i partigiani della resistenza rom e sinti, una storia poco nota

la storia segreta dei partigiani rom e sinti

di Giulia Boero in “la Repubblica” del 22 aprile 2024

C’è una storia poco nota. Di giovani rom e sinti, partigiani della Resistenza. Dimenticati, non riconosciuti. Tenuti ai margini, anche dopo la Liberazione e nella democrazia restaurata. Di loro restano i ricordi narrati dagli eredi. Di loro, ne sopravvive soltanto una. Erasma Pevarello è l’ultima staffetta sinta rimasta. Novantasei anni, conosciuta con il nome di Vincenzina, oggi vive nella camera da letto della sua roulotte a pochi chilometri da Castelfranco Veneto, in un piccolo campo fatto di qualche casa mobile, verande di legno e molta tranquillità. Aveva 17 anni quando nel 1944, incinta del suo primo marito – Renato Zulin Mastini, anche lui partigiano sinto – scappò dai soldati fascisti, mentre lui veniva catturato. «Mi buttai in un fosso ricoprendomi di foglie secche. Prima di scappare, un fascista che chiamavano gamba di legno mi colpì nel fianco con il calcio del fucile. Sento ancora quel dolore, non è mai passato del tutto». Mirka è l’unica figlia di quell’unione. Nata in carovana al chiaro di candela, mentre fuori igagi (i non-rom) mitragliavano la kumpania delle famiglie sinte itineranti. Oggi ha ottant’anni. Apre la porta della roulotte, attraversata a metà pomeriggio da fitti raggi di luce invernale. Fa segno di entrare con la mano, Erasma aspetta seduta sul letto. È la sola rimasta tra quindici fratelli: «La radice della stirpe dei Pevarello» dice di sé sorridendo. Famiglia dedita allo “spettacolo viaggiante”, di artisti e saltimbanchi, suonatori di violino e partigiani. Racconta, fa un salto indietro nel tempo. Erasma cercherà invano il marito per giorni. A piedi, un comando di polizia alla volta. Da Vicenza a Padova e ritorno. Verrà fermata da un uomo coperto in volto: «Mi mise qualcosa in mano e mi chiese di andare a San Giorgio. Lì, all’altezza del campanile, avrei trovato qualcuno a cui consegnare ciò che mi aveva dato. E lo feci». Una storia che si ripeterà più volte. «Avevo paura, fare la staffetta era pericoloso. Se i fascisti mi avessero trovato, sarei stata la prima a essere uccisa. Ancora oggi non so dire perché l’abbia fatto. Sentivo solo che era la cosagiusta, che dovevo». Renato Mastini verrà fatto prigioniero nel carcere di Camposampiero, vicino a Padova. Fucilato l’11 novembre di quell’anno durante “l’eccidio del Ponte dei marmi”.

Sinto tra i “dieci martiri di Vicenza”, come sinti erano Walter Catternato, Lino Festini e Silvio Paina. Anche loro musicisti, circensi, giostrai. Un impegno partigiano comune a molte famiglie rom e sinte italiane che i discendenti tengono a rivendicare. Il contributo delle comunità romanès alla resistenza al nazifascismo assunse diverse forme. Staffette e combattenti attivi, scappati soprattutto dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943. Uniti aiciriklè ( i passeri, i partigiani), dopo aver trovato rifugio nelle campagne e sulle montagne. Costretti alla macchia nei boschi contro i fascisti, ikashtengere , quelli con il manganello. Per molti era un modo per non essere catturati di nuovo e deportati in Germania. Altri speravano di liberare i propri familiari ancora prigionieri. Per alcuni era il modo di contribuire alla liberazione d’Italia e partecipare alla costruzione di uno stato democratico. Tutti combattevano per imulé ,i propri morti. I partigiani erano gli unici a garantire loro protezione. Nessuno conosceva i luoghi meglio dei sinti. Nessuno meglio di loro sapeva orientarsi senza mappe, bussole o cartine. Spesso staffette, perché in grado di correre più velocemente di chiunque altro (come Osiride Tarzan Pevarello, fratello di Erasma, scelto da Tina Anselmi, partigiana con il nome di Gabriella). In questa storia sommersa, soltanto uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini, suo compagno d’armi, il Diploma d’Onore di Combattente per la Libertà d’Italia: Amilcare Taro Debar. Prima come vedetta, corriere e addetto all’approvvigionamento di armi nel cuneese. Poi, combattente attivo nelle Langhe con il nome di Corsaro, contribuendo alla liberazione di Torino nel ’45. C’erano i partigiani sinti e c’era l’intera comunità, le storie di chi durante la guerra venne considerato “inferiore” alla razza ariana, gli Untermenschen. Si stima che tra il ’40 e il ’43 furono deportati nei campi di sterminio più di mezzo milione tra rom e sinti europei. Accusati di «comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati». Segnalati come «asociali» o «vagabondi» e quindi difficili oggi da individuare nelle liste dei deportati. «Eterni randagi privi di senso morale e socialmente pericolosi» verranno etichettati sulla rivista La difesa della razza . Dei 25 mila rom presenti in Italia tra gli anni ’20 e gli anni ’30, circa seimila vennero internati nei campi di reclusione italiani. Lo chiamano Samudaripen (tutti morti) o Porrajmos (grande divoramento). Un genocidio ancora oggi non riconosciuto, nemmeno nella legge del 2000 che istituì la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime dell’Olocausto. La famiglia Lucchesi vive a due passi da Reggio Emilia. Giostrai, anche in tempo di guerra. Seduti attorno al tavolo della loro roulotte, i fratelli Massimo, Bruno (Cino) e Ivos (Popunino) raccontano tessere della vita del padre Fioravante. Partigiano a 16 anni, il più giovane d’Italia tra i sinti. «Era contento del contributo dato da combattente per la Resistenza. Ma tornato dalla guerra si svegliava di notte, impugnava la scopa o quello che trovava come se volesse sparare. Una volta ci buttò giù dal letto, in mezzo alla neve. Avevaancora paura». «La guerra che facevano all’epoca non ci apparteneva», spiega Manolo De Bar, sfogliando alcune foto di famiglia. «Oggi farei la stessa scelta di mio nonno Armando, a cui diedero del disertore. Non porterei quella divisa ». Manolo e suo fratello Johnny sono i figli di Giacomo Gnugo De Bar, sinto di professione saltimbanco come amava definirsi. Rinchiuso da bambino nel campo di Prignano sulla Secchia, nel modenese. Ma sono anche i discendenti dei Leoni di Breda Solini, battaglione sinto attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia. Considerati eroi, per il fatto di usare la violenza solo se necessario. Il disinteresse per la deportazione di rom e sinti, e per la loro presenza nella Resistenza, fu culturale e istituzionale. Durò decenni e le loro testimonianze (per la maggior parte orali) non vennero ascoltate. Quello che rimane è una «conoscenza “mutilata” di nomi e azioni di molti partigiani rom e sinti rimasti sconosciuti » scrive Angelo Arlati inRom e sinti nella resistenza europea (Upre). Una condizione che resta di esclusione. «La nostra cultura è parte del tessuto italiano ben prima che l’Italia esistesse come concetto» sottolinea Santino Spinelli, musicista, docente, autore di Le verità negate(Meltemi). «Siamo ancora condannati a nascondere la nostra differenza culturale. Dopo ottant’anni per i rom è cambiato poco o niente». Nemmeno per chi, come Virgilio De Bar (fratello di Armando) riuscirà a tornare dopo essere stato deportato ad Auschwitz, con la colpa di essere sinto. Lavoratore di giorno, saltimbanco per il divertimento dei nazisti la sera. Soprannominato “uomo- gomma”. Segnato per sempre dall’esperienza del campo di concentramento. A casa tornerà a fare il giostraio. A volte, ubriaco, si travestirà da Hitler. Per raccontare, finto nazista tra i luna park, la sua storia. Quella di un popolo tenuto in disparte, non solo ieri. In questa vicenda sommersa, solo uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini il Diploma d’Onore di Combattente

con Gesù cambia il concetto di ‘sacro’

a proposito del sacro

di Enzo Bianchi

in “www.ilblogdienzobianchi.it” del 21 marzo 2024

cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è!

Il sacro, il sacro tanto invocato oggi nella chiesa! Ma il sacro a cui si fa riferimento è ancora quello dell’Antico Testamento e delle religioni, è il sacro che sta nello spazio del tempio, del culto, dei sacrifici. Gesù invece ci ha rivelato che il sacro sta al cuore della vita degli uomini, sta nelle relazioni con gli altri. Il sacro non è più ciò che appartiene a un luogo sacro come il tempio, che è inviolabile, intangibile e suscita timore. Per Gesù il sacro, il luogo della presenza di Dio, non è più né il tempio né il sacrificio, né l’olocausto, né il sabato, ma è lo spazio delle nostre relazioni, là dove un volto incrocia un volto, una mano è tesa alla mano, una guancia si offre alla guancia. È l’incontro tra i corpi che sono anche anima e spirito. Per questo Gesù mostra con le sue parole e con i suoi gesti che ormai è lui la dimora di Dio e che attraverso le relazioni umane questo corpo di Cristo può accrescersi nella storia perché ogni cristiano diventa corpo di Cristo, diventa dimora di Dio, tempio dello Spirito santo. Cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è! È cercare la sua immagine dove lui non l’ha deposta perché l’ha fissata soltanto negli umani, nell’uomo e nella donna creati a sua immagine e a sua somiglianza. Certi spazi, come lo spazio della chiesa, certi oggetti richiedono rispetto, devono essere riconosciuti con un vero discernimento, ma non sono “sacro”.

contro il “si vis pacem para bellum”

“si vis pacem, para pacem”  l’intervento di Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli

Si vis pacem, para pacem | L’intervento di Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli
l’intervento del presidente nazionale Acli, Emiliano Manfredonia, in occasione delle festività pasquali: “Cominciamo a far sentire la nostra voce almeno sulle politiche di disarmo. Richiamiamo la politica al suo compito: le Europee sono l’occasione per far sentire la nostra voce”
Si vis pacem, para pacem. Perché il detto attribuito agli antichi romani, “si vis pacem, para bellum”, è un clamoroso fake. Il senso è più banale di quel che sembra: convincere il popolo che la guerra è il male minore, o che è l’unica alternativa, l’unica speranza. Ma sarebbe meglio dire: “Se vuoi la guerra, preparati ad andarci tu, in prima linea!”. Il conflitto armato è sempre voluto dai vecchi, che mandano a morire, però, i giovani. Viviamo un tempo segnato da conflitti, divisioni, sentimenti nazionalisti, contrapposizioni.Quando abbiamo pensato che la Guerra Fredda risolvesse, almeno, il problema del conflitto armato, non ci siamo accorti che questa, però, ci ha abituati alla paura. Ma la paura non è un sentimento in grado di cronicizzare: la paura è diventata la principale strategia per gestire i mercati economici, per indirizzare gli elettori alle urne, per imporre le proprie idee. Ma noi, verso la paura, vogliamo alzare bandiera bianca: pensiamo alla vita dei nostri giovani, sconvolta dapprima dal terrore del Covid, oggi da quella della guerra. Negli adolescenti la paura sta attivando due meccanismi opposti: il ritiro sociale e le fobie da un lato, il senso di sprezzo del pericolo dall’altro, per quelli che pensano di non aver più nulla da perdere, dato il clima di terrore a cui li abbiamo abituati.

Spesso diciamo di essere nati nel periodo di pace più lungo della storia, ma questo significa non vedere che la Guerra Fredda, in questi anni, non ha affatto evitato decine di sanguinosi conflitti in diverse parti del mondo. La pace che viviamo è una “pace negativa”, cioè una parentesi di apparente tranquillità che ci ha preparato al prossimo conflitto. La contaminazione dei germi di guerra, prima o poi, prenderà il sopravvento. Vogliamo dire, allora, che è giunto il momento di alzare bandiera bianca, per una pace vera. Sfortunatamente la pace è oggetto del “politically correct” per eccellenza. Affermare i valori pacifisti ci fa stare dalla parte giusta, certo, ma non ci fa fare nemmeno un passo verso l’effettiva conquista di una condizione di pace stabile e duratura.

Noi non siamo utopisti e quindi non vogliamo affidarci al buon cuore degli uomini. No, anche la pace, come la guerra, si può ottenere per via impositiva. Come? Solo chi ha il potere di governo sui popoli e le nazioni può imporre la pace e usare sistemi nuovi per regolare i conflitti sociali e tra Stati. Fare la pace richiede sforzi e sofferenza, forse quanto la guerra: perché, allora, preferire la seconda? Non possiamo restare in silenzio di fronte alla dichiarazione del Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel: chi gli ha dato mandato di pronunciare quelle parole? Senz’altro non ci rappresenta, come Associazione e nemmeno come cittadini europei.

La logica del “prepararsi alla guerra per ottenere la pace” è pericolosa e fallace. Ricordiamo che le stesse parole furono usate dalla nostra Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel 2022, allora semplicemente Presidente di Fratelli D’Italia, al CPAC di Orlando, in Florida: “In politica estera, quando si tratta di difendere interessi strategici e valori fondamentali, una dimostrazione di debolezza non è un’opzione. Gli antichi romani dicevano: ‘Si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra’”. Queste dichiarazioni ci preoccupano.

Cominciamo a far sentire la nostra voce almeno sulle politiche di disarmo. Difendiamo la Legge 185/90, che oggi rischia di essere svuotata. Richiamiamo la politica al suo compito: queste elezioni europee sono la nostra occasione per far sentire la nostra voce. Chiediamo direttamente ai candidati e alle candidate la loro posizione sulla guerra e votiamo di conseguenza. La matita dell’urna è l’unica “arma di pace” che abbiamo a nostra disposizione: usiamola.

Emiliano Manfredonia
Presidente nazionale ACLI

la cultura rom al di là degli stereotipi

“Il contributo dei rom alla cultura”

Associazione Marco Mascagna

Per molti questa frase suona strana: “E quale contributo hanno dato i rom alla cultura?”, penseranno. Lo stereotipo del rom è di accattone, ladro, nullafacente, impostore, vagabondo, nomade. Brutti, sporchi e cattivi e anche ignoranti.

Eppure tra pochi giorni (8 aprile) si festeggerà la Giornata internazionale del popolo rom, istituita nel 1990 e riconosciuta dall’ONU, per fare conoscere e celebrare la cultura romanì (il popolo romanì si compone di vari sottogruppi – sinti, rom, kalè, romanichal, ecc. – tutti accomunati dalla medesima lingua, simile all’antico sanscrito, da determinate tradizioni e da una lunga storia di discriminazioni e persecuzioni da parte dei “non-zingari” [1]).

Allora cerchiamo di conoscere qual è il contributo che i rom hanno dato all’umanità.

Cinema

Pochi sanno che il più grande cineasta di tutti i tempi (sceneggiatore, regista, montatore, attore, produttore e autore delle musiche) è un rom: stiamo parlando di Charlie Chaplin. Figlio di due attori girovaghi di etnia rom; nato su un carro; “conosciuto” dallo Stato solo all’età di 2 anni (all’anagrafe non risultava); vissuto per un paio di anni in un ospizio per bambini poveri (la Central London School, che in un enorme casermone “curava” oltre mille bambini); poi “attore comico” (alias pagliaccio) in un circo, insieme al fratello. Chaplin non ha mai detto in vita di essere un rom (forse aveva già avuto abbastanza problemi e non voleva averne altri). Solo dopo la morte (grazie anche a figli) si è conosciuta la verità.

Eppure lo si poteva immaginare perché la poetica di Chaplin è profondamente rom: Charlot è un vagabondo, uno che vive alla giornata, un discriminato, il perdente per antonomasia perché schiacciato da una società a lui estranea, uno non attaccato al denaro, generoso fino alla prodigalità, pacifista, sempre pronto a ricominciare, a fare baldoria, a ridere, cantare, ballare; il suo “nemico” è il poliziotto, la “gente per bene”, lo Stato, che non è il suo Stato. Insomma Charlot è lo stereotipo del rom per il popolo romanì.

Tra i rom che hanno dato un contributo alla settima arte vanno ricordati anche Michael Caine e Yul Brinner (entrambi hanno ricoperto la carica di presidente della Romanì Unione, l’associazione mondiale dei popoli romanì), Rita Hayworth, Antonio Banderas, Bob Hoskins. 

Musica

Una manifestazione nazionale di rom e sinti a Bologna, nel 2015
(LaPresse – Stefano De Grandis)

Il contributo dato alla musica da parte del popolo romanì è generoso e sotterraneo. Fonti storiche evidenziano che fin dal XVI secolo gitani, lautari, rom, kalè suonavano presso le corti (Spagna, Ungheria, Russia) e i palazzi nobiliari. Erano famosi per un modo tutto loro di suonare (in particolare il violino) e per l’arte dell’improvvisazione.

Molti sono i musicisti che si sono ispirati alle loro musiche o che le hanno trascritte, orchestrate “arrangiate”:

Haydn: il Trio in sol maggiore termina con un rondò in stile zingaro, il Quartetto n.4 ha un movimento alla zingara e il Concerto per pianoforte una danza ungherese (in realtà zigana).

Schubert: secondo alcuni musicologi la melodia del famoso Momento musicale n. 3 è rom.

Brahms: le famosissime Danze ungheresi sono in maggioranza danze zigane ascoltate da Brahms e “arrangiate” (di qualcuna oggi si conosce anche il nome dell’autore). La czarda, infatti è una composizione di origine rom, poi utilizzata da compositori ungheresi e anche italiani: per esempio famosissima è quella di Monti. Altre composizioni di Brahms spirate alla musica romanì sono i Canti zingari op. 103 e il rondò alla zingaresca del piano Quartetto n.1.

Listz: le rapsodie ungheresi sono piene di musiche zigane. Listz fu il primo che indagò i rapporti tra musica romanì e musica ungherese e scrisse anche un libro nel quale evidenziava che gran parte delle musiche popolari ungheresi erano in realtà rom [2]. Per questo suo scritto fu molto criticato dagli ungheresi.

Ravel, dopo avere ascoltato un violinista romanì lo interrogò a lungo per capire la tecnica e gli stilemi. Poi si chiuse in casa per alcuni giorni e compose Tziganeper violino e pianoforte (poi orchestrata).

De Falla ha compiuto studi sulla musica gitana e in particolare sul Cante Jondo (canto profondo), la forma più antica del flamenco (che è una danza gitana) e si è ispirato a tali musiche per varie sue composizioni (per esempio in El amor brujo, El Sombrero de tres picos e nelle 7 Canzoni popolari spagnole).

Bartok: una delle sue più popolari composizioni, Danze rumene, sono ispirate alla musica dei rom lautari.

De Sarasate ha scritto Arie zingare, Saint-Saens Danze zingare, Dvorak Melodie zigane, Debussy la Danse bohemienne, Ligeti il Concert romanesc.

Con una lunga tradizione di improvvisatori non stupisce che molti “zingari” siano diventati jazzisti e che esista un particolare tipo di jazz (jazz manouche) tipicamente romanì. Massimo esponente di questo stile è Reinhardt Django , musicista sinto dal precocissimo talento per il banjo (django nella lingua romanì significa talentuoso, geniale). Quando aveva 18 anni il carro sul quale abitava prese fuoco e si ustionò gravemente la mano sinistra, che, mal curata, riportò l’atrofizzazione e la fusione del mignolo e anulare. Con enorme tenacia e inventiva sviluppò una tecnica tutta particolare di suonare la chitarra e riprese la sua carriera arrivando a suonare con Duke Ellington e a esibirsi alla Carnegie Hall. Non avendo mai frequentato la scuola era del tutto analfabeta (imparò a scrivere il suo nome quando dovette firmare il primo contratto) e digiuno di conoscenze musicali (si racconta che una volta chiese ad altri musicisti che parlavano di scale: “ma cos’è una scala?”).

Nell’ambito della musica leggera vanno ricordati Elvis Presley (la madre era sinti e il padre romanichal), Ronnie Wood (il chitarrista del Rolling Stone, anche lui romanichal), i Gipsy King (kalò) e Goran Bregovich, bosniaco, ma la cui musica è per gran parte rom.

Pittura

Il più importante pittore “napoletano” del ‘400 è un rom abruzzese Antonio Solaro Lo Zingaro, autore del ciclo di affreschi sulla vita di San Benedetto del chiostro del Platano (chiesa dei santi Severino e Sossio). Otto Mueller, pittore tedesco inviso ai nazisti (bruceranno oltre trecento suoi quadri, sequestrati da musei, palazzi, case d’asta), era sinti e ritrasse spesso personaggi e scene di vita zingara.

La vita degli zingari è fonte di ispirazione per molti artisti ed è alla base del movimento dei Bohemien. Murger scrisse Scene della vita di boheme (da cui Illica e Giacosa trassero il libretto per la Boheme di Puccini); Merimée autore di Carmen (poi messa in musica da Bizet) conosceva bene la cultura rom (parlava anche un poco il romanì); Courbet viene considerato l’iniziatore degli artisti bohemien, avendo affermato: “Nella nostra società così civile bisogna che io conduca una vita da selvaggio, bisogna che io mi liberi dei governi. Devo rivolgermi al popolo per trarre ispirazione e sostentamento. Ecco perché ho appena dato inizio alla mia nuova, grande vita vagabonda e indipendente di bohémien”. Posizione che fu fatta propria da Touluse Lautrec, Modigliani, Van Gogh, Sisley, Utrillo, Monet e tanti altri artisti.

Augustus John, pittore gallese, prese talmente sul serio l’invito di Courbet che si unì a una carovana di zingari e poi si comprò un suo carro, dove visse girando per l’Europa (la bellezza dei suoi quadri convinse gli invisi accademici inglesi a nominarlo membro onorario della Royal Academy).

Letteratura

Tra i poeti chi maggiormente si è fatto influenzare dalla cultura romanì è Garcia Lorca: studiò l’originario flamenco gitano con De Falla, e con lui organizzò la Fiesta del Cante Jondo, 3 giorni di esibizioni all’aperto di danza, musica, poesia, teatro con artisti gitani e spagnoli; fondò La Barraca, una compagnia di teatro girovaga, per la quale scrisse i suoi drammi più famosi; i titoli delle sue raccolte di poesie esplicitano l’influenza della cultura zingara (Poema del Cante jondo, Romancero gitano); scrisse e musicò canzoni di stile gitano.

Tra i più importanti scrittori romanì va citata Mariella Mehr, che ha vissuto l’infanzia in diversi brefotrofi, perché in Svizzera dagli anni ‘20 agli anni ‘70 i bambini venivano tolti agli “zingari” (la Svizzera da pochi anni ha riconosciuto questa pratica come genocidio). Questa esperienza ha segnato tragicamente la vita sua e della madre. I suoi libri sono tradotti anche in italiano.

L’UNESCO solo nel 2015 ha invitato gli Stati ha riconoscere e tutelare la lingua e la cultura romanì.

La UE ha tra i propri principi la tutela delle minoranze e delle lingue minoritarie. In Europa gli “zingari” sono 12 milioni, molti più degli estoni (1,5 milioni), gli irlandesi gaelici (1,5 milioni), lettoni (2 milioni), sloveni (2 milioni), lituani (3 milioni), lingue che l’UE rispetta talmente che il sito istituzionale e gran parte dei documenti sono redatti anche in tali lingue. I rom sono cittadini europei ma non possono leggere nella loro lingua ciò che li riguarda.

L’Italia tutela 12 minoranze linguistiche (12.000 greci, 20.000 catalani, 24.000 croati, 35.000 ladini ecc.), ma non riconosce come minoranza linguistica quella rom composta da oltre 120.000 persone (di cui ormai solo 50.000 parlano il romanì), eppure sono cittadini italiani anche loro.

Più passano gli anni e sempre meno persone parlano il romanì e si va perdendo la cultura “zingara”.

L’UNESCO ha dichiarato patrimonio dell’umanità molte cose (il caffè turco, i pupi siciliani, la danza cocolo, i canti tenores sardi, le danze baltiche, il pugnale indonesiano, il flauto a 3 fori slovacco, la birra belga, la transumanza, la cultura del popolo Zapara e quella dei beduini, i canti pigmei, ecc.), ma, tranne il flamenco (ascritta però alla tradizione spagnola) non tutela niente dei popoli romanì (né la lingua, né genericamente la cultura, né musiche, danze, tradizioni, feste “zingare”).

Un appello di intellettuali e cittadini a Google perché inserisse nel suo traduttore anche la lingua romanì è caduto nel vuoto (eppure provate a vedere quante lingue sono contemplate in questa app).

Far scomparire una cultura è un crimine perché impoverisce tutta l’umanità e per sempre. Abbiamo visto come grandi capolavori sono nati dalla conoscenza di culture estranee alla propria.

Qualche Paese finalmente è “svegliato”: Svezia, Austria, Germania e Finlandia hanno riconosciuto i romanì come minoranza linguistica, tutelando lingua e cultura. In Italia nel 2015 è stata presentata una nuova proposta di legge dalle associazioni di rom e sinti (sottoscritta solo da 21 parlamentari), ma a oggi nulla è stato fatto. E’ un maledetto circolo vizioso: la gente non conosce la cultura rom ed è, quindi, piena di pregiudizi negativi su di loro; i politici o cavalcano e rinfocolano tali pregiudizi per avere voti o preferiscono essere defilati per non scontentare parte del proprio elettorato. In questa maniera nessun provvedimento viene preso per far conoscere e tutelare la cultura rom e superare i pregiudizi negativi su rom e sinti. Per questo, dobbiamo cercare di adoperarci noi, intervenendo quando qualcuno parla male dell’intero popolo rom o ripete luoghi comuni e accuse false, facendo conoscere la loro cultura e il contributo che hanno dato alla nostra.

Note: 1) Gli appartenenti al popolo romanì sono chiamati in vario modo dai non appartenenti a questa etnia: “zingari”, “zigani”, “gitani”, “bohemien”, “gipsy”, “nomadi”. Essendo eteronimi (come “terrone”, “negro”, “polentone” ecc.) e quasi sempre con valore dispregiativo, tali termini non dovrebbero essere adoperati. Per questo li scriviamo tra virgolette; 2) Des Bohémiens et de leur musique en

l’ex fabbricante di armi contro le armi e la guerra

Io ex fabbricante di armi dico: la guerra è una follia

intervista a Vito Alfieri Fontana a cura di Alessandro Gisotti
in “L’Osservatore Romano” del 10 gennaio 2024

«Papà, ma allora tu sei un assassino?». Quella domanda rivoltagli dal figlio all’età di 8 anni rimarrà sempre come una lama nel cuore di Vito Alfieri Fontana. Anche oggi tanti anni dopo, quel momento non è facile da ricordare per questo ingegnere barese di 72 anni che ha vissuto due vite: la prima da progettatore e produttore di letali mine anti-uomo a capo della Tecnovar, azienda di famiglia economicamente di successo. E poi la seconda, diametralmente opposta: quella da capo sminatore nei Balcani, territorio sconvolto dalle guerre e infestato proprio da quelle armi subdole e micidiali che sono le mine. Vito ha raccontato questa parabola drammatica, sofferta e al tempo stesso intessuta di coraggio e speranza in un libro scritto con il giornalista di «Famiglia cristiana», Antonio Sanfrancesco, dal titolo emblematico: Ero l’uomo della guerra. In questa intervista con i media vaticani, l’ex produttore di armi convertitosi in operatore umanitario commenta anche le parole di
Papa Francesco sul disarmo e lancia un accorato appello a chi, come lui in passato, produce e vende strumenti di morte.
Ingegnere, lei ha detto in questi anni — anche nel suo libro “Ero l’uomo della guerra” — di aver vissuto due vite. Quella del produttore di mine e quella di sminatore, di chi quegli strumenti di morte cerca di neutralizzarli. Lo spartiacque non è arrivato d’improvviso, ma è maturato nel tempo. Innanzitutto grazie a suo figlio…
Quando mio figlio è cominciato a crescere, ha iniziato a farsi e farmi delle domande. Quando casualmente si è trovato faccia a faccia con il fatto che io producessi delle mine, facessi delle armi, mi ha chiesto: «Se fai le armi, allora tu sei un assassino…». Sono quelle cose che ti fanno capire la percezione che viene dall’esterno di quello che fai. È la cosa più semplice da capire in fondo: chi fa le armi, volente o nolente, aiuta a far del male agli altri. E mio figlio mi ha anche detto forse la cosa più ovvia: «Papà, magari le armi le fanno altri, tante persone nel mondo, ma perché le devi fare tu?». Queste parole sono state la prima pietra d’inciampo.
Poi nella sua “conversione” ha avuto un ruolo pure don Tonino Bello e in particolare un ragazzolegato proprio al vescovo pugliese presidente di Pax Christi…
Sì, nel 1993, quando parte la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo, in quel momento mi arriva un invito a parlare da parte di don Tonino Bello, da Pax Christi, di cui lui era presidente. Aveva scritto nell’invito: «Cerchiamo di trovare un punto di discussione. Possibile che non si possa parlare fra uomini di pace e chi fa la guerra?». Don Tonino che aveva organizzato questo incontro purtroppo non vi partecipò perché nel frattempo morì. Il suo gruppo però volle tenere questa discussione lo stesso e mi trovai di fronte, non scherzo, a duecento persone che mi interrogavano anche pesantemente. Io risposi senza problemi, fino a quando un ragazzo, un volontario di Pax Christi, alla fine della discussione mi scosse quando chiese: «Ingegnere, Lei sarà pure simpatico però la notte, quando va a dormire, cosa sogna? E possibile che Lei sogna una “bella guerra”, è possibile che Lei sogna una guerra per vendere tante mine?».
La sua azienda, la Tecnovar, era una azienda che fatturava miliardi di lire. Un’azienda di famiglia.
Il suo cambio di vita ha incontrato anche tante incomprensioni, difficoltà. Ma lei è andato avanti per la sua strada. Cosa l’ha spinta a percorrere un sentiero così difficile?
Quando ti prende il chiodo, il chiodo in testa, il tarlo della coscienza, come si fa a mettere di nuovo mano alla penna sul tavolo da disegno e a progettare qualcosa che può fare del male agli altri? A quel punto non ci riesci più. Perché devo farlo? Effettivamente aveva ragione mio figlio. Certo questo comporta delle incomprensioni, che tu rompi con una parte della famiglia, che ti trovi, non proprio il vuoto attorno, ma capisci che gli altri non vogliono capire… Però, si va avanti.
Cosa ha provato le prime volte che si è trovato dall’altra parte? A guidare, con l’organizzazione  Intersos, lo sminamento di aree infestate da mine anti uomo — in particolare nella ex Jugoslavia —
simili a quelle che la sua azienda aveva prodotto fino a poco tempo prima?
Ci si sente male perché una parte di te la senti sotto terra. È una strana sensazione, cioè ti senti domandare dentro: «Guarda che hai combinato?». I primi cinque minuti sono di paura, perché non
sai se sarai capace, di andare contro te stesso. Poi, alla fine, la paura passa… Però, all’inizio, è imbarazzante. Mi sentivo veramente male ed ero molto severo con me stesso.
Lei ha raccontato che, nella sua vita di industriale delle armi, partecipava a fiere ed eventi dove incontrava più o meno sempre le stesse persone. Eventi dove non si considerava il male che si
faceva con queste armi…
In quelle occasioni non si parlava mai di vite umane. Una mina anti-uomo è una mina buona se riesce a perforare una piastra di metallo di 50cmx50cmx5mm. Non si parla di uomini, non ci sono bambini che vengono considerati. Non ci sono soldati, che poi perdono le gambe o la vita…La perforazione della lastra, quello è l’obiettivo e su quello si lavora.
L’epilogo del suo libro si intitola “Il passato che non passa”. Il peso della prima delle due vite si fa sentire anche sulla seconda, inevitabilmente…Due milioni e mezzo di mine prodotte, alcune migliaia disinnescate. Un bilancio impari, annota amaramente. Anche per la sua coscienza…
Sì, se consideriamo una vita sola… Il mio impegno ora è anche a favore di circa 10.000 persone che in tutto il mondo hanno fatto il mio ultimo lavoro, quello di sminatore. Persone che si spaccano la schiena ogni anno, ogni giorno, ogni ora del giorno per levare le mine. Spero di aver dato un contributo anche avendo posto in luce questo problema, avendo incoraggiato questa gente che sta facendo “miracoli” in questi anni. Non parlo solo dei Balcani, parlo dell’Asia, dell’America, dell’Africa, con dei successi incredibili. Quindi, certo il bilancio mio, come persona, è impari, però sono inserito in un gruppo incredibile di gente che sta facendo un grande lavoro.
A proposito di questa ultima considerazione, lei ha anche collaborato con il premio Nobel per la pace Jody Williams a favore della Campagna mondiale contro le mine anti uomo, che portò alla Convenzione di Ottawa. Un accordo citato positivamente da Papa Francesco nella Esortazione apostolica “Laudate Deum”. Oggi non sembra esserci un movimento dal basso, popolare, sul disarmo come avviene per altri temi, per esempio la crisi ecologica…
Diciamo che la Convenzione di Ottawa aveva in fondo un nemico abbastanza limitato. I fabbricanti di mine erano una minima parte e sinceramente neanche difendibili…Le questioni ambientali
coinvolgono molte più persone e quindi hanno naturalmente molto più seguito. Io dico però che almeno i cristiani dovrebbero avere sempre in testa — non credo di sbagliarmi — che, nel Vangelo, i pacificatori, gli operatori di pace sono l’unico gruppo umano che Gesù definisce «figli di Dio»: «Beati gli operatori di pace perché verranno chiamati figli di Dio». Dovremmo sempre ricordarcene, è una grossa responsabilità. Potremo essere uno solo, potremo essere 10.000, però se siamo definiti in un certo modo non possiamo tirarci indietro.
La guerra in Ucraina, la guerra in Medio Oriente e poi tanti altri conflitti dimenticati dalla Siria allo Yemen. Il Papa ha messo tante volte in luce un paradosso: ci si arma per sentirsi più sicuri, ma aumentano le guerre e di conseguenza l’insicurezza globale. Lo ha fatto anche rivolgendosi al
Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede lunedì scorso…Si può spezzare questo circolo vizioso o dobbiamo rassegnarci a vivere in questa situazione?
Rassegnarsi mai! Purtroppo però il 2024 è un anno travagliato: ci saranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Quindi tutti gli avvenimenti internazionali, secondo me, gireranno intorno a quella
situazione, e ci sarà una grande turbolenza internazionale. È chiaro che a un certo punto i conflitti devono smettere, perché le guerre non possono essere infinite, e in quel momento bisognerà interporsi. Avremo un anno difficile, dopo bisognerà rimboccarsi le maniche e cercare di guarire le
ferite che noi tutti, come comunità umana, abbiamo inferto ai nostri fratelli.
Il Papa ha anche detto il giorno di Natale che la gente vuole pane, non armi. Madre Teresa aveva levato un appello simile, ricevendo il premio Nobel per la Pace, nel 1979…
Noi dobbiamo essere consapevoli che le armi vengono detenute sì e no dall’1 per cento della popolazione quando c’è una guerra. Le armi vengono manovrate, usate o programmate da pochissime persone rispetto ai danni che fanno. Io quello che ho visto andando in questi teatri di guerra, in queste realtà devastate, è che la gente aveva bisogno — come dice il Papa — di pane, aveva bisogno di lavoro, di ricostruire, e non aveva certo bisogno di armi! E questo vale per il 99  er cento delle persone. Mi ha fatto sempre impressione questo fatto: che tu potevi mettere assieme ex nemici purché li mettessi a lavorare, cioè che dessi loro un lavoro, una paga adeguata perché potessero tornare con dignità a casa. Allora ho visto proprio spegnersi le antiche rivalità. Con me,
nell’attività di sminatore, hanno lavorato ortodossi, cattolici, musulmani, ma anche parecchi atei…E non c’era nessun problema quando una persona collaborava con altre e portava il pane a casa: è
quella la prospettiva che la politica dovrebbe avere: distribuire pane invece che armi! Non pane — dico io — regalato o rubato, ma pane guadagnato. Si programmasse del lavoro, bonifiche, ricostruzioni…si programmassero irrigazioni, energie alternative.
«Per dire “no” alla guerra bisogna dire “no” alle armi», ha detto il Papa il giorno di Natale.
«Perché — ha aggiunto — se l’uomo, il cui cuore è instabile e ferito, si trova strumenti di morte tra le mani, prima o poi li userà». Cosa ne pensa sulla scorta anche della sua esperienza personale?
Io vorrei completare così queste parole del Papa: fare una guerra è come tagliare un albero. Fare la pace è come piantare un albero. Per tagliare un albero non ci metti niente, ci vuole un’arma! Per fare la pace devi piantare l’albero, lo devi seminare, averne cura per vederlo crescere. Quindi, alla sofferenza del momento della guerra segue poi il disagio, la fatica e la sofferenza della ricostruzione. È pazzesco. L’uso delle armi è una follia! Ci sono tutte le possibilità di vivere cooperando anche se la si pensa diversamente. Lavoro e dignità. Insomma, io non so perché non si
vuole arrivare a capire questo.
Lei ha oggi 72 anni vissuti intensamente e con un percorso di vita non comune. Cosa si sentirebbe di dire a chi, come lei in passato, produce e vende armi? Perché dovrebbe smettere di farlo, come ha fatto lei?
Io mi rivolgerei più che altro a chi sente di avere una fede. Io ho parlato con molte persone su questo. Se tu mi dici di produrre il motore per un’automobile o il motore di un carrarmato, io non dovrei avere alcun dubbio…
Io dico questo: se hai fede, devi essere conseguente. Specialmente noi che crediamo nella Parola di Dio, nella Bibbia, come possiamo odiarci fino al punto di distruggere le speranza degli altri, dei nostri fratelli? Solo questo vorrei dire.
I dati sulle mine nel mondo In Siria e Ucraina il maggior numero di vittime
Nel corso del 2022 è stato registrato un aumento delle vittime a causa della presenza delle mine a livello mondiale. È quanto certificano i dati più recenti in materia, diffusi a novembre del 2023 nel rapporto annuale Landmine Monitor, a cura della International Campaign to Ban Landmines.
Secondo il rapporto, le mine e i residuati bellici esplosivi hanno provocato la morte o il ferimento di 4.710 persone in 49 Stati. I civili sono particolarmente esposti ai rischi legati alle mine e ai residuati bellici esplosivi: costituiscono infatti l’85 % delle vittime registrate. E di queste 1.171 sono bambini.
Il maggior numero di vittime annuali si è avuto in Siria (834) e in Ucraina (608). Nel contesto del conflitto in Ucraina, rispetto al 2021, il Paese ha visto decuplicare il numero di vittime civili per le mine. Seguono Yemen e Myanmar in cui si sono registrate rispettivamente più di 500 vittime.
Secondo i dati del Landmine Monitor 2023, mine antipersona sono state impiegate da parte di gruppi armati non statali in: Colombia, India, Myanmar, Thailandia e Tunisia, nonché in otto Stati nella regione del Sahel: Algeria, Benin, Burkina Faso, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Niger, Nigeria e Togo. Per il rapporto i Paesi contaminati da mine antipersona sono 60.
Un totale di 30 Stati che hanno aderito alla Convenzione ha riferito di aver eliminato tutte le aree minate dal proprio territorio da quando il Trattato per la messa al bando delle mine è entrato in vigore nel 1999.
Il sostegno globale all’azione contro le mine – riferisce sempre il rapporto di Landmine monitor – è stato pari a 913,5 milioni di dollari, che rappresenta un aumento del 52% rispetto al supporto fornito
nel 2021. Di questa cifra 162,3 milioni di dollari sono stati destinati alle attività in Ucraina.

un pò di delusione nel discorso di Capodanno


Signor Presidente,
noi sottoscritti cittadini e cittadine Suoi connazionali, lavoratori della città e della campagna, studenti e persone impegnate nel mondo della cultura, dell’insegnamento, dell’associazionismo, ci permettiamo di ricordarLe la situazione in atto in Palestina:
circa 30.000 vittime civili a Gaza, senza contare i presumibili 10.000 sotto le macerie.
70.000 feriti che non possono essere adeguatamente curati in ospedali distrutti da Israele.
1000 bambini che hanno perso uno o entrambi gli arti inferiori o superiori.
90% degli edifici rasi al suolo: “non è rimasto brandello di muro”, dichiarano i pochi osservatori ONU rimasti sul campo.
Una economia, una società, un paesaggio annichilati.
Oltre 2 milioni di persone sono senza un tetto, né acqua, né cibo, né medicinali, né carburanti, e sono spinte dall’esercito israeliano in una piccola sacca a Gaza sud, che peraltro continua ad essere bombardata.
Intanto si susseguono dichiarazioni di governanti israeliani sulla necessità di espellere dal territorio di Gaza i palestinesi sopravvissuti, e sul progetto di ricolonizzazione di Gaza da parte dei coloni israeliani, mentre addirittura si pubblicano annunci di lussuosi villaggi turistici da costruire sulle macerie e sui corpi insepolti della popolazione palestinese.
In Cisgiordania (secondo l’ONU, “Territori Occupati”) gli oltre 700.000 coloni israeliani, che hanno occupato illegalmente il territorio e rendono molto problematica, per non dire impossibile, la soluzione “due popoli, due Stati”, spalleggiati dall’esercito di Israele attaccano quotidianamente e uccidono i contadini palestinesi, compresi donne, anziani, adolescenti.
Israele ha ucciso 138 funzionari dell’ONU e continua a bombardare i convogli dell’agenzia per i rifugiati dell’ONU. Colpisce le ambulanze che trasportano i feriti. Cattura, e umilia denudandoli e ingiuriandoli, centinaia di cittadini colpevoli semplicemente di essere palestinesi.
Israele ha trucidato un centinaio di giornalisti e fotografi nell’esercizio del loro lavoro.
Il segretario generale dell’ONU Guterres ha denunciato ripetutamente la “catastrofe umanitaria”, l’Assemblea generale dell’ONU approva la risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco.
Alcuni stati, come il SudAfrica deferiscono Israele alla Corte penale internazionale per violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario e di fronte alla Corte internazionale di giustizia per genocidio. Migliaia chiedono alla Corte penale internazionale di arrestare, giudicare e condannare Netanyahu e la cupola politico- militare israeliana per questi motivi. Altri Paesi della UE annunciano varie azioni contro Israele, mentre il nostro governo appare silente o complice dei crimini in corso.
Quando l’Armata Rossa sovietica liberò Auschwitz il 27 gennaio 1945 e vennero alla luce gli orrori della Shoah, alcuni giustificarono il loro silenzio e la loro inazione dicendo di ignorare cosa stesse accadendo nei lager nazisti. Oggi assistiamo in diretta alla pulizia etnica e all’olocausto del popolo palestinese. Nessuno può dire “non so”.
È per noi grave che Ella nel Suo messaggio riduca il genocidio in corso a “un’azione militare [di Israele] che provoca anche [evidenziazione nostra] migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti”. Nient’altro. Ella, Signor Presidente, avrebbe potuto, e riteniamo dovuto, riprendere le dichiarazioni del segretario dell’Onu, le risoluzioni dell’Assemblea generale e levare una voce per l’immediato cessate il fuoco in Palestina. Come anche alcuni leader europei hanno chiesto.
Ella, invece, ha taciuto, Signor Presidente.
Nelle sue parole il genocidio del popolo palestinese in corso (è la definizione dello storico israeliano Ilan Pappé, costretto ad abbandonare il suo paese e la sua università per le minacce di cui è stato oggetto) è stato ridotto alla reazione israeliana “che provoca anche migliaia di vittime civili”. Durante la Resistenza antifascista i massacri operati dai nazifascisti si chiamavano “rappresaglia”; alle Fosse Ardeatine i nazisti applicarono la formula del “10 italiani per un tedesco”. La rappresaglia di Israele (se di rappresaglia si può parlare e non di un piano preordinato di svuotare Gaza della popolazione palestinese e riportarla sotto il diretto controllo israeliano) supera di molto il criterio nazista delle Fosse Ardeatine.
Tra l’altro, Ella evita di dare un nome al popolo vittima del massacro: nel Suo discorso sono “moltitudini di persone”. NO, non sono “moltitudini”, “volgo disperso che nome non ha”: è il popolo palestinese che subisce da 75 anni l’occupazione di Israele, è il popolo che si oppone e resiste all’occupazione, come fecero i nostri patrioti nel Risorgimento e i partigiani nella Resistenza antinazifascista italiana.
Ella dice che i giovani vanno educati alla pace, ma non si educa se non si compie un’operazione di verità, e la verità non è solo non dire il falso, ma dare un quadro completo delle cose. Il Suo discorso – un discorso ufficiale, a reti televisive unificate a tutto il Paese – per quel che dice e per quello che NON dice, viola i principi cui pure Ella dichiara di ispirarsi, non educa alla verità, né alla giustizia, in difesa morale di ogni popolo oppresso.
La parte del Suo discorso dedicata al conflitto in Medio Oriente è in definitiva schiacciata sulla politica bellicistica e disumana del governo di Israele, che annuncia un 2024 di guerra. Legando mani e piedi il nostro Paese alla politica oltranzista di Israele, Ella rompe con quella politica mediterranea di apertura ed equilibrio con i paesi arabi e di riconoscimento delle ragioni del popolo palestinese, promossa tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso da statisti come Moro, Andreotti, Craxi, o da un sindaco eccezionale testimone di pace e costruttore di ponti fra i popoli, come Giorgio La Pira. Il Suo discorso, Signor Presidente, non è solo un inaccettabile silenzio sul genocidio palestinese in corso, è anche un tradimento della storia italiana, e un colpo ai nostri interessi nazionali.
Ebbene, in piena coscienza, e con il massimo rispetto per la carica che Ella riveste, noi sottoscritti ci permettiamo di osservare e di comunicarLe che Ella ha parlato non in nostro nome.
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NON IN MIO NOME
Per aderire inviare mail a: italiapalestina2024@gmail.com indicando nome, città, attività ed eventualmente associazione di cui si fa parte

la micidiale opposizione a papa Francesco

io sto con papa Francesco

di SERGIO DI BENEDETTO

Di fronte all’aumentare di violenti attacchi contro il papa, è importante ricordare cosa Francesco ha fatto in pochi anni per la Chiesa e avere leali sentimenti di gratitudine. Sono aumentati, negli ultimi mesi, gli attacchi contro Papa Francesco. Sempre più violenti, sempre più ideologici e, allo stesso tempo, sempre più sottilmente pervasivi. Ciò che mostra, inoltre, una recrudescenza, è l’ampiezza delle ‘bocche di fuoco’ e degli ambiti da cui giungono tali attacchi: se prima erano frange rumorose ma minoritarie, scomposte, estremiste, molto schierate politicamente ma povere culturalmente, ora vanno via via crescendo i veleni provenienti da voci e settori apparentemente ‘moderati’, che, tuttavia, nella sostanza delle argomentazioni, mostrano una saldatura tra ‘indietrismo’ ecclesiale, tradizionalismo spaventato, acceso conservatorismo politico-sociale, strumentalizzazione evangelica. Si assiste, per certi versi, a una sorta di ‘apocalisse’ del dibattito, che disvela intenzioni di menti e cuori, che palesa ambizioni e frustrazioni, che conduce a impiegare in malo modo gli organi di comunicazione. Come sempre, nessuna trasmissione di notizia è fondamentalmente neutra; insistere su alcuni aspetti tacendone altri è gioco noto nell’arena della comunicazione (l’incattivita matrice populista, sempre pronta ad additare il nemico, in questi anni ha dato prova del suo mortifero ma efficace potere, come dimostra troppa televisione). 

Per non rimanere nel vago: il giornale ‘moderato’ che fa passare per vittima il cardinal Burke, che da anni fomenta con vigore una esplicita fronda antipapale, fino a organizzare convegni contro il Sinodo e scrivendo la prefazione a un libretto contro il Papa mandato ai parroci (tutti particolari omessi), dimenticando quanto tutto ciò attenti all’unità della chiesa e alla funzione del cardinalato. Oppure la notizia del ‘cattivo’ Bergoglio che punisce il vescovo statunitense Strickland, tacendo sulle sue lettere pastorali antipapali, sulle sue manifestazioni apertamente politiche, su una diocesi dilaniata, sul suo sostegno antiscientifico. Il ‘carnefice’ diviene così ‘vittima’, l’incendiario diviene ‘pompiere’: giochi verbali di inconsistente onestà intellettuale che, però, seminano discordia e odio, soprattutto in persone poco misurate e poco attrezzate culturalmente, oggetto prediletto di campagne mediatiche o social che azzannano la pace e spargono finti segni nefasti di nebbie, complotti, distruzioni. Rimangono macerie, morali, intellettuali e spirituali, su cui ballano i fomentatori di discordia.Ma ciò che stupisce riguarda anche alcuni teologi, storici del cristianesimo, giornalisti, che apparivano equilibrati nella critica o nell’apprezzamento, e che ora non perdono un istante nel sottolineare le mancanze del Papa in quell’ambito o un suo errore o una sua incertezza, passando sotto silenzio il bene che c’è e deformando la percezione della realtà. C’è da dire che il Papa stesso ha chiesto parresia e la ridda di voci e attacchi sono parte del cammino che egli ha voluto far intraprendere alla Chiesa; anche la leggenda del ‘Bergoglio dal pugno di ferro’ è appunto priva di consistente appoggio reale, oltre i tratti del carattere di Francesco, per chi abbia un poco di conoscenza delle questioni ecclesiali almeno moderne: nessun Papa ha avuto tanti detrattori come Bergoglio (nemmeno Paolo VI), e nessuno ha tollerato tanto. Non si dimentichi che fino a non pochi anni fa venivano tolte le cattedre a teologi e ricercatori per molto meno. Un’opinione fuori posto, un’idea ‘poco ortodossa’ producevano correzioni e decreti.La fedeltà è solo di facciata, mentre l’infedeltà pericolosa è diffusa, con l’ausilio di siti compiacenti, di pettegolezzi velenosi e truffaldini.Ecco, l’impressione è che il Papa, che forse ha un poco deluso una certa ala progressista e al tempo stesso risulta intollerabile per un cristianesimo ultratradizionalista (delusioni anche legittime, come già scrissi), e che certamente ha commesso qualche errore (chi non ne fa?), sia ormai divenuto una sorta di ‘capro espiatorio’ per ogni cosa che non funziona come vorrebbe chi di volta in volta prende la parola e allestisce il giudizio, magari seguendo la moda che fa passare da una (sbagliata) papolatria al giudizio distruttivo senza remore.Inoltre, mi pare che ci siano due considerazioni da fare, che ritengo utili per inquadrare meglio il tutto. La prima è ovvia: il Papa è anziano, ha problemi di salute e, come in ogni organismo di potere, si muovono le posizioni per il futuro. Tra chi spera che ‘passata la festa, gabbato lo santo’ e chi teme il ritorno di una certa impostazione dirigista, sempre mal tollerando il Vaticano II e la sua eredità, i riposizionamenti sono naturali ed espliciti. Ma qui ci sono una mancanza di finezza, un opportunismo e una volgarità da far cadere le braccia. La seconda: si assiste all’oblio del recente passato. Forse non ci si ricorda più cosa era la Chiesa romana fino a una dozzina anni fa, soprattutto in parte della sua gerarchia, impastata di potere e ipocrisie e scandali insabbiati, di incoerenze taciute e condanne espresse, di punizioni e costosi compromessi, di doppiopesismi concettuali e corruzioni varie, tanto da portare alla dimissioni di un pontefice… e cosa è ora la Chiesa, al di là poi dei talenti e dei limiti dei singoli papi. Papa Francesco ha grandi meriti: ha riaffermato la centralità della misericordia, ha indetto un giubileo sul tema, ha rilanciato l’ecumenismo, ha spronato la chiesa affinchè uscisse da recinti di paura o posture politicamente militanti ed ecclesialmente divisive, ha ridato carne e umanità a molte tematiche teologico-ecclesiali – a partire dalla famiglia, dall’omosessualità, dall’accesso ai sacramenti – su cui pendeva una cappa di piombo e di falso giudizio; ha ridato spazio alla sinodalità e alla comunione ecclesiale come forme privilegiate della vita cristiana; ha posto nuovamente al centro i poveri; ha ricordato che il Vangelo e Gesù Cristo non sono né una morale né un’ideologia (si pensi alla magnifica Evangelii Gaudium); ha posto nuova luce sul tema del creato, che è un’emergenza planetaria; ha ribadito che i lontani hanno qualcosa da dire alla Chiesa; si è sforzato di concedere il primato alla pastoralità, con avversione di molti pastori; ha illuminato nuovamente la fraternità; ha deciso per un ruolo maggiore delle donne nella Chiesa; ha riordinato movimenti, gruppi e prelature personali; ha posso in essere sistemazioni liturgiche, contro gli arbitri personali e i gusti del singolo, provando a evitare che la liturgia sia mezzo per rigettare il Concilio.Contro l’idea di una dottrina castello ‘perfetto’ di norme e regole, che tutto incasella, ma lascia fuori la vita delle persone (e l’incarnazione di Cristo), ha restituito il primato della coscienza. Agisce per la pace, in un mondo in fiamme, oltre gli equilibrismi antichi e moderni. Certo, molto di ciò che dice il Papa tocca il portafogli e i moralismi rassicuranti su cui poggiano poteri e ideologie, e questo spiega la violenza delle reazioni, secondo le quali, in sostanza, sarebbe meglio un cristianesimo moraleggiante e innocuo che un cristianesimo vivo, che tocchi le ferite dell’umanità. Contro una fede rassicurante e quieta, Francesco ha dato spazio a inquietudini e dubbi, alla ricerca del volto di Dio; ha rianimato la profezia come modus evangelico.Contro le buone parole che, però, nei fatti nascondono il potere nelle sue varie forme, tenta di riallineare parole e opere. Ha sopportato non tanto le critiche positive (legittime, anche opportune), ma le accuse false, le violenze verbali, i tranelli che dividono (diabolicamente, direbbe l’etimologia), reggendo a campagne mediatiche livorose, considerando che egli è il primo Papa nell’era dei social anonimi che ha dovuto anche gestire una convivenza non facile con un predecessore ritirato, ma non sempre fedele alla scelta del silenzio di comunione. Per questo, e per altro ancora, mentre l’età avanza e la salute inciampa, voglio dire che, per quello che vale, io sono con Papa Francesco e gli sono grato per il cammino che ha fatto compiere alla chiesa, con tutte le fatiche, gli errori e le incertezze che ci sono stati. Ma il bene compiuto è di gran lunga maggiore; «dai frutti li riconoscerete». A partire dalla propria vita di fede.Papa Francesco, ad multos annos!

Sinodo, il testo integrale della Relazione di Sintesi

il documento conclusivo della prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (4-29 ottobre 2023)

“Una Chiesa sinodale in missione”

XVI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI Prima Sessione
(4-29 ottobre 2023)

INTRODUZIONE

Care sorelle, cari fratelli,

«noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1Cor 12,13). È l’esperienza, colma di gioia e di gratitudine, che abbiamo fatto in questa Prima Sessione dell’Assemblea sinodale, che si è tenuta dal 4 al 28 ottobre 2023, sul tema “Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione”. Per la comune grazia del Battesimo, abbiamo potuto vivere insieme con un cuore solo e un’anima sola, pur nella diversità delle provenienze, lingue e culture. Come un coro abbiamo cercato di cantare nella varietà delle voci e nell’unità degli animi. Lo Spirito Santo ci ha dato di sperimentare l’armonia che Lui solo sa generare: essa è un dono e una testimonianza in un mondo lacerato e diviso.

La nostra Assemblea si è svolta mentre nel mondo infuriano vecchie e nuove guerre, con il dramma assurdo di innumerevoli vittime. Il grido dei poveri, di chi è costretto a migrare, di chi subisce violenza o soffre le devastanti conseguenze dei cambiamenti climatici è risuonata tra noi, non solo attraverso i mezzi di comunicazione, ma anche dalla voce di molti, personalmente coinvolti con le loro famiglie e i loro popoli in questi tragici eventi. Abbiamo portato tutti, in ogni momento, nel cuore e nella preghiera, chiedendoci in che modo le nostre Chiese possano favorire cammini di riconciliazione, di speranza, di giustizia e di pace.

Il nostro incontro si è svolto a Roma, intorno al successore di Pietro, che ci ha confermati nella fede e ci ha spinto a essere audaci nella missione. È stata una grazia iniziare il cammino di questi giorni con una veglia ecumenica, in cui abbiamo visto pregare insieme al Papa, presso la tomba di Pietro, i capi e i rappresentanti delle altre confessioni cristiane: l’unità fermenta silenziosa dentro la Santa Chiesa di Dio; lo vediamo con i nostri occhi e pieni di gioia ve lo testimoniamo. «Com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!» (Sal 133,1).

Per volere del Santo Padre, l’Assemblea ha visto raccogliersi insieme e intorno ai Vescovi altri membri del Popolo di Dio. I Vescovi, uniti tra loro e con il Vescovo di Roma, hanno reso manifesta la Chiesa come comunione di Chiese. Laiche e laici, consacrati e consacrate, diaconi e presbiteri sono stati, con i Vescovi, testimoni di un processo che intende coinvolgere tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa. Essi hanno ricordato che l’Assemblea non è un evento isolato, ma parte integrante e passaggio necessario del processo sinodale. Nella molteplicità degli interventi e nella pluralità delle posizioni è risuonata l’esperienza di una Chiesa che sta imparando lo stile della sinodalità e cercando le forme più idonee a realizzarla.

Sono più di due anni che abbiamo iniziato il cammino che ci ha condotto a questa Sessione. Dopo l’apertura del processo sinodale avvenuta il 9 ottobre 2021, tutte le Chiese, seppur con passo diverso, si sono impegnate in un processo di ascolto che ha visto tappe diocesane, nazionali e continentali, i cui risultati sono confluiti nei rispettivi documenti. Con questa Sessione si è aperta la fase in cui la Chiesa intera recepisce i frutti di questa consultazione per discernere, nella preghiera e nel dialogo, le strade che lo Spirito ci chiede di percorrere. Questa fase durerà fino al mese di ottobre 2024, quando la Seconda Sessione dell’Assemblea porterà a termine il proprio lavoro, offrendolo al Santo Padre.

L’intero cammino, radicato nella Tradizione della Chiesa, si sta svolgendo nella luce del magistero conciliare. Il Concilio Vaticano II è stato, infatti, come un seme gettato nel campo del mondo e della Chiesa. La vita quotidiana dei credenti, l’esperienza delle Chiese in ogni popolo e cultura, le molteplici testimonianze di santità, la riflessione dei teologi sono stati il terreno in cui esso è germogliato e cresciuto. Il Sinodo 2021-2024 continua ad attingere all’energia di quel seme e a svilupparne le potenzialità. Il cammino sinodale sta infatti mettendo in atto ciò che il Concilio ha insegnato sulla Chiesa come Mistero e Popolo di Dio, chiamato alla santità. Esso valorizza l’apporto di tutti i battezzati, nella varietà delle loro vocazioni, a una migliore comprensione e pratica del Vangelo. In questo senso costituisce un vero atto di ulteriore recezione del Concilio, che ne prolunga l’ispirazione e ne rilancia per il mondo di oggi la forza profetica.

Dopo un mese di lavoro, ora il Signore ci chiama a ritornare nelle nostre Chiese per trasmettere a tutti voi i frutti del nostro lavoro e continuare insieme il cammino. Qui a Roma eravamo solo alcuni, ma il senso del percorso sinodale indetto dal Santo Padre è quello di coinvolgere tutti i battezzati. Desideriamo ardentemente che questo avvenga e vogliamo impegnarci per renderlo possibile. In questa Relazione di sintesi abbiamo raccolto gli elementi principali emersi nel dialogo, nella preghiera e nel confronto che hanno caratterizzato questi giorni. I nostri racconti personali arricchiranno questa sintesi con il tono dell’esperienza vissuta, che nessuna pagina può restituire. Potremo così testimoniarvi come siano stati ricchi i momenti di silenzio e di ascolto, di condivisione e di preghiera. Condivideremo anche che non è facile ascoltare idee diverse, senza cedere subito alla tentazione di ribattere; offrire il proprio contributo come un dono per gli altri e non come una certezza assoluta. La grazia del Signore ci ha però condotto a farlo, nonostante i nostri limiti, e questa è stata per noi una vera esperienza di sinodalità. Praticandola, l’abbiamo compresa meglio e ne abbiamo colto il valore.

Abbiamo capito, infatti, che camminare insieme come battezzati, nella diversità dei carismi, delle vocazioni, dei ministeri, è importante non solo per le nostre comunità, ma anche per il mondo. La fraternità evangelica è infatti come una lampada, che non deve essere messa sotto un moggio, ma sul candelabro perché faccia luce su tutta la casa (cfr. Mt 5,15). Il mondo ha oggi più che mai bisogno di questa testimonianza. Come discepoli di Gesù non possiamo sottrarci al compito di mostrare e trasmettere a un’umanità ferita l’amore e la tenerezza di Dio.

I lavori di questa Sessione si sono svolti seguendo la traccia offerta dall’Instrumentum laboris, che ci invitava a riflettere sui segni caratteristici di una Chiesa sinodale e sulle dinamiche di comunione, missione e partecipazione che la abitano. Il confronto sulle domande proposte ha confermato la bontà dell’impianto complessivo della traccia. Abbiamo potuto entrare nel merito delle questioni, identificare i temi bisognosi di approfondimento, avanzare un primo nucleo di proposte. Alla luce dei passi avanti compiuti, la Relazione di sintesi non riprende o ribadisce tutti i contenuti dell’Instrumentum laboris, ma rilancia quelli ritenuti prioritari. Essa non è in alcun modo un documento finale, ma uno strumento al servizio del discernimento che dovrà ancora continuare.

Il testo è strutturato in tre parti. La prima delinea “Il volto della Chiesa sinodale”, presentando i principi teologici che illuminano e fondano la sinodalità. Qui lo stile della sinodalità appare come un modo di agire e operare nella fede che nasce dalla contemplazione della Trinità e valorizza unità e varietà come ricchezza ecclesiale. La seconda parte, intitolata “Tutti discepoli, tutti missionari”, tratta di tutti coloro che sono coinvolti nella vita e nella missione della Chiesa e delle loro relazioni. In questa parte la sinodalità si presenta principalmente come cammino congiunto del Popolo di Dio e come dialogo fecondo di carismi e ministeri a servizio dell’avvento del Regno. La terza parte porta il titolo “Tessere legami, costruire comunità”. Qui la sinodalità appare principalmente come un insieme di processi e una rete di organismi che consentono lo scambio tra le Chiese e il dialogo con il mondo.

In ciascuna delle tre parti, ogni capitolo raccoglie le convergenze, le questioni da affrontare e le proposte emerse dal dialogo. Le convergenze identificano i punti fermi a cui la riflessione può guardare: sono come una mappa che consente di orientarci nel cammino e non smarrire la strada. Le questioni da affrontare raccolgono i punti su cui abbiamo riconosciuto che è necessario continuare l’approfondimento teologico, pastorale, canonico: sono come degli incroci sui quali occorre sostare, per capire meglio la direzione da prendere. Le proposte indicano invece possibili piste da percorrere: alcune sono suggerite, altre raccomandate, altre ancora richieste con più forza e determinazione.

Nei prossimi mesi le Conferenze Episcopali e le Strutture Gerarchiche delle Chiese Orientali Cattoliche, facendo da raccordo tra le Chiese locali e la Segreteria Generale del Sinodo, svolgeranno un ruolo importante per lo sviluppo della riflessione. A partire dalle convergenze raggiunte, sono chiamate a concentrarsi sulle questioni e sulle proposte più rilevanti e più urgenti, favorendone l’approfondimento teologico e pastorale e indicando le implicazioni canonistiche.

Portiamo nel cuore il desiderio, sorretto dalla speranza, che il clima di ascolto reciproco e di dialogo sincero che abbiamo sperimentato nei giorni di lavoro comune a Roma si irradi nelle nostre comunità e in tutto il mondo, a servizio della crescita del buon seme del Regno di Dio.

PARTE I – IL VOLTO DELLA CHIESA SINODALE

1. La sinodalità: esperienza e comprensione

Convergenze

a)  Abbiamo accolto l’invito a riconoscere con nuova consapevolezza la dimensione sinodale della Chiesa. Pratiche sinodali sono attestate nel Nuovo Testamento e nella Chiesa delle origini. Successivamente hanno assunto forme storiche particolari nelle diverse Chiese e tradizioni cristiane. Il Concilio Vaticano II le ha “aggiornate” e Papa Francesco incoraggia la Chiesa a rinnovarle ancora. In questo processo si colloca anche il Sinodo 2021-2024. Attraverso di esso, il Santo Popolo di Dio ha scoperto che un modo sinodale di pregare, ascoltare e parlare, radicato nella Parola di Dio e intessuto di momenti di incontro nella gioia, e a volte anche nella fatica, conduce a una più profonda consapevolezza che siamo tutti fratelli e sorelle in Cristo. Un frutto inestimabile è l’accresciuta consapevolezza della nostra identità di Popolo fedele di Dio, al cui interno ciascuno è portatore di una dignità derivante dal Battesimo e chiamato alla corresponsabilità per la comune missione di evangelizzazione.

b)  Questo processo ha rinnovato la nostra esperienza e il nostro desiderio di una Chiesa che sia casa e famiglia di Dio. È proprio a questa esperienza e a questo desiderio di una Chiesa più vicina alle persone, meno burocratica e più relazionale che sono stati associati i termini “sinodalità” e “sinodale”, offrendone una prima comprensione che ha bisogno di incontrare una migliore precisazione. È la Chiesa che i giovani avevano dichiarato di desiderare già nel 2018, in occasione del Sinodo a loro dedicato.

c)  Il modo stesso in cui l’Assemblea si è svolta, a partire dalla disposizione delle persone sedute in piccoli gruppi attorno a tavole rotonde nell’Aula Paolo VI, paragonabile all’immagine biblica del banchetto di nozze (Ap 19,9), è emblematico di una Chiesa sinodale e immagine dell’Eucaristia, fonte e culmine della sinodalità, con la Parola di Dio al centro. Al suo interno, culture, lingue, riti, modi di pensare e realtà diverse possono impegnarsi insieme e fruttuosamente in una sincera ricerca sotto la guida dello Spirito.

d)  In mezzo a noi erano presenti sorelle e fratelli di popoli vittime della guerra, del martirio, della persecuzione e della fame. La situazione di questi popoli, per i quali spesso è stato impossibile partecipare al processo sinodale, è entrata nei nostri scambi e nella nostra preghiera, nutrendo il nostro senso di comunione con loro e la nostra determinazione a essere operatori di pace.

e)  L’Assemblea ha frequentemente parlato di speranza, guarigione, riconciliazione e ripristino della fiducia tra i molti doni che lo Spirito ha riversato sulla Chiesa durante questo processo sinodale. L’apertura all’ascolto e all’accompagnamento di tutti, compresi coloro che hanno subito abusi e ferite nella Chiesa, ha reso visibili molti che si sono sentiti a lungo invisibili. Abbiamo ancora da compiere un lungo cammino verso la riconciliazione e la giustizia, che richiede di affrontare le condizioni strutturali che hanno consentito tali abusi e compiere gesti concreti di penitenza.

f)  Sappiamo che “sinodalità” è un termine sconosciuto a molti membri del Popolo di Dio, che suscita in alcuni confusione e preoccupazioni. Tra i timori, vi è quello che l’insegnamento della Chiesa venga cambiato, allontanandoci dalla fede apostolica dei nostri padri e tradendo le attese di coloro che anche oggi hanno fame e sete di Dio. Tuttavia, siamo convinti che la sinodalità è una espressione del dinamismo della Tradizione vivente.

g)  Senza sottostimare il valore della democrazia rappresentativa, Papa Francesco risponde alla preoccupazione di alcuni che il Sinodo possa diventare un organo di deliberazione a maggioranza privo del suo carattere ecclesiale e spirituale, mettendo a rischio la natura gerarchica della Chiesa. Alcuni temono di essere costretti a cambiare; altri temono che non cambierà nulla e che ci sarà troppo poco coraggio per muoversi al ritmo della Tradizione vivente. Alcune perplessità e opposizioni nascondono anche la paura di perdere il potere e i privilegi che ne derivano. In ogni caso, in tutti i contesti culturali, i termini “sinodale” e sinodalità” indicano un modo di essere Chiesa che articola comunione, missione e partecipazione. Ne è esempio la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia (CEAMA), frutto del processo sinodale missionario di quella regione.

h)  La sinodalità può intendersi come camminare dei cristiani con Cristo e verso il Regno, insieme a tutta l’umanità; orientata alla missione, essa comporta il riunirsi in assemblea ai diversi livelli della vita ecclesiale, l’ascolto reciproco, il dialogo, il discernimento comunitario, la creazione del consenso come espressione del rendersi presente di Cristo vivo nello Spirito e l’assunzione di una decisione in una corresponsabilità differenziata.

i)  Attraverso l’esperienza e l’incontro, siamo cresciuti insieme in questa consapevolezza. In sintesi, fin dai primi giorni, l’Assemblea si è trovata plasmata da due convinzioni: la prima è che l’esperienza che abbiamo condiviso in questi anni è autenticamente cristiana e va accolta in tutta la sua ricchezza e profondità; la seconda è che i termini “sinodale” e “sinodalità” richiedono un chiarimento più accurato dei loro livelli di significato nelle diverse culture. È emerso un sostanziale accordo sul fatto che, con i necessari chiarimenti, la prospettiva sinodale rappresenta il futuro della Chiesa.

Questioni da affrontare

j)  Partendo dal lavoro di riflessione già svolto, occorre chiarire il significato di sinodalità ai diversi livelli, dall’uso pastorale a quello teologico e canonico, scongiurando il rischio che suoni troppo vago o generico, o che appaia come una moda passeggera. Allo stesso modo, si ritiene necessario chiarire il rapporto tra sinodalità e comunione, così come quello tra sinodalità e collegialità.

k)  È emerso il desiderio di valorizzare le differenze nella pratica e nella comprensione della sinodalità tra le tradizioni dell’Oriente cristiano e la tradizione latina, anche nel processo sinodale in corso, favorendo l’incontro tra di loro.

l)  In particolare vanno fatte emergere le molte espressioni della vita sinodale in contesti culturali in cui le persone sono abituate a camminare insieme come comunità. In questa linea, si può affermare che la pratica sinodale fa parte della risposta profetica della Chiesa a un individualismo che si ripiega su se stesso, a un populismo che divide e a una globalizzazione che omogeneizza e appiattisce. Non risolve questi problemi, ma fornisce un modo alternativo di essere e di agire pieno di speranza, che integra una pluralità di prospettive e che va ulteriormente esplorato e illuminato.

Proposte

m)  La ricchezza e la profondità dell’esperienza vissuta conducono a indicare come prioritario l’allargamento del numero delle persone coinvolte nei cammini sinodali, superando gli ostacoli alla partecipazione finora emersi, così come il senso di sfiducia e i timori che alcuni nutrono.

n)  Occorre sviluppare modalità per un più attivo coinvolgimento di diaconi, presbiteri e Vescovi nel processo sinodale durante il prossimo anno. Una Chiesa sinodale non può fare a meno delle loro voci, delle loro esperienze e del loro contributo. Abbiamo bisogno di comprendere le ragioni della resistenza alla sinodalità da parte di alcuni di loro.

o)  Infine, è emersa con forza la necessità che la cultura sinodale diventi più intergenerazionale, con spazi che permettano ai giovani di parlare liberamente con le loro famiglie, con i loro coetanei e con i loro pastori, anche attraverso i canali digitali.

p)  Si propone di promuovere, in sede opportuna, il lavoro teologico di approfondimento terminologico e concettuale della nozione e della pratica della sinodalità prima della Seconda Sessione dell’Assemblea, giovandosi del ricco patrimonio di studi successivi al Concilio Vaticano II e, in particolare, dei documenti della Commissione Teologica Internazionale su La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa (2018) e Il sensus fidei nella vita della Chiesa (2014).

q)  Richiedono un analogo chiarimento le implicazioni canonistiche della prospettiva della sinodalità. A riguardo si propone l’istituzione di un’apposita commissione intercontinentale di teologi e canonisti, in vista della Seconda Sessione dell’Assemblea.

r)  Pare giunto il momento per una revisione del Codice di Diritto Canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Si avvii quindi uno studio preliminare.

2. Radunati e inviati dalla Trinità

Convergenze

a)  Come ricorda il Concilio Vaticano II, la Chiesa è «un popolo adunato in virtù dell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4). Il Padre, attraverso l’invio del Figlio e il dono dello Spirito, ci coinvolge in un dinamismo di comunione e di missione che ci fa passare dall’io al noi e ci pone a servizio del mondo. La sinodalità traduce in atteggiamenti spirituali e in processi ecclesiali la dinamica trinitaria con cui Dio viene incontro all’umanità. Perché questo accada occorre che tutti i battezzati s’impegnino a esercitare in reciprocità la propria vocazione, il proprio carisma, il proprio ministero. Solo così la Chiesa potrà farsi veramente “colloquio” al suo interno e con il mondo (cfr. Ecclesiam suam 67), camminando fianco a fianco di ogni essere umano con lo stile di Gesù.

b)  Fin dalle origini, il cammino sinodale della Chiesa è orientato verso il Regno, che avrà pieno compimento quando Dio sarà tutto in tutti. La testimonianza della fraternità ecclesiale e la dedizione missionaria al servizio degli ultimi non saranno mai all’altezza del Mistero di cui pure sono segno e strumento. La Chiesa non riflette sulla propria configurazione sinodale per porre se stessa al centro dell’annuncio, ma per compiere al meglio, pur nella sua costitutiva incompiutezza, il servizio all’avvento del Regno.

c)  Il rinnovamento della comunità cristiana è possibile solo riconoscendo il primato della grazia. Se manca la profondità spirituale, la sinodalità rimane un rinnovamento di facciata. Ciò a cui siamo chiamati, però, non è solo tradurre in processi comunitari un’esperienza spirituale maturata altrove, ma più profondamente sperimentare come le relazioni fraterne siano luogo e forma di un autentico incontro con Dio. In questo senso la prospettiva sinodale, mentre attinge al ricco patrimonio spirituale della Tradizione, contribuisce a rinnovarne le forme: una preghiera aperta alla partecipazione, un discernimento vissuto insieme, un’energia missionaria che nasce dalla condivisione e si irradia come servizio.

d)  La conversazione nello Spirito è uno strumento che, pur con i suoi limiti, risulta fecondo per consentire un ascolto autentico e per discernere ciò che lo Spirito dice alle Chiese. La sua pratica ha suscitato gioia, stupore e gratitudine ed è stata vissuta come un percorso di rinnovamento che trasforma gli individui, i gruppi, la Chiesa. La parola “conversazione” esprime qualcosa di più del semplice dialogo: intreccia in modo armonico pensiero e sentimento e genera un mondo vitale condiviso. Per questo si può dire che nella conversazione è in gioco la conversione. Si tratta di un dato antropologico che si ritrova in popoli e culture diverse, accomunate dalla pratica di un radunarsi solidale per trattare e decidere le questioni vitali per la comunità. La grazia porta a compimento questa esperienza umana: conversare “nello Spirito” significa vivere l’esperienza della condivisione nella luce della fede e nella ricerca del volere di Dio, in un’atmosfera autenticamente evangelica entro cui lo Spirito Santo può far udire la sua voce inconfondibile.

e) Poiché la sinodalità è ordinata alla missione, è necessario che le comunità cristiane condividano la fraternità con uomini e donne di altre religioni, convinzioni e culture, evitando da una parte il rischio dell’autoreferenzialità e dell’autoconservazione e dall’altra quello della perdita di identità. La logica del dialogo, dell’apprendimento reciproco e del camminare insieme deve caratterizzare l’annuncio evangelico e il servizio ai poveri, la cura della casa comune e la ricerca teologica, divenendo lo stile pastorale della Chiesa.

Questioni da affrontare

f)  Per realizzare un vero ascolto della volontà del Padre, pare necessario approfondire sotto il profilo teologico i criteri del discernimento ecclesiale, in modo che il riferimento alla libertà e novità dello Spirito sia opportunamente coordinato con l’evento di Gesù Cristo accaduto «una volta per sempre» (Eb 10,10). Ciò richiede anzitutto di precisare il rapporto tra l’ascolto della Parola di Dio attestata nella Scrittura, l’accoglienza della Tradizione e del magistero della Chiesa e la lettura profetica dei segni dei tempi.

g)  A questo scopo è fondamentale promuovere visioni antropologiche e spirituali capaci di integrare e non giustapporre la dimensione intellettuale e quella emotiva dell’esperienza di fede, superando ogni riduzionismo e ogni dualismo tra ragione e sentimento.

h)  È importante chiarire in che modo la conversazione nello Spirito possa integrare gli apporti del pensiero teologico e delle scienze umane e sociali, anche alla luce di altri modelli di discernimento ecclesiale che sono realizzati seguendo la scansione del “vedere, giudicare, agire” o articolando i passaggi del “riconoscere, interpretare, scegliere”.

i)  Va sviluppato l’apporto che la lectio divina e le diverse tradizioni spirituali, antiche e recenti, possono offrire alla pratica del discernimento. È opportuno infatti valorizzare la pluralità di forme e di stili, di metodi e di criteri che lo Spirito Santo ha suggerito nel corso dei secoli e che fanno parte del patrimonio spirituale della Chiesa.

Proposte

j)  Si propone di sperimentare e adattare la conversazione nello Spirito e altre forme di discernimento nella vita delle Chiese, valorizzando a seconda delle culture e dei contesti la ricchezza delle diverse tradizioni spirituali. Opportune forme di accompagnamento possono facilitare tale pratica, aiutando a coglierne la logica e a superare eventuali resistenze.

k)  Ogni Chiesa locale si doti di persone idonee e preparate per facilitare e accompagnare processi di discernimento ecclesiale.

l)  È importante che la pratica del discernimento sia attuata anche nell’ambito pastorale, in modo adeguato ai contesti, per illuminare la concretezza della vita ecclesiale. Essa consentirà di riconoscere meglio i carismi presenti nella comunità, di affidare con saggezza compiti e ministeri, di progettare nella luce dello Spirito i cammini pastorali, andando oltre la semplice programmazione di attività.

3. Entrare in una comunità di fede: l’iniziazione cristiana

Convergenze

a)  L’iniziazione cristiana è l’itinerario attraverso cui il Signore, mediante il ministero della Chiesa, ci introduce nella fede pasquale e ci inserisce nella comunione trinitaria ed ecclesiale. Tale itinerario conosce una significativa varietà di forme a seconda dell’età in cui viene intrapreso e delle diverse accentuazioni proprie delle tradizioni orientali e di quella occidentale. Tuttavia vi si intrecciano sempre l’ascolto della Parola e la conversione della vita, la celebrazione liturgica e l’inserimento nella comunità e nella sua missione. Proprio per questo il percorso catecumenale, con la gradualità delle sue tappe e dei suoi passaggi, è il paradigma di ogni camminare insieme ecclesiale.

b)  L’iniziazione pone a contatto con una grande varietà di vocazioni e di ministeri ecclesiali. In essi si esprime il volto materno di una Chiesa che insegna ai suoi figli a camminare camminando con loro. Li ascolta e, mentre risponde ai loro dubbi e alle loro domande, si arricchisce della novità che ogni persona porta in sé, con la sua storia, la sua lingua e la sua cultura. Nella pratica di questa azione pastorale la comunità cristiana sperimenta, spesso senza averne piena consapevolezza, la prima forma di sinodalità.

c)  Prima di ogni distinzione di carismi e di ministeri, «noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1Cor 12,13). Per questo, fra tutti i battezzati vi è un’autentica uguaglianza di dignità e una comune responsabilità per la missione, secondo la vocazione di ognuno. Per l’unzione dello Spirito, che «insegna ogni cosa» (1Gv 2,27), tutti i credenti possiedono un istinto per la verità del Vangelo, chiamato sensus fidei. Esso consiste in una certa connaturalità con le realtà divine e nell’attitudine a cogliere intuitivamente ciò che è conforme alla verità della fede. I processi sinodali valorizzano questo dono e consentono di verificare l’esistenza di quel consenso dei fedeli (consensus fidelium) che costituisce un criterio sicuro per determinare se una particolare dottrina o prassi appartengono alla fede apostolica.

d)  La Confermazione rende in qualche modo perenne nella Chiesa la grazia della Pentecoste. Essa arricchisce i fedeli con l’abbondanza dei doni dello Spirito e li chiama a sviluppare la propria vocazione specifica, radicata nella comune dignità battesimale, a servizio della missione. La sua importanza deve essere maggiormente evidenziata e posta in rapporto alla varietà di carismi e ministeri che disegnano il volto sinodale della Chiesa.

e)  La celebrazione dell’Eucaristia, soprattutto alla domenica, è la prima e fondamentale forma con cui il Santo Popolo di Dio si riunisce e si incontra. Dove essa non è possibile, la comunità, pur desiderandola, si raccoglie intorno alla celebrazione della Parola. Nell’Eucaristia celebriamo un mistero di grazia di cui non siamo gli artefici. Chiamandoci a partecipare del suo Corpo e del suo Sangue, il Signore ci rende un solo corpo tra di noi e con Lui. A partire dall’utilizzo che Paolo fa del termine koinonia (cfr. 1Cor 10,16-17), la tradizione cristiana ha custodito la parola “comunione” per indicare allo stesso tempo la piena partecipazione all’Eucaristia e la natura dei rapporti tra i fedeli e tra le Chiese. Mentre ci apre alla contemplazione della vita divina, fino alle profondità insondabili del mistero trinitario, questo termine ci rimanda alla quotidianità delle nostre relazioni: nei gesti più semplici con cui ci apriamo l’uno all’altro circola realmente il soffio dello Spirito. Per questo la comunione celebrata nell’Eucaristia e che da essa scaturisce configura e orienta i percorsi della sinodalità.

f) Dall’Eucaristia impariamo ad articolare unità e diversità: unità della Chiesa e molteplicità delle comunità cristiane; unità del mistero sacramentale e varietà delle tradizioni liturgiche; unità della celebrazione e diversità delle vocazioni, dei carismi e dei ministeri. Nulla più dell’Eucaristia mostra che l’armonia creata dallo Spirito non è uniformità e che ogni dono ecclesiale è destinato all’edificazione comune.

Questioni da affrontare

g)  Il sacramento del Battesimo non può essere compreso in modo isolato, al di fuori della logica dell’iniziazione cristiana, né tanto meno in modo individualistico. Occorre dunque approfondire ulteriormente l’apporto alla comprensione della sinodalità che può provenire da una visione più unitaria dell’iniziazione cristiana.

h)  La maturazione del sensus fidei richiede non solo di aver ricevuto il Battesimo, ma anche di sviluppare la grazia del sacramento in una vita di autentico discepolato, che abiliti a discernere l’azione dello Spirito da ciò che è espressione del pensiero dominante, frutto di condizionamenti culturali o in ogni caso non coerente con il Vangelo. Si tratta di un tema da approfondire con un’adeguata riflessione teologica.

i)  La riflessione sulla sinodalità può offrire spunti di rinnovamento per la comprensione della Confermazione, con cui la grazia dello Spirito articola nell’armonia della Pentecoste la varietà dei doni e dei carismi. Alla luce delle diverse esperienze ecclesiali, va studiato il modo per rendere più fruttuosa la preparazione e la celebrazione di questo sacramento, così da risvegliare in tutti i fedeli la chiamata all’edificazione della comunità, alla missione nel mondo e alla testimonianza della fede.

j)  Sotto il profilo teologico pastorale è importante proseguire la ricerca sul modo in cui la logica catecumenale può illuminare altri percorsi pastorali, come quello della preparazione al matrimonio, o l’accompagnamento a scelte di impegno professionale e sociale, o la stessa formazione al ministero ordinato, in cui tutta la comunità ecclesiale deve essere coinvolta.

Proposte

k)  Se l’Eucaristia dà forma alla sinodalità, il primo passo da compiere è onorarne la grazia con uno stile celebrativo all’altezza del dono e con un’autentica fraternità. La liturgia celebrata con autenticità è la prima e fondamentale scuola di discepolato e di fraternità. Prima di ogni nostra iniziativa di formazione, dobbiamo lasciarci formare dalla sua potente bellezza e dalla nobile semplicità dei suoi gesti.

l)  Un secondo passo si riferisce all’esigenza, da più parti segnalata, di rendere il linguaggio liturgico più accessibile ai fedeli e più incarnato nella diversità delle culture. Senza mettere in discussione la continuità con la tradizione e la necessità della formazione liturgica, si sollecita una riflessione su questo tema e l’attribuzione di maggiore responsabilità alle Conferenze Episcopali, sulla linea del motu proprio Magnum principium.

m)  Un terzo passo consiste nell’impegno pastorale di valorizzare tutte le forme di preghiera comunitaria, senza limitarsi alla sola celebrazione della Messa. Altre espressioni della preghiera liturgica, come pure le pratiche della pietà popolare, in cui si rispecchia il genio delle culture locali, sono elementi di grande importanza per favorire il coinvolgimento di tutti i fedeli, per introdurre con gradualità nel mistero cristiano e per avvicinare all’incontro con il Signore chi ha meno familiarità con la Chiesa. Tra le forme della pietà popolare spicca in particolare la devozione mariana, per la sua capacità di sostenere e nutrire la fede di molti.

4. I poveri, protagonisti del cammino della Chiesa

Convergenze

a)  Alla Chiesa i poveri chiedono amore. Per amore si intende rispetto, accoglienza e riconoscimento, senza i quali fornire cibo, denaro o servizi sociali rappresenta una forma di assistenza certamente importante, ma che non si fa pienamente carico della dignità della persona. Rispetto e riconoscimento sono strumenti potenti di attivazione delle capacità personali, in modo che ciascuno sia soggetto del proprio percorso di crescita e non oggetto dell’azione assistenziale di altri.

b)  L’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica: Gesù, povero e umile, ha fatto amicizia con i poveri, ha camminato con i poveri, ha condiviso la tavola con i poveri e ha denunciato le cause della povertà. Per la Chiesa l’opzione per i poveri e gli scartati è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Per San Giovanni Paolo II, Dio concede a loro per primi la sua misericordia. Questa preferenza divina ha conseguenze nella vita di tutti i cristiani, chiamati a nutrire «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).

c)  Non c’è un solo genere di povertà. Tra i molti volti dei poveri vi sono quelli di tutti coloro che non hanno il necessario per condurre una vita dignitosa. Vi sono poi quelli di migranti e rifugiati; popoli indigeni, originari e afrodiscendenti; coloro che subiscono violenza e abuso, in particolare donne; persone con dipendenze; minoranze a cui viene sistematicamente negata una voce; anziani abbandonati; vittime del razzismo, dello sfruttamento e della tratta, in particolare minori; lavoratori sfruttati; esclusi economicamente e altri che vivono nelle periferie. I più vulnerabili tra i vulnerabili, a favore dei quali è necessaria una costante azione di advocacy, sono i bimbi nel grembo materno e le loro madri. L’Assemblea è consapevole del grido dei “nuovi poveri”, prodotti dalle guerre e dal terrorismo che martoriano molti Paesi in diversi continenti e condanna i sistemi politici ed economici corrotti che ne sono la causa.

d)  A fianco delle molte forme di povertà materiale, il nostro mondo conosce anche quelle della povertà spirituale, intesa come mancanza del senso della vita. Una eccessiva preoccupazione per se stessi può condurre a vedere negli altri una minaccia e a rinchiudersi nell’individualismo. Come è stato notato, le povertà materiali e le povertà spirituali, quando si alleano, possono trovare le risposte ai bisogni l’una dell’altra. È questo un modo per camminare insieme che rende concreta la prospettiva della Chiesa sinodale che ci svelerà il senso più pieno della beatitudine evangelica «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3).

e)  Stare al fianco dei poveri significa impegnarsi con loro anche nella cura della nostra casa comune: il grido della terra e il grido dei poveri sono lo stesso grido. La mancanza di reazioni rende la crisi ecologica e in particolare i cambiamenti climatici una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità, come sottolinea l’esortazione apostolica Laudate Deum, pubblicata da Papa Francesco in concomitanza con l’apertura dei lavori dell’Assemblea sinodale. Le Chiese dei Paesi più esposti alle conseguenze dei cambiamenti climatici hanno viva coscienza dell’urgenza di un cambiamento di rotta e questo rappresenta un loro contributo al cammino delle altre Chiese del pianeta.

f)  L’impegno della Chiesa deve arrivare alle cause della povertà e dell’esclusione. Ciò comprende l’azione per tutelare i diritti di poveri ed esclusi, e può richiedere la denuncia pubblica delle ingiustizie, siano esse perpetrate da individui, governi, aziende o strutture della società. Per questo è fondamentale l’ascolto delle loro istanze e del loro punto di vista, in modo da prestare loro la voce, usando le loro parole.

g)  I cristiani hanno il dovere di impegnarsi a partecipare attivamente alla costruzione del bene comune e alla difesa della dignità della vita, attingendo ispirazione alla dottrina sociale della Chiesa e operando in diverse forme (impegno nelle organizzazioni della società civile, nei sindacati, nei movimenti popolari, nell’associazionismo di base, nel campo della politica, ecc.). La Chiesa esprime una profonda gratitudine per la loro azione. Le comunità sostengano quanti operano in questi campi in autentico spirito di carità e di servizio. La loro azione è parte della missione della Chiesa di annuncio del Vangelo e collaborazione all’avvento del Regno di Dio.

h)  Nei poveri la comunità cristiana incontra il volto e la carne di Cristo, che da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). È chiamata non solo a farsi loro prossima, ma a imparare da loro. Se fare sinodo significa camminare insieme a Colui che è la via, una Chiesa sinodale ha bisogno di mettere i poveri al centro di tutti gli aspetti della propria vita: attraverso le loro sofferenze hanno una conoscenza diretta del Cristo sofferente (cfr. Evangelii gaudium, n. 198). La somiglianza della loro vita con quella del Signore rende i poveri annunciatori di una salvezza ricevuta in dono e testimoni della gioia del Vangelo.

Questioni da affrontare

i)  In alcune parti del mondo la Chiesa è povera, con i poveri e per i poveri. Esiste il rischio costante, da evitare con cura, di considerare i poveri in termini di “loro” e “noi”, come “oggetti” della carità della Chiesa. Mettere i poveri al centro e imparare da loro è qualcosa che la Chiesa deve fare sempre di più.

j)  La denuncia profetica delle situazioni di ingiustizia e l’azione di pressione nei confronti dei decisori politici, che richiede il ricorso a forme di diplomazia, vanno mantenute in tensione dinamica in modo da non perdere lucidità e fecondità. In particolare, occorre vigilare perché l’uso di fondi pubblici o privati da parte delle strutture della Chiesa non condizioni la libertà di parlare in nome delle esigenze del Vangelo.

k)  L’azione nei campi dell’educazione, della sanità e dell’assistenza sociale, senza alcuna discriminazione o esclusione di nessuno, è un chiaro segno di una Chiesa che promuove l’integrazione e la partecipazione degli ultimi al suo interno e nella società. Le organizzazioni attive in questo campo sono invitate a considerarsi espressione della comunità cristiana e a evitare uno stile impersonale di vivere la carità. Sono sollecitate anche a fare rete e coordinarsi.

l)  La Chiesa deve essere onesta nell’esaminare come rispetta le esigenze della giustizia nei confronti di coloro che lavorano nelle istituzioni ad essa collegate, per testimoniare con integrità la propria coerenza.

m)  In una Chiesa sinodale il senso di solidarietà si gioca anche sul piano dello scambio di doni e della condivisione delle risorse tra Chiese locali di diverse regioni. Si tratta di rapporti che favoriscono l’unità della Chiesa, creando legami tra le comunità cristiane coinvolte. Occorre mettere a fuoco le condizioni da garantire perché i presbiteri che vengono in aiuto alle Chiese povere di clero non siano solo un rimedio funzionale, ma una risorsa per la crescita della Chiesa che li invia e di quella che li riceve. Analogamente occorre operare perché gli aiuti economici non degenerino in assistenzialismo, ma promuovano un’autentica solidarietà evangelica e siano gestiti in modo trasparente e affidabile.

Proposte

n)  La dottrina sociale della Chiesa è una risorsa troppo poco conosciuta, su cui tornare a investire. Le Chiese locali s’impegnino non solo a renderne più noti i contenuti, ma a favorirne l’appropriazione attraverso pratiche che ne mettono in atto l’ispirazione.

o)  L’esperienza dell’incontro, della condivisione della vita e del servizio ai poveri e agli emarginati diventi parte integrante di tutti i percorsi formativi offerti dalle comunità cristiane: si tratta di una esigenza della fede, non di un optional. Questo vale in particolare per i candidati al ministero ordinato e alla vita consacrata.

p)  Nell’ambito del ripensamento del ministero diaconale, se ne promuova un più deciso orientamento al servizio ai poveri.

q)  Si integrino in maniera più esplicita e attenta nell’insegnamento, nella liturgia e nelle pratiche della Chiesa i fondamenti biblici e teologici dell’ecologia integrale.

5. Una Chiesa da «ogni tribù, lingua, popolo e nazione»

Convergenze

a)  I cristiani vivono all’interno di culture specifiche, portando dentro di esse Cristo nella Parola e nel Sacramento. Impegnandosi nel servizio della carità accolgono con umiltà e gioia il mistero di Cristo che già li attende in ogni luogo e in ogni tempo. In questo modo diventano una Chiesa da «ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9).

b)  I contesti culturali, storici e regionali in cui la Chiesa è presente rivelano bisogni spirituali e materiali differenti. Questo plasma la cultura delle Chiese locali, le loro priorità missionarie, le preoccupazioni e i doni che ciascuna di loro porta al dialogo sinodale, e i linguaggi con cui si esprime. Durante i giorni dell’Assemblea abbiamo potuto fare esperienza diretta, e per lo più gioiosa, della pluralità delle espressioni dell’essere Chiesa.

c)  Le Chiese vivono in contesti sempre più multiculturali e multireligiosi, in cui è essenziale l’impegno nel dialogo tra religione e cultura insieme agli altri gruppi che costituiscono la società. Vivere la missione della Chiesa in questi contesti richiede uno stile di presenza, servizio e annuncio che cerca di costruire ponti, coltivare la comprensione reciproca e impegnarsi in un’evangelizzazione che accompagna, ascolta e impara. Più volte nell’Assemblea è risuonata l’immagine di “togliersi le scarpe” per andare all’incontro con l’altro da pari a pari, come segno di umiltà e rispetto per uno spazio sacro.

d)  I movimenti migratori sono una realtà che rimodella le Chiese locali come comunità interculturali. Spesso migranti e rifugiati, molti dei quali portano le ferite dello sradicamento, della guerra e della violenza, diventano una fonte di rinnovamento e arricchimento per le comunità che li accolgono e un’occasione per stabilire un legame diretto con Chiese geograficamente lontane. Di fronte ad atteggiamenti sempre più ostili nei confronti dei migranti, siamo chiamati a praticare un’accoglienza aperta, ad accompagnarli nella costruzione di un nuovo progetto di vita e a costruire una vera comunione interculturale tra i popoli. Il rispetto per le tradizioni liturgiche e le pratiche religiose dei migranti è parte integrante di un’autentica accoglienza.

e)  I missionari hanno dato la vita per portare la Buona Notizia in tutto il mondo. Il loro impegno dà una eloquente testimonianza della forza della Vangelo. Tuttavia, particolare attenzione e sensibilità sono necessarie in contesti in cui “missione” è una parola carica di un retaggio storico doloroso, che oggi ostacola la comunione. In alcuni luoghi l’annuncio del Vangelo è stato associato alla colonizzazione e persino al genocidio. Evangelizzare in questi contesti richiede di riconoscere gli errori compiuti, di apprendere una nuova sensibilità a queste problematiche e di accompagnare una generazione che cerca di forgiare identità cristiane al di là del colonialismo. Il rispetto e l’umiltà sono atteggiamenti fondamentali per riconoscere che ci completiamo a vicenda e che l’incontro con culture diverse può arricchire il vivere e il pensare la fede delle comunità cristiane.

f)  La Chiesa insegna la necessità e incoraggia la pratica del dialogo interreligioso come parte della costruzione della comunione tra tutti i popoli. In un mondo di violenza e frammentazione, appare sempre più urgente una testimonianza dell’unità dell’umanità, della sua origine comune e del suo destino comune, in una solidarietà coordinata e fraterna verso la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione e la cura della casa comune. La Chiesa è consapevole che lo Spirito può parlare attraverso la voce di uomini e donne di ogni religione, convinzione e cultura.

Questioni da affrontare

g)  Occorre coltivare la sensibilità per la ricchezza della varietà delle espressioni dell’essere Chiesa. Questo richiede la ricerca di un equilibrio dinamico tra la dimensione della Chiesa nel suo insieme e il suo radicamento locale, tra il rispetto del vincolo dell’unità della Chiesa e il rischio dell’omogeneizzazione che soffoca la varietà. I significati e le priorità variano tra contesti diversi e questo richiede di identificare e promuovere forme di decentramento e istanze intermedie.

h)  Anche la Chiesa è colpita dalla polarizzazione e dalla sfiducia in ambiti cruciali, come la vita liturgica e la riflessione morale, sociale e teologica. Dobbiamo riconoscerne le cause attraverso il dialogo e intraprendere processi coraggiosi di rivitalizzazione della comunione e di riconciliazione per superarle.

i)  Nelle nostre Chiese locali, a volte sperimentiamo tensioni tra diverse modalità di intendere l’evangelizzazione, che si focalizzano sulla testimonianza di vita, sull’impegno per la promozione umana, sul dialogo con le fedi e le culture e sull’annuncio esplicito del Vangelo. Ugualmente emerge una tensione tra l’annuncio esplicito di Gesù Cristo e la valorizzazione delle caratteristiche di ciascuna cultura alla ricerca dei tratti evangelici (semina Verbi) che già contiene.

j)  Tra le questioni da approfondire è stata indicata la possibile confusione tra il messaggio del Vangelo e la cultura dell’evangelizzatore.

k)  L’estendersi di conflitti, con il commercio e l’uso di armi sempre più potenti, apre la questione, sollevata in diversi gruppi, di una più accurata riflessione e formazione a gestire i conflitti in modo non violento. Si tratta di un contributo qualificato che i cristiani possono offrire al mondo di oggi, anche in dialogo e in collaborazione con altre religioni.

Proposte

l) È necessaria una rinnovata attenzione alla questione dei linguaggi che utilizziamo per parlare alle menti e ai cuori delle persone in una grande diversità di contesti, in un modo che risulti accessibile e bello.

m)  In vista della sperimentazione di forme di decentramento, occorre definire un quadro di riferimento condiviso per la loro gestione e la loro valutazione, identificando tutti gli attori coinvolti e i relativi ruoli. Per esigenze di coerenza, i processi di discernimento in materia di decentramento devono avvenire in stile sinodale, prevedendo il concorso e il contributo di tutti gli attori coinvolti ai diversi livelli.

n)  Sono necessari nuovi paradigmi per l’impegno pastorale con le popolazioni indigene, nella linea di un cammino insieme e non di una azione fatta a loro o per loro. La loro partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli può contribuire a una Chiesa più vibrante e missionaria.

o)  Dai lavori dell’Assemblea, emerge la richiesta di una migliore conoscenza degli insegnamenti del Vaticano II, del magistero postconciliare e della dottrina sociale della Chiesa. Abbiamo bisogno di conoscere meglio le nostre diverse tradizioni per essere più chiaramente una Chiesa di Chiese in comunione, efficace nel servizio e nel dialogo.

p)  In un mondo in cui il numero di migranti e rifugiati aumenta, mentre si riduce la disponibilità ad accoglierli, e in cui lo straniero è visto con crescente sospetto, è opportuno che la Chiesa si impegni con decisione nell’educazione alla cultura del dialogo e dell’incontro, combattendo il razzismo e la xenofobia, in particolare nei programmi di formazione pastorale. È ugualmente necessario impegnarsi in progetti di integrazione dei migranti.

q)  Raccomandiamo un rinnovato impegno nel dialogo e nel discernimento in materia di giustizia razziale. Occorre identificare i sistemi che creano o mantengono l’ingiustizia razziale all’interno della Chiesa e combatterli. Si dia vita a processi di guarigione e riconciliazione per sradicare il peccato del razzismo, con l’aiuto di coloro che ne subiscono le conseguenze.

6. Tradizioni delle Chiese orientali e della Chiesa latina

Convergenze

a)  Tra le Chiese orientali, quelle in piena comunione con il successore di Pietro godono di una peculiarità liturgica, teologica, ecclesiologica e canonica che arricchisce grandemente l’intera Chiesa. In particolare, la loro esperienza di unità nella diversità può offrire un prezioso contributo alla comprensione e alla pratica della sinodalità.

b)  Nel corso della storia il livello di autonomia garantito a queste Chiese ha conosciuto fasi diverse e ha registrato anche comportamenti oggi considerati superati, come la latinizzazione. Negli ultimi decenni il cammino di riconoscimento della specificità, distinzione e autonomia di tali Chiese ha avuto uno sviluppo notevole.

c)  La consistente migrazione di fedeli dell’Oriente cattolico in territori a maggioranza latina pone questioni pastorali importanti. Se l’attuale flusso continua o si accresce, vi potrebbero essere più membri delle Chiese orientali cattoliche in diaspora che nei territori canonici. Per diversi motivi, la costituzione di gerarchie orientali nei Paesi di immigrazione non è sufficiente per risolvere il problema, ma occorre che le Chiese locali di rito latino, in nome della sinodalità, aiutino i fedeli orientali emigrati a preservare la loro identità e a coltivare il loro patrimonio specifico, senza subire processi di assimilazione.

Questioni da affrontare

d)  Va ulteriormente studiato l’apporto che l’esperienza delle Chiese orientali cattoliche può offrire alla comprensione e alla pratica della sinodalità.

e)  Alcune difficoltà permangono a proposito dell’assenso da parte del Papa ai Vescovi eletti dai Sinodi delle Chiese sui iuris per il loro territorio e della nomina papale dei Vescovi al di fuori del territorio canonico. Anche la richiesta di estendere la giurisdizione dei Patriarchi al di fuori del territorio patriarcale è oggetto di discernimento nel dialogo con la Santa Sede.

f)  Nelle regioni dove sono presenti fedeli di Chiese cattoliche diverse, occorre trovare modalità che rendano visibile e sperimentabile una effettiva unità nella diversità.

g)  Occorre riflettere sull’apporto che le Chiese orientali cattoliche possono dare al cammino verso l’unità tra tutti i cristiani e il ruolo che possono svolgere nel dialogo interreligioso e interculturale.

Proposte

h)  Emerge anzitutto la richiesta di istituire un Consiglio dei Patriarchi e Arcivescovi Maggiori delle Chiese orientali cattoliche presso il Santo Padre.

i)  Alcuni chiedono di convocare un Sinodo Speciale dedicato alle Chiese Orientali Cattoliche, alla loro identità e missione, nonché alle sfide pastorali e canoniche nel contesto di guerra e di massicce migrazioni.

j)  Si propone di formare una commissione congiunta di teologi, storici e canonisti orientali e latini per studiare le questioni che richiedono approfondimento e avanzare proposte per proseguire il cammino.

k)  Nei dicasteri della Curia romana ci sia un’adeguata rappresentanza di membri delle Chiese orientali cattoliche per arricchire la Chiesa intera con il contributo della loro prospettiva, favorire la soluzione dei problemi rilevati e partecipare al dialogo ai diversi livelli.

l)  Per favorire forme di accoglienza rispettose del patrimonio dei fedeli delle Chiese orientali è opportuno intensificare i rapporti tra il clero orientale in diaspora e quello latino e promuovere la conoscenza reciproca e il riconoscimento delle rispettive tradizioni.

7. In cammino verso l’unità dei cristiani

Convergenze

a)  Questa sessione dell’Assemblea sinodale si è aperta nel segno dell’ecumenismo. La veglia di preghiera “Together” ha visto la presenza a fianco di papa Francesco di numerosi altri capi e rappresentanti di diverse Comunioni cristiane: un segno chiaro e credibile della volontà di camminare insieme nello spirito dell’unità della fede e dello scambio di doni. Anche questo avvenimento, altamente significativo, ci ha permesso di riconoscere che ci troviamo in un kairos ecumenico e di riaffermare che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide. In comune, infatti, abbiamo «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un Dio unico e Padre di tutti, che è sopra tutti, fra tutti e in tutti» (Ef 4,5-6).

b)  Proprio il Battesimo, che è al principio della sinodalità, costituisce anche il fondamento dell’ecumenismo. Attraverso di esso tutti i cristiani partecipano al sensus fidei e per questo vanno ascoltati con attenzione, indipendentemente dalla loro tradizione, come l’Assemblea sinodale ha fatto nel suo processo di discernimento. Non ci può essere sinodalità senza la dimensione ecumenica.

c) L’ecumenismo è anzitutto una questione di rinnovamento spirituale ed esige anche processi di pentimento e di guarigione della memoria. Nell’Assemblea sono risuonate testimonianze illuminanti di cristiani di diverse tradizioni ecclesiali che condividono l’amicizia, la preghiera e soprattutto l’impegno per il servizio dei poveri. La dedizione per gli ultimi cementa i legami e aiuta a concentrarsi su ciò che già unisce tutti i credenti in Cristo. È importante perciò che l’ecumenismo si sviluppi anzitutto nella vita quotidiana. Nel dialogo teologico e istituzionale prosegue la paziente tessitura dalla comprensione reciproca in un clima di crescente fiducia e apertura.

d)  In non poche regioni del mondo c’è soprattutto l’ecumenismo del sangue: cristiani di appartenenze diverse che insieme danno la vita per la fede in Gesù Cristo. La testimonianza del loro martirio è più eloquente di ogni parola: l’unità viene dalla Croce del Signore.

e)  La collaborazione tra tutti i cristiani costituisce anche un elemento fondamentale per affrontare le sfide pastorali del nostro tempo: nelle società secolarizzate permette di dare più forza alla voce del Vangelo, in contesti di povertà fa unire le forze a servizio della giustizia, della pace e della dignità degli ultimi. Sempre e ovunque è una risorsa fondamentale per sanare la cultura dell’odio, della divisione e della guerra che contrappone gruppi, popoli e nazioni.

f)  I matrimoni tra cristiani che appartengono a diverse Chiese o comunità ecclesiali (matrimoni misti) costituiscono realtà in cui può maturare la sapienza della comunione e ci si può evangelizzare a vicenda.

Questioni da affrontare

g)  La nostra Assemblea ha potuto percepire la diversità tra le confessioni cristiane nel modo di comprendere la configurazione sinodale della Chiesa. Nelle Chiese Ortodosse, la sinodalità viene intesa in senso stretto come espressione dell’esercizio collegiale dell’autorità propria dei soli Vescovi (il Santo Sinodo). In senso lato, si riferisce alla partecipazione attiva di tutti i fedeli alla vita e alla missione della Chiesa. Non sono mancati riferimenti alle prassi in uso nelle altre comunità ecclesiali, che hanno arricchito il nostro dibattito. Tutto ciò richiede ulteriori approfondimenti.

h)  Un altro tema da approfondire riguarda il nesso tra sinodalità e primato ai vari livelli (locale, regionale, universale), nella loro reciproca interdipendenza. Esso richiede una rilettura condivisa della storia, per superare luoghi comuni e pregiudizi. I dialoghi ecumenici in corso hanno permesso di capire meglio, alla luce delle pratiche del primo millennio, che sinodalità e primato sono realtà correlate, complementari e inseparabili. Il chiarimento di questo punto delicato si riflette sul modo di intendere il ministero petrino al servizio dell’unità, secondo quanto auspicato da San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint.

i)  Va ulteriormente esaminata sotto il profilo teologico, canonico e pastorale la questione della ospitalità eucaristica (communicatio in sacris), alla luce del nesso tra comunione sacramentale ed ecclesiale. Questo tema è particolarmente avvertito dalle coppie interconfessionali. Esso rimanda anche a una riflessione più ampia sui matrimoni misti.

j)  È stata sollecitata anche una riflessione sul fenomeno delle comunità “non denominazionali” e dei movimenti di “risveglio” d’ispirazione cristiana, cui aderiscono in gran numero anche fedeli in origine cattolici.

Proposte
k)  Nel 2025 ricorre l’anniversario del Concilio di Nicea (325), in cui fu elaborato il simbolo della fede che unisce tutti i cristiani. Una commemorazione comune di questo evento ci aiuterà anche a comprendere meglio come nel passato le questioni controverse fossero discusse e risolte insieme in Concilio.

l)  Nello stesso anno 2025, provvidenzialmente, la data della solennità di Pasqua coinciderà per tutte le denominazioni cristiane. L’Assemblea ha espresso un vivo desiderio di giungere a trovare una data comune per la festa di Pasqua, così da poter celebrare nello stesso giorno la risurrezione del Signore, nostra vita e nostra salvezza.

m)  Si desidera anche continuare a coinvolgere i cristiani di altre confessioni nei processi sinodali cattolici a tutti i livelli e invitare un maggior numero di delegati fraterni alla prossima sessione dell’Assemblea nel 2024.

n)  È stata avanzata da alcuni anche la proposta di convocare un Sinodo ecumenico sulla missione comune nel mondo contemporaneo.

o)  Si rilancia la proposta di compilare un martirologio ecumenico.

PARTE II – TUTTI DISCEPOLI, TUTTI MISSIONARI

8. La Chiesa è missione

Convergenze

a)  Piuttosto che dire che la Chiesa ha una missione, affermiamo che la Chiesa è missione. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21): la Chiesa riceve da Cristo, l’Inviato del Padre, la propria missione. Sorretta e guidata dallo Spirito Santo, essa annuncia e testimonia il Vangelo a quanti non lo conoscono o non lo accolgono, con quell’opzione preferenziale per i poveri che è radicata nella missione di Gesù. In questo modo concorre all’avvento del Regno di Dio, di cui «costituisce il germe e l’inizio» (cfr. LG 5).

b)  I sacramenti dell’iniziazione cristiana conferiscono a tutti i discepoli di Gesù la responsabilità della missione della Chiesa. Laici e laiche, consacrate e consacrati, e ministri ordinati hanno pari dignità. Hanno ricevuto carismi e vocazioni diversi ed esercitano ruoli e funzioni differenti, tutti chiamati e nutriti dallo Spirito Santo per formare un solo corpo in Cristo. Tutti discepoli, tutti missionari, nella vitalità fraterna di comunità locali che sperimentano la dolce e confortante gioia di evangelizzare. L’esercizio della corresponsabilità è essenziale per la sinodalità ed è necessario a tutti i livelli della Chiesa. Ogni cristiano è una missione in questo mondo.

c)  La famiglia è colonna portante di ogni comunità cristiana. I genitori, i nonni e tutti coloro che vivono e condividono la loro fede in famiglia sono i primi missionari. La famiglia, in quanto comunità di vita e di amore, è un luogo privilegiato di educazione alla fede e alla pratica cristiana, che necessita di un particolare accompagnamento all’interno delle comunità. Il sostegno è necessario soprattutto per i genitori che devono conciliare il lavoro, anche all’interno della comunità ecclesiale e a servizio della sua missione, con le esigenze della vita familiare.

d)  Se la missione è grazia che impegna tutta la Chiesa, i fedeli laici contribuiscono in modo vitale a realizzarla in tutti gli ambienti e nelle situazioni più ordinarie di ogni giorno. Sono loro soprattutto a rendere presente la Chiesa e ad annunciare il Vangelo nella cultura dell’ambiente digitale, che ha un impatto così forte in tutto il mondo, nelle culture giovanili, nel mondo del lavoro, dell’economia e della politica, delle arti e della cultura, della ricerca scientifica, dell’educazione e della formazione, nella cura della casa comune e, in modo particolare, nella partecipazione alla vita pubblica. Là dove sono presenti, essi sono chiamati a testimoniare Gesù Cristo nella vita quotidiana e a condividere esplicitamente la fede con altri. In particolare i giovani, con i loro doni e le loro fragilità, mentre crescono nell’amicizia con Gesù, si fanno apostoli del Vangelo tra i loro coetanei.

e)  I fedeli laici sono sempre più presenti e attivi anche nel servizio all’interno delle comunità cristiane. Molti di loro organizzano e animano comunità pastorali, prestano servizio come educatori alla fede, teologi e formatori, animatori spirituali e catechisti, e partecipano a vari organismi parrocchiali e diocesani. In molte regioni la vita delle comunità cristiane e la missione della Chiesa sono imperniate sulla figura dei catechisti. Inoltre, i laici prestano servizio nell’ambito del safeguarding e dell’amministrazione. Il loro contributo è indispensabile per la missione della Chiesa; per questo va curata l’acquisizione delle competenze necessarie

f)  I carismi dei laici, nella loro varietà, sono doni dello Spirito Santo alla Chiesa che devono essere fatti emergere, riconosciuti e valorizzati a pieno titolo. In alcune situazioni può capitare che i laici siano chiamati a supplire alla carenza di sacerdoti, con il rischio che il carattere propriamente laicale del loro apostolato risulti sminuito. In altri contesti, può accadere che i presbiteri facciano tutto e i carismi e i ministeri dei laici vengano ignorati o sottoutilizzati. Si avverte inoltre il pericolo, espresso da molti all’Assemblea, di “clericalizzare” i laici, creando una sorta di élite laicale che perpetua le disuguaglianze e le divisioni nel Popolo di Dio.

g)  La pratica della missione ad gentes realizza un arricchimento reciproco delle Chiese, perché non coinvolge solo i missionari, ma l’intera comunità, che viene stimolata alla preghiera, alla condivisione dei beni e alla testimonianza. Anche le Chiese povere di clero non devono rinunciare a questo impegno, mentre quelle in cui c’è maggiore fioritura di vocazioni al ministero ordinato possono aprirsi alla cooperazione pastorale, in una logica genuinamente evangelica. Tutti i missionari – laici e laiche, consacrate e consacrati, diaconi e presbiteri, in particolare i membri di istituti missionari e i missionari fidei donum – in forza della loro vocazione propria, sono una risorsa importante per creare legami di conoscenza e scambio di doni.

h)  La missione della Chiesa è continuamente rinnovata e alimentata dalla celebrazione dell’Eucaristia, in particolare quando esse ne mette in primo piano il carattere comunitario e missionario.

Questioni da affrontare

i)  È necessario continuare ad approfondire la comprensione teologica delle relazioni tra carismi e ministeri in prospettiva missionaria.

j)  Il Vaticano II e il magistero successivo presentano la missione distintiva dei laici in termini di santificazione delle realtà temporali o secolari. Tuttavia, nella concretezza della pratica pastorale, a livello parrocchiale, diocesano e, recentemente, anche universale, sono sempre più spesso affidati a laici incarichi e ministeri all’interno della Chiesa. La riflessione teologica e le disposizioni canoniche devono essere conciliate con questi importanti sviluppi e impegnarsi a evitare dualismi che potrebbero compromettere la percezione dell’unità della missione della Chiesa.

k)  Nella promozione della corresponsabilità per la missione di tutti i battezzati, riconosciamo le capacità apostoliche delle persone con disabilità. Vogliamo valorizzare il contributo all’evangelizzazione che proviene dall’immensa ricchezza di umanità che portano con sé. Riconosciamo le loro esperienze di sofferenza, emarginazione, discriminazione, a volte patite anche dentro la stessa comunità cristiana.

l)  Le strutture pastorali vanno riorganizzate in modo da aiutare le comunità a far emergere, riconoscere e animare i carismi e i ministeri laicali, inserendoli nel dinamismo missionario della Chiesa sinodale. Sotto la guida dei loro pastori, le comunità saranno capaci di inviare e sostenere coloro che hanno inviato. Si concepiranno quindi principalmente a servizio della missione che i fedeli portano avanti all’interno della società, nella vita familiare e lavorativa, senza concentrarsi esclusivamente sulle attività che si svolgono al loro interno e sulle loro necessità organizzative.

m)  L’espressione “una Chiesa tutta ministeriale”, utilizzata nell’Instrumentum laboris, può prestarsi a fraintendimenti. Se ne approfondisca il significato, per chiarire eventuali ambiguità.

Proposte

n)  Si percepisce la necessità di una maggiore creatività nell’istituzione di ministeri in base alle esigenze delle Chiese locali, con un particolare coinvolgimento dei giovani. Si può pensare di ampliare ulteriormente i compiti al ministero istituito del lettore, che già oggi non si limitano al ruolo svolto durante le liturgie. In questo modo si potrebbe configurare un vero e proprio ministero della Parola di Dio, che in contesti appropriati potrebbe includere anche la predicazione. Si esplori anche la possibilità di istituire un ministero da conferire a coppie sposate impegnate a sostenere la vita familiare e ad accompagnare le persone che si preparano al sacramento del matrimonio.

o)  Si invitano le Chiese locali a individuare forme e occasioni in cui dare visibilità e riconoscimento comunitario ai carismi e ministeri che arricchiscono la comunità. Ciò potrebbe avvenire in occasione di una celebrazione liturgica entro cui si affida il mandato pastorale.

9. Le donne nella vita e nella missione della Chiesa

Convergenze

a)  Siamo stati creati maschio e femmina, a immagine e somiglianza di Dio. Fin dal principio, la creazione articola unità e differenza, conferendo a donne e uomini una natura, una vocazione e un destino condivisi e due esperienze distinte dell’umano. La Sacra Scrittura testimonia la complementarità e la reciprocità di donne e uomini. Nelle molteplici forme in cui si realizza, l’alleanza tra l’uomo e la donna è al cuore del progetto di Dio per la creazione. Gesù considerava le donne sue interlocutrici: parlava con loro del Regno di Dio e le accoglieva tra i discepoli, come ad esempio Maria di Betania. Queste donne fecero esperienza del suo potere di guarigione, liberazione e riconoscimento e camminarono con lui sulla strada dalla Galilea a Gerusalemme (cfr. Lc 8,1-3). Affidò a una donna, Maria Maddalena, il compito di annunciare la resurrezione la mattina di Pasqua.

b)  In Cristo donne e uomini sono rivestititi della medesima dignità battesimale e ricevono in ugual misura la varietà dei doni dello Spirito (cfr. Gal 3,28). Uomini e donne sono chiamati a una comunione caratterizzata da una corresponsabilità non competitiva, da incarnare a ogni livello della vita della Chiesa. Come ci ha detto Papa Francesco, insieme siamo «Popolo convocato e chiamato con la forza delle Beatitudini».

c)  Durante l’Assemblea abbiamo sperimentato la bellezza della reciprocità tra donne e uomini. Insieme rilanciamo l’appello delle precedenti fasi del processo sinodale, e chiediamo alla Chiesa di crescere nell’impegno di comprendere e accompagnare le donne, dal punto di vista pastorale e sacramentale. Le donne desiderano condividere l’esperienza spirituale di camminare verso la santità nelle diverse fasi della vita: da giovani, come madri, nelle relazioni di amicizia, nella vita familiare a tutte le età, nel mondo del lavoro e nella vita consacrata. Reclamano giustizia in società ancora profondamente segnate da violenza sessuale e disuguaglianze economiche, e dalla tendenza a trattarle come oggetti. Portano le cicatrici della tratta di esseri umani, delle migrazioni forzate e delle guerre. Accompagnamento e decisa promozione delle donne vanno di pari passo.

d)  Le donne costituiscono la maggioranza di coloro che frequentano le chiese e sono spesso le prime missionarie della fede in famiglia. Le consacrate, nella vita contemplativa e in quella apostolica, costituiscono un dono, un segno e una testimonianza di fondamentale importanza in mezzo a noi. La lunga storia di donne missionarie, sante, teologhe e mistiche è una potente sorgente di ispirazione e nutrimento per le donne e gli uomini del nostro tempo.

e)  Maria di Nazareth, donna di fede e madre di Dio, resta per tutti una straordinaria fonte di significato dal punto di vista teologico, ecclesiale e spirituale. Maria ci ricorda la chiamata universale ad ascoltare con attenzione Dio e a rimanere aperti allo Spirito Santo. Ha conosciuto la gioia di dare alla luce e fare crescere e ha sopportato dolore e sofferenza. Ha partorito in condizioni di precarietà, ha fatto l’esperienza di essere rifugiata e ha vissuto lo strazio della brutale uccisione di suo Figlio. Ma ha anche conosciuto lo splendore della risurrezione e la gloria di Pentecoste.

f)  Molte donne hanno espresso profonda gratitudine per il lavoro di sacerdoti e Vescovi, ma hanno anche parlato di una Chiesa che ferisce. Clericalismo, maschilismo e un uso inappropriato dell’autorità continuano a sfregiare il volto della Chiesa e danneggiano la comunione. È necessaria una profonda conversione spirituale come base per qualsiasi cambiamento strutturale. Abusi sessuali, di potere ed economici continuano a chiedere giustizia, guarigione e riconciliazione. Chiediamo come la Chiesa possa diventare uno spazio capace di proteggere tutti.

g)  Quando nella Chiesa si ledono la dignità e la giustizia nei rapporti tra uomini e donne, risulta indebolita la credibilità dell’annuncio che indirizziamo al mondo. Il processo sinodale mostra che c’è bisogno di un rinnovamento delle relazioni e di cambiamenti strutturali. In questo modo saremo in grado di accogliere meglio la partecipazione e il contributo di tutti – laici e laiche, consacrate e consacrati, diaconi, preti e Vescovi – quali discepoli corresponsabili della missione.

h)  L’Assemblea chiede di evitare di ripetere l’errore di parlare delle donne come di una questione o un problema. Desideriamo invece promuovere una Chiesa in cui uomini e donne dialogano allo scopo di comprendere meglio la profondità del disegno di Dio, in cui appaiono insieme come protagonisti, senza subordinazione, esclusione, né competizione.

Questioni da affrontare

i)  Le Chiese di tutto il mondo hanno formulato con chiarezza la richiesta di un maggiore riconoscimento e valorizzazione del contributo delle donne e di una crescita delle responsabilità pastorali loro affidate in tutte le aree della vita e della missione della Chiesa. Per dare migliore espressione ai carismi di tutti e rispondere meglio ai bisogni pastorali, come la Chiesa può inserire più donne nei ruoli e nei ministeri esistenti? Se servono nuovi ministeri a chi spetta il discernimento, a quale livello e con che modalità?

j)  Sono state espresse posizioni diverse in merito all’accesso delle donne al ministero diaconale. Alcuni considerano che questo passo sarebbe inaccettabile in quanto in discontinuità con la Tradizione. Per altri, invece, concedere alle donne l’accesso al diaconato ripristinerebbe una pratica della Chiesa delle origini. Altri ancora discernono in questo passo una risposta appropriata e necessaria ai segni dei tempi, fedele alla Tradizione e capace di trovare eco nel cuore di molti che cercano una rinnovata vitalità ed energia nella Chiesa. Alcuni esprimono il timore che questa richiesta sia espressione di una pericolosa confusione antropologica, accogliendo la quale la Chiesa si allineerebbe allo spirito del tempo.

k)  Il dibattito a riguardo è anche connesso alla più ampia riflessione sulla teologia del diaconato (cfr. infra cap. 11, h – i).

Proposte
l) Le Chiese locali sono incoraggiate, in particolare, ad allargare il loro servizio di ascolto, accompagnamento e cura alle donne che nei diversi contesti sociali risultano più emarginate.

m)  È urgente garantire che le donne possano partecipare ai processi decisionali e assumere ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero. Il Santo Padre ha aumentato in modo significativo il numero di donne in posizioni di responsabilità nella Curia Romana. Lo stesso dovrebbe accadere agli altri livelli della vita della Chiesa. Occorre adattare il diritto canonico di conseguenza.

n)  Si prosegua la ricerca teologica e pastorale sull’accesso delle donne al diaconato, giovandosi dei risultati delle commissioni appositamente istituite dal Santo Padre e delle ricerche teologiche, storiche ed esegetiche già effettuate. Se possibile, i risultati dovrebbero essere presentati alla prossima Sessione dell’Assemblea.

o)  I casi di discriminazione lavorativa e remunerazione iniqua all’interno della Chiesa siano affrontati e risolti, in particolare per quanto riguarda le consacrate che troppo spesso sono considerate manodopera a basso prezzo.

p)  C’è bisogno di ampliare l’accesso delle donne ai programmi di formazione e agli studi teologici. Le donne siano inserite nei programmi di insegnamento e formazione dei seminari per favorire una migliore formazione al ministero ordinato.

q)  I testi liturgici e i documenti della Chiesa siano più attenti non solo all’uso di un linguaggio che tenga in ugual conto uomini e donne, ma anche all’inserimento di una gamma di parole, immagini e racconti che attingano con maggiore vitalità all’esperienza femminile.

r)  Proponiamo che donne adeguatamente formate possano essere giudici in tutti i processi canonici.

10. La vita consacrata e le aggregazioni laicali: un segno carismatico

Convergenze

a)  Lungo il corso dei secoli la Chiesa ha sempre sperimentato il dono dei carismi grazie ai quali lo Spirito Santo la fa ringiovanire e la rinnova, dai più straordinari a quello più semplici e largamente diffusi. Con gioia e gratitudine, il Santo Popolo di Dio riconosce in essi l’aiuto provvidenziale con cui Dio stesso sostiene, orienta e illumina la sua missione.

b)  La dimensione carismatica della Chiesa ha una particolare manifestazione nella vita consacrata, con la ricchezza e la varietà delle sue forme. La sua testimonianza ha contribuito in ogni tempo a rinnovare la vita della comunità ecclesiale, rivelandosi un antidoto rispetto alla tentazione ricorrente della mondanità. Le diverse famiglie religiose mostrano la bellezza della sequela del Signore, sul monte della preghiera e sulle strade del mondo, nelle forme di vita comunitaria, nella solitudine del deserto e sulla frontiera delle sfide culturali. La vita consacrata più di una volta è stata la prima a intuire i cambiamenti della storia e cogliere gli appelli dello Spirito: anche oggi la Chiesa ha bisogno della sua profezia. La comunità cristiana guarda inoltre con attenzione e gratitudine alle sperimentate pratiche di vita sinodale e di discernimento in comune che le comunità di vita consacrata hanno maturato lungo i secoli. Anche da esse sappiamo di poter apprendere la sapienza del camminare insieme. Molte Congregazioni e Istituti praticano la conversazione nello Spirito o forme analoghe di discernimento nello svolgimento dei Capitoli provinciali e generali, per rinnovare le strutture, ripensare gli stili di vita, attivare nuove forme di servizio e di vicinanza ai più poveri. In altri casi si riscontra però il perdurare di uno stile autoritario, che non fa spazio al dialogo fraterno.

c) Con pari gratitudine, il Popolo di Dio riconosce i fermenti di rinnovamento presenti in comunità che hanno una lunga storia e nella fioritura di nuove esperienze di aggregazione ecclesiale. Associazioni laicali, movimenti ecclesiali e nuove comunità sono segno prezioso della maturazione della corresponsabilità di tutti i battezzati. Il loro valore risiede nella promozione della comunione tra le diverse vocazioni, nello slancio con cui annunciano il Vangelo, nella prossimità a coloro che vivono una marginalità economica o sociale e nell’impegno per la promozione del bene comune. Sono spesso modelli di comunione sinodale e di partecipazione in vista della missione.

d) I casi di abuso di vario genere a danno di persone consacrate e membri di aggregazioni laicali, in particolare donne, segnala un problema nell’esercizio dell’autorità e richiede interventi decisi e appropriati.

Questioni da affrontare

e)  Il magistero della Chiesa ha sviluppato un ampio insegnamento sull’importanza dei doni gerarchici e doni carismatici nella vita e nella missione della Chiesa, che richiede una migliore comprensione nella coscienza ecclesiale e nella stessa riflessione teologica. È necessario perciò interrogarsi sul significato ecclesiologico e sulle concrete implicazioni pastorali di questa acquisizione.

f)  La varietà di espressioni carismatiche all’interno della Chiesa sottolinea l’impegno del Popolo fedele di Dio a vivere la profezia della vicinanza agli ultimi e ad illuminare la cultura con una più profonda esperienza delle realtà spirituali. Occorre approfondire in che modo la vita consacrata, le associazioni laicali, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità possano mettere i loro carismi a servizio della comunione e missione nelle Chiese locali, contribuendo a far progredire verso santità grazie a una presenza che è profetica.

Proposte

g)  Riteniamo che sia maturo il tempo per una revisione dei «criteri direttivi sui rapporti tra i Vescovi e i Religiosi nella Chiesa» proposti nel documento Mutuae relationes del 1978. Proponiamo che tale revisione sia condotta in stile sinodale, includendo tutti coloro che sono coinvolti.

h)  Allo stesso fine, le Conferenze Episcopali e le Conferenze delle Superiore e dei Superiori Maggiori degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica attivino luoghi e strumenti adeguati a promuovere incontri e forme di collaborazione in spirito sinodale.

i)  A livello sia delle singole Chiese locali sia dei raggruppamenti di Chiese, la promozione della sinodalità missionaria esige l’istituzione e una più precisa configurazione delle Consulte e dei Consigli in cui convergono i rappresentanti di Associazioni laicali, Movimenti ecclesiali e nuove Comunità per promuovere relazioni organiche tra queste realtà e la vita delle Chiese locali.

j)  Nei percorsi di formazione teologica a tutti i livelli, soprattutto nella formazione dei ministri ordinati, si verifichi l’attenzione prestata alla dimensione carismatica della Chiesa e, ove necessario, la si rafforzi.

11. Diaconi e presbiteri in una Chiesa sinodale

Convergenze

a)  I presbiteri sono i principali cooperatori del Vescovo e formano con lui un unico presbiterio (cfr. LG 28); i diaconi, ordinati per il ministero, servono il Popolo di Dio nella diaconia della Parola, della liturgia, ma soprattutto della carità (cfr. LG 29). Nei loro confronti l’Assemblea sinodale esprime anzitutto profonda gratitudine. Consapevole che possono sperimentare solitudine e isolamento, raccomanda alle comunità cristiane di sostenerli con la preghiera, l’amicizia, la collaborazione.

b)  Diaconi e presbiteri sono impegnati nelle forme più diverse del ministero pastorale: il servizio nelle parrocchie, l’evangelizzazione, la prossimità a poveri ed emarginati, l’impegno nel mondo della cultura e dell’educazione, la missione ad gentes, la ricerca teologica, l’animazione di centri di spiritualità e molti altri. In una Chiesa sinodale i ministri ordinati sono chiamati a vivere il loro servizio al Popolo di Dio in un atteggiamento di vicinanza alle persone, di accoglienza e di ascolto di tutti e a coltivare una profonda spiritualità personale e una vita di preghiera. Soprattutto sono chiamati a ripensare l’esercizio dell’autorità sul modello di Gesù che, «pur essendo nella condizione di Dio, […] svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo» (Fil 2, 6-7). L’Assemblea riconosce che molti presbiteri e diaconi rendono visibile con la loro dedizione il volto di Cristo Buon Pastore e Servo.

c)  Un ostacolo al ministero e alla missione è costituito dal clericalismo. Esso nasce dal fraintendimento della chiamata divina, che conduce a concepirla più come un privilegio che come un servizio, e si manifesta in uno stile di potere mondano che rifiuta di rendere conto. Questa deformazione del sacerdozio deve essere contrastata fin dalle prime fasi della formazione, grazie a un contatto vivo con la quotidianità del Popolo di Dio e un’esperienza concreta di servizio ai più bisognosi. Non si può immaginare oggi il ministero del presbitero se non in rapporto al Vescovo, nel presbiterio, in profonda comunione con gli altri ministeri e carismi. Purtroppo il clericalismo è un atteggiamento che può manifestarsi non solo nei ministri, ma anche nei laici.

d)  La consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti è un requisito per impegnarsi nel ministero ordinato con uno stile di corresponsabilità. Per questo la formazione umana deve garantire un percorso di conoscenza realistica di sé, che si integri con la crescita culturale, spirituale e apostolica. In tale percorso, non va sottovalutato l’apporto della famiglia di origine e della comunità cristiana, entro cui il giovane ha maturato la vocazione, e di altre famiglie che accompagnano la sua crescita.

Questioni da affrontare

e)  Nella prospettiva della formazione di tutti i battezzati per una Chiesa sinodale, quella di diaconi e preti richiede particolare attenzione. È stata ampiamente espressa la richiesta che i seminari o altri percorsi di formazione dei candidati al ministero siano collegati alla vita quotidiana delle comunità. Occorre evitare i rischi del formalismo e dell’ideologia che portano ad atteggiamenti autoritari e impediscono una vera crescita vocazionale. Il ripensamento degli stili e dei percorsi formativi richiede un’ampia opera di revisione e di confronto.

f)  Sono state espresse valutazioni diverse sul celibato dei presbiteri. Tutti ne apprezzano il valore carico di profezia e la testimonianza di conformazione a Cristo; alcuni chiedono se la sua convenienza teologica con il ministero presbiterale debba necessariamente tradursi nella Chiesa latina in un obbligo disciplinare, soprattutto dove i contesti ecclesiali e culturali lo rendono più difficile. Si tratta di un tema non nuovo, che richiede di essere ulteriormente ripreso.

Proposte

g)  Nelle Chiese latine il diaconato permanente è stato attuato in modi diversi nei vari contesti ecclesiali. Alcune Chiese locali non l’hanno introdotto affatto; in altre, si teme che i diaconi vengano percepiti come una sorta di rimedio alla carenza di preti. Talvolta la loro ministerialità si esprime nella liturgia piuttosto che nel servizio ai poveri e bisognosi della comunità. Si raccomanda pertanto di effettuare una valutazione sull’attuazione del ministero diaconale dopo il Concilio Vaticano II.

h)  Sotto il profilo teologico, emerge l’esigenza di comprendere il diaconato anzitutto in se stesso, e non solo come una tappa di accesso al presbiterato. Lo stesso uso linguistico di qualificare come “permanente” la forma primaria di diaconato, per distinguerla da quella “transitoria”, è la spia di un cambio di prospettiva non ancora adeguatamente realizzato.

i)  Le incertezze che circondano la teologia del ministero diaconale sono dovute anche al fatto che nella Chiesa latina esso è stato ripristinato come grado proprio e permanente della gerarchia solo a partire dal Concilio Vaticano II. Una più approfondita riflessione a riguardo consentirà di illuminare anche la questione dell’accesso delle donne al diaconato.

j)  Si richiede una verifica approfondita della formazione al ministero ordinato alla luce della prospettiva della Chiesa sinodale missionaria. Ciò implica la revisione della Ratio fundamentalis che ne determina il profilo. Raccomandiamo allo stesso tempo di curare la formazione permanente dei presbiteri e dei diaconi in senso sinodale.

k)  La dimensione della trasparenza e la cultura del rendiconto rappresentano un elemento di cruciale importanza per procedere nella costruzione di una Chiesa sinodale. Chiediamo alle Chiese locali di identificare processi e strutture che permettano una regolare verifica delle modalità di esercizio del ministero di sacerdoti e diaconi che svolgono ruoli di responsabilità. Istituti già esistenti, come gli organismi di partecipazione o le visite pastorali, possono costituire il punto di partenza per questo lavoro, curando il coinvolgimento della comunità. In ogni caso, tali forme dovranno essere adattate ai contesti locali e alle diverse culture, per non risultare un intralcio o un appesantimento burocratico. Per questo l’ambito regionale o continentale potrebbe essere quello più opportuno per un loro discernimento.

l)  Si consideri, valutando caso per caso e a seconda dei contesti, l’opportunità di inserire presbiteri che hanno lasciato il ministero in un servizio pastorale che valorizzi la loro formazione e la loro esperienza.

12. Il Vescovo nella comunione ecclesiale

Convergenze

a) Nella prospettiva del Concilio Vaticano II i Vescovi, come successori degli Apostoli, sono posti al servizio della comunione che si realizza nella Chiesa locale, tra le Chiese e con la Chiesa tutta intera. La figura del Vescovo può dunque adeguatamente essere compresa nell’intreccio delle relazioni con la porzione del Popolo di Dio a lui affidata, con il presbiterio e con i diaconi, con le persone consacrate, con gli altri Vescovi e con il Vescovo di Roma, in una prospettiva sempre orientata alla missione.

b) Il Vescovo è, nella sua Chiesa, il primo responsabile dell’annuncio del Vangelo e della liturgia. Guida la comunità cristiana e promuove la cura dei poveri e la difesa degli ultimi. Quale principio visibile di unità, ha in particolare il compito di discernere e coordinare i diversi carismi e ministeri suscitati dallo Spirito per l’annuncio del Vangelo e il bene comune della comunità. Tale ministero viene realizzato in modo sinodale quando il governo è esercitato nella corresponsabilità, la predicazione dall’ascolto del Popolo fedele di Dio, la santificazione e la celebrazione liturgica dall’umiltà e dalla conversione.

c) Il Vescovo ha un ruolo insostituibile nell’avviare e animare il processo sinodale nella Chiesa locale, promuovendo la circolarità tra “tutti, alcuni e uno”. Il ministero episcopale (l’uno) valorizza la partecipazione di “tutti” i fedeli, grazie all’apporto di “alcuni” più direttamente coinvolti in processi di discernimento e di decisione (organismi di partecipazione e di governo). La convinzione con cui il Vescovo assume la prospettiva sinodale e lo stile con cui esercita l’autorità influenzano in modo determinante la partecipazione di preti e diaconi, laici e laiche, consacrate e consacrati. Per tutti, il Vescovo è chiamato a essere esempio di sinodalità.

d) Nei contesti in cui la Chiesa è percepita come famiglia di Dio, il Vescovo è considerato come il padre di tutti; nelle società secolarizzate invece si sperimenta una crisi della sua autorità. È importante non perdere il riferimento alla natura sacramentale dell’episcopato, per non assimilare la figura del Vescovo a un’autorità civile.

e) Le attese nei confronti del Vescovo spesso sono molto alte, e molti Vescovi lamentano un sovraccarico di impegni amministrativi e giuridici, che rende difficile realizzare in pieno la loro missione. Anche il Vescovo deve fare i conti con la propria fragilità e i propri limiti e non sempre trova sostegno umano e supporto spirituale. Non è rara l’esperienza sofferta di una certa solitudine. Per questo è importante da un lato tornare a mettere al centro dell’attenzione gli aspetti essenziali della missione del Vescovo, dall’altro coltivare un’autentica fraternità fra Vescovi e con il presbiterio.

Questioni da affrontare

f) Sul piano teologico, va maggiormente approfondito il significato del legame di reciprocità tra il Vescovo e la Chiesa locale. Egli è chiamato a guidarla e, nello stesso tempo, a riconoscere e custodire la ricchezza della sua storia, della sua tradizione e dei carismi in essa presenti.

g) Va approfondita la questione del rapporto tra sacramento dell’Ordine e giurisdizione, alla luce del magistero conciliare di Lumen gentium e degli insegnamenti più recenti, come la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium, per precisare i criteri teologici e canonici che sono alla base del principio di condivisione delle responsabilità del Vescovo e determinare ambiti, forme e implicazioni della corresponsabilità.

h) Alcuni Vescovi manifestano disagio quando viene loro richiesto di intervenire su questioni di fede e di morale su cui nell’episcopato non c’è pieno accordo. È necessario riflettere ulteriormente sulla relazione tra collegialità episcopale e diversità di vedute teologiche e pastorali.

i) Una cultura della trasparenza e il rispetto delle procedure previste per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili sono parte integrante di una Chiesa sinodale. è necessario sviluppare ulteriormente strutture dedicate alla prevenzione degli abusi. La questione delicata della gestione degli abusi pone molti Vescovi nella difficoltà di conciliare il ruolo di padre e quello di giudice. Si chiede di valutare l’opportunità di affidare il compito giudiziale a un’altra istanza, da precisare canonicamente.

Proposte

j)

abusi. k)

l)

m)

13. Il Vescovo di Roma nel Collegio dei Vescovi

Convergenze

a)  La dinamica sinodale getta nuova luce anche sul ministero del Vescovo di Roma. La sinodalità, infatti, articola in modo sinfonico le dimensioni comunitaria (“tutti”), collegiale (“alcuni”) e personale (“uno”) della Chiesa a livello locale, regionale e universale. In tale visione, il ministero petrino del Vescovo di Roma è intrinseco alla dinamica sinodale, come lo sono pure l’aspetto comunitario che include tutto il Popolo di Dio e la dimensione collegiale del ministero episcopale. Per questo, sinodalità, collegialità e primato si richiamano a vicenda: il primato presuppone l’esercizio della sinodalità e della collegialità, così come entrambe implicano l’esercizio del primato.

b)  La promozione dell’unità di tutti i cristiani è un aspetto essenziale del ministero del Vescovo di Roma. Il cammino ecumenico ha permesso di approfondire la comprensione del ministero del Successore di Pietro e deve continuare a farlo anche in futuro. Le risposte all’invito rivolto da S. Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint, come pure le conclusioni dei dialoghi ecumenici, possono aiutare alla comprensione cattolica del primato, della collegialità, della sinodalità e delle loro relazioni reciproche.

c)  La riforma della Curia Romana è un aspetto importante del percorso sinodale della Chiesa cattolica. La Costituzione apostolica Praedicate evangelium insiste sul fatto che «la Curia Romana non si colloca tra il Papa e i Vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi secondo le modalità che sono proprie della natura di ciascuno» (PE I.8). Promuove una riforma basata

Proposte

j) Siano attivati, in forme giuridicamente da definire, strutture e processi di verifica regolare dell’operato del Vescovo, con riferimento allo stile della sua autorità, all’amministrazione economica dei beni della diocesi, al funzionamento degli organismi di partecipazione e alla tutela nei confronti di ogni tipo di abuso. La cultura del rendiconto è parte integrante di una Chiesa sinodale che promuove la corresponsabilità, oltre che un possibile presidio contro gli abusi

k) Si richiede di rendere obbligatorio il Consiglio episcopale (can. 473 §4) e il Consiglio pastorale diocesano o eparchiale (CIC can. 511, CCEU can. 272) e di rendere più operativi, anche a livello di diritto, gli organismi diocesani di corresponsabilità.

l) L’Assemblea chiede di avviare una verifica dei criteri di selezione dei candidati all’episcopato, equilibrando l’autorità del Nunzio apostolico con la partecipazione della Conferenza Episcopale. Si richiede anche di ampliare la consultazione del Popolo di Dio, ascoltando un maggior numero di laici e laiche, consacrate e consacrati e avendo cura di evitare pressioni inopportune.

m) Molti Vescovi manifestano l’esigenza di ripensare il funzionamento e rafforzare la struttura delle Metropolie (province ecclesiastiche) e delle Regioni, perché siano espressione concreta di collegialità in un territorio e ambiti in cui i Vescovi possano fare esperienza di fraternità, sostegno reciproco, trasparenza e più ampia consultazione.

13. Il Vescovo di Roma nel Collegio dei Vescovi

Convergenze

a)  La dinamica sinodale getta nuova luce anche sul ministero del Vescovo di Roma. La sinodalità, infatti, articola in modo sinfonico le dimensioni comunitaria (“tutti”), collegiale (“alcuni”) e personale (“uno”) della Chiesa a livello locale, regionale e universale. In tale visione, il ministero petrino del Vescovo di Roma è intrinseco alla dinamica sinodale, come lo sono pure l’aspetto comunitario che include tutto il Popolo di Dio e la dimensione collegiale del ministero episcopale. Per questo, sinodalità, collegialità e primato si richiamano a vicenda: il primato presuppone l’esercizio della sinodalità e della collegialità, così come entrambe implicano l’esercizio del primato.

b)  La promozione dell’unità di tutti i cristiani è un aspetto essenziale del ministero del Vescovo di Roma. Il cammino ecumenico ha permesso di approfondire la comprensione del ministero del Successore di Pietro e deve continuare a farlo anche in futuro. Le risposte all’invito rivolto da S. Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint, come pure le conclusioni dei dialoghi ecumenici, possono aiutare alla comprensione cattolica del primato, della collegialità, della sinodalità e delle loro relazioni reciproche.

c)  La riforma della Curia Romana è un aspetto importante del percorso sinodale della Chiesa cattolica. La Costituzione apostolica Praedicate evangelium insiste sul fatto che «la Curia Romana non si colloca tra il Papa e i Vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi secondo le modalità che sono proprie della natura di ciascuno» (PE I.8). Promuove una riforma basata

Siano attivati, in forme giuridicamente da definire, strutture e processi di verifica regolare dell’operato del Vescovo, con riferimento allo stile della sua autorità, all’amministrazione economica dei beni della diocesi, al funzionamento degli organismi di partecipazione e alla tutela nei confronti di ogni tipo di abuso. La cultura del rendiconto è parte integrante di una Chiesa sinodale che promuove la corresponsabilità, oltre che un possibile presidio contro gli

Si richiede di rendere obbligatorio il Consiglio episcopale (can. 473 §4) e il Consiglio pastorale diocesano o eparchiale (CIC can. 511, CCEU can. 272) e di rendere più operativi, anche a livello

di diritto, gli organismi diocesani di corresponsabilità.

L’Assemblea chiede di avviare una verifica dei criteri di selezione dei candidati all’episcopato, equilibrando l’autorità del Nunzio apostolico con la partecipazione della Conferenza Episcopale. Si richiede anche di ampliare la consultazione del Popolo di Dio, ascoltando un maggior numero di laici e laiche, consacrate e consacrati e avendo cura di evitare pressioni inopportune.

Molti Vescovi manifestano l’esigenza di ripensare il funzionamento e rafforzare la struttura delle Metropolie (province ecclesiastiche) e delle Regioni, perché siano espressione concreta di collegialità in un territorio e ambiti in cui i Vescovi possano fare esperienza di fraternità, sostegno reciproco, trasparenza e più ampia consultazione.

c)  La riforma della Curia Romana è un aspetto importante del percorso sinodale della Chiesa cattolica. La Costituzione apostolica Praedicate evangelium insiste sul fatto che «la Curia Romana non si colloca tra il Papa e i Vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi secondo le modalità che sono proprie della natura di ciascuno» (PE I.8). Promuove una riforma basata  sulla «vita di comunione» (PE I.4) e su una “salutare decentralizzazione” (EG 16, cit. in PE II.2). Il fatto che molti membri dei Dicasteri romani siano Vescovi diocesani esprime la cattolicità della Chiesa e dovrebbe favorire la relazione tra la Curia e le Chiese locali. L’effettiva attuazione della Praedicate evangelium potrà favorire una maggiore sinodalità in seno alla Curia, sia tra i diversi Dicasteri sia in ognuno di essi.

Questioni da affrontare

d)  Viene richiesto un approfondimento sul modo in cui una rinnovata comprensione dell’episcopato all’interno di una Chiesa sinodale incida sul ministero del Vescovo di Roma e sul ruolo della Curia Romana. Tale questione ha significative ricadute sul modo di vivere la corresponsabilità nel governo della Chiesa. A livello universale, il Codice di Diritto Canonico e il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali offrono disposizioni per un esercizio più collegiale del ministero papale. Queste potrebbero essere ulteriormente sviluppate nella pratica e rafforzate in un futuro aggiornamento di entrambi i testi.

e)  La sinodalità può fare luce sulle modalità di collaborazione del collegio dei Cardinali al ministero petrino e sulle forme attraverso cui promuovere il loro discernimento collegiale nei Concistori ordinari e straordinari.

f)  È importante per il bene della Chiesa studiare i modi più opportuni per favorire la mutua conoscenza e i legami di comunione tra i membri del Collegio dei Cardinali, tenuto conto anche della loro diversità di provenienza e di cultura.

Proposte

g)  Le Visite ad limina Apostolorum sono il momento più alto delle relazioni dei Pastori delle Chiese locali con il Vescovo di Roma e con i suoi più stretti collaboratori nella Curia Romana. Si riveda la forma in cui si realizzano in modo da renderle sempre di più occasioni di uno scambio aperto e reciproco che favorisca la comunione e un vero esercizio di collegialità e sinodalità.

h)  Alla luce della configurazione sinodale della Chiesa, è necessario che i Dicasteri della Curia Romana valorizzino la consultazione dei Vescovi, per una maggiore attenzione alla diversità di situazioni e un ascolto più attento della voce delle Chiese locali.

i)  Appare opportuno prevedere forme di valutazione dell’operato dei Rappresentanti Pontifici da parte delle Chiese locali dei Paesi dove svolgono la loro missione, al fine di agevolare e perfezionare il loro servizio.

j)  Si propone di valorizzare e rafforzare l’esperienza del Consiglio dei Cardinali (C-9) come consiglio sinodale a servizio del ministero petrino.

k)  Alla luce dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, occorre esaminare attentamente se è opportuno ordinare i prelati della Curia romana Vescovi.

PARTE III – TESSERE LEGAMI, COSTRUIRE COMUNITÀ

14. Un approccio sinodale alla formazione

Convergenze

a)  Prendersi cura della propria formazione è la risposta che ogni battezzato è chiamato a dare ai doni del Signore, per far fruttificare i talenti ricevuti e metterli a servizio di tutti. Il tempo che il Signore ha dedicato alla formazione dei discepoli rivela l’importanza di questa azione ecclesiale, spesso poco appariscente ma decisiva per la missione. Sentiamo di esprimere una parola di ringraziamento e incoraggiamento a tutti coloro che sono impegnati in questo ambito e li invitiamo a cogliere gli elementi di novità che emergono dal cammino sinodale della Chiesa.

b)  Il modo in cui Gesù ha formato i discepoli costituisce il modello a cui riferirci. Egli non si è limitato a impartire qualche insegnamento, ma ha condiviso con loro la vita. Con la sua preghiera ha suscitato la domanda: “Insegnaci a pregare”; sfamando le folle ha insegnato a non congedare i bisognosi; camminando verso Gerusalemme, ha indicato la via della Croce. Dal Vangelo impariamo che la formazione non è solo né primariamente un potenziamento delle proprie capacità: essa è conversione alla logica del Regno che può rendere feconde anche le sconfitte e i fallimenti.

c)  Il Santo Popolo di Dio non è solo oggetto, ma è prima di tutto soggetto corresponsabile della formazione. La prima formazione, di fatto, avviene in famiglia. È lì che non di rado riceviamo il primo annuncio della fede, nella lingua – anzi nel dialetto – dei nostri genitori e dei nostri nonni. L’apporto di coloro che svolgono un ministero nella Chiesa deve dunque intrecciarsi con la sapienza dei semplici in un’alleanza educativa che è indispensabile alla comunità. È questo il primo segno di una formazione intesa in senso sinodale

d)  Nell’iniziazione cristiana troviamo le grandi linee direttrici per i percorsi formativi. Al centro della formazione c’è l’approfondimento del kerygma, cioè dell’incontro con Gesù Cristo che ci offre il dono di una nuova vita. La logica catecumenale ci ricorda che siamo tutti peccatori chiamati alla santità. Per questo ci impegniamo in cammini di conversione che il sacramento della Riconciliazione porta a compimento e alimentiamo il desiderio della santità, sostenuti da un gran numero di testimoni.

e)  Gli ambi8 in cui la formazione del Popolo di Dio si declina sono mol8. Oltre alla formazione teologica, è stata menzionata quella rela8va a una serie di competenze specifiche: esercizio della corresponsabilità, ascolto, discernimento, dialogo ecumenico e interreligioso, servizio ai poveri e cura della casa comune, impegno come “missionari digitali”, facilitazione dei processi di discernimento e conversazione nello Spirito, costruzione del consenso e risoluzione dei conflix. Va dedicata par8colare aWenzione alla formazione cateche8ca dei bambini e dei giovani, che dovrebbe comportare la partecipazione axva della comunità.

f)  La formazione per una Chiesa sinodale richiede di essere intrapresa in modo sinodale: tutto il Popolo di Dio si forma insieme mentre cammina insieme. Occorre superare la mentalità di delega che si ritrova in tanti ambiti della pastorale. Una formazione in chiave sinodale ha lo scopo di permettere al Popolo di Dio di vivere pienamente la propria vocazione battesimale, in famiglia, nei luoghi di lavoro, in ambito ecclesiale, sociale e intellettuale, e di rendere ciascuno capace di partecipare attivamente alla missione della Chiesa secondo i propri carismi e la propria vocazione.

Questioni da affrontare
g)  Raccomandiamo di approfondire il tema dell’educazione affettiva e sessuale, per accompagnare i giovani nel loro cammino di crescita e per sostenere la maturazione affettiva di coloro che sono chiamati al celibato e alla castità consacrata, La formazione in questi ambiti è un aiuto necessario in tutte le stagioni della vita.

h)  È importante approfondire il dialogo tra le scienze umane, soprattutto la psicologia, e la teologia, per una comprensione dell’esperienza umana che non si limiti a giustapporre i loro apporti, ma li integri in una sintesi più matura.

i)  Il Popolo di Dio deve essere ampiamente rappresentato nella formazione dei ministri ordinati, come già richiesto da Sinodi precedenti. Serve un’ampia revisione dei programmi formativi, con particolare attenzione al modo di valorizzare l’apporto femminile e il contributo delle famiglie.

j)  Le Conferenze Episcopali sono incoraggiate a lavorare a livello regionale per creare insieme una cultura della formazione permanente, utilizzando tutte le risorse disponibili, compreso lo sviluppo di opzioni digitali.

Proposte

k)  Alla luce della sinodalità, proponiamo di privilegiare, per quanto possibile, proposte formative congiunte rivolte a tutto il Popolo di Dio (laici, consacrati e ministri ordinati). Tocca alle diocesi incoraggiare questi progetti a livello locale. Incoraggiamo le Conferenze Episcopali a lavorare insieme a livello regionale per creare insieme una cultura della formazione permanente, utilizzando tutte le risorse disponibili, compreso lo sviluppo di opzioni digitali.

l)  Le diverse componenti del Popolo di Dio siano rappresentate nei percorsi di formazione al ministero ordinato, secondo quanto già richiesto da Sinodi precedenti. Di particolare importanza è il coinvolgimento di figure femminili.

m)  Servono adeguati processi di selezione dei candidati al ministero ordinato e si rispettino i requisiti relativi ai programmi propedeutici.

n)  La formazione dei ministri ordinati va pensata in coerenza con una Chiesa sinodale, nei diversi contesti. Ciò richiede che i candidati al ministero, prima di intraprendere cammini specifici, abbiano maturato una reale, sebbene iniziale, esperienza di comunità cristiana. Il cammino formativo non dovrà creare un ambiente artificiale, separato dalla vita comune dei fedeli. Salvaguardando le esigenze della formazione al ministero, favorirà un autentico spirito di servizio al Popolo di Dio nella predicazione, nella celebrazione dei sacramenti e nell’animazione della carità. Ciò potrà richiedere una revisione della Ratio Fundamentalis per i sacerdoti e i diaconi permanenti.

o)  In vista della prossima Sessione dell’Assemblea, si propone di realizzare una consultazione dei responsabili della formazione iniziale e permanente dei presbiteri per valutare la ricezione del processo sinodale e proporre i cambiamenti necessari per promuovere l’esercizio dell’autorità in uno stile appropriato a una Chiesa sinodale.

15. Discernimento ecclesiale e questioni aperte

Convergenze

a)  L’esperienza della conversazione nello Spirito è stata arricchente per tutti coloro che vi hanno preso parte. In particolare si è apprezzato uno stile di comunicazione che privilegia la libertà nell’espressione dei propri punti di vista e l’ascolto reciproco. Ciò evita di passare troppo rapidamente a un dibattito basato sulla reiterazione dei propri argomenti, che non lascia lo spazio e il tempo per rendersi conto delle ragioni dell’altro.

b)  Questo atteggiamento di fondo crea un contesto favorevole per approfondire questioni che risultano controverse anche all’interno della Chiesa, quali gli effetti antropologici delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale, la non violenza e la legittima difesa, le problematiche relative al ministero, i temi connessi con la corporeità e la sessualità e altri ancora.

c)  Per sviluppare un autentico discernimento ecclesiale in questi e altri ambiti, è necessario integrare, alla luce della Parola di Dio e del Magistero, una base informativa più ampia e una componente riflessiva più articolata. Per evitare di rifugiarsi nella comodità di formule convenzionali, va istruito un confronto con il punto di vista delle scienze umane e sociali, della riflessione filosofica e della elaborazione teologica.

d)  Tra le questioni su cui è importante continuare la riflessione, vi è quella della relazione tra amore e verità e le ricadute che essa ha su molte questioni controverse. Tale relazione, prima di essere una sfida, è in realtà una grazia che abita la rivelazione cristologica. Gesù infatti ha portato a compimento la promessa che si legge nei salmi: «Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,11-12).

e)  Le pagine del Vangelo mostrano che Gesù incontra le persone nella unicità della loro storia e situazione. Egli non parte mai da pregiudizi o etichette, ma da una relazione autentica in cui si coinvolge con tutto se stesso, anche al prezzo di esporsi all’incomprensione e al rifiuto. Gesù ascolta sempre il grido di aiuto di chi ha bisogno, anche quando rimane inespresso; compie gesti che trasmettono amore e restituiscono fiducia; rende possibile con la sua presenza una nuova vita: chi lo incontra ne esce trasformato. Ciò avviene perché la verità di cui Gesù è portatore non è un’idea, ma la stessa presenza di Dio in mezzo a noi; e l’amore con cui agisce non è solo un sentimento, ma la giustizia del Regno che cambia la storia.

f)  La difficoltà che incontriamo nel tradurre questa limpida visione evangelica in scelte pastorali è segno della nostra incapacità di vivere all’altezza del Vangelo e ci ricorda che non possiamo sostenere chi ha bisogno di aiuto se non attraverso la nostra conversione, personale e comunitaria. Se utilizziamo la dottrina con durezza e con atteggiamento giudicante, tradiamo il Vangelo; se pratichiamo una misericordia a buon mercato, non trasmettiamo l’amore di Dio. L’unità di verità e amore implica di farsi carico delle difficoltà dell’altro fino a farle proprie, come avviene tra veri fratelli e sorelle. Per questo tale unità può essere realizzata soltanto seguendo con pazienza la strada dell’accompagnamento.

g)  Alcune questioni, come quelle relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale, al fine vita, alle situazioni matrimoniali difficili, alle problematiche etiche connesse all’intelligenza artificiale, risultano controverse non solo nella società, ma anche nella Chiesa, perché pongono domande nuove. Talora le categorie antropologiche che abbiamo elaborato non sono sufficienti a cogliere la complessità degli elementi che emergono dall’esperienza o dal sapere delle scienze e richiedono affinamento e ulteriore studio. È importante prendere il tempo necessario per questa riflessione e investirvi le energie migliori, senza cedere a giudizi semplificatori che feriscono le persone e il Corpo della Chiesa. Molte indicazioni sono già offerte dal magistero e attendono di essere tradotte in iniziative pastorali appropriate. Anche dove siano necessari ulteriori chiarimenti, il comportamento di Gesù, assimilato nella preghiera e nella conversione del cuore, ci indica la strada da seguire.

Questioni da affrontare

h)  Riconosciamo la necessità di proseguire la riflessione ecclesiale sull’intreccio originario di amore e verità testimoniato da Gesù, in vista di una prassi ecclesiale che ne onori l’ispirazione.

i)  Incoraggiamo gli esperti nei diversi campi del sapere a maturare una sapienza spirituale che consenta alla loro competenza specialistica di divenire un vero servizio ecclesiale. La sinodalità in questo ambito si esprime come disponibilità a pensare insieme a servizio della missione, nella diversità delle impostazioni, ma nell’armonia degli intenti.

j)  Occorre identificare le condizioni che rendono possibile una ricerca teologica e culturale che sappia partire dall’esperienza quotidiana del Popolo Santo di Dio e si metta a suo servizio.

Proposte

k) Proponiamo di promuovere iniziative che consentano un discernimento condiviso su questioni dottrinali, pastorali ed etiche che sono controverse, alla luce della Parola di Dio, dell’insegnamento della Chiesa, della riflessione teologica e, valorizzando l’esperienza sinodale. Ciò può essere realizzato attraverso approfondimenti tra esperti di diverse competenze e provenienze in un contesto istituzionale che tuteli la riservatezza del dibattito e promuova la schiettezza del confronto, dando spazio, quando appropriato, anche alla voce delle persone direttamente toccate dalle controversie menzionate. Tale percorso dovrà essere avviato in vista della prossima Sessione sinodale.

16. Per una Chiesa che ascolta e accompagna

Convergenze

a)  Ascolto è il termine che meglio esprime l’esperienza più intensa che ha caratterizzato i primi due anni del percorso sinodale e anche i lavori dell’Assemblea. Lo fa nel duplice significato di ascolto dato e ricevuto, di mettersi in ascolto e di essere ascoltati. L’ascolto è un valore profondamente umano, un dinamismo di reciprocità, in cui offre un contributo al cammino dell’altro e ne riceve uno per il proprio.

b)  Essere invitati a prendere la parola ed essere ascoltati nella Chiesa e dalla Chiesa è stata un’esperienza intensa e inattesa per molti di coloro che hanno partecipato al processo sinodale a livello locale, specie tra quanti subiscono forme di emarginazione nella società e anche nella comunità cristiana. Ricevere ascolto è un’esperienza di affermazione e riconoscimento della propria dignità: questo è uno strumento potente di attivazione delle risorse della persona e della comunità.

c)  Mettere Gesù Cristo al centro della nostra vita richiede una certa abnegazione. In questa prospettiva, dare ascolto richiede la disponibilità a decentrarsi per lasciare spazio all’altro. Lo abbiamo sperimentato nella dinamica della conversazione nello Spirito. Si tratta di un esercizio ascetico esigente, che obbliga ciascuno a riconoscere i propri limiti e la parzialità del proprio punto di vista. Per questo apre una possibilità all’ascolto della voce dello Spirito di Dio che parla anche oltre i confini dell’appartenenza ecclesiale e può mettere in moto un cammino di cambiamento e di conversione.

d)  Mettersi in ascolto ha una valenza cristologica: significa assumere l’atteggiamento di Gesù nei confronti delle persone che incontrava (cfr. Fil 2, 6-11); ha anche una valenza ecclesiale, poiché a mettersi in ascolto è la Chiesa, attraverso l’operato di alcuni battezzati che non agiscono in nome proprio, ma della comunità.

e)  Lungo il processo sinodale, la Chiesa ha incontrato molte persone e molti gruppi che chiedono di essere ascoltati e accompagnati. In promo luogo menzioniamo i giovani, la cui domanda di ascolto e accompagnamento è risuonata con forza nel Sinodo a loro dedicato (2018) e in questa Assemblea, che conferma la necessità di una opzione preferenziale per i giovani.

f)  La Chiesa deve ascoltare con particolare attenzione e sensibilità la voce delle vittime e dei sopravvissuti agli abusi sessuali, spirituali, economici, istituzionali, di potere e di coscienza da parte di membri del clero o di persone con incarichi ecclesiali. L’ascolto autentico è un elemento fondamentale del cammino verso la guarigione, il pentimento, la giustizia e la riconciliazione.

g)  L’Assemblea esprime la propria vicinanza e il proprio sostegno a tutti coloro che vivono una condizione di solitudine come scelta di fedeltà alla tradizione e al magistero della Chiesa in materia matrimoniale e di etica sessuale, in cui riconoscono una fonte di vita. Le comunità cristiane sono invitate a essere loro particolarmente vicine, ascoltandole e accompagnandole nel loro impegno.

h)  In modi diversi, anche le persone che si sentono emarginate o escluse dalla Chiesa, a causa della loro situazione matrimoniale, identità e sessualità chiedono di essere ascoltate e accompagnate, e che la loro dignità sia difesa. Nell’Assemblea si è percepito un profondo senso di amore, misericordia e compassione per le persone che sono o si sentono ferite o trascurate dalla Chiesa, che desiderano un luogo in cui tornare “a casa” e in cui sentirsi al sicuro, essere ascoltate e rispettate, senza temere di sentirsi giudicate. L’ascolto è un prerequisito per camminare insieme alla ricerca della volontà di Dio. L’Assemblea riafferma che i cristiani non possono mancare di rispetto per la dignità di nessuna persona.

i)  Si rivolgono alla Chiesa in cerca di ascolto e accompagnamento anche persone che patiscono diverse forme di povertà, esclusione ed emarginazione all’interno di società in cui la disuguaglianza cresce inesorabilmente. Ascoltarle consente alla Chiesa di rendersi conto del loro punto di vista e di mettersi concretamente al loro fianco, ma soprattutto di lasciarsi evangelizzare da loro. Ringraziamo e incoraggiamo coloro che sono impegnati nel servizio dell’ascolto e dell’accompagnamento di quanti si trovano in carcere e hanno particolarmente bisogno di sperimentare l’amore misericordioso del Signore e di non sentirsi isolati dalla comunità. A nome della Chiesa essi realizzano le parole del Signore «ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,36).

j)  Molte persone vivono una condizione di solitudine che spesso è vicina all’abbandono. Anziani e persone malate sono spesso invisibili nella società. Incoraggiamo le parrocchie e le comunità cristiane a farsi loro prossime ed ascoltarle. Le opere di misericordia ispirate alle parole evangeliche «ero […] malato e mi avete visitato» (Mt 25,39), hanno un profondo significato per le persone coinvolte e anche per fomentare i legami comunitari.

k)  La Chiesa vuole ascoltare tutti, non solo coloro che sanno far sentire la propria voce con maggiore facilità. In alcune regioni, per motivi culturali e sociali, i membri di alcuni gruppi, come i giovani, le donne e le minoranze. possono trovare più difficile esprimersi con libertà. Anche l’esperienza di vivere in regimi oppressivi e dittatoriali erode la fiducia necessaria per parlare liberamente. Lo stesso può accadere quando l’esercizio dell’autorità all’interno della comunità cristiana diventa oppressivo anziché liberatorio.

Questioni da affrontare

l) L’ascolto richiede un’accoglienza incondizionata. Questo non significa abdicare alla chiarezza nel presentare il messaggio di salvezza del Vangelo, né avallare qualsiasi opinione o posizione. Il Signore Gesù apriva nuovi orizzonti a coloro che ascoltava senza condizioni e siamo chiamati a fare altrettanto per condividere la Buona Notizia con coloro che incontriamo.

m) Diffuse in molte parti del mondo, le comunità di base o piccole comunità cristiane favoriscono le pratiche di ascolto dei e tra i battezzati. Siamo chiamati a valorizzarne il potenziale, esplorando anche come sia possibile adattarle ai contesti urbani.

Proposte

n)  Che cosa dovremmo cambiare perché coloro che si sentono esclusi possano sperimentare una Chiesa più accogliente? L’ascolto e l’accompagnamento non sono solo iniziative individuali, ma una forma di agire ecclesiale. Per questo devono trovare posto all’interno della programmazione pastorale ordinaria e della strutturazione operativa delle comunità cristiane ai diversi livelli, valorizzando anche l’accompagnamento spirituale. Una Chiesa sinodale non può rinunciare a essere una Chiesa che ascolta e questo impegno deve tradursi in azioni concrete.

o)  La Chiesa non parte da zero, ma dispone già di numerose istituzioni e strutture che svolgono questo compito prezioso. Pensiamo ad esempio al capillare lavoro di ascolto e accompagnamento di poveri, emarginati, migranti e rifugiati realizzato dalle Caritas e da molte altre realtà legate alla vita consacrata o all’associazionismo laicale. Occorre operare per potenziare il loro legame con la vita della comunità, evitando che siano percepite come attività delegate ad alcuni.

p)  Le persone che svolgono il servizio dell’ascolto e dell’accompagnamento, nelle sue diverse forme, hanno bisogno di una formazione adeguata, anche in base al tipo di persone con cui vengono a contatto, e di sentirsi sostenute dalla comunità. Dal canto sua, le comunità hanno bisogno di prendere piena consapevolezza del valore di un servizio esercitato a loro nome e di poter ricevere il frutto di questo ascolto. Allo scopo di dare maggiore evidenza a questo servizio, si propone l’istituzione di un ministero dell’ascolto e dell’accompagnamento fondato sul Battesimo, adattato ai diversi contesti. Le modalità del suo conferimento promuoveranno un maggiore coinvolgimento della comunità.

q)  Si incoraggia il SECAM (Simposio delle Conferenze Episcopali dell’Africa e del Madagascar) a promuovere un discernimento teologico e pastorale sul tema della poligamia e sull’accompagnamento delle persone in unioni poligamiche che si avvicinano alla fede.

17. Missionari nell’ambiente digitale

Convergenze

a)  La cultura digitale rappresenta un cambiamento fondamentale nel modo in cui concepiamo la realtà e ci relazioniamo con noi stessi, tra di noi, con l’ambiente che ci circonda e anche con Dio. L’ambiente digitale modifica i nostri processi di apprendimento, la percezione del tempo, dello spazio, del corpo, delle relazioni interpersonali e il nostro intero modo di pensare. Il dualismo tra reale e virtuale non descrive adeguatamente la realtà e l’esperienza di tutti noi, soprattutto dei più giovani, i cosiddetti “nativi digitali”.

b)  La cultura digitale, quindi, non è tanto un’area distinta della missione, quanto una dimensione cruciale della testimonianza della Chiesa nella cultura contemporanea. Per questo riveste un significato particolare in una Chiesa sinodale.

c)  I missionari sono sempre partiti con Cristo verso nuove frontiere, preceduti e spinti dall’azione dello Spirito. Oggi tocca a noi raggiungere la cultura attuale in tutti gli spazi in cui le persone cercano senso e amore, compresi i loro telefoni cellulari e tablet.

d)  Non possiamo evangelizzare la cultura digitale senza averla prima compresa. I giovani, e tra di loro i seminaristi, i giovani preti e i giovani consacrati e consacrate, che spesso ne hanno una esperienza diretta profonda, sono i più adatti per portare avanti la missione della Chiesa nell’ambiente digitale, oltre che per accompagnare il resto della comunità, compresi i pastori, a una maggiore familiarità con le sue dinamiche.

e)  All’interno del processo sinodale, le iniziative del Sinodo digitale (Progetto “La Chiesa ti ascolta”), mostrano le potenzialità dell’ambiente digitale in chiave missionaria, la creatività e la generosità di coloro che vi si impegnano e l’importanza di offrire loro formazione, accompagnamento, possibilità di confronto tra pari e collaborazione.

Questioni da affrontare

f)  Internet è sempre più presente nella vita dei ragazzi e delle famiglie. Sebbene abbia un grande potenziale per migliorare la nostra vita, può anche causare danni e ferite, ad esempio attraverso bullismo, disinformazione, sfruttamento sessuale e dipendenza. È urgente riflettere su come la comunità cristiana possa sostenere le famiglie nel garantire che lo spazio online sia non solo sicuro, ma anche spiritualmente vivificante.

g)  Ci sono molte iniziative online legate alla Chiesa di grande valore e utilità, che forniscono un’eccellente catechesi e formazione alla fede. Purtroppo ci sono anche siti in cui i le tematiche legate alla fede sono affrontate in modo superficiale, polarizzato e persino carico di odio. Come Chiesa e come singoli missionari digitali abbiamo il dovere di chiederci come garantire che la nostra presenza online costituisca un’esperienza di crescita per coloro con cui comunichiamo.

h)  Le iniziative apostoliche online hanno una portata e un raggio d’azione che si estende oltre i confini territoriali tradizionalmente intesi. Questo solleva importanti quesiti su come possano essere regolamentate e a quale autorità ecclesiastica competa la vigilanza.

i)  Dobbiamo anche considerare le implicazioni della nuova frontiera missionaria digitale per il rinnovamento delle strutture parrocchiali e diocesane esistenti. In un mondo sempre più digitale, come evitare di rimanere prigionieri della logica della conservazione e liberare invece energie per nuove forme di esercizio della missione?

j)  La pandemia da COVID-19 ha stimolato la creatività pastorale online, contribuendo a ridurre gli effetti dell’esperienza di isolamento e solitudine vissuta in particolare da anziani e membri vulnerabili delle comunità. Anche le istituzioni educative cattoliche hanno utilizzato efficacemente le piattaforme online per continuare a offrire formazione e catechesi durante i lockdown. È bene che valutiamo che cosa questa esperienza ci ha insegnato e quali possano essere i benefici duraturi per la missione della Chiesa nell’ambiente digitale.

k) Molti giovani, che pure cercano la bellezza, hanno abbandonato gli spazi fisici della Chiesa in cui cerchiamo di invitarli a favore degli spazi online. Ciò implica la ricerca di modi nuovi per coinvolgerli e offrire loro formazione e catechesi. Si tratta di un tema su cui riflettere pastoralmente.

Proposte

l) Proponiamo che le Chiese offrano riconoscimento, formazione e accompagnamento ai missionari digitali già operanti, facilitando anche l’incontro tra di loro.

m) È importante creare reti collaborative di influencer che includano persone di altre religioni o che non professano alcuna fede, ma collaborano a cause comuni per la promozione della dignità della persona umana, della giustizia e della cura della casa comune.

18. Organismi di partecipazione

Convergenze

a)  In quanto membri del Popolo fedele di Dio, tutti i battezzati sono corresponsabili della missione, ciascuno secondo la sua vocazione, con la sua esperienza e competenza; pertanto, tutti contribuiscono a immaginare e decidere passi di riforma delle comunità cristiane e della Chiesa tutta, così che essa viva “la dolce e confortante gioia di evangelizzare”. La sinodalità, nella composizione e nel funzionamento degli organismi in cui prende corpo, ha come finalità la missione. La corresponsabilità è per la missione: questo attesta che si è davvero riuniti nel nome di Gesù, questo affranca gli organismi di partecipazione da involuzioni burocratiche e da logiche mondane di potere, questo rende fruttuoso il riunirsi.

b)  Alla luce del magistero recente (in particolare Lumen gentium e Evangelii gaudium), questa corresponsabilità di tutti nella missione deve essere il criterio alla base della strutturazione delle comunità cristiane e dell’intera Chiesa locale con tutti i suoi servizi, in tutte le sue istituzioni, in ogni suo organismo di comunione (cfr. 1Cor 12,4-31). Il giusto riconoscimento della responsabilità dei laici per la missione nel mondo non può diventare il pretesto per attribuire ai soli Vescovi e preti la cura della comunità cristiana.

c)  L’autorità per eccellenza è quella della Parola di Dio, che deve ispirare ogni incontro degli organismi di partecipazione, ogni consultazione e ogni processo decisionale. Perché questo accada è necessario che, ad ogni livello, il riunirsi attinga senso e forza dall’Eucaristia e si svolga alla luce della Parola ascoltata e condivisa nella preghiera.

d)  La composizione dei vari Consigli per il discernere e il decidere di una comunità missionaria sinodale deve prevedere la presenza di uomini e donne che vantino un profilo apostolico; che si distinguano anzitutto non per una frequentazione assidua di spazi ecclesiali, ma per una genuina testimonianza evangelica nelle realtà più ordinarie della vita. Il Popolo di Dio è tanto più missionario, quanto più capace di far risuonare in sé, anche negli organismi di partecipazione, le voci di quanti già vivono la missione abitando il mondo e le sue periferie.

Questioni da affrontare

e)  Alla luce di quanto abbiamo condiviso, riteniamo importante riflettere su come promuovere la partecipazione nei vari Consigli, soprattutto quando i praticanti ritengono di non essere all’altezza del compito. La sinodalità cresce nel coinvolgimento di ogni membro in processi di discernimento e decisione per la missione della Chiesa: in tal senso ci edificano e incoraggiano molte piccole comunità cristiane nelle Chiese emergenti, che vivono un quotidiano “corpo a corpo” fraterno intorno alla Parola e all’Eucaristia,

f)  Nella composizione degli organismi di partecipazione non possiamo ulteriormente procrastinare il compito affidato da Papa Francesco in Amoris laetitia. La partecipazione di uomini e donne che vivono vicende affettive e coniugali complesse «può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate» (n. 299). Il discernimento in questione riguarda anche l’esclusione da organismi di partecipazione della comunità parrocchiale e diocesana, praticata in non poche Chiese locali.

g)  Nella prospettiva dall’originalità evangelica della comunione ecclesiale: come possiamo intrecciare l’aspetto consultivo e quello deliberativo della sinodalità? Sulla base della configurazione carismatica e ministeriale del Popolo di Dio: come integriamo nei vari organismi di partecipazione i compiti di consigliare, discernere, decidere?

Proposte

h)  Sulla base della comprensione del Popolo di Dio quale soggetto attivo della missione di evangelizzazione, si codifichi l’obbligatorietà dei Consigli Pastorali nelle comunità cristiane e nelle Chiese locali. Insieme, si potenzino gli organismi di partecipazione, con un’adeguata presenza di laici e laiche, con l’attribuzione di funzioni di discernimento in vista di decisioni realmente apostoliche.

i)  Gli organismi di partecipazione rappresentano il primo ambito in cui vivere la dinamica del rendiconto di chi esercita compiti di responsabilità. Mentre li incoraggiamo nel loro impegno, li invitiamo a praticare la cultura del rendiconto nei confronti della comunità di cui sono espressione.

19. I raggruppamenti di Chiese nella comunione di tutta la Chiesa

Convergenze

a)  Siamo persuasi che ogni Chiesa, all’interno della comunione delle Chiese, abbia molto da offrire, perché lo Spirito Santo distribuisce con abbondanza i suoi doni per l’u8lità comune. Se guardiamo alla Chiesa come Corpo di Cristo, comprendiamo più facilmente che le varie membra sono interdipenden8 e condividono la stessa vita: «se un membro soffre, tuWe le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tuWe le membra gioiscono con lui» (1Cor 12,26). Vogliamo pertanto sviluppare gli aWeggiamen8 spirituali che nascono da questo sguardo: l’umiltà e la generosità, il rispeWo e la condivisione. Importan8 sono anche la disponibilità a crescere nella conoscenza reciproca e a predisporre le struWure necessarie perché lo scambio di ricchezze spirituali, discepoli missionari e beni materiali possa diventare una realtà concreta

b)  Il tema dei raggruppamen8 di Chiese locali si è rivelato fondamentale per un pieno esercizio della sinodalità nella Chiesa. Nel rispondere alla domanda su come configurare le istanze di sinodalità e collegialità che coinvolgono raggruppamen8 di Chiese locali, l’Assemblea ha convenuto sull’importanza del discernimento ecclesiale compiuto dalle Conferenze Episcopali e dalle Assemblee con8nentali per un correWo svolgimento della prima fase del processo sinodale.

c) Il processo sinodale ha mostrato come gli organismi previs8 dal Codice di DiriQo Canonico e dal Codice dei Canoni per le Chiese Orientali dispieghino con più efficacia la loro funzione quando sono compresi a par8re dalle Chiese locali. Il faWo che la Chiesa (Ecclesia tota) sia una comunione di Chiese richiede che ogni Vescovo percepisca e viva la sollecitudine per tuWe le Chiese (sollicitudo omnium Ecclesiarum) come aspeWo cos8tu8vo del suo ministero di pastore di una Chiesa.

d) La prima fase del processo sinodale ha messo in evidenza il ruolo determinante delle Conferenze Episcopali e ha fatto emergere la necessità di una istanza di sinodalità e collegialità a livello con8nentale. Gli organismi che operano a ques8 livelli concorrono all’esercizio della sinodalità nel rispeWo delle realtà locali e dei processi di inculturazione. L’Assemblea ha espresso fiducia nella possibilità di evitare in questo modo il rischio di uniformità e di centralismo nel governo del Chiesa.

Questioni da affrontare

e)  Prima di creare nuove struWure, avver8amo l’esigenza di rafforzare e rivitalizzare quelle già esisten8. Occorre inoltre studiare, sul piano ecclesiologico e canonico, le implicazioni di una riforma delle struWure rela8ve ai raggruppamenti di Chiese perché assumano un caraWere più compiutamente sinodale.

f)  Guardando alle pra8che sinodali della Chiesa del primo millennio, si propone di studiare come si possano recuperare nell’ordinamento canonico aWuale le is8tuzioni an8che, armonizzandole con quelle di nuova creazione, come le Conferenze Episcopali.

g)  Consideriamo necessario un ulteriore approfondimento della natura doWrinale e giuridica delle Conferenze Episcopali, riconoscendo la possibilità di un’azione collegiale anche rispeWo a ques8oni di doWrina che emergono in ambito locale, riaprendo così la riflessione sul motuproprio Apostolos suos.

h)  Si rivedano i canoni riferi8 ai concili par8colari (plenari e provinciali), per realizzare aWraverso di essi una maggiore partecipazione del Popolo di Dio, sull’esempio della dispensa oWenuta nel caso del recente concilio plenario dell’Australia.

Proposte

i)  Tra le strutture già previste dal Codice, proponiamo di rafforzare la provincia ecclesiastica o metropolia, come luogo di comunione delle Chiese locali di un territorio.

j)  Sulla base degli approfondimen8 richies8 circa la configurazione dei raggruppamenti di Chiese, si dia attuazione all’esercizio della sinodalità a livello regionale, nazionale e continentale.

k)  Dove necessario suggeriamo la creazione di province ecclesias8che internazionali, a beneficio dei Vescovi che non appartengono ad alcuna conferenza episcopale e per promuovere la comunione tra Chiese al di là dei confini nazionali.

l)  Nei Paesi di rito la8no in cui è presente anche una gerarchia delle Chiese orientali caWoliche, si includano i Vescovi orientali nelle Conferenze Episcopali nazionali, rimanendo integra la loro autonomia governativa stabilita dal proprio Codice.

m) Si elabori una configurazione canonica delle Assemblee con8nentali che, nel rispetto della peculiarità di ogni continente, tenga nel dovuto conto la partecipazione delle Conferenze Episcopali e quella delle Chiese, con propri delegati che rendano presente la varietà del Popolo fedele di Dio.

20. Sinodo dei Vescovi e Assemblea ecclesiale

Convergenze

a)  Anche quando ha sperimentato la fatica di “camminare insieme”, l’Assemblea ha percepito la gioia evangelica di essere Popolo di Dio. Le novità proposte per questo momento del cammino sinodale sono state accolte generalmente con favore. Le più evidenti sono: il passaggio della celebrazione del Sinodo da evento a processo (come indicato dalla costituzione apostolica Episcopalis communio); la presenza di altri membri, donne e uomini, accanto ai Vescovi; la presenza attiva dei delegati fraterni; il ritiro spirituale in preparazione all’Assemblea; le celebrazioni dell’Eucaristia in San Pietro; il clima di preghiera e il metodo della conversazione nello Spirito; la disposizione stessa dell’Assemblea nell’Aula Paolo VI.

b)  L’Assemblea del Sinodo dei Vescovi, conservando il proprio carattere eminentemente episcopale, ha manifestato bene in questa occasione il legame intrinseco fra la dimensione sinodale della vita della Chiesa (la partecipazione di tutti), la dimensione collegiale (la sollecitudine dei Vescovi per la Chiesa intera), la dimensione primaziale (il servizio del Vescovo di Roma, garante di comunione).

c)  Il processo sinodale è stato ed è un tempo di grazia che ci ha incoraggiati. Dio ci sta offrendo l‘occasione di sperimentare una nuova cultura della sinodalità, capace di orientare la vita e la missione della Chiesa. È stato ricordato però che non basta creare strutture di corresponsabilità se manca la conversione personale a una sinodalità missionaria. Le istanze sinodali, a ogni livello, non riducono la responsabilità personale di coloro che sono chiamati a prendervi parte, in forza del loro ministero e dei loro carismi, ma la sollecitano ulteriormente.

Questioni da affrontare

d)  La presenza di altri membri, oltre ai Vescovi, in qualità di testimoni del cammino sinodale è stata apprezzata. Resta tuttavia aperta la domanda circa l’incidenza della loro presenza come membri a pieno titolo sul carattere episcopale dell’Assemblea. Alcuni vedono il rischio che non sia adeguatamente compreso il compito specifico dei Vescovi. Andranno anche chiariti in base a quali criteri i membri non Vescovi possono essere chiamati a far parte dell’Assemblea.

e)  Sono state segnalate esperienze come la Prima Assemblea Ecclesiale di America Latina e Caraibi, gli Organismi del Popolo di Dio in Brasile, il Concilio plenario australiano. Resta da individuare e approfondire come articolare in futuro sinodalità e collegialità, distinguendo (senza indebite separazioni) l’apporto di tutti i membri del Popolo di Dio all’elaborazione delle decisioni e il compito specifico dei Vescovi. L’articolazione di sinodalità, collegialità, primato non va interpretata in forma statica o lineare, ma secondo una circolarità dinamica, in una corresponsabilità differenziata.

f)  Se a livello regionale è possibile pensare a passaggi successivi (un’assemblea ecclesiale seguita da un’assemblea episcopale), si ritiene opportuno chiarire come ciò possa essere proposto in riferimento alla Chiesa cattolica nel suo insieme. Alcuni ritengono che la formula adottata in questa Assemblea risponda a questa esigenza, altri prospettano di far seguire a un’assemblea ecclesiale un’assemblea episcopale per concludere il discernimento, altri ancora preferiscono di riservare ai Vescovi il ruolo di membri dell’assemblea sinodale.

g)  Andrà anche approfondito e chiarito il modo in cui esperti di diverse discipline, in particolare teologi e canonisti, possono dare il loro apporto ai lavori dell’assemblea sinodale e ai processi di una Chiesa sinodale.

h)  Occorrerà anche riflettere sul modo in cui Internet e la comunicazione mediatica agiscono sui processi sinodali.

Proposte

i) Si assicuri una valutazione dei processi sinodali a tutti i livelli della Chiesa.

j) Si valutino i frutti della Prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

PER PROSEGUIRE IL CAMMINO

«A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio, o con quale parabola possiamo descriverlo?» (Mc 4,30)

La Parola del Signore viene prima di ogni parola della Chiesa. Le parole dei discepoli, anche quelle di un Sinodo, sono solo un’eco di ciò che Egli stesso dice.

Per annunciare il Regno, Gesù ha scelto di parlare in parabole. Ha trovato nelle esperienze fondamentali della vita dell’uomo – nei segni della natura, nei ges8 del lavoro, nei fax della quo8dianità – le immagini per rivelare il mistero di Dio. Così ci ha deWo che il Regno ci trascende, ma non ci è estraneo. O lo vediamo nelle cose del mondo o non lo vedremo mai.

In un seme che cade nella terra Gesù ha visto rappresentato il suo des8no. Apparentemente un nulla des8nato a marcire, eppure abitato da un dinamismo di vita inarrestabile, imprevedibile, pasquale. Un dinamismo des8nato a dare vita, a diventare pane per mol8. Des8nato a diventare Eucaristia.

Oggi, in una cultura della loWa per la supremazia e dell’ossessione per la visibilità, la Chiesa è chiamata a ripetere le parole di Gesù, a farle rivivere in tutta la loro forza. «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio, o con quale parabola possiamo descriverlo?». Questa domanda del Signore illumina il lavoro che ora ci aspetta. Non si tratta di disperdersi su molti fronti, inseguendo una logica efficien8s8ca e procedurale. Si tratta piuttosto di cogliere, tra le molte parole e proposte di questa Relazione, ciò che si presenta come un seme piccolo, ma carico di futuro, e immaginare come consegnarlo alla terra che lo farà maturare per la vita di molti.

«Come avverrà questo?», si domandava Maria a Nazaret (Lc 1,34) dopo aver ascoltato la Parola. La risposta è una sola: restare all’ombra dello Spirito e lasciarsi avvolgere dalla sua potenza. Nel rivolgere lo sguardo al tempo che ci separa dalla Seconda Sessione ringraziamo il Signore per il cammino fin qui svolto e per le grazie con cui lo ha benedeWo. Affidiamo la fase successiva all’intercessione della Beata Vergine Maria, segno di sicura speranza e di consolazione nel cammino del Popolo fedele di Dio, e dei San8 Apostoli Simone e Giuda, di cui oggi ricorre la festa.

Adsumus Sancte Spiritus!

Roma, 28 ottobre 2023, Festa dei SS. Simone e Giuda

il sinodo scrive al popolo di Dio

la lettera al popolo di Dio:

«la chiesa ha bisogno di ascoltare tutti»


Gianni Cardinale

nel testo i partecipanti al Sinodo, la cui prima fase termina domenica, sottolineano l’importanza di lasciarsi interpellare da tutti, a partire dai più poveri e dalle vittime di abusi nella Chiesa

Un momento dei lavori sinodali

La Chiesa deve ascoltare tutti. In particolare i più poveri, le vittime del razzismo e, soprattutto, quelle degli abusi commessi da membri del corpo ecclesiale. È questo uno dei messaggi che i membri del Sinodo sulla sinodalità in corso in Vaticano hanno voluto inviare a tutto il Popolo di Dio in forma di Lettera.

L’Assemblea, in questa particolare missiva il cui originale è scritto in francese (segno che l’autore materiale è un francofono), riconosce che quella in corso «per molti versi, è stata un’esperienza senza precedenti». Infatti «per la prima volta, su invito di Papa Francesco, uomini e donne sono stati invitati, in virtù del loro Battesimo, a sedersi allo stesso tavolo per prendere parte non solo alle discussioni ma anche alle votazioni di questa Assemblea del Sinodo dei vescovi». La Lettera riconosce che l’Assemblea «si è svolta nel contesto di un mondo in crisi, le cui ferite e scandalose disuguaglianze hanno risuonato dolorosamente nei nostri cuori e hanno dato ai nostri lavori una peculiare gravità, tanto più che alcuni di noi venivano da paesi dove la guerra infuria». Di qui la preghiera «per le vittime della violenza omicida, senza dimenticare tutti coloro che la miseria e la corruzione hanno gettato sulle strade pericolose della migrazione». Di qui la solidarietà e l’impegno «a fianco delle donne e degli uomini che in ogni luogo del mondo si adoperano come artigiani di giustizia e di pace».

Ora i lavori di questa sessione sinodale stanno finendo. E la Lettera esprime l’’auspicio che i mesi che ci separano dalla seconda, nell’ottobre 2024, «permettano a ognuno di partecipare concretamente al dinamismo della comunione missionaria indicata dalla parola “Sinodo”». Avvertendo che «non si tratta di un’ideologia ma di un’esperienza radicata nella Tradizione apostolica». Le sfide sono “molteplici” e le domande “numerose”. La relazione di sintesi della prima sessione, che verrà approvata sabato, «chiarirà i punti di accordo raggiunti, evidenzierà le questioni aperte e indicherà come proseguire il lavoro».

Ma per progredire nel suo discernimento, sottolinea la Lettera, la Chiesa ha assolutamente bisogno di ascoltare tutti, a cominciare dai più poveri. Si tratta in pratica «di ascoltare coloro che non hanno diritto di parola nella società o che si sentono esclusi, anche dalla Chiesa». Di ascoltare «le persone vittime del razzismo in tutte le sue forme, in particolare, in alcune regioni, dei popoli indigeni le cui culture sono state schernite». E «soprattutto, la Chiesa del nostro tempo ha il dovere di ascoltare, in spirito di conversione, coloro che sono stati vittime di abusi commessi da membri del corpo ecclesiale, e di impegnarsi concretamente e strutturalmente affinché ciò non accada più».

La Chiesa ha anche bisogno di ascoltare i laici, donne e uomini, «tutti chiamati alla santità in virtù della loro vocazione battesimale». Di ascoltare i catechisti, i bambini, i giovani, gli anziani. Poi le famiglie, e le voci «di coloro che desiderano essere coinvolti in ministeri laicali o in organismi partecipativi di discernimento e di decisione». La Chiesa ha poi particolarmente bisogno, di ascoltare i sacerdoti, i diaconi, e la voce della vita consacrata. E deve ascoltare anche la voce di coloro che «non condividono la sua fede ma cercano la verità, e nei quali è presente e attivo lo Spirito».

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