celebrare la passione di Gesù in tempi di coronavirus

 

“la passione nei giorni del coronavirus”

nella Bibbia per 365 volte risuona questo saluto divino: «Non aver paura!». È quasi il «buongiorno» che Dio ripete a ogni alba. Lo ripete anche in questi giorni di terrore

il Dio cristiano è diverso dalle divinità antiche come Giove, relegate nel loro mondo olimpico dorato, apatici rispetto alle sofferenze umane. È, invece, un Dio che ha scelto di assumere la stessa nostra carta d’identità, fatta, sì, anche di gioia, ma soprattutto di limite, di dolore e di morte

una bella riflessione di Gianfranco Ravasi

Scrivo con imbarazzo queste righe. Mi pareva, infatti, di sentire la voce, roca per il troppo urlare, di Giobbe che rigettava le parole degli amici teologi venuti a confortarlo definendole «decotti di malva», incapaci di spegnere il suo dolore lacerante. Oppure, iniziando a scrivere qualche riga, sentivo risuonare nell’orecchio la frase aspra di un altro sapiente biblico, Qohelet, che mi ammoniva: «Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle» (1,8).

Alla fine ho deciso di squarciare lo stesso il silenzio, come hanno fatto il Papa e tanti altri pastori con parole intense, solo per dire che tutti proviamo nell’anima gli stessi brividi dei tanti ammalati con la bocca incollata a un respiratore. E soprattutto per essere spalla a spalla con la folla di parenti, amici, vicini paralizzati dalla sofferenza dei loro cari, impossibilitati a dare una sola carezza su quei volti o persino ad accompagnarli alla fine con un rito di commiato.

Ma c’è un’altra ragione che invita tutti noi (per ora) sani a non tacere ed è proprio legata agli imminenti giorni della Settimana Santa, quando davanti a noi camminerà Cristo nelle sue ultime ore terrene. Lo immagino come nel film Andrej Rublëv del grande regista russo Andrej Tarkovskij, mentre avanza incespicando nella neve colorandola col sangue delle sue ferite, trascinando a fatica la croce, seguito dalla folla dei poveri contadini e degli ultimi di quelle terre.

Il Dio cristiano è diverso dalle divinità antiche come Giove, relegate nel loro mondo olimpico dorato, apatici rispetto alle sofferenze umane. È, invece, un Dio che ha scelto di assumere la stessa nostra carta d’identità, fatta, sì, anche di gioia, ma soprattutto di limite, di dolore e di morte. Anche se lontani dalle chiese deserte, sentiremo dalla voce del sacerdote solitario il racconto evangelico di quelle ore ultime di un Dio veramente fratello dell’umanità. E vedremo sfilare davanti agli occhi, vissute in lui, tutte le desolazioni di questi nostri giorni.

Anche lui ha paura e fin orrore della morte, il cui volto severo si presenta davanti a lui e a noi, nonostante l’avessimo prima esorcizzato e ignorato: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice» avvelenato. Anche lui sperimenta l’isolamento degli amici, i discepoli, che rimangono lontani, o, come nel caso di tante persone sole malate, lo abbandonano. Anche lui ha la carne ferita dalle torture e prova persino la peggiore delle solitudini, il silenzio del Padre («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»).

Alla fine anche lui, a causa della crocifissione, muore come molti malati di coronavirus, per asfissia, dopo aver emesso un respiro estremo. Aveva ragione un teologo martire del nazismo, il tedesco Dietrich Bonhoeffer, quando nel suo diario in carcere scriveva: «Dio in Cristo non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in forza della sua impotenza». Sì, perché in quei momenti non si china su qualche malato per guarirlo, come aveva fatto durante la sua vita terrena, ma diventa lui stesso sofferente e mortale. Non ci libera dal male ma è con noi nel male fisico e interiore.

Eppure, anche quando è un cadavere sballottato qua e là, come accade oggi alle vittime del virus, egli è sempre il Figlio di Dio. È per questo che – sperimentando nella sua carne la nostra umanità misera, fragile e mortale – ha deposto in essa per sempre un seme di eternità e di speranza destinato a sbocciare. È questo il senso della Pasqua, «l’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi», come diceva il poeta austriaco Rainer M. Rilke.

Tante altre cose ha insegnato questo male a chi crede e anche a chi non crede. Ci ha, infatti, svelato la grandezza della scienza ma anche i suoi limiti; ha riscritto la scala dei valori che non ha al suo vertice il denaro o il potere; lo stare in casa insieme, padri e figli, giovani e anziani, ha riproposto fatiche e gioie delle relazioni non solo virtuali; ha semplificato il superfluo e ci ha insegnato l’essenzialità; ci ha costretti a fissare negli occhi dei nostri cari la stessa nostra morte; ci ha resi fratelli e sorelle dei tanti Giobbe, dandoci il diritto persino di protestare con Dio, di alzare le nostre domande e lamenti a lui.

Ma soprattutto ha rivelato un valore supremo, l’amore. Molti dei lettori conoscono il romanzo dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez, L’amore al tempo del colera (1982), un titolo che potrebbe essere trascritto per il coronavirus. Un titolo che è verità soprattutto nei tanti medici, infermieri, volontari, operatori vari, pronti ad andare oltre la legge dell’«amare il prossimo come se stessi», per seguire quella estrema di Gesù: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici».

Nella Bibbia per 365 volte risuona questo saluto divino: «Non aver paura!». È quasi il «buongiorno» che Dio ripete a ogni alba. Lo ripete anche in questi giorni di terrore. E per chi ha perso la fede proporrei, invece, la confessione dello stesso scrittore García Márquez: «Sfortunatamente, Dio non ha uno spazio nella mia vita. Nutro la speranza, se esiste, d’avere io uno spazio nella sua».

in tempi di coronavirus una pasqua diversa all’insegna della grande riflessione

 

l’invito di Alex Zanotelli ad una celebrazione pasquale, quest’ann0, in atteggiamento riflessivo e penitenziale per una radicale conversione del nostro globale sistema di vita:

Come possiamo celebrare la Pasqua di liberazione se noi cristiani siamo conniventi con i nuovi faraoni? Come ha detto papa Francesco il 27 marzo scorso a piazza S. Pietro:

«Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sani in un mondo malato»

Se vogliamo salvarci, dobbiamo uscire dal Sistema di morte in cui siamo intrappolati. Questa è la nostra Pasqua!

tre teologi di fronte al problema del male – Dio in tempi di coronavirus

l’enigma del male

di Jesús Martínez Gordo

tutte le volte che l’uomo e il mondo sperimentano il dolore, torna il discorso su Dio e il problema del male

la posizione di alcuni teologi

«Ora che ci siamo resi conto che Dio e la preghiera non servono a niente, sarebbe l’occasione di dare il resoconto delle spese della Chiesa per la sanità».

Così si leggeva in uno degli whatsapp che ho ricevuto in questi giorni. A parte che c’è sempre qualcuno che, approfittando del fatto che san Giuseppe era un falegname, voglia parlare della confessione, mi interessa riflettere a voce alta su una vecchia questione che, formulata oltre due millenni fa da Epicuro, riemerge in questi momenti con particolare vigore.

«Dio vuole evitare il male, ma non lo può»?,

allora è impotente. «Può, ma non vuole»?, allora è malevolo.

«Se può e vuole, allora perché esiste il male?».

Dovendo confrontarci con un tale dramma (e con la contraddizione – esistenziale e razionale che pone), è normale assistere non solo al crollo dell’immaginario di un Dio onnipotente e perfino benevolo, ma anche della difesa di maggior consistenza razionale dell’ateismo e dell’agnosticismo ateo di fronte alle spiegazioni deiste o teiste.
Uno degli esempi, probabilmente quello che mi ha colpito di più, è la testimonianza del pastore americano Bart D. Ehrman sul suo passaggio dalla fede cristiana all’incredulità per non essere riuscito a sopportare questa contraddizione.
Ma devo ricordare, come contrappunto necessario e inevitabile, che nemmeno ai nostri giorni mancano coloro per i quali questo è anzitutto e soprattutto un problema strettamente razionale. E che perciò ci riguarda tutti: deisti e teisti, atei o agnostici-atei e persino antiteisti e indifferenti. Non vale niente – dicono – criticando questi ultimi, credere di aver trovato una spiegazione razionale più consistente di quella teista negando l’esistenza di Dio e rimanendo, a seconda dei casi, sereni e tranquilli o angosciati nel silenzio o nel mutismo. Una simile risposta o un siffatto tentativo di spiegazione alternativa – che non riesce affatto ad eludere la perplessità che attanaglia tutti, teisti o atei – non è, quando esiste, una spiegazione razionalmente più solida di quella credente.
Forse per questo, negli ultimi anni i teologi hanno continuato a riflettere su questo problema.

Nel caso specifico, ho trovato tre saggi di spiegazione che meritano di essere presi in considerane quello di

J.A. Estrada,

di J.-B. Metz

e di A. Torres Queiruga.

Juan Antonio Estrada dichiara «impossibile» il tentativo di armonizzare razionalmente il male con un Dio buono e onnipotente. Non si può discolpare Dio. Quando si tenta di farlo, si finisce col favorire l’immaginario di un essere malvagio che sacrifica la persona. È più sensato riconoscere che il cristianesimo, non avendo una risposta razionale a questo problema, consente tuttavia di affrontarlo in maniera coerente e lucida, ben lungi dall’indifferenza o dalla disperazione: chi, come nel suo caso, si autocomprende come cristiano sa e ha delle ragioni più che abbondanti per combattere il male, in particolare quello ingiusto e prematuro, come ha fatto Gesù di Nazaret.


Senza ignorare il silenzio a cui ci induce di solito la richiesta di una risposta coerente da parte di Epicuro, non bisogna trascurare le grida e le richieste di giustizia che, nonostante tutto, le vittime continuano a innalzare a Dio. Questo è il punto di partenza della spiegazione presentata da J.B. Metz. L’attenzione a queste domande lo porta a elevare tali grida e lamenti al principio conoscitivo di tutta la realtà e, insieme, a comprendere la fede cristiana come «memoria della passione», vale a dire, come memoria di un Crocifisso il cui dramma si attualizza nel grido di tutti i crocifissi del nostro tempo. E anche in quello di coloro che, come sta succedendo in queste ultime settimane, muoiono perché sono anziani, malati, deboli o professionisti della medicina o lavoratori nei servizi essenziali ai cittadini; e senza per di più poter dare l’ultimo saluto ai loro cari.


Andrés Torres Queiruga, proseguendo sulla via aperta ai suoi tempi da G. Leibniz, sbarra criticamente la strada alle spiegazioni che sottolineano l’oscurità, il silenzio o il ritiro di Dio – lo tzimtzum (antica parola ebraica (צמצום) che significa letteralmente «ritrazione» o «contrazione» ed è utilizzata originariamente dai cabalisti in riferimento all’idea di una «autolimitazione» di Dio che si «ritrae» nell’atto della creazione del mondo, ndtr). – e pone la chiave esplicativa del male nella finitudine in quanto tale e quindi non in Dio stesso. La sua è una proposta che intende mostrare l’articolazione esistente e senza stridere in alcun modo tra l’atteggiamento insuperabile dell’amore divino – che lo caratterizza non tanto in quanto Onnipotente, ma in quanto Antimale – e il male che si racchiude nel limite costitutivo del finito e, soprattutto, nella morte prematura e ingiusta. Questo – ricorda – è un problema razionale. Perciò ci riguarda e richiede una spiegazione da parte di tutti, oltre la nostra fede o la sua assenza, anche se noi credenti abbiamo numerosi motivi e ragioni per non disperare.
Questi tre contributi, indubbiamente teisti, non impediscono ai credenti e non credenti di condividere il compito di sradicare qualcosa di tale desolazione in questo tempo di coronavirus; rimasugli anticlericali a parte, ovviamente.

è bella l’Italia vista con gli occhi R. La Valle al tempo di coronavirus

L’ITALIA È BELLA

È bella l’Italia perché mentre molti dicono che dopo saremo “migliori di prima”, è adesso che ci scopriamo migliori di quanto pensassimo

una bella riflessione di R. La Valle:

L’Italia è bella. Ce ne siamo resi conto al ricevere una lettera da un prete libanese, padre Abdo Raad, che non potendo far ritorno al suo Paese è rimasto bloccato in Italia , ma si dice “fiero” di esserci, e ne tesse le lodi perfino in modo eccessivo, mostrando in che modo si è realizzato il “prima gli Italiani”, nel fatto che contro tutto il pensiero dominante, e perciò evidentemente non “unico”, essi hanno scelto tra tutte le cose la vita, e la vita degli altri, e non per ideologia, come nelle campagne antiabortiste, ma per amore.

Questo infatti è ciò che l’Italia sta insegnando al mondo, non perché sale in cattedra, ma semplicemente con l’esserci.

E allora si vede come l’Italia è bella.

Le sue città non sono mai state così belle. Non solo perché i pesci, come dicono, sono tornati a nuotare nei canali di Venezia. Ma perché quelle piazze vuote, quelle strade deserte, quei monumenti che sembrano bastare a se stessi, anche se non più fruiti dai turisti, non mostrano un vuoto, ma un’attesa struggente di essere di nuovo vissuti, una maestà sconosciuta, un’eloquenza che in tutti i modi e con molti segni dichiara il dolore di tanto silenzio.

È bella l’Italia perché, pur nel cosiddetto “distanziamento sociale” (almeno un metro, un metro e mezzo!), mostra come siano forti i suoi legami sociali, autismo e individualismo non sono vincitori. Uno straordinario darsi degli uni agli altri si sperimenta nelle corsie, nelle sale di rianimazione, nelle “prime linee”, così come nei lavori necessari, nella comunicazione incessante, nel volontariato, nelle mille diaconie e negli incensibili e inopinati ministeri. Ha ricordato il vescovo di Bergamo che ogni cristiano, grazie al battesimo, può essere portatore di benedizione: un padre può benedire i figli, i nonni possono benedire i nipoti; ma allora anche medici e infermieri, fossero pure non credenti, “quando vedono morire gente da sola, ha detto il vescovo, se percepissero un desiderio, potrebbero con le loro mani offrire anche la benedizione di Dio”; e così avviene.

È bella l’Italia perché nel massimo del dominio della legge, del divieto, dei limiti imposti e accettati, manifesta un massimo di democrazia. Non è vero che la democrazia rappresentativa non può essere “governante”, che ha bisogno di correzioni autoritarie e presidenzialiste, di strette gerarchiche, di poteri usurpati (“i pieni poteri!”). La democrazia funziona, il consenso non è mai stato così alto. Certo l’esperienza di questo “stato d’eccezione” è nuova, nemmeno le Costituzioni l’avevano prevista e normata. Ma proprio in questo si rivela la superiorità di uno Stato costituzionale sui regimi senza Costituzione. Perfino in ciò che ancora non dice, la Costituzione ci tutela, ci fa figli della libertà, ci fa responsabili, solidali. Certo il sistema costituzionale andrà aggiornato, nuove norme dovranno garantirci per il futuro, e ancora di più dovremo batterci per una Costituzione mondiale; ma intanto la democrazia c’è e respira, le opposizioni danno di gomito per farsi vedere, dopo aver sbagliato su tutto, ma in realtà non hanno altro da dire, finché anch’esse non cambieranno.

L’Italia è bella perché al momento della prova si è fatta sorprendere con gli uomini giusti al posto giusto. Ed è come se i ruoli si fossero arricchiti, e addirittura rovesciati. Prendete il vescovo di Roma, il papa. Certo, non è solo per l’Italia; ma intanto è qui che soffre per il mondo. Ed è uno spettacolo straordinario vederlo profeta e guida dei “non messalizzanti”, come i sociologi erano abituati a chiamare i non credenti e non praticanti. Oggi i non messalizzanti sono tutti, o quasi tutti, e allora quella Messa quotidiana del papa dall’inedito eremo di Santa Marta è diventata la Messa sul mondo, e perfino la Televisione italiana la trasmette, compreso il lungo silenzio finale, e ne fornisce il segnale ad altre emittenti. Ma il papa non approfitta di una udienza così allargata per imporre la sua parola; mercoledì, infatti, nel giorno dell’annuncio a Maria, la sua omelia non è stata altro che rileggere una seconda volta quel passo del vangelo di Luca. Vi basti il Vangelo, “sine glossa”, diceva l’altro Francesco. Ma qui una “glossa”, folgorante, da parte del papa, c’è stata: ha detto che Luca di quell’ “annunciazione” non aveva potuto saperlo che dalla Vergine stessa; perciò quel Vangelo non è la cronaca di un evento che non ha avuto testimoni, ma è il racconto di Maria, la sua autobiografia più segreta, è la parola di una donna che rivela un mistero, ciò da cui ha avuto inizio la fede nell’incarnazione e ha preso avvio il cambiamento del mondo. Dunque tutto l’evento decisivo della storia è accaduto tra due testimonianze di donne: Maria, col concepimento, la Maddalena con la resurrezione. “Sulla tua parola…”. E le donne erano inaffidabili!

E prendete il presidente della Repubblica: il suo ruolo è di presiedere ai “cittadini”, ma si preoccupa di tutti. Chi sono più i cittadini dinanzi all’universalismo del virus, e alla comune risposta che bisogna dargli oltre ogni frontiera? Davvero la cittadinanza è l’ultima discriminazione che deve cadere. E Mattarella scrive al presidente tedesco augurandosi che l’esperienza italiana serva alla Germania e agli altri Paesi, perché ne sia alleviata la prova. E noi stessi riceviamo l’aiuto, non dall’Olanda, o dai più ricchi Paesi europei che sono troppo affezionati al denaro e al rigore, ma dalla Cina, da Cuba, dalla Russia, i nostri da noi dichiarati nemici di un tempo.

E guardate Conte: non lo volevano prendere sul serio, lo dileggiavano come un travicello in altre mani. Ma quando le altre mani sono venute meno, sono rimaste e si sono levate le sue, e governa con fermezza nella tempesta, ma anche con tenerezza ed equità; non ha una sua parte a cui badare, ma tutte le attraversa, come il samaritano, senza iattanza, formato com’è alla scuola del cardinale Silvestrini. Per questo i grandi poteri lo vogliono cambiare con Draghi, come se non si fosse già fatta l’esperienza di Monti.

E dei ministri prendete quello della forza più piccola, quel ministro della sanità che sembra essere nato per pensare alla salute di tutti.

È bella l’Italia perché mentre molti dicono che dopo saremo “migliori di prima”, è adesso che ci scopriamo migliori di quanto pensassimo. Sul futuro non ci potremmo giurare, altre volte dopo le tragedie ci sono state regressioni, cecità e odiose restaurazioni. Già adesso del resto si fa forte un mondo che è duro a morire. Basti pensare alla pretesa che mentre tutto chiude, resti attiva la filiera dell’aerospazio e della difesa: una bella caduta di credibilità e sensatezza di un governo altrimenti apprezzabile. È come se non si potesse decidere di smettere la produzione di armi per guerre non metaforiche, come quella del virus, ma guerre reali, presenti e future, al servizio delle quali si spendono oggi nel mondo 5 miliardi di dollari al giorno La verità è che il tempo di cambiare è questo, non quello futuro, e il futuro dipende dalle scelte che oggi facciamo. Non bisogna chiedersi che cosa faremo e come saremo “dopo Coronavirus”, ma che cosa facciamo e siamo “durante Coronavirus”. Il tempo è venuto ed è questo.

È bella l’Italia, perché proprio qui si è potuto vedere attraverso le dolenti statistiche di ogni giorno, che le donne resistono al virus molto più degli uomini, ne sono colpite due donne contro otto uomini. È una scienziata che ne ha fatto una notizia, la virologa Ilaria Capua. Non sanno spiegarsi il perché, e invece forse è chiaro: perché toccherà a loro ridare ricchezza alla vita, ripartire dal profondo, dire di sì al far dono alla terra dei “nati da donna”.

la pandemia da coronavirus e la sospensione della triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità

una chiesa in aspettativa?

di Gilberto Borghi 

Sospese le messe. Sospese le attività catechistiche. Fortemente limitate anche quelle caritative. Colpita al cuore la triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità. Ma non siamo tutti chiamati a vivere il vangelo, a prescindere dallo specifico del ruolo ecclesiale?

Sospese le messe. Sospese le attività catechistiche. Fortemente limitate anche quelle caritative. Colpita al cuore la triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità. Con tanto dispiacere accetto questa situazione e credo che si dovesse davvero fare così, soprattutto dopo la decisione di “blindare” l’Italia. Milioni di persone colpite economicamente, psicologicamente, spiritualmente. Non mi sarei mai immaginato di vivere in queste condizioni in Italia. Ma accetto. E provo a continuare a vedere cosa si possa imparare da questa situazione.
Una chiesa che non può più vivere i propri ruoli interni nelle forme ormai codificate da tempo, sembra una chiesa “in aspettativa”. E’ di questi giorni lo “sfogo” di un amico prete: “Va bene, capisco la questione sanitaria, ci mancherebbe. Ma se mi tolgono la messa, il catechismo e gli incontri io che faccio?” Provo ad immaginare che abbia una sua ragione per dirlo. Formati ed educati a vivere il sacerdozio come condizione per espletare le funzioni specifiche che lo riguardano, i preti possono anche faticare a cogliere il senso della loro esistenza fuori da tale specifico. Ma forse la stessa domanda potrebbe farsela anche un laico, un catechista, ad esempio, che si trova senza ruolo specifico da svolgere, e che di fronte a questa “tempesta” inaudita può pure lui sentirsi svuotato dell’ordinario modo di essere cristiano.
Ma non siamo forse tutti battezzati? Anche il prete? E come tali non partecipiamo tutti della regalità, profezia e sacerdozio universale dei fedeli? Cioè, siamo tutti chiamati a vivere il vangelo, nella sua essenza di fondo, a prescindere dallo specifico del ruolo ecclesiale. In un bel post di fb, don Cristiano Mauri chiarisce, molto meglio di quanto posso fare io, cosa significa vivere il vangelo fuori dai ruoli ecclesiali “in aspettativa”.

“Guardo con meraviglia e sorpresa uomini e donne di fede che non si sono troppo scomposti all’arrivo della “tempesta”. Certo, gli è sobbalzato il cuore in petto, hanno vissuto lo smarrimento della sorpresa, si sono preoccupati e si preoccupano dei loro cari, hanno conosciuto il turbamento profondo e la paura di perdersi. Ma poi, son tornati semplicemente a “fare il Vangelo” che stavano facendo.
Pregano il Padre, così come gli viene, come hanno sempre fatto con umiltà, libertà e fiducia nel suo amore. Amano i fratelli e le sorelle in tutto, così come riescono, non per spirito eroico, ma perché è l’unico modo che ritengono buono per dar senso alla vita. La “tempesta” per loro non è la fine di tutto. Solo un luogo diverso in cui “fare Vangelo”. Un luogo più faticoso, pieno di scuotimenti, carico di rischi, è vero. Ma non la ragione per smettere il Vangelo come un vestito inadatto.
E non cessano di amare. I fratelli, il Padre, come un unico movimento. Perché il Padre non abbandona e i fratelli non si possono abbandonare. Lo fanno come riescono e come possono. E son così abituati a farlo che reinventare modi, gesti, parole, iniziative di vicinanza e di amore non gli viene poi così difficile. Anzi, trovano perfino una grazia nella possibilità di aprire strade nuove.
Non si preoccupano troppo di distinguersi dagli altri, anzi sono più beati se non vengono riconosciuti. Non nascondono le loro inadeguatezze, sanno i loro limiti, ma non ne hanno soggezione né vergogna. Non si ritengono meritevoli di ammirazione, pensano semplicemente che stanno facendo quel che devono. Non pretendono l’esclusiva del bene ma si sentono alleati di tutti coloro che stanno lavorando per salvare, guarire, proteggere, li considerano come fratelli senza guardare al loro credo, e lodano il Padre perché vedono quanto la sua Opera sia molto più grande delle loro opere.
Guardo queste donne e questi uomini, che mi stanno insegnando molto, con grande riconoscenza e ammirazione. E poi guardo a chi, sbandierando la propria fede, grida e si lamenta perché «ci stanno impedendo di essere cristiani». Mi chiedo, sommessamente, che cosa mai stessero davvero facendo questi prima della “tempesta”, per non saper che fare durante. Molti chiedono parole di Speranza. Ma se non ho letto male il Vangelo, la Speranza cristiana, più che un discorso, è una vita donata per amore. La Speranza cristiana forse si dice, ma anzitutto si fa. E io sono grato a chi, in questo tempo, col suo fare, “fa sperare”. Che creda, o no”.
Grazie don Cristiano.

in tempi di coronavirus fede e preghiera, sì, ma non fanatismo personale ed ecclesiale

 

 

“così papa Francesco ci insegna a riscoprire il divino che è in noi”

intervista a Alberto Maggi

a cura di Paolo Rodari
in “la Repubblica” del 28 marzo 2020

«Le messe senza popolo online? Non mi piacciono. Purtroppo molti preti sono stati abituati così. Per loro non c’è salvezza senza un Dio che da fuori viene a salvare l’uomo. Se si toglie loro la celebrazione della messa non sanno cosa fare. Non capiscono che il Signore è già in noi, si fa pane nella parola. Egli è dentro l’uomo e chiede solo di andare ad aiutare gli altri».

Alberto Maggi, fine biblista, sacerdote e teologo, commenta il momento presente. Il Papa ha detto che è possibile, in attesa che tutto torni alla normalità, chiedere perdono a Dio dei propri peccati pregando nel silenzio. Un ritorno alla preghiera personale e intima spesso elusa da una Chiesa che vuole invece avere il controllo sui fedeli.

Padre Maggi, alcune cronache raccontano di sacerdoti che celebrano con i fedeli di nascosto. Cosa pensa?

«Assurdo. Danno anche la comunione sotto le due specie, bevendo dal calice sostenendo che tanto è sangue di Cristo e come tale non può trasmettere il virus. Questa non è fede, è fanatismo. Giocano a fare i cristiani delle catacombe e non sanno che provocano un’ecatombe».

Un errore grossolano di visione di sé, di Dio e del mondo? 

«Pensano di essere gli unici intermediari fra la gente e Dio, ma il Signore non ha bisogno di intermediari. Dio è stato per troppo tempo visto come esterno all’uomo e lontano. Gesù ha superato ciò. Giovanni dice che a chi ama il Padre, Gesù e lo stesso Padre verranno in lui. Dio si manifesta non quando alziamo le mani al cielo, ma quando ci rimbocchiamo le maniche e aiutiamo gli altri».

Per un certo clero tutto ciò significherebbe perdere il controllo sui fedeli e per certi fedeli uscire da una visione clericale della fede.

«Se Dio sta nel cuore dell’uomo non lo puoi controllare. Ma quando scopri Dio dentro di te tutto cambia. Non devi più cercarlo e vivere per lui, ma vivi di lui. Dio non ti chiede più nulla».

A cosa serve chiedere a Dio di fermare la pandemia?

«Dio non può fermarla, non può cambiare il corso della storia, ma può dare all’uomo la sua forza per viverla».

Come si spiega questo tempo così difficile?

«I danni del coronavirus sono anche il prodotto di una politica che all’inizio ha privilegiato gli interessi economici di pochi a discapito del bene comune. Francesco in Laudato Sì chiede una cura per la casa comune che pochi perseguono. Il paradiso perduto è da guadagnare adesso».

In che senso?

«Francesco fa sua una lettura profetica del racconto della creazione. Il libro della Genesi non guarda al passato, non è storia ma teologia. L’autore non descrive il rimpianto per un passato, ma la profezia per il paradiso da costruire»

il coronavirus e l’aiuto della fede oltre le supestizioni e le strumentalizazioni

 

LA FEDE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

 

una riflessione di p. Felice Scalia

 In questi giorni neri, dove la primavera anticipata sembra una beffa della natura, mi vengono spesso in mente due capolavori: “I Promessi Sposi” di Manzoni – con le celebri pagine sulla peste – e “La Peste” di Camus. In tutti e due le opere c’è chi vive la tragedia nella fede cristiana e chi la perde questa fede. Mi chiedo come oggi stiamo vivendo noi cristiani la tragedia, tutti in qualche modo minacciati dal nemico invisibile.
Avviene, ma come mai, che nei periodi in cui il pericolo è universale si dimentichi perfino quanto in tempi normali si riteneva essenziale della nostra vita? O che si perda la fede sentendoci ancora più soli? O che nasca il cinismo di chi non ha neppure il pudore di tenere per sé un pensiero come il seguente: “Muoiono i vecchi. Benissimo. Liberiamocene!”?
Siccome questa è storia concreta, devo aggiungere che non è la sola storia di questi giorni. C’è l’abnegazione di medici e personale sanitario, ci sono scene di struggente altruismo, c’è gratitudine popolare, forse tutta italiana, per chi mette a repentaglio la sua vita per far vivere. La sorprendente dichiarazione di un medico – “Se non avessi la fede, non avrei fatto il medico” – mi induce a pensare che c’è molta fede implicita in questi eroi quotidiani. Forse non è così sbagliato il cosiddetto Teorema di Quarantelli (sociologo americano): “Peggiore è la situazione, migliori diventano gli uomini”.
Ma, come cristiano (almeno in spe) e come prete mi chiedo come vivere nella fede del Signore Gesù questi giorni.
Mi scrive un giovane presbitero amico:

In isolamento anch’io, ma tutto bene grazie a Dio. Le mie “pecorelle” stanno bene, si scoraggiano un po’ a stare lontano dalla parrocchia… ma io cerco di stare vicino con qualche telefonata e qualche “chiacchierata” a distanza con i miei vicini di casa! Nel frattempo approfitto un po’ anche per recuperare forza e coraggio anch’io. Prego e leggo … Mi chiedo quanto sforzo dobbiamo fare per riuscire a superare una certa impostazione e un modo di conoscere Dio più legato ai nostri schemi (quelli nei quali siamo cresciuti, anche noi giovani) che alla freschezza del Vangelo … Con tutta la buona volontà, ho l’impressione che anche involontariamente a volte restiamo impigliati. Avremo modo di discuterne a voce.
Ma il mio pensiero è sempre per la parrocchia. Forse questo “digiuno” eucaristico potrà contribuire ad accrescere il desiderio di Dio nella gente… io me lo auguro e cerco di accompagnarlo. Credo che la nostra principale missione, in questo momento, sia proprio questa, più che fare videomessaggi e catechesi on-line. Potrei sbagliarmi, ma punto a stimolare una fede più genuina e meno superstiziosa. Non legata al monte e al tempio, per dirla con la samaritana, ma allo spirito e alla verità. A volte il silenzio intorno a me, lo sguardo che non riesce ad incrociare altri occhi, l’incertezza del domani… lasciano qualche varco alla paura. Che cerco di affidare sempre al Signore.”

Mi affido a queste parole per rispondere alle mie domande sul come vivere “coram Domino” questi difficili giorni e come camminare con la gente domani. Tanta sofferenza e tanto sbigottimento non possono passare invano. Mi fermo a tre soli spunti.

“Il mio pensiero è sempre per la parrocchia”

Se credo davvero nel Risorto e so che l’ultima parola è la Vita, oggi sto accanto alla mia gente, e non solo localmente. Non mi rendo irraggiungibile, per paura che sia costretto a fare l’eroe, non scendo per primo dalla nave in pericolo, “perché il coraggio, mica uno se lo può dare!”. Se tutti hanno paura, anche io ho diritto di averla; se tutti hanno incertezze, anche io le avrò; se nessuno ha risposte certe sul domani, neppure io prete. Ma qualcosa di particolare la ho e la posso dire: non può affondare una nave in cui è imbarcato lo stesso figlio di Dio.

“Contribuire ad accrescere il desiderio di Dio nella gente…”

Non credo si tratti di accrescere quel desiderio di Dio che domani farà venire la gente in chiesa e moltiplicherà i nostri “clienti”. Desiderio di Dio è desiderio di vivere secondo Verità. È infatti menzogna pensarci autori della vita, arbitri del bene e del male (i due alberi violati di Genesi 3), e dunque possibili padroni della Terra e degli uomini, secondo la legge bestiale della giungla “la forza è fondamento del diritto” – come affermano gli “empi” in Sap 2,11.
Noi preti questo non sempre lo abbiamo detto. Anzi a volte abbiamo presentato Dio non come Colui che ci dava le leggi della vita, quelle che ci strutturano dall’intimo e ci permettono di vivere, ma come una sorta di monarca che impone leggi e balzelli, per vedere se i sudditi sono ossequienti o no, perché al suo potere ci tiene e lo vuole assicurare con la paura.
Il desiderio di Dio non ha dunque niente da condividere con il possibile risvolto ideologico che si può desumere da tante preghiere rivolte a Lui. Devo stare attento – mi dico. Chiedere a Lui la fine della prova, non può ingenerare l’idea che sia stato Dio a mandarci il flagello? Chiedere di avere pietà di noi, non può fare pensare che Dio ci stia castigando? Non è così. E lo sappiamo aprendo appena il Vangelo, come dovrebbero aprirlo certe trasmittenti fin troppo devote ma forse di ben poca fede cristiana. Domani, in giorni “più leggiadri e men feroci”, dovremmo reimparare e reinsegnare il senso della preghiera come Gesù la comanda.

“Stimolare una fede più genuina e meno superstiziosa”

Sorvolo sulle molte forme di superstizione di cui è intrisa la religiosità popolare e non solo essa. Ogni prete queste cose le sa bene. Se le trova davanti ad ogni Festa Del Patrono, dove non si capisce che cosa stia facendo propriamente la gente con le sue acclamazioni ed i suoi rituali centenari. Tuttavia il modo migliore per combattere questo pericolo di superstizione è “stimolare una fede più genuina”.
E cioè? Un fede più centrata sul Gesù del Vangelo e molto meno sulle speculazioni di una teologia astratta. Più sul vivere come Gesù ha vissuto che sul sapere tutto di lui, come se noi potessimo conoscere di Dio e di Gesù qualcosa, oltre quello che la vita, i gesti di Gesù ci rivelano. Una fede che spinge non solo alla “fede in Gesù”, ma anche ad assumere come propria, nel quotidiano “la fede di Gesù”: il suo modo guardare il mondo, il destino umano, il Mistero Santo dell’Origine, lo scopo della vita. Egli ci ha “salvati” togliendoci dalla disperazione di sentirci abbandonati da uno strano Creatore nelle mani dei potenti. E ci ha detto che Dio è “Padre” amorevole e misericordioso. Ci ha “salvati” dicendoci qual è la nostra verità di umani: siamo figli amati del Padre e fratelli benevoli tra noi. Ci ha detto che la nostra dignità di umani non è legata a ciò che abbiamo accumulato, al potere che abbiamo, al successo, ma solo ed esclusivamente al fatto che siamo creature con lo ”stampo” del Padre, assetate di infinita bellezza, di estasi della vita, intrinsecamente impastate di Amore, fino a non avere requie se non amiamo come il Padre ama.
Per farci comprendere questo, Gesù non ha preteso di divinizzare l’uomo, di elevarlo a ciò che non è (avrebbe sacralizzato la prepotenza dei prepotenti che si autoproclamavano “divini” e “sacra maestà”, avrebbe giustificato i superuomini) ma ha umanizzato Dio, ci ha detto che possiamo vivere di Dio e con Dio nei gesti della nostra umanità. Tutti possiamo esprimere l’Infinito nei piccoli gesti del finito, possiamo odorare di Eterno negli atteggiamenti che operiamo nel tempo. E perché non restassero dubbi, Gesù nasce da un popolo disprezzato, in una famiglia povera, ama stare con gente di cattiva reputazione, con peccatori e pubblicani, con coloro che non hanno nessun titolo oltre la loro nuda (ed a volte ambigua) umanità. In tutti costoro vede una traccia indelebile e non negoziabile della loro somiglianza col Padre. Gesù ci ha detto che l’uomo è “divino” se vive pienamente la sua umanità quotidiana di creatura umana. Se vive per ciò che intrinsecamente è, se tende al raggiungimento dello scopo per cui è stato creato: uomo così umano da fare trasparire la sua origine divina.
Non vorrei cadere nella stessa trappola di quanti strumentalizzano la sofferenza e la paura per assicurarsi che domani, quando Dio vorrà, le chiese saranno finalmente piene. Oggi noi preti siamo chiamati a stare con la gente. Questo nostro stare-con è già un segno che Dio non ha abbandonato il suo popolo. Oggi dobbiamo spingere a questa forma di amore che è la distanza e la paura di essere untori. Ma abbiamo anche l’obbligo di pregare meditando su quanto accade. Nella quiete di giornate fin troppo lunghe, non possiamo, non dobbiamo preoccuparci di rivedere la nostra storia e chiederci se per caso, proprio noi esperti della “salvezza”, non abbiamo trascurato di dire con chiarezza che la fede non è tanto nozione appresa che fa conoscere la definizione esatta di Dio, quanto piuttosto luce per dare senso alla vita? O che essa è significato ultimo dei nostri giorni e di tanto nostro “fare”? E ancora ritengo urgente chiederci se, ancora noi, non abbiamo finito per appoggiare chi è responsabile del disastro attuale meticolosamente annunziato dai disastri precedenti. Siamo stati le sentinelle della Vita o abbiamo finito per stare – senza accorgercene – dalla parte di chi offendeva questa vita offrendo benefici ad una parte della popolazione mondiale e disprezzando chi stava al di fuori dei beneficiati? Non è strano che la pandemia colpisca i Paesi benestanti e, in Occidente, i Paesi di tradizione cristiana?
Qui non si tratta di scelte politiche fatte o non fatte dalla Chiesa. Mi sto chiedendo se la nostra teologia e la nostra pastorale siano state così accorte da volere rimanere cristiane, degne cioè dell’unico Gesù della storia che traspare dal Vangelo. Di quel Gesù che ha osato definirsi Vita e portatore di Vita.
Mentre ridicoli potenti si chiedono se il coronavirus sia cinese o americano, mentre questi potenti evitano di affrontare il problema se il sistema da essi imposto con inaudita violenza sia compatibile con la vita sul Pianeta, a noi preti corre l’obbligo di chiederci se non abbiamo trascurato qualcosa di importante nella trasmissione del Vangelo. Qualcosa come la Bella Notizia così come ce l’ha lasciata Gesù di Nazareth e come oggi disperatamente cerca di portarla in evidenza Papa Francesco.
Ne abbiamo da fare, mentre c’è … tanto poco da fare nelle chiese chiuse.

padre Felice Scalia è gesuita dal 1947. Laureato in filosofia, teologia e scienze dell’educazione, ha insegnato alla facoltà teologica dell’Italia Meridionale e poi all’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose di Messina. Collabora con Presbyteri, Horeb, Rivista del clero, Vita consacrata, Spirito e Vita e Vita Pastorale

imparare in tempi di coronavirus

 

In questi giorni di isolamento,
in cui siamo costretti a rimanere a casa,
non mi preoccupo se i miei figli
non svolgono i compiti assegnati, non mi importa della scuola.

Non mi affanno a scaricare loro
le schede online, le letture, i ripassi,
l’elenco delle operazioni.

Non aspetto che gli insegnanti si attivino
in lezioni a distanza, mi è indifferente,
anche se quest’anno i programmi scolastici
probabilmente si fermeranno a febbraio.

Non mi rammarico di quanto i miei figli possano rimanere indietro.
Indietro a che cosa?
È un tempo questo che gli insegnerà altro,
ciò che non troveranno in nessun libro.

Impareranno a confrontarsi con la vita, quella vera.
A seguire l’unico programma che non è mai lo stesso,
che è pieno di fatti imprevedibili, di interrogazioni che ci trovano impreparati,
di lezioni nuove.

Impareranno il rispetto di se stessi e degli altri,
che significa adattarsi a nuove regole e rimanere a casa.
A gioire del calore e della vicinanza delle persone care,
perché per molti, ora, anche questo non è scontato.

Impareranno ad adattarsi a queste ore dilatate,
a confrontarsi con la noia,
che riempiranno delle loro riflessioni.

Sapranno che c’è chi è solo, davvero, e questa solitudine
si aggiunge a quella che ha da tempo nel cuore.
Sapranno di chi non ha una casa,
un posto in cui sentirsi al sicuro.

Impareranno a godere del silenzio di queste stanze,
che è solo quiete,
tanto lontano dal silenzio di angoscia
di una stanza d’ospedale.

Impareranno ad apprezzare quello che hanno,
ora che non ci sono nuovi giochi o vestiti
e cose nuove da comprare.

Impareranno ad accontentarsi di mangiare quello che c’è,
per non sprecare, perché bisogna uscire poco,
perché c’è chi neanche ha la forza di andare a fare la spesa
e non ha nessuno da chiamare.

Impareranno a farsi crescere dentro la forza
di dire “andrà tutto bene”,
quando tutto nel mondo sembra gridare il contrario.

Impareranno a farsi adulti,
ad accogliere una maturità
che non viene dallo svolgere bene le operazioni,
da come si scrive, come si legge, come si pronuncia o si riassume.

A studiare una lezione che dice che la vita, a volte, si blocca,
si rivolta su se stessa e non ha più nome.

Impareranno a capire che c’è un momento per fermarsi,
prendere il respiro, raccogliere le forze,
e soffiare sulla speranza, forte,
come sui denti di leone.

Felicia Lione

Ai miei figli e a tutti i bambini. Ai loro denti di leone.

il tempo del coronavirus ci deve far riflettere, pensare, cambiare …

bellissima riflessione dello psicologo Morelli sulla vicenda ….virale

“Credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte.
Il momento che stiamo vivendo, pieno di anomalie e paradossi, fa pensare…
In una fase in cui il cambiamento climatico causato dai disastri ambientali è arrivato a livelli preoccupanti, la Cina in primis e tanti paesi a seguire, sono costretti al blocco; l’economia collassa, ma l’inquinamento scende in maniera considerevole. L’aria migliora; si usa la mascherina, ma si respira…
In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class.
In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, senza sabati nè domeniche, senza più rossi del calendario, da un momento all’altro, arriva lo stop.
Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro.
Sappiamo ancora cosa farcene?
In una fase in cui la crescita dei propri figli è, per forza di cose, delegata spesso a figure ed istituzioni altre, il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia.
In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel “non-spazio” del virtuale, del social network, dandoci l’illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto.
Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato?
In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunita, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro.
Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci.
Perchè col cosmo e le sue leggi, evidentemente, siamo in debito spinto.
Ce lo sta spiegando il virus, a caro prezzo.”

 

in morte di Ernesto Cardenal poetra e mistico

il poeta di Solentiname

“Siamo in un’universo così vuoto circondato ovunque dal mistero”

È morto in pace con la Chiesa grazie a Papa Francesco padre Ernesto Cardenal. I suoi canti e il suo Vangelo di Solentiname ci hanno dato lacrime di indignazione e di speranza.

 

di  Tonio Dell’Olio

È morto ieri in Nicaragua Ernesto Cardenal. Aveva 95 anni distillati nella lotta per la giustizia e per la bellezza. Metà dei suoi anni furono vissuti sotto il tallone degli anfibi della dittatura sanguinaria di Somoza e l’altra metà a dare il proprio contributo alla costruzione di una società liberata. Dopo l’incontro con Tomas Merton e i suoi insegnamenti, questo monaco irregolare si stabilì a Solentiname, un’isola del Gran Lago di Nicaragua, dove fondò una comunità di artisti, scrittori, poeti… che rileggessero il Vangelo nell’arte al servizio dei poveri (cfr. E. Cardenal, Il Vangelo a Solentiname, Cittadella Ed., 1976). Qualche tempo dopo, con quegli artisti abbandonò l’esperienza dell’isola per unirsi alla rivoluzione contro la tirannia. Nel primo governo democratico divenne ministro della cultura e, per questa ragione, fu sospeso dalle sue funzioni sacerdotali.

Tutti ricordiamo (o abbiamo visto) l’immagine di Giovanni Paolo II che lo redarguisce agitando il dito indice contro di lui che gli è inginocchiato davanti al suo arrivo all’aeroporto di Managua. Poi la riabilitazione lo scorso anno e la prima messa celebrata nella sua stanza. Abitava una stanza con un letto, un comodino e un’amaca. Un eremo. Non so dire se il mondo si sia accorto del suo passaggio, ma la terra sì, è stata concimata anche dalla sua poesia e dal suo amore per il vangelo dei poveri. In silenzio qualche albero è cresciuto anche grazie a quella linfa.

 

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