, più umano, sul futuro. «Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi» (Papa Francesco, Omelia nella Solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020).
Ai componenti della Comunità cristiana cattolica, alle sorelle e ai fratelli credenti di altre Confessioni cristiane e di tutte le religioni, alle donne e agli uomini tutti di buona volontà, con Paolo ripetiamo: «Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12).
Inviamo questo messaggio mentre ci troviamo nel pieno della nuova ondata planetaria di contagi da Covid-19, dopo quella della scorsa primavera. L’Italia, insieme a molti altri Paesi, sta affrontando grandi limitazioni nella vita ordinaria della popolazione e sperimentando effetti preoccupanti a livello personale, sociale, economico e finanziario. Le Chiese in Italia stanno dando il loro contributo per il bene dei territori, collaborando con tutte le Istituzioni, nella convinzione che l’emergenza richieda senso di responsabilità e di unità: confortati dal magistero di Papa Francesco, siamo certi che per il bene comune occorra continuare in questa linea di dialogo costante e serio.
1. Non possiamo nascondere di trovarci in un tempo di tribolazione. Dietro i numeri apparentemente anonimi e freddi dei contagi e dei decessi vi sono persone, con i loro volti feriti e gli animi sfigurati, bisognose di un calore umano che non può venire meno. La situazione che si protrae da mesi crea smarrimento, ansia, dubbi e, in alcuni casi, disperazione. Un pensiero speciale, di vicinanza e sostegno, va in particolare a chi si occupa della salute pubblica, al mondo del lavoro e a quello della scuola che attraversano una fase delicata e complessa: da qui passa buona parte delle prospettive presenti e future del Paese. «Diventa attuale la necessità impellente dell’umanesimo, che fa appello ai diversi saperi, anche quello economico, per una visione più integrale e integrante» (Laudato si’, n. 141).
Anche in questo momento la Parola di Dio ci chiama a reagire rimanendo saldi nella fede, fissando lo sguardo su Cristo (cfr. Eb 12,2) per non lasciarci influenzare o, persino, deprimere dagli eventi. Se anche non è possibile muoversi spediti, perché la corrente contraria è troppo impetuosa, impariamo a reagire con la virtù della fortezza: fondati sulla Parola (cfr. Mt 13,21), abbracciati al Signore roccia, scudo e baluardo (cfr. Sal 18,2), testimoni di una fede operosa nella carità (cfr. Gal 5,6), con il pensiero rivolto alle cose del cielo (cfr. Gal 3,2), certi della risurrezione (cfr. 1Ts 4; 1Cor 15). Dinanzi al crollo psicologico ed emotivo di coloro che erano già più fragili, durante questa pandemia, si sono create delle “inequità”, per le quali chiedere perdono a Dio e agli esseri umani. Dobbiamo, singolarmente e insieme, farcene carico perché nessuno si senta isolato!
2. Questo tempo difficile, che porta i segni profondi delle ferite ma anche delle guarigioni, vorremmo che fosse soprattutto un tempo di preghiera. A volte potrà avere i connotati dello sfogo: «Fino a quando, Signore…?» (Sal 13). Altre volte d’invocazione della misericordia: «Pietà di me, Signore, sono sfinito, guariscimi, Signore, tremano le mie ossa» (Sal, 6,3). A volte prenderà la via della richiesta per noi stessi, per i nostri cari, per le persone a noi affidate, per quanti sono più esposti e vulnerabili: «Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio» (Sal 16,1). Altre volte, davanti al mistero della morte che tocca tanti fratelli e tante sorelle e i loro familiari, diventerà una professione di fede: «Tu sei la risurrezione e la vita. Chi crede in te, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in te, non morirà in eterno» (Gv 11,25-26). Altre, ancora, ritroverà la confidenza di sempre: «Signore, mia forza e mia difesa, mio rifugio nel giorno della tribolazione» (Ger 16,19).
Le diverse e, talvolta, sofferte condizioni di molte famiglie saranno al centro delle preghiere individuali e comunitarie: questo “tempo sospeso” rischia, infatti, di alimentare fatiche e angosce, specialmente quando si acuiscono le tensioni tra i coniugi, per i problemi relazionali con i figli, per la mancanza di lavoro, per il buio che si prospetta per il futuro. Sappiamo che il bene della società passa anzitutto attraverso la serenità delle famiglie: auspichiamo, perciò, che le autorità civili le sostengano, con grande senso di responsabilità ed efficaci misure di vicinanza, e che le comunità cristiane sappiano riconoscerle come vere Chiese domestiche, esprimendo attenzione, sostegno, rispetto e solidarietà.
Anche le liturgie e gli incontri comunitari sono soggetti a una cura particolare e alla prudenza. Questo, però, non deve scoraggiarci: in questi mesi è apparso chiaro come sia possibile celebrare nelle comunità in condizioni di sicurezza, nella piena osservanza delle norme. Le ristrettezze possono divenire un’opportunità per accrescere e qualificare i momenti di preghiera nella Chiesa domestica; per riscoprire la bellezza e la profondità dei legami di sangue trasfigurati in legami spirituali. Sarà opportuno favorire alcune forme di raccoglimento, preparando anche strumenti che aiutino a pregare in casa.
3. La crisi sanitaria mondiale evidenzia nettamente che il nostro pianeta ospita un’unica grande famiglia, come ci ricorda Papa Francesco nella recente Enciclica Fratelli tutti: «Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme» (n. 32). Occorre, quindi, rifiutare la logica del “si salvi chi può”, perché, come afferma ancora Papa Francesco, «il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia» (n. 36). In tale contesto i cristiani portano anzitutto il contributo della fraternità e dell’amore appresi alla scuola del Maestro di Nazareth, morto e risorto.
Tutto questo sta avvenendo nelle nostre comunità. Se i segni di morte balzano agli occhi e s’impongono attraverso i mezzi d’informazione, i segni di risurrezione sono spesso nascosti, ma reali ancor più di prima. Chi ha occhi per vedere può raccontare, infatti, d’innumerevoli gesti di dedizione e generosità, di solidarietà e amore, da parte di credenti e non credenti: essi sono, comunque, “frutto dello Spirito” (cfr. Gal 5,22). Vi riconosciamo i segni della risurrezione di Cristo, sui quali si fonda la nostra fiducia nel futuro. Al centro della nostra fede c’è la Pasqua, cioè l’esperienza che la sofferenza e la morte non sono l’ultima parola, ma sono trasfigurate dalla risurrezione di Gesù. Ecco perché riteniamo che questo sia un tempo di speranza. Non possiamo ritirarci e aspettare tempi migliori, ma continuiamo a testimoniare la risurrezione, camminando con la vita nuova che ci viene proprio dalla speranza cristiana. Un invito, questo, che rivolgiamo in modo particolare agli operatori della comunicazione: tutti insieme impegniamoci a dare ragione della speranza che è in noi (cfr. 1Pt 3,15-16).
4. Le comunità, le diocesi, le parrocchie, gli istituti di vita consacrata, le associazioni e i movimenti, i singoli fedeli stanno dando prova di un eccezionale risveglio di creatività. Insieme a molte fatiche pastorali, sono emerse nuove forme di annuncio anche attraverso il mondo digitale, prassi adatte al tempo della crisi e non solo, azioni caritative e assistenziali più rispondenti alle povertà di ogni tipo: materiali, affettive, psicologiche, morali e spirituali. I presbiteri, i diaconi, i catechisti, i religiosi e le religiose, gli operatori pastorali e della carità stanno impegnando le migliori energie nella cura delle persone più fragili ed esposte: gli anziani e gli ammalati, spesso prime vittime della pandemia; le famiglie provate dall’isolamento forzato, da disoccupazione e indigenza; i bambini e i ragazzi disabili e svantaggiati, impossibilitati a partecipare alla vita scolastica e sociale; gli adolescenti, frastornati e confusi da un clima che può rallentare la definizione di un equilibrio psico-affettivo mentre sono ancora alla ricerca della loro identità. Ci sembra di intravedere, nonostante le immani difficoltà che ci troviamo ad affrontare, la dimostrazione che stiamo vivendo un tempo di possibile rinascita sociale.
È questo il migliore cattolicesimo italiano, radicato nella fede biblica e proiettato verso le periferie esistenziali, che certo non mancherà di chinarsi verso chi è nel bisogno, in unione con uomini e donne che vivono la solidarietà e la dedizione agli altri qualunque sia la loro appartenenza religiosa. A ogni cristiano chiediamo un rinnovato impegno a favore della società lì dove è chiamato a operare, attraverso il proprio lavoro e le proprie responsabilità, e di non trascurare piccoli ma significativi gesti di amore, perché dalla carità passa la prima e vera testimonianza del Vangelo. È sulla concreta carità verso chi è affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato che tutti infatti verremo giudicati, come ci ricorda il Vangelo (cfr. Mt 25, 31-46).
Ecco il senso dell’invito di Paolo: «Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Questo è il contributo dei cattolici per la nostra società ferita ma desiderosa di rinascere. Per noi conta testimoniare che l’unico tesoro che non è destinato a perire e che va comunicato alle generazioni future è l’amore, che deriva dalla fede nel Risorto.Noi crediamo che questo amore venga dall’alto e attiri in una fraternità universale ogni donna e ogni uomo di buona volontà.

IL CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Roma, 22 novembre 2020
Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo




l’attuale economia del mondo non è eterna, può essere cambiata – ci tenta papa Francesco

Immagine pezzo principale

E’ NATO IL PATTO DI ASSISI PER CAMBIARE L’ECONOMIA DEL MONDO

il messaggio del Papa ai giovani del meeting internazionale “Economia di Francesco”, che chiede una vera e propria rivoluzione pacifica

“non siamo condannati al profitto e allo scarto, o saprete coinvolgervi o la storia vi passa sopra”

Un nuovo Patto per l’ economia contro le diseguaglianze e la cultura dello scarto, per uno sviluppo equo e sostenibile, una vera e propria rivoluzione mondiale, pacifica ma ostinata, per cambiare lo stato del Pianeta e insieme le condizioni di miliardi di uomini e donne.

Con il messaggio di papa Francesco ai giovani collegati da ben 115 Paesi del mondo con Assisi per il meeting che porta il suo nome, “Economia di Francesco”, nasce formalmente un movimento già partito nove mesi fa.«Non è un punto di arrivo», spiega infatti il Pontefice nel videomessaggio che conclude i lavori della tre giorni, «ma la spinta nuova di un processo già iniziato in cui siamo chiamati a vivere come vocazione, cultura e come adesione a un patto». Poiché nelle attuali condizioni «non possiamo andare avanti in questo modo. Urge una nuova narrazione economica».

Sono i temi delle encicliche sociali Laudato si’ e della recentissima Fratelli tutti. Ma è come se questi documenti avessero trovato i loro interpreti: i giovani. L’ attuale sistema mondiale, sottolinea Francesco, «è insostenibile, colpisce nostra sorella Terra e gli esclusi: le due cose vanno insieme. I poveri sono i primi danneggiati e i primi esclusi». Francesco chiede a chi ha la vita davanti a sé di farsi classe dirigente e di cambiare le cose nel contesto in cui sono chiamati a operare, a dare un senso alle loro attività di studenti, imprenditori, economisti, lavoratori, artigiani, ovunque essi siano: «O siete coinvolti o la storia vi passa sopra». La gravità della situazione legata al Covid ha accentuato l’ urgenza di intervenire al più presto. Poiché, spiega Francesco, il rischio è che dopo la fine della pandemia i problemi si ingigantiscano ancora di più: «Dobbiamo cambiare subito». La parola d’ ordine è agire, «avviare processi, creare risorse, cambiare gli stili di vita e soprattutto i modelli di produzione e di consumo. Senza fare questo non farete nulla». Il videomessaggio di Francesco erompe nei giorni drammatici del contagio, raggiunge le menti e i cuori di questa sorta di villaggio globale  – che ha il suo centro nella Cittadella del Santo Francesco  – creato da duemila ragazzi che hanno dato vita a un vero e proprio happening digitale – videoconferenze in webinar, musica, esibizioni di gruppi musicali, interviste pubbliche, conferenze, persino giochi –  una cosa mai vista, una sorta di Gmg globale via Internet.

L’autore della Laudato si’  chiama i giovani a una responsabilità forte, li invita a “sporcarsi le mani”, a rischiare tutto sè stessi, a mettersi in gioco.

Non è una rivoluzione ideologica o “popolare”, come quelle che hanno attraversato il Novecento, ma evangelica, pacifica, un sommovimento che esige presa di coscienza e senso di responsabilità. Un cambiamento che arriva a mettersi al servizio di ruoli decisionali: «Abbiamo bisogno di classi dirigenti, per sfidare la sottomissione a certe logiche ideologiche che finiscono per sottomettere ogni azione a forme di ingiustizia». Poiché, citando Benedetto XVI, «la fame non dipende da scarsità materiali, ma da scarsità sociale, la più importante delle quali è di natura istituzionale». In questa rivoluzione, fa capire papa Francesco implicitamente, c’è anche un nuovo modo di far politica, al servizio del bene comune.

Quella di Francesco è una rivoluzione integrale, strutturale, non può accontentarsi di piccole correzioni ad opera delle associazioni filantropiche come vogliono i modelli di capitalismo, soprattutto di stampo anglosassone. Non basta chinarsi sui poveri dopo aver creato le condizioni perchè rimangano ai lati del benessere. E’ troppo poco. La guerra alla cultura dello scarto «che obbliga a vivere nel proprio scarto, invisibili, al di là del muro dell’ indifferenza» esige molto di più. Occorre «osare modelli in cui le persone, gli esclusi, cessino di essere una presenza normale o funzionale e diventino protagonisti dell’ intero tessuto sociale». Ed è come se la dottrina sociale espressa dal magistero di Francesco avesse trovato le proprie gambe per correre nelle strade del mondo, come se quelle pagine fossero diventate un copione per essere recitate dai suoi attori protagonisti, i «nuovi samaritani», come li chiama il Papa, chiamati a portare avanti la «cultura dell’ incontro che è l’ opposto della cultura dello scarto», a creare una nuova economia, un’economia profetica ma quanto mai pratica e necessaria, «capace di far germogliare i sogni».




Boff ricorda A. Zarri

i papaveri, la mistica e la gatta

di Leonardo Boff
in “il manifesto” del 18 novembre 2020

La chiesa cattolica italiana ha rappresentato, nel corso della sua storia, una florida contraddizione.
Da una parte c’è la forte presenza del Vaticano, che rappresenta la Chiesa ufficiale con la sua massa
di fedeli tenuti sotto un vigile controllo sociale dalle dottrine e, soprattutto, dalla morale familiare e
sessuale. Dall’altra parte c’è la presenza dei cristiani, laici e laiche, non allineati, resistenti al potere
monarchico e implacabile della burocrazia della Curia romana, ma aperti al vangelo e ai valori
cristiani senza rompere con il papato pur criticandone le pratiche e l’appoggio che dà a regimi
conservatori, compresi quelli autoritari.
Così ritroviamo nel XIX secolo la figura di Antonio Rosmini, fine filosofo e critico
dell’antimodernismo dei papi. In tempi recenti incontriamo figure come Mazzolari, Raniero La
Valle, Arturo Paoli, l’eremita Maria Campello.
Ma, tra tutti, emerge Adriana Zarri, eremita, teologa, poeta ed esimia scrittrice. Oltre ai libri,
scriveva settimanalmente per il manifesto e ogni quindici giorni per la rivista di cultura Rocca.
Adriana Zarri era durissima riguardo il corso della Chiesa sotto i papi Wojtyla e Ratzinger, che
accusava esplicitamente di tradire i tentativi di riforma approvati dal Concilio Vaticano II (1962-
1965) e di tornare a un modello medievale dell’esercizio del potere e di presenza della Chiesa nella
società. Adriana è morta dieci anni fa, il 18 novembre, a oltre 90 anni.
Andai a trovarla diverse volte al suo eremo, vicino Strambino in nord Italia. Viveva sola in un
enorme e vetusto casale, pieno di rose e con la sua amata gatta Arcibalda. Aveva una cappella con il
Santissimo esposto, dove si raccoglieva in preghiera e profonda meditazione varie ora al giorno.
Durante le nostre conversazioni voleva sapere tutto delle comunità ecclesiastiche di base,
dell’impegno della Chiesa nella causa dei poveri, dei neri e degli indigeni.
Aveva una simpatia particolare per i teologi della liberazione, nel vedere la persecuzione cui erano
sottoposti dalle autorità del Vaticano che li trattavano, secondo lei «a bastonate», mentre usavano i
guanti di seta con i seguaci scismatici di monsignor Lefèbvre.
Il suo ultimo articolo, pubblicato tre giorni prima della sua morte, lo dedicò alla sua amata
Arcibalda. Con lei, come posso personalmente testimoniare, aveva una relazione affettuosa, come
può esserci tra amici intimi. Quella che la grande psicoanalista junghiana Nise da Silveira descrisse
nel suo libro Gatti come l’emozione di convivere, così confermata da Zarri: «il gatto ha la capacità
di captare il nostro stato d’animo; se mi vede piangere immediatamente viene a leccare le mie
lacrime». Raccontano che mentre Adriana moriva la gatta le era vicina. Nel vedere arrivare gli
amici per la veglia funebre si rotolava, nervosa, nella tenda della sala e, poco prima che chiudessero
il feretro, come se conoscesse il momento, entrò discretamente nella cappella.
Alcuni, sapendo dell’amore della gatta per Adriana Zarri, la presero per il collo avvicinandola al
viso della defunta. Lo guardò a lungo, sembrava piangesse. Poi si mise sotto il feretro e lì rimase in
assoluta quiete. Adriana Zarri ha lasciato scritto il suo epitaffio che vale la pena di riportare:

«Non vestitemi di nero. È triste e funereo. Né di bianco, perché è superbo e retorico. Vestitemi di fiori gialli e rossi, e con ali di uccellini. E tu, Signore, guarda le mie mani. Può esser che ci hanno messo un rosario o una croce.
Ma si sono sbagliati. In mano ho delle foglie verdi e sulla croce, la tua resurrezione. Non mettete
sulla mia tomba un freddo marmo con le solite bugie per consolare i vivi. Lasciate che sia la terra a
scrivere, a primavera, un epitaffio di erbe a dire che ho vissuto e che aspetto. Allora, Signore, tu
scriverai il tuo nome e il mio, uniti come due bocche di papaveri».




l’economia alternativa di papa Francesco

 

 «L’attuale sistema è insostenibile» e non basta la solidarietà: all’incontro di Assisi «Economy of Francesco» il pontefice invita i giovani a incidere «nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti»

di Luca Kocci

in : il Manifesto

L’attuale sistema economico mondiale è «insostenibile» perché produce danni ambientali e provoca esclusione e povertà. Non basta la solidarietà, occorre un «cambiamento» degli «stili di vita» ma anche dei «modelli di produzione e di consumo».
DA ASSISI, dove un mese e mezzo fa il papa ha firmato l’enciclica sociale Fratelli tutti, arriva un nuovo appello per un altro modello di sviluppo, che metta al centro non il profitto di pochi, ma la vita umana, l’ambiente e il bene comune di tutte e tutti. Il contesto è l’incontro internazionale in videoconferenza, ma la «regia» si trovava nella città di san Francesco, fra duemila giovani economisti (ma anche imprenditori e operatori economici) under 35 provenienti da 115 Paesi del mondo chiamato – invero con un’enfasi personalistica un po’ eccessiva – «Economy of Francesco. Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani»

Prevista inizialmente interamente «in presenza» nello scorso mese di marzo, la pandemia di Covid-19 ha imposto il cambiamento di programma. E così l’iniziativa, preceduta da un confronto durato diversi mesi da parte di dodici gruppi di lavoro tematici (su lavoro e cura; management e dono; finanza e umanità; agricoltura e giustizia; energia e povertà; profitto e vocazione; policies for happiness; CO2 della disuguaglianza; business e pace; economia è donna; imprese in transizione; vita e stili di vita), si è svolta in streaming dal 19 al 21 novembre. Ma l’ipotesi è di riuscire a organizzare un incontro reale e non virtuale dell’autunno del 2021. Ieri, al termine della tre-giorni, il videomessaggio del papa, che ha fortemente voluto questa iniziativa, forse sperando di replicare il successo degli incontri in Vaticano con i rappresentanti dei movimenti popolari, che però sono stati decisamente un’altra cosa.
«Non possiamo andare avanti in questo modo», ha detto Francesco, «l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista, colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi». E rivolgendosi ai giovani economisti: «siete chiamati a incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti» per «avviare processi» capaci di «cambiare gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società».

L’orizzonte deve essere quello del «bene comune», e la solidarietà e l’«assistenzialismo» non bastano, perché non sono in grado di intervenire «strutturalmente» sul sistema economico e di sviluppo egemone, ha detto il pontefice nella parte centrale del suo intervento. «Non siamo condannati» a modelli economici che concentrino il loro interesse immediato sui profitti come unità di misura e sulla ricerca di politiche pubbliche simili che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale», come se potessimo contare «su una disponibilità assoluta, illimitata o neutra delle risorse». E «non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare».

Un cambiamento possibile, ha aggiunto Francesco – e in questo passaggio sono risuonate le eco di alcune parole rivolte ai movimenti popolari –, solo «i poveri e gli esclusi» diventeranno realmente «protagonisti» e potranno partecipare attivamente alle decisioni politiche. «Ricordatevi l’eredità dell’illuminismo, delle élites illuminate. Tutto per il popolo, niente con il popolo. E questo non va – ha ammonito il papa. Non pensiamo per loro, pensiamo con loro. E da loro impariamo a far avanzare modelli economici che andranno a vantaggio di tutti», e che mettano al centro il bene comune, perché «senza questa centralità e questo orientamento rimarremo prigionieri di una circolarità alienante che perpetuerà soltanto dinamiche di degrado, esclusione, violenza e polarizzazione». Infine un colpo al moloch della produzione, che ha valore solo se è in grado di «ridurre le disuguaglianze», perché «non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita».




disabituati all’incertezza, all’imprevisto, al non programmato – il covid ci da depressione, stanchezza o chiusura, rabbia, collera o sfida

ci eravamo scordati quanto è faticosa l’incertezza
di Mario Giro
in “Domani” del 17 novembre 2020

Le polemiche attorno alla gestione del Covid nascondono qualcosa di serio: la società occidentale
contemporanea è completamente disabituata all’incertezza, all’imprevisto, al non programmato.
Una vita che non sia sotto il proprio egocentrico controllo fa impazzire molti; situazioni che non si
possono dominare appaiono inaccettabili. Alcuni reagiscono a tale situazione sospesa con
depressione, stanchezza o chiusura. Altri con rabbia, collera o sfida. C’è chi sceglie
l’autoreferenzialità e cerca una fuga solitaria. C’è invece chi risponde con cieco vitalismo, negando
la realtà, trasformandosi in folla arrabbiata. C’è anche chi vive entrambi gli atteggiamenti,
passando dall’uno all’altro senza soluzione di continuità. Per questo vediamo molti arrabbiati oggi
contro le chiusure anche se le avevano invocate ieri o viceversa. Non c’è tanta differenza tra chi
protesta e chi si separa dagli altri: entrambi sono modi riluttanti di non acconsentire all’incertezza
dell’indefinito, dell’inconsueto, dell’inatteso. La paura del contagio o della sofferenza è logica e
condivisibile. Ma la pandemia ha fatto emergere il terrore per ogni tipo di disagio e un forte
fastidio per le domande ultime che essa reca con sé. La rabbia contro virologi o medici che si
contraddicono in tv è frutto di tale atteggiamento: dalla scienza si gradirebbe una risposta
ultimativa. Al netto della vanità di chi interviene probabilmente spesso per competere coi colleghi,
si dimentica che la scienza non è certezza assoluta ma ricerca, sperimentazione, progressi e
fallimenti. Anche il caso del vaccino è divenuto un’assurda gara: il mio copre il 90 per cento, il mio
il 92, il mio il 94… comportamenti infantili invece di cooperare a una distribuzione generale che
ancora rimane incerta mentre dovrebbe rassicurare tutti. È diventato insopportabile per l’uomo e la
donna contemporanei, in particolar modo occidentali, non sentirsi liberi di poter fare tutto ciò che pare loro. Improvvisamente ogni tipo di restrizione diviene un dramma assoluto tanto da provocare
una permanente ricerca dei colpevoli. Se non posso sentirmi libero di fare ciò che voglio, significa
che qualcuno me lo impedisce: da qui prende avvio la retorica del complotto, della congiura di cui
sentirsi immancabilmente vittime. A furia di vedere congiure dovunque ci si istupidisce e non si
crede più a nulla. Ma così paradossalmente alla fin fine si è pronti a credere a tutto, a qualunque
cosa. Non si possono trovare colpevoli convincenti della propria ansia: è la vita ad essere così,
quella vera, non quella confortata del nostro orizzonte impigrito.
La vita è lotta, incertezza, sforzo, attesa. Può cambiare e cambiarti. Non tutto è dato per sempre e
occorre impegno. Non è mai stato vero che la vita si possa controllare. La maggioranza del mondo
vive già così e i poveri provano l’incertezza nel quotidiano. Ora il Covid la rammenta a tutti e la vita
ci dice che se ne esce solo lottando e insieme.




l’indifferenza è peggio dell’odio – una riflessione E. Bianchi

“il virus dell’indifferenza”

Enzo Bianchi


non l’odio, ma l’indifferenza è l’opposto dell’amore fraterno
l’indifferenza
malattia che si è dilatata nella nostra società occidentale e che giorno dopo giorno minaccia la possibilità della buona convivenza, facendoci precipitare nella barbarie
ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose
È noto che il termine latino virus significa “veleno”, ossia un organismo che origina molte malattie negli esseri viventi e mostra la sua forza attraverso il contagio che si diffonde e minaccia la vita.
L’esperienza che stiamo facendo della pandemia dovuta al Covid 19, esperienza dolorosa e faticosa che tocca tutta la nostra convivenza, ci rivela come l’aria può essere ammorbata e diventare sempre più mortifera. Per questo possiamo fare del virus anche una parabola, applicata soprattutto all’indifferenza, malattia che si è dilatata nella nostra società occidentale e che giorno dopo giorno minaccia la possibilità della buona convivenza, facendoci precipitare nella barbarie
L’indifferenza è restare insensibili a ciò che accade fuori di noi, non riuscire più ad ascoltare le grida di chi ci invoca e ci chiama accanto, la durezza del cuore che non ci fa più conoscere viscere di compassione. L’indifferenza diventa un habitus del disinteresse per gli altri e impedisce ogni coinvolgimento. Non l’odio, ma l’indifferenza è l’opposto dell’amore fraterno. Si faccia attenzione: non si tratta di spegnimento di desideri e interessi, ma piuttosto di una riduzione di desiderio e interesse al proprio io, in una dinamica di philautía, di egoismo in cui ognuno pensa a sé stesso e non è più capace di pensare anche per gli altri e con gli altri, non è più capace di dire “noi”. 
L’indifferenza regna così nel nostro quotidiano. A un certo punto ci abituiamo a vedere e rivedere ciò che inizialmente ci ha turbato, non reagiamo più, perché non siamo più scandalizzati del male che incontriamo. L’abitudine provoca l’insensibilità e l’insensibilità l’indifferenza. 
La pandemia che torna a travolgerci cattura l’attenzione, rinnova le paure, rende più faticose le giornate e anche per questo non abbiamo più spazio di attenzione per quello che avviene ancora nel nostro Mediterraneo: un mare la cui vocazione è quella di essere un ponte tra terre diverse e invece si mostra una fossa comune per naufraghi in fuga da guerre, fame, situazioni di oppressione. 
Certo, se tra le vittime di questi naufragi — più di mille persone quest’anno — ci sono bambini piccoli, allora si assiste a uno scoppio transitorio di sentimenti di indignazione e si levano voci affinché i governanti intervengano. Il bimbo siriano riverso sulla spiaggia di Lesbo di qualche anno fa, il piccolo guineano di sei mesi annegato sul seno della madre nei giorni scorsi, diventano un’icona che turba i cuori e una fonte di elegia retorica. Ma è questione di qualche giorno, poi tutto è dimenticato, e nulla accade affinché ciò non si ripeta. In tal modo l’indifferenza crea gli “invisibili”, quelli che con la loro sofferenza ci disturbano, che dunque preferiamo non vedere. In molti diciamo che è intollerabile, vergognoso, ma nel dirlo misuriamo la nostra impotenza e siamo solo più tristi nel constatare che nel mare dell’indifferenza si affoga molto di più che nel mar Mediterraneo.



la libertà di satira è così assoluta da potersi ritenere sciolta da ogni responsabilità?

quando la satira si rifiuta di essere responsabile

di Vladimiro Zagrebelsky

in “La Stampa” del 4 novembre 2020

Una discussione della vicenda cui le vignette del Charlie Hebdo hanno dato inizio, richiede, per chiarezza, una secca premessa. La violenza barbarica di chi sgozza francesi per vendicare l’Islam, come dopo la strage del 2015, porta oggi immediatamente a schierarsi: contro il mondo da cui emergono quei selvaggi assassini e accanto alla Francia, alla sua cultura e alla sua storia. Una cultura e una storia che tanto hanno contribuito al riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone, che costituiscono il carattere specifico della cultura liberale d’Europa.
Ciò che è in ballo è la libertà di espressione. È evidente. Ma nel caso specifico non vi sono forse
problemi? Problemi nostri, problemi di chi tiene alla libertà di espressione come a uno dei «diritti
più preziosi dell’uomo»; così leggiamo nell’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, proclamata dall’Assemblea nazionale come primo atto della Rivoluzione del 1789.
La dimensione europea dei diritti e delle libertà è raccolta ora nella Convenzione europea dei diritti
umani, che afferma la libertà di opinione, di ricevere e di comunicare informazioni e idee, senza
ingerenze da parte di autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere. La Corte europea ha
affermato che la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali della società
democratica, una delle condizioni del suo progresso e dello sviluppo della personalità di ciascuno.
Essa vale non soltanto per le informazioni o le idee che sono accolte con favore o sono considerate
inoffensive o indifferenti, ma – con il limite dell’istigazione all’odio, alla violenza e al razzismo –
anche per quelle che urtano, colpiscono, inquietano una qualunque parte della popolazione. È questa
un’esigenza propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza i quali non
esiste società democratica. Tuttavia, è una libertà che incontra limiti: tra gli altri specificamente per
il rispetto della reputazione e dei diritti altrui. La libertà di espressione è l’unico caso in cui la
Convenzione europea alla proclamazione aggiunge espressamente che il suo esercizio comporta
doveri e responsabilità. L’unico caso, come a sottolineare la speciale natura di quella libertà, che
mette sempre in relazione con l’altro o gli altri, i quali a loro volta hanno diritti che meritano
rispetto.
Si è dunque di fronte ad un diritto fondamentale che va difeso fermamente anche quando
infastidisce o urta gli altri e che però trova limite nei diritti altrui. Difficilissimo equilibrio che il
richiamo alla “responsabilità” cerca di assicurare e prevenire. Non si tratta di prevedere punizioni
per chi si sottrae al dovere di responsabilità, ma di denunciarne l’irresponsabilità rifiutando di
condividerla.
Dubito che quelle vignette pubblicate e ripubblicate siano compatibili con il dovere di
responsabilità. Si pretende che la satira abbia uno statuto speciale, di maggiore e assoluta libertà e
immunità. Si potrebbe convenire se servisse a garantire maggiore incisività, sintesi intelligente,
anche ferocia nella critica, ecc. Ma non si vede perché debba sottrarsi alla critica quando si traduca
in offesa diretta ed anche oscena. Tanto più quando si tratti di blasfemia e quindi colpisca il
sentimento religioso, che – citando ancora una volta la Corte europea dei diritti umani – costituisce
elemento tra i più essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita ed è bene
prezioso anche per gli atei, gli agnostici, gli scettici.
Il dovere di responsabilità implica attenzione alle conseguenze, anche a quelle che non si possono
giustificare, ma si provocano. Non si tratta di rinunciare a una propria libertà, ma di gestirla,
modularla e attuarla evitando posture narcisistiche indifferenti agli effetti sugli altri. Non è grave
gettare a terra un cerino. Ma non ignorando di essere in un pagliaio. La difesa della pubblicazione
delle vignette sarebbe necessaria conseguenza della laicità dello Stato. Però sostenere che quelle
pubblicazioni sono irresponsabili non confligge con la laicità, che è altra cosa. Il presidente
dell’Osservatorio della laicità francese ha definito la laicità dello Stato dicendo che essa riposa su tre
pilastri: la libertà di credere e di non credere, la neutralità dello Stato, l’eguaglianza dei cittadini,
tutti diversi tra loro, ma eguali nei diritti e nei doveri.
Subito dopo l’atroce decapitazione dell’insegnante di storia Samuel Paty la reazione corale fu
guidata e riassunta da un alto discorso commemorativo del presidente Macron. Il suo tono marziale
sembrava richiamare l’idea dello scontro di civiltà, rischiando di fare di quegli assassini i
rappresentanti del vasto e variegato mondo islamico. Una guerra sciagurata. Saremmo chiamati a
combatterla con quelle vignette come stendardo? Non c’è altro di meglio nel carattere delle società
europee e delle nostre libertà?
Ora lo stesso presidente corregge il tono e riconosce comprensibile lo choc risentito dai musulmani.
E allora ha senso chiedere se l’identità francese ed europea meriti veramente d’essere rivendicata
con la difesa, senza un accenno di critica, della pubblicazione -e ripubblicazione- di quelle vignette.




il ricordo di Casaldáliga del teologo Victor Codina

 

Il mistero di Casaldáliga

il mistero di Casaldáliga

da: Adista Documenti n° 34 del 03/10/2020

 

La tenerezza e l’indignazione del vescovo profeta

Víctor Codina

la tenerezza e l’indignazione del vescovo profeta

La morte del vescovo Pedro Casaldáliga ha avuto un grande impatto. Come un giovane catalano, che si è unito ai Cordimarianos (dediti al cuore di Maria, e Casaldáliga apparteneva ai Missionari figli del Cuore Immacolato di Maria o Congregazione Claretiana, ndt) ai tempi della Spagna franchista e della Chiesa preconciliare, andando in Brasile, si è convertito in un santo padre della Chiesa dei poveri?

Dove ha trovato la forza per lavorare, come pastore, a Sao Felix de AraguaIa con gli indigeni, difendere i contadini dai grandi proprietari terrieri, promuovere organizzazioni civili ed ecclesiali in Brasile e in America Latina, criticare il Nord e suggerire al papa di lasciare la curia? Come ha avuto la libertà profetica di maledire le proprietà private che schiavizzano la terra e gli esseri umani? Chi lo ha fatto resistere alle minacce di morte dei potenti e alle critiche dei suoi fratelli col pastorale?

Come ha saputo affrontare la povertà, i lunghi viaggi e le limitazioni del Parkinson? Da dove gli è venuta la sicurezza che stiamo andando verso la Speranza con la lettera maiuscola? Non era semplicemente un pianificatore pastorale, sociologo, economista o rivoluzionario politico. Qual è stata la radice ultima della sua vita?

Le sue poesie ci offrono la chiave, ci aprono al Mistero, che è Gesù di Nazareth, versione di Dio nella piccolezza umana. Per lui, Gesù è la sua forza e il suo fallimento, la sua eredità e la sua povertà, la sua morte e la sua vita. È il Gesù di Betlemme, dei pastori, delle beatitudini, dei poveri e dei piccoli, assassinato dal Tempio e dall’Impero, ma la cui tomba vuota annuncia la Pasqua. Per Pedro ci sono solo due assoluti, Dio e la fame; dove c’è il pane, lì c’è Dio.

Pedro era colpito dal capitolo 21 del Vangelo di Giovanni: la pesca nel lago di Tiberiade dopo il fallimento della notte, mentre sulla riva Qualcuno invita a mangiare e chiede a Pietro se lo ama:

«Gesù di Nazaret, figlio e fratello, / vivente in Dio e pane nella nostra mano, / via e compagno di viaggio, / Liberatore totale della nostra vita / che viene al mare, con l’alba, / le braci e le piaghe ardenti».

Ora Pedro giace sepolto vicino al fiume Araguaia. Sulla riva c’è Qualcuno che lo aspetta a braccia aperte per condividere il pane. Il mistero della vita di Casaldáliga ci si svela: i poveri gli hanno insegnato a leggere il Vangelo. Grazie, Pedro, perché la tua vita evangelica rende la nostra fede più credibile e reale. (…)

Pedro Casaldáliga, poeta, mistico, profeta

L’idea che il “vaccino” brevettato da Gesù di Nazareth potesse rimanere “in superficie” era un desiderio di extraterrestri o terrestri estranei alla durezza della vita quotidiana. Ma l’immersione nel pozzo del virus neoliberista è penetrata così tanto e così in profondità da essere visto come non negoziabile. Nessuno sembra sfuggire alla morsa gigantesca del sistema neoliberista.

La verità è che il pianeta Terra sta esplodendo perché questo pericoloso virus ha superato tutti i limiti e minaccia di affondare la nave stessa del pianeta Terra. Nasce la consapevolezza che il virus-sistema neoliberista può porre fine alla vita di alcuni e di tanti, di tutti.

Sarebbe un segno di speranza capovolgere radicalmente un sistema fallito. È la prima cosa ed è il minimo che deve accadere: che suoni l’allarme dei profeti, nella Chiesa, negli Stati, nel commercio mondiale, in politica. Non c’è speranza, non c’è futuro, né c’è vita se non c’è cambio di rotta, abbracciato e condiviso da tutti.

Casaldaliga. La grandezza della sua testimonianza rende credibili le sue parole

– Nella Chiesa (28 febbraio 1986)

«Caro fratello Giovanni Paolo II: senza “conformarsi a questo mondo”, la Chiesa di Gesù, per essere fedele al Vangelo del Regno, deve essere attenta “ai segni dei Tempi” e dei Luoghi e annunciare la Parola, in tono culturale o storico e con una testimonianza di vita e pratica tali che uomini e donne di ogni tempo e luogo possano comprendere questa Parola e siano incoraggiati ad accettarlo».

«Concretamente, riguardo al campo sociale, non possiamo dire, con molta verità, che abbiamo già fatto l’opzione per i poveri. In primo luogo, perché non condividiamo nelle nostre vite e nelle nostre istituzioni la reale povertà che loro sperimentano. E, in secondo luogo, perché non agiamo, di fronte alla “ricchezza dell’iniquità”, con quella libertà e fermezza che erano adottate dal Signore. L’opzione per i poveri, che non escluderà mai la persona del ricco – poiché la salvezza è offerta a tutti e il ministero della Chiesa è dovuto a tutti –, esclude il modo di vivere dei ricchi, “insulto alla miseria dei poveri”, e il loro sistema di accumulazione e privilegio, che necessariamente depreda ed emargina la stragrande maggioranza della famiglia umana, dei popoli e di interi continenti».

«Non ho fatto la visita ad limina, neanche dopo aver ricevuto, come gli altri, un invito dalla Congregazione per i Vescovi che ci ha ricordato questa pratica. Volevo e desidero aiutare la Sede Apostolica a rivedere la forma di quella visita. Sento critiche da parte di molti vescovi, perché, pur riconoscendo che favorisce un contatto con i Dicasteri romani e un cordiale incontro con il papa, la modalità di questa pratica si rivela incapace di produrre un vero scambio di collegialità apostolica dei Pastori delle Chiese Particolari con il Pastore della Chiesa universale. Si affronta una grande spesa, si stabiliscono contatti, si realizza una tradizione. Ma si compie la tradizione del videre Petrum e di aiutare Pietro a vedere tutta la Chiesa? La Chiesa non ha oggi altri modi più efficaci di scambio, di stabilire contatti, valutare, esprimere la comunione dei Pastori e delle loro Chiese con la Chiesa universale, più concretamente con il vescovo di Roma?».

«Il papa ha bisogno, come tutti i vescovi della Chiesa, di un corpo di ausiliari, anche se il tutto dovrebbe essere sempre semplificato e più partecipativo. Tuttavia, fratello Giovanni Paolo, per molti di noi alcune strutture della Curia non rispondono alla testimonianza di quella semplicità evangelica e di quella comunione fraterna che il Signore e il mondo ci richiedono; né tali strutture traducono nei loro atteggiamenti, a volte centralizzatori e impositivi, una cattolicità veramente universale, né rispettano sempre le esigenze della corresponsabilità adulta; neppure, a volte, i diritti fondamentali della persona umana o dei diversi popoli. Né mancano, frequentemente, in settori della Curia romana, pregiudizi, attenzione unilaterale alle informazioni, o anche posizioni, più o meno inconsce, di etnocentrismo culturale europeo rispetto all’America Latina, all’Africa e all’Asia»

– Nelle relazioni internazionali: Primo mondo/Terzo mondo (agosto 1990) «Dico sempre, cambiando quello che diceva Ortega y Gasset, che io sono io e le mie cause, e le mie cause valgono più della mia vita. Le mie cause, ma non solo le mie, sono: la terra, l’acqua, l’ecologia, le nazioni indigene, i neri, la solidarietà, la vera integrazione continentale, lo sradicamento di ogni emarginazione, di ogni imperialismo, di tutto il colonialismo, il dialogo interreligioso e interculturale, il superamento di quello stato di schizofrenia umana che è l’esistenza di un Primo e di un Terzo mondo (e anche di un quarto mondo) mentre siamo un unico mondo, la grande famiglia umana, figli del Dio di tutta la vita».

«Ciò che intendiamo, assumendo queste cause, è umanizzare l’umanità praticando la prossimità… La scienza, la tecnologia, il progresso sono degni dei nostri pensieri e delle nostre mani solo se ci umanizzano di più. E questo ci impegna a trasformare il mondo insieme… Dato che ora tutti incontriamo tutti, dobbiamo scegliere se scontrarci gli uni con gli altri, nell’intolleranza e nell’aggressione, o abbracciarci nella comprensione e nella complementarità. Faccio mie le parole di Baltasar Porcel: le nazioni sono contenuto, non frontiere. È tempo, quindi, di credere, in plurale unità, nel Dio della vita e dell’amore e di praticare la religione come giustizia, servizio e compagnia. Un Dio che separa l’umanità è un idolo mortifero».

«Non possiamo celebrare l’Eucaristia all’ombra dei signori». «I poveri sono la pupilla dei miei occhi. Mi ha sempre spezzato il cuore vedere la povertà da vicino. Mi trovo bene con gli esclusi. Non sono in grado di assistere a una sofferenza senza reagire. D’altronde, non ho mai dimenticato di essere nato in una famiglia povera. Mi sento male in un ambiente borghese. Mi sono sempre chiesto perché, se posso vivere con tre camicie, me ne servano dieci nell’armadio. I poveri della mia Prelatura vivono con due».

«Se dovessi dire qual è il motivo di questa mia lotta, direi: questa è la mia passione per l’utopia. Una passione scandalosamente inattuale in quest’epoca di pragmatismi, di produttività, di commercializzazione totale, di postmodernità senza speranza. Ma, in altre parole, è la passione della Speranza; è, in termini cristiani, la passione per il Regno, che è la passione di Dio e del suo Cristo. Una passione che, in prima e ultima istanza, coincide con la migliore passione dell’umanità stessa, quando vuole essere pienamente umana, autenticamente viva e definitivamente felice… Non voglio la globalizzazione neoliberista omicida, suicida; ma la mondializzazione della solidarietà per la costruzione (certamente progressiva e perfino dialettica) dell’uguaglianza nella dignità, nei diritti e nelle responsabilità degli individui e dei loro popoli, che faranno una l’umanità, sebbene plurale nelle sue alterità».

Convinciti, mi diceva Casaldáliga in un’intervista: «Solo nella misura in cui il Primo Mondo cessa di essere Primo Mondo può aiutare il Terzo Mondo. Per me questo è un dogma di fede. Se il Primo Mondo non si suicida come Primo Mondo, il Terzo Mondo non può esistere “umanamente”. Finché ci sarà un Primo Mondo ci saranno privilegi, esclusione, dominio, lusso ed emarginazione. Se voi nel Primo Mondo non decidete di essere un mondo umano, noi non potremo esserlo. Perché c’è un solo mondo. La liberazione presuppone consapevolezza e possesso della propria identità».

«Sono convinto che non si possa essere rivoluzionari o profeti o liberi senza essere poveri. Essendo povero mi sento libero da tutto e per tutto. Il mio motto è: essere libero di essere povero. Se senti la povertà come una questione di giustizia e di decenza umana, proverai necessariamente compassione, mostrerai amore e ti ribellerai con indignazione».

«Chi crede in Dio deve credere nella dignità dell’uomo. Chi ama il Padre deve servire i fratelli. Il Vangelo è un fuoco che brucia la tranquillità. Non si può essere cristiani e sopportare l’ingiustizia con la bocca chiusa. Gesù dice nel Vangelo che Dio ci giudicherà l’ultimo giorno per quello che abbiamo fatto con i nostri fratelli più poveri e più piccoli».

La sua profezia

Parlare di Pedro come profeta è un buon modo per capire la sua personalità cristiana.

La società che rimane senza profeti rimane cieca. Ma succede che i profeti non abbondino, sicuramente perché i profeti offrono una visione della realtà che la maggior parte di noi non ha o non vuole avere.

Il profeta è un veggente realista, che percepisce la realtà di Dio principalmente attraverso gli eventi della vita, le persone che lo attorniano, gli avvenimenti che lo accompagnano. È una persona libera e coraggiosa: non sposa nessuno e canta la verità ovunque manchi e davanti a chiunque. E per questo motivo entra in conflitto con ogni tipo di potere: monarchie, regimi politici, caste sacerdotali, multinazionali, ecc. E il profeta agisce con la parola parlata e scritta e con azioni simboliche.

«Dio è la ragione più grande o la migliore, la passione della mia vita, è una realtà ineludibile, una presenza certa, anche se libera e sovrana. Una presenza mai rivelata, sempre più riferita al futuro totale della più grande speranza, ma sempre operativa, di apparizione improvvisa e invocata».

«Chiedermi se farei quello che faccio se Dio non esistesse è come chiedermi cosa farei io se non esistessi o se non fossi una persona e un cristiano. So che altri senza Dio chiaramente fanno di più e danno tutto, e danno se stessi. Credo sempre che Dio sia con loro».

«Ho avuto un incontro esplicito con Dio, in Gesù Cristo, all’interno della comunità di fede, che è la sua Chiesa. E questo è un mistero che mi travolge e che mi costringe a credere che Dio è più grande dei nostri cuori, dei nostri dogmi e della nostra comunità».

Fu questa la fede che lo portò a “cantare” quando morì Che Guevara:

Riposa in pace. / E aspetta già al sicuro / con il petto guarito / dall’asma della stanchezza; / pulito dall’odio lo sguardo morente; / senza più armi, amico, / che la spada nuda della tua morte.

Né il “buono”, da una parte, / né il “cattivo”, dall’altra, / capiranno il mio canto. / Diranno che sono semplicemente un poeta. / Penseranno che la moda mi ha preso. / Ricorderanno che sono un prete “nuovo”.

Mi importa di tutto lo stesso! / Siamo amici / e parlo con te ora / attraverso la morte che ci unisce; / allungandoti un ramo di speranza, / un’intera foresta fiorita / di jacaranda perenni iberoamericani, / caro Che Guevara!

Libertà, povertà e profezia sono le insegne di Pedro Casaldáliga.

Per prima cosa, prendersi cura dell’uomo

Racconta Pedro che, navigando sul Rio de las Mortes (nello Stato del Mato Grosso, ndt), dovette prendersi cura di un uomo morente. La comunità gli chiese di celebrare una messa. Non c’erano né pane né vino. Non aveva con sè nulla per dire la messa perché, racconta, «Io ero andato con la preoccupazione di assistere l’uomo. C’era una piccola taverna lì. Presi dei biscotti e della caña (simile alla grappa, ndt) e ho celebrato la messa. Ho pensato che fosse una bella messa. La gente mi chiedeva la messa e io ero prete; la Pasqua di Cristo si può celebrare con il vino delle vigne d’Italia o di Spagna, ma se non c’era vino, perché non si poteva celebrare con alcol da canna da zucchero?».

La scomunica delle haciendas

Un’altra volta, racconta, è arrivato a un atto estremo: «Ho maledetto una struttura di accumulazione, capitalizzazione, esclusione e dominio. Sono persino arrivato al punto di scomunicare due tenute, La Piraguacu e La Frenova, perché avevano uomini armati che hanno ucciso i peones, ne hanno tagliate delle parti e le hanno portate alla hacienda per provare la loro morte. Quella vol ta ho seppellito uno di quei peones assassinati, ho preso una manciata di terra dalla sua tomba, l’ho messa sull’altare e ho scomunicato queste tenute. Ma è stato un atto contro le haciendas, non contro il popolo».

Il Vangelo a favore dei poveri, contro i ricchi

Dove Pedro non dà spazio a compromessi è il tema dei ricchi e dei poveri: «Abbiamo detto tante volte che, qui, o stai da una parte o dall’altra. Dico sempre che il Vangelo è per i ricchi e per i poveri. È per tutti ma è a favore dei poveri ed è anche a favore dei ricchi, ma contro la loro ricchezza, contro i loro privilegi, contro la possibilità che hanno di sfruttare, dominare ed escludere. Posso relazionarmi con i ricchi, a patto di dire loro le verità e che io non mi lasci trasportare… Non è che non posso andare un giorno a fare uno spuntino a casa di un uomo ricco, ma se ci vado ogni settimana e non succede niente, non dico niente, non scuoto quella casa, non scuoto quella coscienza, mi sono venduto e ho negato la mia opzione per i poveri».

A favore della proprietà privata, non privativa

«Una volta ho avuto l’opportunità di intervenire in un procedimento pubblico nell’Assemblea nazionale, dove si trattava di una questione fondiaria. E allora alcuni dei senatori e deputati più conservatori – molti di loro molto cattolici e praticanti – mi hanno detto: Monsignore, lei è contro la proprietà privata! Ho risposto: no, se avete una maglietta e tutti possono averne una, io sono favorevole alla proprietà privata di ogni maglietta. Ma se hai 50 megliette e la maggioranza delle persone non ne ha nessuna, la proprietà privata è privativa».

Consumismo

«In questi tempi di tanto consumismo, credo che la Chiesa di Gesù, e specialmente quelli di noi che sono o dovrebbero essere più responsabili all’interno della Chiesa, dobbiamo offrire una testimonianza di anti-consumismo. Il progetto del mercato, in fondo, è il consumismo… Ciò che mi costituisce non è ciò che ho, ma ciò che sono, ciò che amo, le ragioni della mia vita… È ciò che do che mi costituisce, non quello che ho. Ma se ho molto e do poco, ho meno perché sono meno».

Teologia della liberazione

Una volta gli ho posto questa domanda: cosa resta della Teologia della Liberazione? Con una sacra indignazione, mi ha risposto:

«Sono stufo di sentire questa domanda. Mi hanno chiesto se è ancora attuale o del passato compagni, vescovi, giornalisti… Che non continuino a enumerarmi, almeno per vergogna, le barbarità – vere calunnie – che affibbiano alla Teologia della Liberazione e ai suoi teologi! Noi, teologi della liberazione, i vescovi che ci accompagnano e le Chiese che beneficiano delle nostre dottrine, non abbiamo optato per Marx ma per il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, per il suo Regno e per i suoi poveri.

Il nostro Dio vuole la liberazione da ogni schiavitù, da ogni peccato e dalla morte. Analizzare la tragica situazione di due terzi dell’umanità, segnalarla come contraria alla volontà di Dio e assumere impegni concreti per trasformare questa situazione sono passi obbligati della Teologia della Liberazione. Ai nemici del popolo non piace la Teologia della Liberazione. Festeggerebbero così tanto i cristiani se pensassero solo al Cielo… disprezzando la Terra! Mentre noi vogliamo guadagnare il Cielo conquistando la Terra. Figli liberi di Dio Padre e veri fratelli».

«Non avere niente. Non prendere niente. Non potere niente. Non chiedere niente. E, pure, non uccidere niente; non tacere. / Solo il Vangelo, come un coltello affilato, / e le lacrime e il riso negli occhi, / e la mano tesa e stretta, / e la vita, a cavallo, data. / E questo sole, e questi fiumi, e questa terra acquistata, / per testimoniare la rivoluzione che è già scoppiata. / E più niente!».

La sua radicalità lo ha portato a dire:

«Il teologo Karl Rhaner ha scritto: Nel XXI secolo un cristiano o sarà un mistico o non sarà un cristiano. Che si sappia, considero Rhaner il più grande teologo del XX secolo. Tuttavia, credo, con la più ferma convinzione evangelica, che oggi, già nel XXI secolo, un cristiano o una cristiana, o è povero e/o alleato o alleata visceralmente con i poveri, o non è cristiano, non è cristiana. Nessuna delle affermazioni famose della Chiesa rimane in piedi se si dimentica questa fondamentale, la più evangelica di tutte: l’opzione per i poveri».

Pedro Casaldáliga in prima linea nella giustizia e nella carità

(…)

– Leonardo Boff

«Quando i perturbati tempi attuali saranno passati, quando le diffidenze e meschinità saranno inghiottite dal vortice del tempo, quando guarderemo indietro e considereremo gli ultimi decenni del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, identificheremo una stella nel cielo della nostra fede, splendente, dopo aver fermato le nuvole, sopportato le tenebre e superato le tempeste: è la figura semplice, povera, umile, spirituale e santa di un vescovo che, straniero, diventa connazionale, distante si fa prossimo e, prossimo, si fa fratello di tutti, fratello universale: don Pedro Casaldáliga».




il sogno di papa Francesco di un’Europa sanamente laica

la lettera del papa all’Europa:

sii te stessa, ritrova i tuoi ideali


nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea:
“Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma 

Il Papa all'Europa: sii te stessa, ritrova i tuoi ideali

L’Europa ha avuto e deve ancora avere “un ruolo centrale”: lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.

IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA DEL PAPA

“Tale ruolo – sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa – diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme e uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita”.

“Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia – dice il Papa – costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman“.

Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. “All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti – scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari – a guardare al tuo passato come a un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico”.

“Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali – prosegue il Papa – che hanno radici profonde. Sii te stessa!”

“Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura”.

Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società” scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.

“Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma – si spera – anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europaper animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque a impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano”.