Evangelizzazione: un incontro reciproco fra pellegrini
https://en.wikipedia.org/wiki/Tomáš_Halík
Il filosofo polacco Jósef Tischner inizia il suo saggio sulla fede in tempi di crisi con un racconto riguardante il conflitto tra un parroco e un artista, che aveva l’incarico di creare una pala d’altare per la nuova chiesa del santo fratel Albert Chmielowský.
Secondo le idee e le aspettative del parroco, nell’immagine, il santo fratel Alberto avrebbe dovuto tenere una pagnotta sopra le teste dei poveri e distribuire loro delle fette di pane. L’artista invece voleva dipingere il santo chinato davanti a un povero mentre dal povero avrebbe dovuto come trasparire la figura di Cristo.
verso il povero e gli dona il pane dall’alto e non sta davanti a lui, rivela il trionfalismo della Chiesa. Tischner (nel suo saggio) continua poi con una riflessione sul rapporto tra magistero e fede. Noi invece prendiamo un’altra direzione nell’interpretazione.
proprietaria di Cristo, della verità e della fede, e per questo motivo può dare “dall’alto” ciò che già “le appartiene”. Questa modalità sembra essere logica: tu puoi distribuire solo ciò che possiedi, questa tuttavia è la “logica di questo mondo”. La “logica del regno di Dio” così come noi la leggiamo nel vangelo è qualcosa di diverso, è paradossale. Non si tratta solo del fatto che “a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto ciò che ha” ma si tratta di “chi non rinuncia a tutto ciò che ha non entrerà nel Regno di Dio”.
Una alternativa alla concezione della Chiesa come una Chiesa proprietaria, che possiede, è l’ideale di una Chiesa concepita come una “communio viatorum”, una comunità di pellegrini. È un cristianesimo che è un cammino, che deve continuamente riscoprire Cristo. Soprattutto quando i discepoli di Gesù, dopo l’annuncio e l’esempio del loro maestro, si mettono al servizio dei bisognosi, allora essi nei poveri incontrano Cristo. Loro lo scoprono proprio in quel povero, in quel nullatenente. Cristo viene proprio in quel “niente”. Niente, la povertà, il non possedere nulla, il non trattenere nulla – questo ci ricorda Meister Eckhardt – è quella porta attraverso la quale la pienezza viene nel mondo e che non assomiglia a nulla nel mondo.
Nel racconto del vangelo gli apostoli dopo la risurrezione, davanti alla tomba vuota sono stati invitati a ritornare nella loro patria, in Galilea. “Lì lo vedrete”. Oggi noi cristiani nella ricerca del Cristo vivente siamo chiamati a tornare a quelle forme del cristianesimo che spesso ricordano tombe vuote, “sepolcri e monumenti sepolcrali di Dio”, siamo inviati al mondo dei bisognosi. Lì lo vedrete, lì lo incontrerete. Questa è la Galilea di oggi dove si può vivere il mistero della risurrezione e della vita nuova.
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Cristo, la verità, la fede, accadono (si realizzano) in quell’incontro, in quell’atto del donare, del servire, dell’uscire da se stessi – la Chiesa è nella situazione di colui che riceve solo se dà. In Cristo il donare e il ricevere sono strettamente indivisibili. Non si tratta solo del “tu non hai nulla che non abbia ricevuto” ma, ancora più radicalmente si tratta del “non hai altro che quello che hai donato”. Ricordiamoci dell’affermazione di Cristo a proposito del tesoro nel cielo.
spirituale della Chiesa: la Chiesa “ha” il Vangelo, i sacramenti, i carismi, la successione apostolica, la dottrina, la conoscenza – essa ha Cristo, ha la verità…
Io non ho per nulla intenzione di negare questa pretesa alla Chiesa, al “Corpo mistico di Cristo”. Tuttavia è necessario chiedere: quale carattere ha questo possedere? E noi cristiani che rapporto abbiamo con questa ricchezza spirituale?
A volte mi viene in mente che noi non ci lasciamo istruire abbastanza dalla parabola dei talenti che sono stati assegnati (cfr Mt 25,14-30). A chi ha sotterrato con ansia tutto ciò che gli era stato dato, che non voleva distribuirlo, che neanche per un momento voleva rinunciare a ciò che gli era stato dato, che non voleva rischiare di perdere il talento, a questa persona fu infine tolta tutta questa sicurezza che aveva protetto con cura e gli fu tolta con umiliazione. Solo coloro che hanno donato, distribuito, quei valori che erano stati loro assegnati, che li hanno “investiti”, rischiando anche di perderli, solo questi hanno agito correttamente.
anche la nostra ricchezza spirituale può essere una parte di quelle sicurezze alle quali noi dobbiamo rinunciare per essere liberi per un cammino ulteriore, liberi per la fede, liberi per la via del discepolato.
Sì, certamente, noi cristiani da secoli doniamo molto – attraverso l’insegnamento e la predicazione, il lavoro sociale e caritativo e attraverso tutto questo sicuramente diffondiamo il bene – tuttavia non è che spesso lo facciamo un po’ come quel fratello santo Albert nell’immaginazione del parroco, cioè dall’alto? Noi doniamo “del nostro superfluo”. Tuttavia agli occhi di Gesù trova grazia solo una povera vedova che dona prendendo dal poco che ha, dalla sua povertà.
solo quando avremo il coraggio di ammettere le nostre debolezze e anche di accettarle, solo allora riusciremo ad aprire la porta all’azione della potenza di Dio (affinchè si manifesti l’effetto della potenza di Dio). Questo vale anche per le sicurezze teologiche: solo quando, come l’apostolo Paolo, riusciamo ad ammettere che la nostra conoscenza delle cose di Dio è solo parziale, come nei misteri, come in uno specchio, solo quando noi faremo questo la risposta a quei misteri si avvicinerà e lo specchio non sarà più cieco. Solo quando noi diventeremo consapevoli, con tutte le conseguenze, di essere in cammino e non già arrivati al traguardo, allora il nostro cammino non sarà più un girovagare in circolo, in un circolo vizioso, in un circolo diabolico, con un ripetersi senza uscita. Se il chicco di grano non muore non porta frutto.
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Tuttavia dopo un certo tempo sono stato preso dal dubbio riguardo a quella metafora di Joseph Ratzinger. Non è che dietro questa metafora del “cortile dei gentili” si nasconde una certa concezione trionfalistica della Chiesa, simile a quella che Tischner e l’artista polacco sentivano che c’era dietro al progetto del parroco di fare un’immagine del santo fratello Albert che distribuiva il pane “dall’alto”? Non è che dietro a questa comparazione, sia pure in senso buono, della Chiesa con il tempio di Gerusalemme si nasconde qualcosa di molto pericoloso?
La Chiesa deve veramente assomigliare a quella costruzione altamente ambiziosa “dentro” la quale ha luogo l’azione sacra, a un grande santuario accuratamente sorvegliato, che è fisicamente diviso: riservato ai sacerdoti, anzitutto, poi agli uomini del popolo eletto, dopo ancora alle donne e alla fine ai “non circoncisi”? Non era proprio questo tipo di religione, rappresentata attraverso il tempio, oggetto della continua critica dei profeti e soprattutto di Gesù stesso? Non è stato proprio Gesù a dire, di quel tempio che fa gioire gli occhi dei devoti, che non rimarrà pietra su pietra (anche se proprio per queste dure parole egli pagò con la condanna a morte davanti al sinedrio)? E questa profezia di Gesù non si è già compiuta da molto tempo? Non ha già la “magnificenza di Dio” abbandonato il tempio? E non hanno proprio mostrato già Gesù, Paolo e l’autore della lettera agli Ebrei che non dobbiamo cercare più Dio nel tempio perché egli è definitivamente uscito dal tempio – e andato certamente molto oltre il cortile dei gentili? Non sottolinea il Vangelo che con la morte di Gesù “il velo del tempio si squarciò in due”?
La Chiesa, oggi, è in una situazione in cui si può permettere di aprire “il cortile dei gentili” o è piuttosto in una situazione in cui dovrebbe recarsi in maniera umile nei “cortili dei gentili” per tentare di rivolgere la parola ai “gentili/pagani” nella loro lingua, usando il loro linguaggio, come fece ad esempio Paolo nell’Areopago?
Non siamo oggi nella situazione che di quel “tempio” sublime, forma della religione cristiana, rimane solamente il “muro del pianto”?
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A mio parere, il secondo elemento rischioso di quella metafora del papa, è il mettere a confronto colui che è alla ricerca di religioso oggi, colui che adora “il dio sconosciuto”, con il pagano devoto del tempo di Gesù. Chi sono coloro per i quali oggi la chiesa dovrebbe aprire il “cortile dei gentili”?
Sono coloro che oggi venerano un “dio sconosciuto” i pagani devoti, come ai tempi in cui il tempio di Gerusalemme esisteva ancora e Paolo predicava ad Atene? O sono piuttosto gli ex cristiani e i “post-cristiani” (quindi i figli e i nati successivamente rispetto alla “cultura cristiana”) che la Chiesa di oggi non solo dovrebbe convincere di ciò di cui (anche se senza successo e in maniera vana) Paolo ha tentato di convincere i suoi ascoltatori nell’areopago? Ovvero convincerli che il “dio sconosciuto” che loro cercano e professano, a noi è ben conosciuto in Cristo, rivelatosi in tutta la sua pienezza sulla croce e nella risurrezione di Gesù di Nazaret e che loro possono incontrare ancora oggi nella Chiesa?
Il cristianesimo di oggi ha quei simpatizzanti come li aveva l’ebraismo ai tempi di Gesù? Chi sono, come bisogna chiamarli, come bisogna capirli, come bisogna comunicare con loro?
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Se noi vogliamo veramente rivolgerci a coloro che sono in ricerca, dovremmo evidentemente farlo non come coloro che in maniera generosa aprono “il cortile dei gentili” (perché loro stessi hanno il diritto di cittadinanza all’interno del santuario), non dovremmo farlo come coloro che davanti a loro si chinano (dall’alto in basso) come faceva il santo fratello Albert nella versione del parroco. Se vogliamo veramente incontrare coloro che sono effettivamente in ricerca in maniera credibile allora questo incontro deve essere un incontro reciproco tra pellegrini – non un incontro fra coloro che posseggono e coloro che stanno morendo di fame, fra coloro che sanno e coloro che cercano, fra coloro che sono già arrivati al traguardo e coloro che stanno ancora girovagando. Se noi consideriamo gli altri “fratelli separati”, riveliamo spesso di essere inconsapevolmente nel ruolo del vecchio fratello coraggioso e virtuoso – quindi in quel ruolo nei confronti del quale Gesù ci mette in guardia nella parabola del figliol prodigo (cfr. Lc 15,11-32).
oggi dovremmo forse parlare di una “solidarietà tra pellegrini”.
Io suppongo che questa nostra solidarietà di cristiani possa implicare il fatto che noi rinunciamo al monopolio della conoscenza di Cristo – nel senso che rinunciamo a quella sicurezza a priori data dalla convinzione che noi abbiamo già conosciuto Cristo pienamente, che noi lo possediamo e per questo lo possiamo offrire agli altri. Dio è un mistero insondabile, inesauribile. La fede, la convinzione della Chiesa che Gesù Cristo è Dio, è “di essenza divina”, che è “uno con il Padre” e così via, mi porta ad essere persuaso che io non ho “a mia disposizione” Cristo in ogni momento della mia vita, cosa che mi porterebbe a pensare che non mi rimanga altro da scoprire ancora su di lui, che lui non sia più per me un mistero inesauribile, un invito a un nuovo incontro ed a una scoperta infinita.
Forse “il cortile dei gentili” può essere anche per noi il luogo dove possiamo scoprire Cristo in maniera più profonda e incontrarlo – e proprio negli altri. E questa via ci può portare ancora più avanti, al di là del “cortile dei gentili” che è circoscritto al tempio. Forse questa via ci porta dai veli squarciati del tempio e dalle tenebre del venerdì santo, verso Emmaus, dove ci cadono le bende dagli occhi e dove solo quando noi “spezziamo il pane” con gli altri si crea la situazione in cui “Cristo av-viene” (cioè si fa esperibile in mezzo a coloro che credono), la situazione in cui noi possiamo fare esperienza di lui, sia gli uni che gli altri (cfr. Lc 24,13-35). Sulla via verso Emmaus, Cristo compare nella forma di un “pellegrino sconosciuto”.
Forse ciò significa anche che l’altro, sia esso di “altra confessione”, sia un “pagano” o un “ateo”, per me non è un oggetto della mia missione al quale io posso dare Cristo e la fede come qualcosa che – a differenza di lui – “posseggo” già. Forse Cristo viene verso di me anche in colui che percorre altre vie rispetto alle mie, colui che per me è un “pellegrino straniero e sconosciuto”.
Per molti secoli i cristiani hanno ritenuto che ci fosse un’unica conversazione sensata e veramente auspicabile con un “pagano”: una conversazione che portava alla sua conversione, che lo conduceva alla soglia della Chiesa e che culminava nel dialogo di ammissione al percorso del catecumenato:
“Cosa chiedi alla Chiesa di Dio?”.
“La conoscenza di Cristo”.
“E perché vuoi conoscere Cristo?”
“Per diventare suo discepolo”.
Immaginiamoci per un momento uno scambio di ruoli: Ora sono gli altri, i “pagani”, a chiedere ai cristiani: Cosa volete da noi? E sono i cristiani che questa volta rispondono loro: “La conoscenza di Cristo”. “E perché volete conoscere Cristo?”. “Per diventare suoi discepoli”.
diventare suoi discepoli.
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Il Dio di cui narra la Bibbia trascende radicalmente le nostre concezioni e i nostri giudizi e amplia l’orizzonte del possibile al di là dei confini: “A Dio niente è impossibile”. Il giudizio universale, il giudizio di Dio, così come lo descrive Cristo, sarà il momento di una grande sorpresa. Solo allora Cristo ci mostrerà le molte forme in cui ci ha incontrati nell’altro, nello straniero. Saranno redenti coloro che gli sono venuti incontro anche se non lo hanno riconosciuto. Forse è proprio questo andare incontro allo straniero che rende possibile la reale conoscenza di Cristo.
“Perché vuoi conoscere Cristo?” chiede il Vescovo a nome della Chiesa ai futuri catecumeni. “Per diventare suoi discepoli”, suona la risposta prescritta. Forse possiamo girare questo dialogo in maniera diversa. Noi diventiamo suoi discepoli se, nella relazione con l’altro, diventiamo prossimi, come egli stesso ci ha insegnato. Secondo l’esempio di Paolo, che divenne “giudeo con i giudei e greco con i greci”, diventiamo “tutto in tutti”. Se diventiamo discepoli in questa maniera allora sì che lo riconosceremo veramente e solo allora lo accoglieremo così come egli è.
Cristo è il pane che viene donato: se lo vogliamo incontrare dobbiamo essere contemporaneamente coloro che donano e coloro che ricevono. Noi riceviamo donando e doniamo rinunciando a ciò che possediamo, collocandoci umilmente fra i bisognosi, fra coloro che sono aperti ai doni e li accettano in maniera riconoscente.
(Questo studio è stato reso possibile attraverso il sostegno del progetto “Creatività e capacità di adattamento, presupposto per il successo dell’Europa in un mondo interconnesso”. Reg. Nr. CZ.02.1.01/0.0/0.0/16_019/0000734, finanziato dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale.) Versione rivista di un capitolo di Divadlo pro anděly (Prague, NLN 2010). Traduzione di Milena Brentari.
IL C.C.I.T. 2019 IN CROAZIA
Si è svolto nei giorni scorsi, dal 5 al 7 aprile, a Trogir, in Croazia, nel grandioso e ospitale albergo Medena, il C.C.I.T. 1920 (Comitée Catholique International pour les Tziganes), che ha messo al centro dell’attenzione, riflessione e dialogo dei vari operatori pastorali tra il popolo rom provenienti da una quindicina dei paesi europei, avente come titolo:
“la missione di ritorno: sorgente di cambiamento”
nella consapevolezza (che si forma ogni giorno di più nell’incontro accogliente, , dialogico, ‘innamorato’ dell’alterità dell’ ‘altro’ che nella sua ‘diversità’ e ‘alterità’ arricchisce e ‘mette in crisi’ l’umanità dei due) che
“l’incontro vero cambia lo sguardo, la teologia, la pastorale, la cultura di colui che è incontrato”
e una vera ‘missionarietà’ verso il mondo dei rom è un forte
“invito a una condivisione in reciprocità per le nostre comunità, le nostre chiese, le nostre società”
Secondo il programma il pomeriggio del venerdì 4 aprile ci siamo ritrovati e accolti reciprocamente nella cena comune, nella preghiera animata dal gruppo pastorale della Croazia e dal consueto ‘vino dell’amicizia’.
La mattina del sabato 6 aprile, dopo il messaggio del Consiglio Pontificio nella persona del Card. Turkson e portatoci da suor Alessandra e l’Introduzione del presidente del C.C.I.T. il sacerdote rom Claude Dumas,
ha avuto luogo la conferenza del teologo, filosofo, sociologo Tomàs Halìk che ha delineato una profonda distinzione fra una chiesa che ‘distribuisce il pane ai poveri’ e una chiesa che ‘scopre Cristo nei poveri che serve e proprio attraverso il servizio che presta’, due modi radicalmente diversi di comprendere la chiesa e il cristianesimo, la missionarietà, la nostra stessa presenza tra i rom.
“Se noi vogliamo veramente rivolgerci a coloro che sono in ricerca, dovremmo evidentemente farlo non come coloro che in maniera generosa aprono ‘il cortile dei gentili’ (perché loro stessi hanno il diritto di cittadinanza all’interno del santuario), non dovremmo farlo come coloro che davanti a loro si chinano (dall’alto in basso) … Se vogliamo veramente incontrare coloro che sono effettivamente in ricerca in maniera credibile allora questo incontro deve essere un incontro reciproco tra pellegrini – non un incontro tra coloro che posseggono e coloro che stanno morendo di fame, fra coloro che sanno e coloro che cercano, fra coloro che sono già arrivati al traguardo e coloro che stanno ancora girovagando. Se noi consideriamo gli altri ‘fratelli separati’, riveliamo spesso di essere inconsapevolmente nel ruolo del vecchio fratello coraggioso e virtuoso – quindi in quel ruolo nei confronti del quale Gesù ci mette in guardia nella parabola del figliol prodigo (cfr. Lc 15, 11-32)”.
“Cristo è il pane che viene donato: se lo vogliamo incontrare dobbiamo essere contemporaneamente coloro che donano e coloro che ricevono. Noi riceviamo donando e doniamo rinunciando a ciò che possediamo, collocandoci umilmente fra i bisognosi, fra coloro che sono aperti ai doni e li accettano in maniera riconoscente”
Densa e stimolante, la relazione di Halìk è stata oggetto di dialogo, discussione, riflessiione e approfondimento nei diversi ‘gruppi di lavoro’ (Carrefour per gruppi linguistici).
Il pomeriggio del sabato ha visto l’apprezzabile testimonianza di Nathalie Gadéa e delle Piccole Sorelle di Gesù, la celebrazione eucaristica e la serata festiva che come da tradizione vede la messa in comune dei prodotti culinari più tipici e caratteristici dei vari luoghi di provenienza dei partecipanti con le immancabili musiche e danze rom.
La mattina della domenica 7 aprile ha avuto luogo la descrizione della ‘situazione in Croazia’ (una analisi della realtà sociale e religiosa della vita dei rom in Croazia) da parte dei professori Neven Hrvatì e Kristina Cacic
L’eucarestia con l’omelia del presidente Claude Dumas e il pranzo hanno chiuso il C.C,I,T, 2019 dandoci l’appuntamento in Italia per il C.C.I.T. 2020.
POVERTÀ, IMMIGRAZIONE E WELFARE
A LUCCA
dal 10 al 12 maggio torna l’evento dedicato alla solidarietà che si terrà in piazza Napoleone con tanti ospiti
Sarà una lezione su volontariato e legalità di don Giacomo Panizza, fondatore e presidente della Comunità Progetto Sud ad aprire a Lucca il 10 maggio il Festival del Volontariato, organizzato dal Centro Nazionale per il Volontariato (Cnv) e dalla Fondazione Volontariato e Partecipazione (Fvp). Tanti i temi sotto la lente del programma culturale i cui convegni saranno ospitati – nella tre giorni dell’evento da venerdì 10 a domenica 12 maggio – da una tensostruttura attrezzata che verrà montata nella centrale Piazza Napoleone.
“Il Festival del Volontariato lancerà un messaggio di speranza – spiega il presidente del Cnv Pier Giorgio Licheri -. Alzeremo il velo sul Paese che ‘ricuce’, che rimette insieme ciò che è ai margini, o rischia di finirci, in un’ottica inclusiva. C’è un filo comune che lega tutti i convegni e le attività di animazione che dipingeranno ancora una volta Lucca dei colori del volontariato: lo sguardo fedele ai valori costitutivi del volontariato che sa interpretare i nuovi bisogni e dare risposte innovative, svolgendo il suo ruolo scomodo nei confronti della politica e del pubblico”.
Fra i primi nomi di esperti e testimoni che hanno assicurato la loro presenza all’evento ci sono la sociologa Chiara Saraceno, la quale, insieme al responsabile d’area nazionale di Caritas Francesco Marsico e alla statistica sociale Linda Laura Sabbadini, darà un quadro aggiornato sulle risposte alle povertà; sul ruolo insostituibile del terzo settore per costruire comunità parleranno il direttore di Aiccon Paolo Venturi, il presidente di Assifero Felice Scalvini insieme al Direttore del Terzo Settore del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Alessandro Lombardi che porterà nel dibattito anche le più recenti evoluzioni della riforma del terzo settore. Sempre nel corso della prima giornata si parlerà di migrazioni e dei faticosi percorsi di inclusione. Sabato 11 maggio focus sui temi della protezione civile e della comunicazione del rischio, le politiche per la disabilità, il volontariato penitenziario e i giovani, con le esperienze del Corpo Europeo di Solidarietà e del Servizio Civile Universale.
le risposte di Dio
da Altranarrazione
Se vuoi conoscere il giudizio di Dio sulla proprietà privata, sull’accumulazione economica, sulla questione ambientale, sulla testimonianza a cui è chiamata la Chiesa: leggi gli scritti e segui l’esempio di Francesco e Chiara d’Assisi.
Se vuoi sottrarti alle deformazioni su Dio operate dai falsi profeti, conoscere la sua Misericordia e capire come agisce la sua Grazia sulle nostre fragilità: leggi gli scritti e segui l’esempio di Teresa di Gesù Bambino.
Se vuoi scoprire la presenza di Dio nella tua anima, imparare a costruire un luogo riservato al dialogo vitale con Lui, comprendere che la vocazione alla contemplazione non è riservata a pochi eletti: leggi gli scritti e segui l’esempio di Elisabetta della Trinità.
Se vuoi sapere perché Dio ha scelto i poveri e la compassione come luogo teologico: leggi gli scritti e segui l’esempio di Oscar Arnulfo Romero.
Se vuoi scrutare il pensiero di Dio sui comportamenti che la Chiesa deve tenere nei confronti della mafia, della camorra e di tutte le organizzazioni criminali: leggi gli scritti e segui l’esempio di don Pino Puglisi e don Peppe Diana.
Se vuoi apprendere la posizione di Dio nei confronti dei regimi: leggi gli scritti e segui l’esempio di don Pietro Pappagallo e don Giuseppe Morosini.
Se vuoi approfondire le questioni legate all’obbedienza alle gerarchie, all’impegno sociale, ai criteri per decidere da quale parte stare: leggi gli scritti e segui l’esempio di don Lorenzo Milani.
leggere il vangelo a partire dai poveri
un dialogo con frei Betto
“Per tre giorni appeso al ‘pau-do-arara’ o seduto sulla ‘sedia dei drago’, fatta di placche metalliche e fili, ricevette scosse elettriche alla testa, ai tendini dei piedi e alle orecchie. Gli dettero legnate sulla schiena, sul petto e sulle gambe, gonfiarono le sue mani con staffilate, lo vestirono di paramenti e gli fecero aprire la bocca ‘per ricevere l’ostia consacrata’: scariche elettriche sulla bocca”.
A subire queste brutalità erano giovani religiosi domenicani arrestati nel 1969 in Brasile con l’accusa di essere al fianco delle forze comuniste. Uno di loro, frei Tito, non riuscì a reggere la prova e, una volta liberato, qualche anno più tardi, si impiccò su un albero nel convento di Lione.
Ricordo ancora la splendida poesia di padre Turoldo:
“Che Dio ci perdoni ci perdoni di esistere / ci perdoni di dirci cristiani / ci perdoni questi anni / santi Frei Tito / ancora pendente all’albero / (della vita nel nuovo giardino!) / davanti al convento di Lione”.
Insieme a frei Tito in carcere a subire torture c’era anche frei Betto. Il quale due anni dopo pubblicò un libro doloroso e magnifico dal titolo “Dai sotterranei della storia” dove ripercorreva quella brutale vicenda. Frei Betto, autore di numerose pubblicazioni, viene spesso in Italia a tenere incontri e conferenze.
Frei Betto, qual è il senso, oggi, della teologia della liberazione?
È credere, nonostante tutto, nel Dio della vita. Teologia della liberazione significa coniugare la visione della fede con l’anelito alla liberazione. Penso che ogni cristiano che viva il mistero della fede con gioia, con senso di liberazione, che vive l’amore, l’impegno per la lotta per la giustizia, pratichi la teologia della liberazione.
Una volta un vescovo mi chiese: “Ma perché cercare un’altra teologia quando c’è già la teologia della Chiesa di Roma?” Gli risposi: “Nel Vangelo ci sono quattro teologie diverse, quella di Matteo, di Giovanni, di Luca e di Marco. E se ci sono già queste quattro visioni diverse di Gesù, queste quattro diverse visioni della Chiesa, perché stupirsi proprio della teologia della liberazione?”. Gesù, a differenza di quanto crediamo, ha attraversato molti conflitti. Dalla nascita alla morte in croce. Ha spesso conflitto con quanti si consideravano molto religiosi: i farisei, i sadducei, i dottori della legge. Questi accettavano la Torah, proprio come Gesù. Ma la differenza stava nell’ottica.
Nessun testo è evidente per se stesso. Testo, contesto, pretesto: sono i principi della teoria letteraria e dell’ermeneutica. Voi italiani comprendete meglio di me la poesia di Dante perché vivete nel contesto in cui il testo è stato prodotto. Però noi capiamo meglio l’opera di Jorge Amado perché abitiamo nel contesto in cui lui ha scritto. La teologia della liberazione è una lettura della bibbia partendo da un contesto di oppressione. Il principio base è semplice. Crediamo che sia compito della Chiesa fare quello che Gesù ha detto: difendere e promuovere il maggiore dono di Dio, la vita.
In America Latina la maggior parte della gente vive nella povertà e la maggioranza è di fede cristiana. Quindi la domanda principale di questa gente è: Dio vuole che noi rimaniamo in questa sofferenza? Oppure, come sta scritto nella prima pagina della Bibbia, ha creato il mondo in modo che fosse un giardino, un meraviglioso giardino con uccelli, fiori, acqua cristallina? La teologia della liberazione, non è una teoria, non è un qualcosa nato nelle biblioteche, alle scrivanie, nelle accademie, nelle università religiose… No! È la sistematizzazione dell’esperienza di fede dei poveri alla ricerca della loro liberazione.
Cosa vuol dire rileggere la Bibbia da questo punto di vista?
Ti faccio un esempio. Se noi analizziamo i quattro Vangeli ci rendiamo conto che le domande che vengono rivolte a Gesù sono essenzialmente due. La prima è: “Signore cosa devo fare per guadagnare la vita eterna?” In nessuno dei quattro Vangeli questa domanda esce dalla bocca di un povero; esce sempre dalla bocca di chi ha assicurata la vita terrena e allora vuole sapere come guadagnare anche quella celeste. Ebbene, tutte le volte che Gesù ascolta questa domanda reagisce con una certa irritazione. È il caso di Zaccheo, o del dottore della legge che ode la parabola del buon samaritano, del ricco che ha finito col far inquietare Gesù, chiamandolo in un modo che gli aveva dato fastidio: chiamandolo maestro.
L’altra domanda è la domanda dei poveri: “Signore, cosa devo fare per avere vita in questa vita?” “Il mio occhio non vede, io voglio vedere; la mia mano è secca, ho bisogno di lavorare; mia figlia è malata e io voglio vederla sana”. I poveri chiedono a Gesù una vita in questa vita. Una vita in abbondanza. A loro Gesù risponde con compassione e amore. Quindi per noi nella Chiesa del Brasile la vita è il dono maggiore di Dio. Una Chiesa indifferente alla fame del popolo, una Chiesa indifferente ai bambini di strada, una Chiesa indifferente a quindici milioni di persone senza terra, una Chiesa indifferente a quanti lavorano ancora oggi in Brasile in uno stato letterale di schiavitù, è una Chiesa che considera il Sabato più importante dell’uomo.
Per fortuna però, una parte molto significativa della Chiesa del Brasile ha cercato, e lo sta facendo ancora, di mettere l’uomo davanti al Sabato; di essere fedele alla vita di questo popolo latinoamericano che ha sofferto per secoli a partire dalla colonizzazione e che oggi continua a soffrire a causa della globo-colonizzazione.
Leggere la Bibbia è un invito al cambiamento e alla speranza…
Proprio cosi. Vivere la fede in America Latina è avere la speranza di superare la miseria e la povertà. La gente incontra nella Bibbia, nella parola di Dio, il proprio alimento per capire meglio se stessi, per capire la lotta che sta vivendo e per trovare soluzioni. Faccio una metafora per spiegare meglio questo concetto. Per molta gente aprire la Bibbia è come aprire una finestra su interessanti fatti del passato. Nelle comunità ecclesiali di base, invece, la gente povera, quando apre la Bibbia, è come se guardasse se stessa in uno specchio, lo fa per riuscire a capirsi meglio, qui e ora.
Lei ha incontrato spesso mons. Helder Camara. Qual è il suo ricordo?
Dom Helder era un esponente della teologia della liberazione quando ancora non esisteva questo termine. Durante la dittatura fu censurato da tutti mezzi di comunicazione brasiliani ma, dato che era molto popolare, i militari avevano paura che potesse essere vittima di un attentato e che la responsabilità cadesse su di loro. Mandarono dunque la polizia federale ad offrire a Dom Helder una scorta di sicurezza. Lui disse di non aver bisogno della protezione della polizia perché diceva che aveva già delle persone che si occupavano di lui e lo proteggevano. Il capo della polizia disse che era proibito avere delle guardie private e voleva sapere i nomi degli i agenti privati perché dovevano essere registrati presso gli elenchi della polizia. Dom Helder rispose: “Può scrivere i loro nomi: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.
In un’altra occasione un operaio venne confuso con un trafficante di droga, fu arrestato in una favela, portato al commissariato e torturato. La moglie di quest’operaio andò bussare alla porta di Dom Helder. Dom Helder andò al commissariato e disse all’ufficiale di polizia: sono venuto qui, signore, perché mio fratello è stato arrestato; e l’ufficiale rispose: ma come signore, suo fratello? Come è possibile, siete così diversi! Nemmeno il nome corrisponde! Sì, siamo fratelli, disse dom Helder, ma solo da parte di Padre.
Gesti che raccontano l’amore passa attraverso scelte…
Come in Gesù del resto. In tutta la sua predicazione, il diritto alla vita, diritto per tutti, è presente in modo continuativo. Per lui più che avere fede è importante avere amore. Gesù non può concepire una fede senza gesti d’amore. Per questo, alcuni teologi dicono che più che importante avere fede in Gesù è avere la fede di Gesù: questa è l’essenza della vita cristiana.
La fede di Gesù era centrata su due dimensioni. La prima era una profonda intimità con Dio. È impressionante il tempo che Gesù, in una giornata, dedicava alla preghiera. Amava stare in intimità con Dio, ritagliarsi lunghi tempi e momenti. L’altra dimensione è il rapporto con il prossimo. Che lo portava a fare scelte precise. Dovremmo ricordarcelo più spesso. I cambiamenti in atto sono profondi e quando cambiano le epoche, cambiano pure i paradigmi. Il paradigma medioevale fu la fede, il paradigma moderno la ragione, che ha prodotto due figlie predilette, la scienza e la tecnologia. Il paradigma della post modernità pare essere il mercato, la mercantilizzazione di tutte le ragioni della vita. Se cosi è, noi dove siamo? Che volto di Dio mostriamo con le nostre scelte?