tu che … un certo tipo d’italiano, al tempo del coronavirus …

tu, italiano, che oggi hai paura, ma che non riconosci le paure degli altri

 

 

Manginobrioches
Giornalista e blogger, @manginobrioches

Tu, tu che compri ventotto pacchi di pasta.
Tu, tu che cerchi l’amuchina al mercato nero.
Tu che giri con la mascherina, anche se ti hanno detto che non serve a niente, a meno che tu non sia malato.
Tu che hai fatto incetta di mascherine inutili, e nemmeno le metti perché ti senti ridicolo, in fondo, ma saperle in tasca, nel cassetto, ti fa sentire meglio, ti fa sentire uno che sta controllando la situazione.
Tu che progetti la fuga di tuo figlio da una regione dove ci sono 10 positivi al coronavirus (non “infetti”, non “malati”, solo positivi al test).
Tu che stai connesso 24 ore al giorno, e aspetti i bollettini, la conta, più cinquanta, più cento, e ti senti sotto assedio.
Tu che un giorno minimizzi e un giorno sei nel panico, un giorno “poco più di un’influenza” e un giorno peste nera, un giorno pensi che gli scienziati ti salveranno e un giorno torni a pensare che siano “professoroni” arroganti.
Tu che pensi che sia meglio un posto di blocco in più che un posto letto in più all’ospedale.
Tu che “la nostra sanità pubblica è la migliore del mondo”, ma eri d’accordo con chi la voleva sempre più privata.
Tu che “dobbiamo coordinare tutto”, ma applaudi ai proclami di quelli che vogliono “pieni poteri” per ogni sindaco, ogni cantone, ogni condominio.
Tu che lo vorresti proprio conoscere, questo “paziente zero” che se n’è infischiato di te, e com’è possibile, eri tu quello che se ne infischiava di tutti, non è giusto.
Tu che “tanto, il virus uccide solo i vecchi e i malati”.
Tu che ti senti meglio alle parole “chiudere, sbarrare, impedire, controllare”, e pensi che sono anni che si sarebbero dovute usare, quelle parole, e accidenti ai buonisti che non lo hanno permesso.
Tu che a un certo punto sei chiuso, sbarrato, impedito, controllato, “trattato come un pacco”, come una sostanza pericolosa, e giustamente protesti, e nessun buonista si occupa di te, accidenti.
Tu che sì, ti senti in guerra, sì, hai paura che i supermercati finiscano le scorte, e quindi, un uomo in guerra e con lo spettro della fame non ha forse diritto di proteggere se stesso e la sua famiglia?
Tu che vai all’estero per lavorare, eppure ti vogliono mettere in quarantena perché sei diventato tu lo straniero sgradito, sei diventato tu quello che trova i porti chiusi, sei diventato tu quello “che porta le malattie”.
Tu, per cui la guerra e la fame e la paura degli altri non sono mai abbastanza, non sono mai vere.Tu, italiano, un certo tipo d’italiano, al tempo del coronavirus.

J. Moltmann e la croce di Gesù – l’impegno per la causa di tutti gli oppressi

 

di don Paolo Zambaldi

 

il Dio sofferente e crocifisso

un Dio che scende, assume la condizione degli ultimi e muore come loro, non può essere accolto da chi è in cerca di legittimazione per i propri soprusi

«Perché e in quale modo il Dio sofferente e crocifisso divenne il Dio dei poveri e degli abbandonati? Quale significato assume la mistica della croce nella pietà popolare? Manifestamente, queste persone emarginate lo hanno compreso, partendo dalla propria situazione, meglio dei ricchi e dei padroni. E questo perché giustamente avevano l’impressione di poterlo comprendere meglio di loro» (1).

Restituire la dignità.
Nel solidarizzare, nell’attraversare il medesimo deserto, Dio dimostra, verso i miseri, la più alta forma di amore: la condivisione.

«Nella sua passione e morte Gesù si identificò con gli schiavi e prese su di sé il loro tormento. E come lui non fu solo nella propria sofferenza, così anch’essi non si sentivano abbandonati nello strazio della loro schiavitù. Gesù era con loro. Su questo si fondava anche la speranza nella liberazione, per mezzo di colui che fu richiamato in vita, nella libertà di Dio. Gesù significava la loro identità con Dio, in un mondo che aveva sottratto loro ogni speranza e distrutto la loro dignità umana, fino a renderla irriconoscibile» (2).

Una mistica che porta alla trasformazione.

Porsi davanti al mistero Dio, rendersi disponibili alla relazione, accogliere il suo amore, porta necessariamente all’impegno per la causa degli oppressi.

«Senz’altro la mistica della passione può facilmente tramutarsi in una giustificazione della sofferenza, la mistica della croce può celebrare come virtù la rassegnazione al destino e sfociare in una malinconica apatia. Soffrire con il Crocifisso può anche condurre alla commiserazione di sé. In questi casi però la fede si dissocia dal Cristo sofferente, in quanto vede in lui soltanto uno dei modelli che rischiarano la nostra via dolorosa e lo comprende solo come esempio di rassegnazione, utile per insegnarci a sopportare un destino estraneo. Qui la sofferenza non viene ad assumere un significato particolare per l’integrazione del proprio soffrire. Non produce cambiamento alcuno, né nella sofferenza né nelle persone che soffrono. La chiesa ha gravemente abusato della teologia della croce e della mistica della sofferenza, soddisfacendo così gli interessi di coloro che furono la causa di tante pene» (3).

Conflitti inevitabili.

Dice il Signore: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (4).

«Di fronte al suo mondo Gesù non è rimasto passivo, ma ad un determinato ordine di rapporti contrappose un altro: con il suo messaggio e con la sua vita vissuta. […] Annunciando la giustizia di Dio come diritto della grazia a coloro che spietatamente erano stati emarginati dalla società, egli provocò la dura reazione dei tutori della legge. Facendosi “amico dei peccatori e dei pubblicani”, si rese nemici i loro nemici. Rivendicando un Dio che sta dalla parte dei senza Dio, s’attirò l’opposizione delle persone pie e venne cacciato nell’assenza di Dio del Golgotha. Quanto più la mistica della croce prende coscienza di questa realtà, tanto meno sarà tentata di vedere in Gesù il modello della sopportazione e della rassegnazione al destino. […] Egli patì a causa della parola liberante di Dio e morì a motivo della sua comunione liberante con gli schiavi. La sua passione e morte sono quindi la passione e morte messianiche del “Cristo di Dio”…I suoi dolori, in altri termini, sono i dolori inferti dall’amore per gli uomini abbandonati, verso i quali ci conduce questa mistica della croce quando traspone le sofferenze degli uomini nelle sofferenze di Cristo. Il noto inno che i cristiani elevano alla povertà non può essere cristiano quando si limita a tracciare una benedizione religiosa sulla situazione in cui versano i poveri, promettendo loro una ricompensa in cielo, perché sulla terra i poveri diventino sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Secondo la concezione di Gesù, povertà significa “diventare poveri”, cioè alienare e impegnare ciò che si è e ciò che si ha per la liberazione dei poveri» (5).

La chiesa del crocifisso.
Seguire Cristo significa ripercorre le sue opzioni ed essere segno di contraddizione davanti all’Iniquità (6).

«Nella stessa misura in cui i poveri, con questa mistica della croce, vedono la croce come croce di Cristo, verranno anche liberati dalla loro apatia e rassegnazione alla sorte. La pietà della croce, vissuta da questi poveri, dispone dunque di un potenziale ben diverso da quello che la religione dominante ha riconosciuto in essa. La ripresentazione del Messia crocifisso da parte degli schiavi è quindi, per i padroni, altrettanto pericolosa della loro lettura della Bibbia. La chiesa del Crocifisso è stata fin dagli inizi, ma fondamentalmente lo sarà sempre, la chiesa degli umiliati e degli offesi, dei poveri e dei miseri, la chiesa del popolo. E d’altra parte, è la chiesa di coloro che rompono con le proprie forme di potere e di oppressione, esercitate sia all’interno che all’esterno. Non è invece la chiesa di quelli che si giustificano interiormente e che esercitano il proprio dominio sui loro simili. Se realmente conserva intatto il ricordo del Crocifisso, essa non potrà lasciar spazio a un atteggiamento di smorta indifferenza religiosa nei confronti di qualsiasi persona» (7).

(1) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, traduzione dal tedesco di Dino Pezzetta, Queriniana, Brescia (1973) 2013, p. 62-63
(2) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit., p. 64
(3) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit., p. 64
(4) Vangelo di Matteo 10, 34
(5) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit.,67-68
(6) Vangelo di Luca 2, 33-35
(7) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit., p. 68

crocifissi e crocifissori – il cristiano non può non scegliere: o coi primi o coi secondi

come si può scegliere un Dio crocifisso e poi non stare dalla parte dei crocifissi della storia?

 

 

La croce è ormai un “oggetto” di culto. Così onnipresente e così ignorata. Appesa solitaria nei luoghi pubblici, riprodotta come un gioiello qualunque, esaltata da molti “atei devoti” come simbolo di un’identità cristiana escludente e violenta.

Adorata nelle chiese come simbolo di redenzione. Baciata con tenerezza da chi “soffre” per quel povero Cristo crocifisso dai malvagi dell’epoca, ucciso dai nostri peccati…

Quanta retorica, quanta indifferenza, quanta ipocrisia.

La croce in realtà rimane un patibolo.

Il patibolo riservato ai delinquenti, ai reietti, a coloro che disobbediscono alle regole dell’impero, ai profeti, ai poveri che non hanno nessuno che li difenda.

La croce è il luogo dell’ignominia. Il luogo dell’abbassamento. Il luogo del non-potere.

Gesù, figlio di Dio, mite predicatore, uomo libero e profeta, messia atteso da un popolo intero, sceglie di esservi appeso perché nulla dell’umano potesse rimanergli estraneo.

Nemmeno l’ingiusta condanna, nemmeno la morte.

Su quella croce il Dio onnipotente, il Dio che sta nell’alto dei cieli, il Dio biblico della vendetta che stermina e uccide i nemici, il Dio contaminato da una visione umana di giustizia, ecco ora sceglie di stare “con i perdenti e gli oppressi”, con quelli che generalmente la società dei benpensanti respinge.

Per questo, davanti a quella croce, non possiamo più porci in atteggiamento devozionista e intimista.

Non possiamo identificarla solo con le nostre croci quotidiane, per quanto difficili da portare.

Non possiamo più non pensare, guardandola, a tutti i crocifissi della storia: popoli violentati da guerre scatenate dai potenti per rapinare i loro territori, persone costrette a lasciare la loro terra per sopravvivere alla fame e a condizioni miserabili di vita, testimoni e profeti sacrificati sull’altare dell’ortodossia, intere nazioni in balia di odi religiosi cavalcati con astuzia dai mestatori di turno. E che dire di coloro che sono crocifissi dai pregiudizi che oscurano la ragione e fanno prevalere quell’esclusione che spesso uccide più di un fucile.

Il popolo immenso degli oppressi muore ogni giorno su quella “croce” che noi tutti abbiamo costruito con la nostra indifferenza, i nostri pregiudizi, col nostro egoismo, con il nostro “cristianesimo” da quattro soldi.

Non si può essere seguaci di un Dio che ha scelto di essere crocifisso coi crocifissi e non farsi carico delle ingiustizie che i poveri subiscono.

Oggi assistiamo con orrore all’instaurarsi nell’Europa che orgogliosamente rivendica radici cristiane, di un odio insensato verso chi arriva da lontano per chiedere pane e rifugio. Si alzano muri, si spara, si picchia, si agitano pugni… Il recente odioso passato non ha insegnato nulla?

Ma si sa spesso la storia pare un’inutile maestra.

Ma noi che guardiamo quel crocifisso, noi che facciamo via crucis e adorazioni della croce, noi che in quaresima meditiamo la morte e la resurrezione di Cristo, come possiamo allo stesso tempo negarne così clamorosamente il senso?!

Per comodità, per abitudine, per infantilismo religioso.

Dobbiamo allora convertirci, invertire il nostro cammino, con coraggio e forza.

Dobbiamo superare quella visione “mistica” del Cristo, che lo riduce a un santino innocuo o a una figura “divinizzata” e perciò lontana nel tempo ed estranea ai tempi che stiamo vivendo.

Nel crocifisso, in tutti crocifissi della storia, dobbiamo riscoprire il senso della sequela.

don Paolo Zambaldi

Italia negazionista secondo il Rapporto-Italia dell’Eurispes


Rapporto Eurispes

il 15,6% degli italiani nega la Shoah
nella 32esima edizione del “Rapporto Italia”, l’Istituto registra una frattura tra Sistema e Paese

di Giorgio Catania

“Il 15,6% degli italiani nega la Shoah (nel 2004 era il 2,7%). E il 16,1% (era l′11,1% oltre quindici anni fa) ridimensiona la portata dell’Olocausto, sostenendo che avrebbe determinato un numero di vittime inferiore a quanto documentato dai libri di storia”. Questi i dati raccolti sull’antisemitismo in Italia dall’Eurispes – ente che si occupa di studi politici, economici e sociali – nella 32esima edizione del “Rapporto Italia”.

Secondo la maggioranza degli italiani, recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati, che non sono indice di un reale problema di antisemitismo nel nostro Paese (61,7%). Al tempo stesso, il 60,6% sostiene che questi episodi siano la conseguenza di un diffuso linguaggio basato su odio e razzismo. Per meno della metà del campione (47,5%) gli atti di antisemitismo avvenuti anche in Italia sono il segnale di una pericolosa recrudescenza del fenomeno. Per il 37,2%, invece, sono bravate messe in atto per provocazione o per scherzo.
I dati raccolti dall’Eurispes sul negazionismo confliggono con un recente sondaggio di Euromedia Research,che ridimensionava notevolmente il fenomeno del negazionismo.
L’antisemitismo è solo uno dei moltissimi capitoli affrontati dall’ Eurispes nel suo Rapporto. Secondo il Presidente dell’Istituto, Gian Maria Fara: “La frattura tra Sistema e Paese che abbiamo segnalato nei precedenti Rapporti stenta a trovare elementi di ricomposizione; anzi, si è allargata nel corso dei mesi e pone nuovi problemi che rendono ancora più complessa ed incerta la prospettiva generale. Una frattura che produce numerosi danni anche sul piano economico e mette in discussione la stessa tenuta sociale del Paese”.

Il rapporto Sistema/Paese 

Secondo il presidente di Eurispes, manca “una cornice di regole riformate e condivise in cui tutti possano riconoscersi” perchè “ciò che ci divide lo conosciamo bene” e “ciò che ci unisce, invece, è latitante” ed è per questo che è necessaria “una nuova Costituente” un modo per dare “un segnale al Paese”. Nell’attesa del “segnale” diminuisce la fiducia nelle istituzioni e il trend positivo si arresta: nel 2020, la quota di chi ha un atteggiamento positivo si ferma al 14,6% (-6,2% rispetto al 2019, anno in cui si era registrato il miglior risultato dal 2014).
Il presidente Mattarella, resiste come punto di riferimento e ottiene un tasso di consensi pari al 54,9% (era al 55,1% nel 2019). Poco più di un quarto degli italiani (26,3%) ripone fiducia nell’attuale Governo, oltre dieci punti in meno rispetto al 2019 (36,7%). Il Parlamento registra un decremento di cinque punti con solo uno su quattro che si fida (25,4%; erano il 30,8% nel 2019). La fiducia nei confronti della Magistratura continua a crescere: 49,3%, +2,8% rispetto al 2019.

Mezzi di informazione 

Secondo il “Rapporto Italia” dell’Eurispes, la larga maggioranza degli italiani (64,6%) considera ancora la televisione il mezzo più attendibile; a seguire giornali radio (59,8%), quotidiani (55,3%), quotidiani online (51,1%), talk televisivi (42,4%), forum/blog (41,1%) e social network (35,4%).
Per i social, è però decisamente superiore (65%) la percentuale di chi li giudica “non affidabili”.

Immigrazione 

Un quarto degli italiani ha un rapporto negativo con gli immigrati e da uno su tre, vengono visti come una minaccia all’identità nazionale. Cresce anche la convinzione che gli stranieri tolgano lavoro agli italiani e per contrastare l’immigrazione clandestina l’ipotesi prevalente è “aiutiamoli a casa loro”. Rispetto al 2010, sono diminuiti di oltre dieci punti gli italiani favorevoli allo ius soli (dal 60,3% al 50%) e sono aumentati notevolmente i sostenitori più rigidi dello ius sanguinis (dal 10,7% al 33,5%, quasi 23 punti in più).
In calo coloro che auspicano la cittadinanza per chi è nato in italia, purchè educato in scuole italiane (dal 21,3% al 16,5%).
Per contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, oltre un quarto (il 26,2%, +7,7% rispetto a dieci anni fa) ritiene che il governo dovrebbe erogare aiuti ai Paesi di provenienza e un altro quarto (24%, a fronte del 33,6% del 2010) che dovrebbe inasprire i controlli alle frontiere e lungo le coste; per il 16% la priorità è agevolare la regolarizzazione dei clandestini (nel 2010 era il 25,5%), per il 15,3% ridurre i visti di ingresso dai Paesi dai quali provengono i flussi più consistenti.

Fisco 

Il carico fiscale sostenuto dalla propria famiglia, nel corso del 2019, ”è aumentato secondo l’opinione del 42,2% degli italiani”. Rispetto al 2013, secondo il dossier Eurispes, si registra un calo del 27%, quando “a lamentare una maggiore tassazione era il 69,2%”.
Meno tasse, secondo gli intervistati, rilancerebbero soprattutto i consumi mettendo più soldi in tasca ai cittadini (37,5%) e darebbero slancio all’economia e alle imprese (22,6%), mentre inciderebbero negativamente sulla disponibilità e qualità dei servizi per un altro 22,6% e farebbero aumentare il peso del debito pubblico per il 17,3%. Spicca il dato sul 47% degli italiani, che vorrebbe l’introduzione della tassa patrimoniale; il 53,3% caldeggia l’aumento della pressione fiscale sul sistema bancario (53,3%); il 60% vorrebbe il condono fiscale per favorire il rientro dei capitali dall’estero.

Evasione

Il 46,3% degli italiani considera l’evasione fiscale grave, ma per il 25,1% non lo è se compiuta da chi fa fatica a sostenere il peso del fisco e il 9% non la reputa grave perchè la pressione fiscale italiana è troppo alta. Il 17,3% ritiene che il carcere sia la sanzione giusta per chi evade.

Reddito di Cittadinanza, Flat Tax, Quota 100 

Tra le misure attuate o proposte dal Governo le più criticate sono il reddito di cittadinanza con il 67,1% e la Flat Tax, che incontra la disapprovazione del 62,6% degli italiani. Quota 100 è invece apprezzata da sei cittadini su dieci (59,2%).

Clima 

Secondo la rilevazione Eurispes 2020, più di un quarto degli italiani (26,6%) considera il riscaldamento globale il problema più urgente relativo all’ambiente. Seguono: la gestione dei rifiuti (20,7%), l’inquinamento atmosferico (16,4%), il dissesto idrogeologico (11,3%) e il problema energetico (11,2%), mentre solo una minima parte considera non gravi i problemi ambientali (5,4%). A giudicare più urgente una soluzione per il riscaldamento globale sono i giovani tra i 18 e i 24 anni (34,3%), più del doppio rispetto agli over 65 (16,1%).

Sicurezza 

Il 53,2% degli italiani ritiene di vivere in una città abbastanza (44,1%) e molto (9,1%) sicura; sul versante opposto, il 30,4% giudica la propria città come poco (26,3%) e per niente sicura (4,1%). Sono soprattutto i giovanissimi (dai 18 ai 24 anni) a segnalare un livello basso di sicurezza nella città in cui vivono (complessivamente poco o per niente sicura per il 33,3%). Le Regioni del Centro (34,6%) e del Sud Italia (35%) raccolgono il numero più elevato di cittadini che ritengono di vivere in città non sicure.
Nel 2020 si evidenzia un calo di quanti hanno visto aumentare la propria paura (dal 30% al 24,5%), in favore di coloro i quali ritengono che sia rimasta invariata (+9,4% rispetto al 2019). Resta, comunque, considerevole la percentuale di italiani che mostrano la convinzione del rischio di subire reati, dato che solo il 7% afferma che la paura sia diminuita, in calo rispetto al 10,9% riscontrato nel 2019.

Sud Italia 

Il centro nord dell’Italia ha sottratto al sud una fetta di spesa pubblica, a cui avrebbe avuto diritto in percentuale alle popolazione, di circa 840 miliardi di euro, pari a 46,7 miliardi di euro l’anno. Nel 2016 lo Stato italiano ha speso 15.062 euro pro capite al Centro-Nord e 12.040 euro pro capite al Meridione. In altre parole, ciascun cittadino meridionale ha ricevuto in media 3.022 euro in meno rispetto a un suo connazionale residente al Centro-Nord. Nel 2017, si rileva un’ulteriore diminuzione della spesa pubblica al Mezzogiorno, che arriva a 11.939 (-0,8%), mentre al Centro-Nord si riscontra un aumento dell′1,6% (da 15.062 a 15.297 euro).
Secondo l’Eurispes “emerge una realtà dei fatti ben diversa rispetto a quanto diffuso nell’immaginario collettivo che vorrebbe un Sud ‘inondato’ di una quantità immane di risorse finanziarie pubbliche, sottratte per contro al Centro-Nord”. Dal 2000 al 2007, secondo l’istituto di ricerca, le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. Per contro, tutte le regioni del Nord Italia si vedono irrorate dallo Stato di un quantitativo di spesa annua nettamente superiore alla media nazionale.

Sanità

Stando al rapporto Italia, per contenere le spese, nell’ultimo anno, il 32,5% degli italiani ha rinunciato a effettuare controlli medici e prevenzione e il 27,3% ha tagliato le spese dentistiche. Il 24,8%, infine, ha fatto a meno di trattamenti e interventi estetici. In misura minore, un italiano su cinque (20%) ha rinunciato a terapie e interventi medici o a sottoporsi a visite specialistiche per la cura di patologie specifiche (20%). Il numero di residenti in Sicilia e Sardegna che hanno dovuto rinunciare a visite specialistiche per disturbi o patologie specifiche, è quasi il doppio della media rilevata nelle altre regioni (40%, contro un dato nazionale del 20%)

giù le mani dai simboli cristiani traformati in strumenti di odio!

l’estrema destra e quell’uso osceno della religione

di Tomaso Montanari
in “altraeconomia” del gennaio 2020

L’uso politico della religione è antico quanto la religione. E, nella Chiesa cattolica, la tentazione dell’alleanza con il potere di questo mondo è la Grande Tentazione cui si cede già nel 380 d. C., quando l’imperatore Teodosio dichiara il cristianesimo religione di Stato e la gerarchia ecclesiastica si avvia a ereditare il ruolo della struttura di governo dell’Impero. Il cardinale Camillo Ruini che apre a Matteo Salvini è solo l’ultimo di una infinita teoria di alti prelati che credono che il regno di Cristo (e, con esso, naturalmente il loro piccolo, personalissimo regno) sia di questo mondo. Eppure lui, Gesù, si è sgolato per tutta la vita a dire il contrario: “Il mio regno non è di questo mondo!”. Ha affermato che bisogna tenere separati Cesare e Dio, dando a ciascuno il suo. E nel momento più terribile della sua vita, all’inizio della passione, ha fatto rinfoderare le spade dicendo che avrebbe potuto avere dodici legioni di angeli a difenderlo, ma che non voleva vincere con la forza. La radice di questa avversione del Cristo al potere terreno sta forse nell’episodio in cui il Diavolo gli offre, in cambio della sua adorazione, tutti i regni di questo mondo. Il che significa, chiosavano i padri della Chiesa, che evidentemente il Male disponeva liberamente di quei poteri terreni. Ma papi, cardinali e vescovi non sono Gesù: da secoli benedicono crociate e spade, ungono re e imperatori, rassicurano i ricchi sulla loro capacità di passare dalla cruna di un ago. E tutti quei potenti, da sempre, ricambiano: coprendo la Chiesa di denaro e potere, e ostentando grande devozione personale. È tutto ben noto. Eppure, nell’uso che Matteo Salvini, e con lui una buona parte dei vertici della estrema destra italiana, fanno della religione cristiana c’è qualcosa di ancora più osceno. Ed è l’ovvia, perfino caricaturale, malafede di chi inzuppa il rosario nel mojito, incorniciato dai misteri gaudiosi delle natiche delle cubiste. Ma è solo la superficie: il cortocircuito vero è nella sostanza. E la sostanza è che il più violento predicatore di odio della storia italiana recente brandisce i simboli di una fede fondata sull’amore incondizionato. Che il signore dei porti chiusi sventola un Vangelo in cui Gesù fonda il giudizio finale anche su questa domanda e su questa minaccia: “Ero straniero e non mi avete accolto: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. Che un potente al centro di un giro internazionale di denaro e potere continua a proclamare la sua devozione alla Madonna, che nel Magnificat loda il Signore perché “ha abbattuto i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Che il Dio della vita è ridotto a strumento di una politica di morte. In questo clima anche l’antica nostra incapacità di costruire uno Stato laico (senza crocifissi e presepi nelle scuole della Repubblica, ad esempio) assume connotazioni drammatiche e pericolose. Ebbene, chi invece davvero ci crede, i cristiani “veri”, hanno un solo modo per fermare questa violenza fatta sulla loro fede: prendere la parola in pubblico per condannare l’uso politico della religione. Che è sempre un errore terribile: ma che oggi appare particolarmente grave. Perché se è orribile usare la religione senza crederci, è addirittura mostruoso farlo operando attivamente per realizzare il suo opposto. Perché è evidente che, nelle famose (quanto parziali) radici cristiane la destra sta intagliando clave e bastoni con cui percuotere ogni diverso. E non ci potrebbe essere bestemmia più grande.

per una comprensione evangelica del sacredozio contro una concezione sacrale di esso

Ratzinger contrasta papa Francesco e si fa portavoce dei conservatori presenti nella Chiesa e del peggio della Curia romana

una bella riflessione di   “NOI SIAMO CHIESA” 

La prima reazione alla notizia che tutti i media danno oggi dell’intervento di Ratzinger contro l’abolizione del celibato sacerdotale è stata di sconcerto. Egli rompe la sua iniziale molto esplicita promessa di non intervenire sull’operato del suo successore. Il fatto è grave anche perché non dice cose neutre o fa riflessioni senza riferimenti all’attualità ecclesiale. Stiamo infatti attendendo le decisioni di papa Francesco sulla proposta del Sinodo dell’Amazzonia sui viri probati che sono necessari per la vita della Chiesa in quel continente. Egli si schiera con l’ala più arretrata presente in Vaticano, in questo caso con il Prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti Card. Robert Sarah. Questo Cardinale compie 75 anni in giugno e non dubitiamo che sarà congedato da papa Francesco, come già fece con il prefetto dell’ex-Sant’Uffizio Card. Müller. Avevamo auspicato a suo tempo che, secondo buon senso e responsabilità ecclesiale, Ratzinger-Benedetto XVI si ritirasse, silente, in qualche monastero in Baviera. Ciò non è successo ed ora egli sta perdendo con questo intervento e con quello dello scorso aprile il credito che aveva acquisito, in grandi aree della nostra Chiesa, con le sue dimissioni. Soprattutto ci sembra scorretto che il libro, che uscirà a giorni da Fayard e scritto con Sarah, sia firmato da “Benoit XVI” come appare sulla copertina. Egli, ci sembra, abusi in questo modo della sua precedente autorità nella Chiesa.

Detto questo, ciò che emerge dal testo di Ratzinger/Sarah è una concezione sacrale del “Sacerdote” (noi preferiamo chiamarlo “presbitero”) che è in contraddizione con la migliore teologia, con lo “spirito” del Vaticano II e con la pratica di una parte della vita quotidiana della Chiesa. Il Sacerdote deve essere impegnato soprattutto nella preghiera e nel celebrare l’Eucaristia. Inoltre si afferma nel libro: “Si può dire che l’astinenza sessuale funzionale si è trasformata in astinenza ontologica”. Che significa? Che la consacrazione porterebbe a un cambiamento della natura stessa del credente-prete? Ma i preti sposati, che ci sono nella Chiesa Cattolica, sono di serie B? Non avrebbero questa mutazione ontologica? Noi pensiamo che il prete ha un ruolo nella Chiesa solo perché riconosciuto e accettato dalla sua comunità per la quale egli è il presidente dell’Eucaristia. Qualsiasi riferimento al rapporto presbitero-comunità pare sia assente nel testo. Questa idea del Sacerdote inoltre non fa che congelare l’attuale distinzione rigida esistente tra struttura gerarchica e i “laici”. Essa è evangelica? Non si potrebbe pensare che il celibato sia comprensibile con la vita monastica che ha così tanta tradizione, ma non per la normale vita delle nostre diocesi e delle nostre parrocchie? E poi la negazione dell’Eucaristia a una parte dei credenti, perché impossibile di fatto in alcune situazioni, non costituisce forse un “peccato” della Chiesa a cui si può senza difficoltà porre rimedio modificando una legge solo ecclesiastica? E perché fermare ora una riforma che sarà inevitabile fare in un futuro neanche troppo lontano? Nel testo si afferma anche “che nella Chiesa antica gli uomini sposati potevano ricevere il sacramento dell’Ordine solo se si fossero impegnati a rispettare l’astinenza sessuale e, perciò, a vivere una vita matrimoniale come fratello e sorella. Ciò sarebbe stato del tutto normale nei primi secoli”. È possibile che succedesse una cosa del genere? Che dicono gli storici della Chiesa?

Se si vuole parlare del celibato bisognerebbe parlare allora di tutta la situazione dei presbiteri nella Chiesa, della loro formazione al celibato, delle degenerazioni dei comportamenti di una piccola minoranza (abusi sessuali nei confronti di minori e di suore), della difficoltà ad avere la dispensa dal celibato e anche di altro (oltre a tutti gli aspetti positivi del clero), per esempio del fatto che il prete, per la sua collocazione nella struttura, non rischia mai la disoccupazione o la vera povertà. Poi il libro dice: “Senza la rinuncia ai beni materiali non si può avere sacerdozio”. Bella affermazione, ma bisognerebbe continuarla con una riflessione sui beni della Chiesa, sulla povertà della Chiesa e nella Chiesa. La povertà del singolo, qualora esista, si accompagna, a volte ed almeno in certi paesi, alla gestione, con ben scarsi controlli, dei beni della Chiesa, a volte cospicui; egli dovrebbe avere la preoccupazione di un uso rigoroso e, soprattutto, della loro effettiva destinazione “ai poveri” (come diceva con chiarezza lo stesso codice di diritto canonico del 1917).

Roma, 13 gennaio 2019 Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale “NOI SIAMO CHIESA”

la pace come cammino – messaggio di papa Francesco

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA CELEBRAZIONE DELLA LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2020

LA PACE COME CAMMINO DI SPERANZA

DIALOGO, RICONCILIAZIONE E CONVERSIONE ECOLOGICA

1. La pace, cammino di speranza di fronte agli ostacoli e alle prove
La pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l’umanità. Sperare nella pace è un atteggiamento umano che contiene una tensione esistenziale, per cui anche un presente talvolta faticoso «può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino».[1] In questo modo, la speranza è la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili.
La nostra comunità umana porta, nella memoria e nella carne, i segni delle guerre e dei conflitti che si sono succeduti, con crescente capacità distruttiva, e che non cessano di colpire specialmente i più poveri e i più deboli. Anche intere nazioni stentano a liberarsi dalle catene dello sfruttamento e della corruzione, che alimentano odi e violenze. Ancora oggi, a tanti uomini e donne, a bambini e anziani, sono negate la dignità, l’integrità fisica, la libertà, compresa quella religiosa, la solidarietà comunitaria, la speranza nel futuro. Tante vittime innocenti si trovano a portare su di sé lo strazio dell’umiliazione e dell’esclusione, del lutto e dell’ingiustizia, se non addirittura i traumi derivanti dall’accanimento sistematico contro il loro popolo e i loro cari.
Le terribili prove dei conflitti civili e di quelli internazionali, aggravate spesso da violenze prive di ogni pietà, segnano a lungo il corpo e l’anima dell’umanità. Ogni guerra, in realtà, si rivela un fratricidio che distrugge lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana.
La guerra, lo sappiamo, comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio. Nasce nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, ad escluderlo e cancellarlo. La guerra si nutre di perversione delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della differenza vista come ostacolo; e nello stesso tempo alimenta tutto questo.
Risulta paradossale, come ho avuto modo di notare durante il recente viaggio in Giappone, che «il nostro mondo vive la dicotomia perversa di voler difendere e garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia, che finisce per avvelenare le relazioni tra i popoli e impedire ogni possibile dialogo. La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani».[2]
Ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento sulla propria condizione. Sfiducia e paura aumentano la fragilità dei rapporti e il rischio di violenza, in un circolo vizioso che non potrà mai condurre a una relazione di pace. In questo senso, anche la dissuasione nucleare non può che creare una sicurezza illusoria.
Perciò, non possiamo pretendere di mantenere la stabilità nel mondo attraverso la paura dell’annientamento, in un equilibrio quanto mai instabile, sospeso sull’orlo del baratro nucleare e chiuso all’interno dei muri dell’indifferenza, dove si prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi dello scarto dell’uomo e del creato, invece di custodirci gli uni gli altri.[3] Come, allora, costruire un cammino di pace e di riconoscimento reciproco? Come rompere la logica morbosa della minaccia e della paura? Come spezzare la dinamica di diffidenza attualmente prevalente?
Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca. Il desiderio di pace è profondamente inscritto nel cuore dell’uomo e non dobbiamo rassegnarci a nulla che sia meno di questo.
2. La pace, cammino di ascolto basato sulla memoria, sulla solidarietà e sulla fraternità
Gli Hibakusha , i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, sono tra quelli
che oggi mantengono viva la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde nell’agosto del 1945 e le sofferenze indicibili che ne sono seguite fino ad oggi. La loro testimonianza risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione: «Non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più giusto e fraterno».[4]
Come loro molti, in ogni parte del mondo, offrono alle future generazioni il servizio imprescindibile della memoria, che va custodita non solo per non commettere di nuovo gli stessi errori o perché non vengano riproposti gli schemi illusori del passato, ma anche perché essa, frutto dell’esperienza, costituisca la radice e suggerisca la traccia per le presenti e le future scelte di pace.
Ancor più, la memoria è l’orizzonte della speranza: molte volte nel buio delle guerre e dei conflitti, il ricordo anche di un piccolo gesto di solidarietà ricevuta può ispirare scelte coraggiose e persino eroiche, può rimettere in moto nuove energie e riaccendere nuova speranza nei singoli e nelle comunità.
Aprire e tracciare un cammino di pace è una sfida, tanto più complessa in quanto gli interessi in gioco, nei rapporti tra persone, comunità e nazioni, sono molteplici e contradditori. Occorre, innanzitutto, fare appello alla coscienza morale e alla volontà personale e politica. La pace, in effetti, si attinge nel profondo del cuore umano e la volontà politica va sempre rinvigorita, per aprire nuovi processi che riconcilino e uniscano persone e comunità.
Il mondo non ha bisogno di parole vuote, ma di testimoni convinti, di artigiani della pace aperti al dialogo senza esclusioni né manipolazioni. Infatti, non si può giungere veramente alla pace se non quando vi sia un convinto dialogo di uomini e donne che cercano la verità al di là delle ideologie e delle opinioni diverse. La pace è «un edificio da costruirsi continuamente»,[5] un cammino che facciamo insieme cercando sempre il bene comune e impegnandoci a mantenere la parola data e a rispettare il diritto. Nell’ascolto reciproco possono crescere anche la conoscenza e la stima dell’altro, fino al punto di riconoscere nel nemico il volto di un fratello.
Il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta. In uno Stato di diritto, la democrazia può essere un paradigma significativo di questo processo, se è basata sulla giustizia e sull’impegno a salvaguardare i diritti di ciascuno, specie se debole o emarginato, nella continua ricerca della verità.[6] Si tratta di una costruzione sociale e di un’elaborazione in divenire, in cui ciascuno porta responsabilmente il proprio contributo, a tutti i livelli della collettività locale, nazionale e mondiale.
 Come sottolineava San Paolo VI, «la duplice aspirazione all’uguaglianza e alla partecipazione è diretta a promuovere un tipo di società democratica […]. Ciò sottintende l’importanza dell’educazione alla vita associata, dove, oltre l’informazione sui diritti di ciascuno, sia messo in luce il loro necessario correlativo: il riconoscimento dei doveri nei confronti degli altri. Il significato e la pratica del dovere sono condizionati dal dominio di sé, come pure l’accettazione delle responsabilità e dei limiti posti all’esercizio della libertà dell’individuo o del gruppo».[7]
Al contrario, la frattura tra i membri di una società, l’aumento delle disuguaglianze sociali e il rifiuto di usare gli strumenti per uno sviluppo umano integrale mettono in pericolo il perseguimento del bene comune. Invece il lavoro paziente basato sulla forza della parola e della verità può risvegliare nelle persone la capacità di compassione e di solidarietà creativa.
Nella nostra esperienza cristiana, noi facciamo costantemente memoria di Cristo, che ha donato la sua vita per la nostra riconciliazione (cfr Rm 5,6-11). La Chiesa partecipa pienamente alla ricerca di un ordine giusto, continuando a servire il bene comune e a nutrire la speranza della pace, attraverso la trasmissione dei valori cristiani, l’insegnamento morale e le opere sociali e di educazione.
3. La pace, cammino di riconciliazione nella comunione fraterna
La Bibbia, in modo particolare mediante la parola dei profeti, richiama le coscienze e i popoli all’alleanza di Dio con l’umanità. Si tratta di abbandonare il desiderio di dominare gli altri e imparare a guardarci a vicenda come persone, come figli di Dio, come fratelli. L’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé. Solo scegliendo la via del rispetto si potrà rompere la spirale della vendetta e intraprendere il cammino della speranza.
Ci guida il brano del Vangelo che riporta il seguente colloquio tra Pietro e Gesù: «“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» ( Mt 18,21-22). Questo cammino di riconciliazione ci chiama a trovare nel profondo del nostro cuore la forza del perdono e la capacità di riconoscerci come fratelli e sorelle. Imparare a vivere nel perdono accresce la nostra capacità di diventare donne e uomini di pace.
Quello che è vero della pace in ambito sociale, è vero anche in quello politico ed economico, poiché la questione della pace permea tutte le dimensioni della vita comunitaria: non vi sarà mai vera pace se non saremo capaci di costruire un più giusto sistema economico. Come scriveva Benedetto XVI, dieci anni fa, nella Lettera Enciclica Caritas in veritate : «La vittoria del sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e comunione» (n. 39).
4. La pace, cammino di conversione ecologica
«Se una cattiva comprensione dei nostri principi ci ha portato a volte a giustificare l’abuso della natura o il dominio dispotico dell’essere umano sul creato, o le guerre, l’ingiustizia e la violenza, come credenti possiamo riconoscere che in tal modo siamo stati infedeli al tesoro di sapienza che avremmo dovuto custodire».[8]
Di fronte alle conseguenze della nostra ostilità verso gli altri, del mancato rispetto della casa comune e dello sfruttamento abusivo delle risorse naturali – viste come strumenti utili unicamente per il profitto di oggi, senza rispetto per le comunità locali, per il bene comune e per la natura – abbiamo bisogno di una conversione ecologica.
Il recente Sinodo sull’Amazzonia ci spinge a rivolgere, in modo rinnovato, l’appello per una relazione pacifica tra le comunità e la terra, tra il presente e la memoria, tra le esperienze e le speranze.
Questo cammino di riconciliazione è anche ascolto e contemplazione del mondo che ci è stato donato da Dio affinché ne facessimo la nostra casa comune. Infatti, le risorse naturali, le numerose forme di vita e la Terra stessa ci sono affidate per essere “coltivate e custodite” (cfr Gen 2,15) anche per le generazioni future, con la partecipazione responsabile e operosa di ognuno. Inoltre, abbiamo bisogno di un cambiamento nelle convinzioni e nello sguardo, che ci apra maggiormente all’incontro con l’altro e all’accoglienza del dono del creato, che riflette la bellezza e la sapienza del suo Artefice.
Da qui scaturiscono, in particolare, motivazioni profonde e un nuovo modo di abitare la casa comune, di essere presenti gli uni agli altri con le proprie diversità, di celebrare e rispettare la vita ricevuta e condivisa, di preoccuparci di condizioni e modelli di società che favoriscano la fioritura e la permanenza della vita nel futuro, di sviluppare il bene comune dell’intera famiglia umana.
La conversione ecologica alla quale facciamo appello ci conduce quindi a un nuovo sguardo sulla vita, considerando la generosità del Creatore che ci ha donato la Terra e che ci richiama alla gioiosa sobrietà della condivisione. Tale conversione va intesa in maniera integrale, come una trasformazione delle relazioni che intratteniamo con le nostre sorelle e i nostri fratelli, con gli altri esseri viventi, con il creato nella sua ricchissima varietà, con il Creatore che è origine di ogni vita. Per il cristiano, essa richiede di «lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo».[9]
5. Si ottiene tanto quanto si spera [10]
Il cammino della riconciliazione richiede pazienza e fiducia. Non si ottiene la pace se non la si spera.
Si tratta prima di tutto di credere nella possibilità della pace, di credere che l’altro ha il nostro stesso bisogno di pace. In questo, ci può ispirare l’amore di Dio per ciascuno di noi, amore liberante, illimitato, gratuito, instancabile.
La paura è spesso fonte di conflitto. È importante, quindi, andare oltre i nostri timori umani, riconoscendoci figli bisognosi, davanti a Colui che ci ama e ci attende, come il Padre del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-24). La cultura dell’incontro tra fratelli e sorelle rompe con la cultura della minaccia. Rende ogni incontro una possibilità e un dono dell’amore generoso di Dio. Ci guida ad oltrepassare i limiti dei nostri orizzonti ristretti, per puntare sempre a vivere la fraternità universale, come figli dell’unico Padre celeste.
Per i discepoli di Cristo, questo cammino è sostenuto anche dal sacramento della Riconciliazione, donato dal Signore per la remissione dei peccati dei battezzati. Questo sacramento della Chiesa, che rinnova le persone e le comunità, chiama a tenere lo sguardo rivolto a Gesù, che ha riconciliato «tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» ( Col 1,20); e chiede di deporre ogni violenza nei pensieri, nelle parole e nelle opere, sia verso il prossimo sia verso il creato.
La grazia di Dio Padre si dà come amore senza condizioni. Ricevuto il suo perdono, in Cristo, possiamo metterci in cammino per offrirlo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Giorno dopo giorno, lo Spirito Santo ci suggerisce atteggiamenti e parole affinché diventiamo artigiani di giustizia e di pace.
Che il Dio della pace ci benedica e venga in nostro aiuto.
Che Maria, Madre del Principe della pace e Madre di tutti i popoli della terra, ci accompagni e ci sostenga nel cammino di riconciliazione, passo dopo passo.
E che ogni persona, venendo in questo mondo, possa conoscere un’esistenza di pace e sviluppare pienamente la promessa d’amore e di vita che porta in sé.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2019
Francesco

[1] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi (30 novembre 2007), 1. 
[2] Discorso sulle armi nucleari , Nagasaki, Parco “Atomic Bomb Hypocenter”, 24 novembre 2019.
[3] Cfr Omelia a Lampedusa , 8 luglio 2013.
[4] Discorso sulla Pace , Hiroshima, Memoriale della Pace, 24 novembre 2019.
[5] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes , 78.
[6] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai dirigenti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani , 27 gennaio 2006.
[7] Lett. ap. Octogesima adveniens (14 maggio 1971), 24.
[8] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 200.
[9] Ibid. , 217.
[10] Cfr S. Giovanni della Croce, Notte Oscura , II, 21, 8.messaggio

natale è ‘stupore’ e speranza di fronte al mistero e alla responsabilità della vita, non infantile ‘poesia’

per un
NATALE
di stupore e di speranza

Come sarebbe bello se questo Natale ci riaprisse gli occhi e smascherasse le nostre ipocrisie e le nostre prudenze, ci restituisse un orizzonte più vasto del nostro piccolo ombelico e del nostro personale benessere e tornaconto e ridesse stupore e speranza alle nostre vite

Lo stupore nell’accorgersi che Natale è la festa di un Dio fuori da sé, che esce dal suo spazio sacro per riproporsi a tutto e a tutti come uomo tra gli uomini.

Lo stupore nello scoprire che soltanto fuori dai recinti delle nostre città, dagli spazi ristretti dei nostri spauriti cenacoli, si può rinascere alla vita.

Lo stupore nel vedere che la stella si poggia lontano e fuori dai palazzi dei detentori del potere, dalle chiese dei funzionari del sacro, dalle fortezze di carta degli imbonitori di turno e va nelle case dei semplici e dei poveri, dove pianto, dolore, sogno e amore si intrecciano di continuo.

Lo stupore di un annuncio di cose nuove ai pastori, a coloro che, anche se segnati dalla stanchezza e dalla delusione dell’esclusione, continuano a vegliare la notte e ad ascoltare la luna.

Lo stupore del ritrovare il senso dell’essenziale, del gratuito, delle cose minute: una carezza di tenerezza, un sorso di vino bevuto in compagnia, una fontana d’acqua dove risvegliarci alla vita, un gioco allegro di bimbi, un canto di lotta e di passione, uno stare insieme dove ognuno vive perché l’altro viva, senza più voler accaparrarsi, possedersi, comprarsi.

 

 

che per tutti e per tutte noi sia un Natale così

Buon Natale

di Alessandro prete della Comunità delle Piagge

cresce la solidarietà in Italia? Chiara Saraceno meno pessimista del Censis

Chiara Saraceno

«L’Italia è meno cupa: torna la solidarietà e il desiderio di politica»

Rapporto Censis 2019

intervista alla sociologa e filosofa Chiara Saraceno

«In Italia non c’è abbastanza lavoro né reddito sufficiente per vivere» ma «lo stesso Censis registra il fatto che è aumentato il numero di chi partecipa al volontariato, un aspetto che contraddice l’immagine di una società sfiduciata di cui parla nel rapporto»

di Roberto Ciccarelli

Professoressa Chiara Saraceno il Censis sostiene che prima o poi gli italiani si renderanno conto che delle élite non si può fare a meno.  Cosa ne pensa?

Élite è un concetto usato sempre in modo strumentale, non è mai chiaro che cosa significhi, raramente è specificato.

Significa persone competenti, la classe economica, i professionisti?

Indica anche chi dice di essere contro le élite, ma ne fa parte. Salvini e la Lega, ad esempio. Élite comprende chi governa e chi aspira a governare. Anche la categoria di «italiani» è generica: c’è chi vota in un modo e chi in un altro o si astiene. Chi ha certi saperi e chi altri. Vorrei capire qual è la base empirica di queste indagini. Non imparo mai molto da questi rapporti del Censis, e sempre meno negli ultimi anni. Anche questo rapporto, come tutti gli altri, mette insieme cose di senso comune, più o meno empiricamente fondate, e produce ambivalenze. Sono fantasiosi nel trovare parole chiave e metafore che funzionano per i media, ma rischiano di oscurare la realtà.

Pensa la stessa cosa sulla valutazione del Censis per cui il 48% del campione dei loro intervistati dichiara che ci vorrebbe l’ “uomo forte al potere”?

Non so su cosa sia basato questo 48 per cento. In ogni caso, direi che c’è anche il rovescio: il 62 per cento non lo vuole. Ragionerei invece sul dato più solido e ricorrente delle intenzioni di voto. Sappiamo che il centrodestra guidato da Salvini al momento ha la maggioranza nel paese. Per questo non c’è bisogno del Censis.

Il caso delle sardine, da ultimo, dimostra invece che esiste una ricerca di partecipazione a cui la politica non risponde…

Infatti, anche se può essere un fenomeno ancora minoritario. E si spera che questi movimenti non si disperdano andando troppo in Tv. Lo stesso Censis registra il fatto che è aumentato il numero di coloro che partecipano al volontariato, un aspetto che contraddice l’immagine di una società sfiduciata di cui parla nel rapporto. La situazione è meno cupa di quanto si pensi: esistono molte persone per cui vale la pena di fare qualcosa con gli altri e per gli altri.

Il Censis dice che l’occupazione è un «bluff», nel senso che non produce reddito e crescita ma moltiplica la precarietà. Quando ha scritto un libro come «Il lavoro non basta» è a questo scenario che pensava?

Sì, in Italia non c’è abbastanza lavoro né reddito sufficiente per vivere. Parlo dei working poor, coloro che lavorano e sono poveri. Ci sono sempre stati in questo paese, ma negli anni della crisi sono aumentati sia quelli su base individuale che guadagnano meno, anche a causa dell’aumento del part-time involontario, sia quelli su base familiare che, pur avendo un reddito modesto ma adeguato alle medie salariali, soffrono. A cominciare dai nuclei dove almeno il capofamiglia svolge un lavoro operaio, o assimilato. Nel 12% dei casi si parla di povertà assoluta.

Si è sempre occupata del reddito minimo o di base. Che bilancio dà del cosiddetto “reddito di cittadinanza” istituito in Italia?

Non mi aspettavo che trovasse ai beneficiari un lavoro e quindi non mi scandalizza che oggi non ci sia. Mi scandalizza di più chi oggi in malafede si scandalizza. E mi scandalizza che non sia stato ancora messo in campo un modo per portare al lavoro chi potrebbe lavorare. Vedo due possibili sbocchi a questa situazione: o vanno avanti a oltranza continuando a erogare il sussidio, oppure i beneficiari alla scadenza della misura saranno buttati fuori perché un lavoro non gli è stato offerto e loro non l’hanno trovato. E sarà peggio per loro. Al momento sappiamo che solo una quota sembra pari al 30% dei beneficiari sarebbe nelle condizioni di lavorare subito o quasi. La dice lunga sul tentativo di presentare questa operazione come una politica attiva del lavoro. Se il 70% dei beneficiari non è in grado di lavorare allora parliamo di un sostegno alla qualità della vita, sperando che le nuove generazioni si trovino in una situazione migliore. Bisognerebbe occuparsi della povertà educativa a cominciare dai minori. Ma purtroppo questo lavoro non viene nemmeno fatto oggi.

Anche il Censis parla dei processi di denatalizzazione molto avanzati in Italia. Basta un «assegno universale» alle famiglie dal 2021 di cui parla la ministra Bonetti?

Sono favorevole all’assegno universale ma a prescindere dal reddito perché non avrebbe effetti negativi sul secondo reddito. Se ci fossero le risorse, ovviamente. Se l’assegno è legato al reddito più alto, com’era nella proposta Delrio, si producono ingiustizie. Se lo leghi al reddito familiare c’è il rischio di penalizzare il secondo reddito in famiglia. Mi sembra che il governo sia orientato a una misura di questo tipo. Bisogna allora fare in modo che non ci siano scaglioni di reddito troppo bruschi per cui una differenza di un euro provoca il passaggio a un altro gruppo causando la perdita della misura. Spero però che oltre a questo assegno ci siano i servizi.

Nella legge di bilancio dovrebbero esserci gli asili gratis…

Saranno gratis per chi il nido ce lo ha già, ma non credo sia previsto un intervento per il 75 per cento dei bambini sotto i tre anni che non lo hanno, soprattutto al Sud. Questo è un problema di pari opportunità tra i bambini: bisogna assicurare loro risorse educative al di là della famiglia. Gli investimenti sociali sui servizi non sono costi. Producono domanda di lavoro, e in particolare per le donne. Ci saranno più persone che pagano le tasse, più tutele. C’è sempre una restituzione. È vero che le risorse non sono infinite, ma si può scegliere se spenderle in un modo o in un altro. È sempre una questione di scelte.

per il Censis il cellulare sta facendo perdere la testa agli italiani

Rapporto Censis

“Controllare lo smartphone? Per gli italiani primo gesto del mattino e ultimo prima di andare a dormire”
l’ultimo Rapporto Censis afferma che in 10 anni lo smartphone ha finito per plasmare i desideri e le abitudini degli italiani

nel 2018, il numero dei cellulari ha superato quello delle tv

È il nostro primo gesto del mattino e l’ultimo prima di andare a dormire: controllare il cellulare è ormai un vero e proprio rituale. Lo afferma il Censis che nel suo ultimo Rapporto, afferma che il 25,8% di chi possiede uno smartphone non esce di casa senza il caricabatteria al seguito e oltre la metà (il 50,9%) controlla il telefono sia al risveglio che prima di coricarsi.
Sono queste le istantanee scattate nel 53esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese che dimostrano come la diffusione su larga scala dei telefonini ‘intelligenti’ nell’arco di dieci anni abbia finito con il plasmare i nostri desideri e i nostri abitudini. Nel 2018 il numero dei cellulari ha superato quello delle tv.
Lo smartphone, dunque, rappresenta ormai un oggetto di culto: l’icona della disintermediazione digitale. Il Rapporto rileva anche che la percentuale degli utenti in Italia è passata da un timido 15% nel 2009 all’attuale 73,8%. I pionieri del consumo sono stati gli under 30, passati da un’utenza pari al 26,5% nel 2009 all′86,3% dell’ultimo anno. A partire dal 2016 si registra una impennata anche tra i giovani adulti (30-44 anni), fino ad attestarsi oggi al 90,3%.
“La diffusione su larga scala di una tecnologia personale così potente -sottolinea il Rapporto del Censis – ha contribuito a una piccola mutazione antropologica che ha finito per plasmare i nostri desideri e le nostre abitudini. Il 25,8% dei possessori dichiara di non uscire di casa senza il caricabatteria al seguito. Oltre la metà (il 50,9%) controlla il telefono come primo gesto al mattino o l’ultima attività della sera prima di andare a dormire”.

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