contro il letteralismo biblico – l’ultimo libro di Spong

L’“eresia dei gentili”: la rivoluzione teologica di John S. Spong

l’“eresia dei gentili”: la rivoluzione teologica di John S. Spong

 da: Adista Notizie n° 8 del 02/03/2019
Se qualche adulto prova ancora piacere a leggere l’Iliade o l’Orlando furioso è perché, sin da ragazzo, queste opere gli sono state presentate come poemi, creazioni di fantasia pregne di significati morali e di insegnamenti esistenziali. La Bibbia – Antico e Nuovo Testamento o, come si preferisce dire per rispetto verso gli Ebrei, Primo e Secondo Testamento – non ha avuto la stessa sorte. Indubbiamente chi l’ha redatta, mettendo per iscritto secolari tradizioni orali, non intendeva fare opera di storia né di scienze naturali, quanto esprimere – attraverso miti, poemi, leggende, fiabe, epopee, omelie – alcune convinzioni di fede del suo popolo. Ma quando la Bibbia è uscita dall’alveo medio-orientale – ed è stata ascoltata, letta, tradotta dai “Gentili”, da Greci e Latini – il registro linguistico originario è stato inesorabilmente frainteso: Adamo, Eva, Abramo, Mosé… non più figure simboliche, ma personaggi storici dalla fisionomia e dalle vicende francamente inverosimili.

Oltre il letteralismo

Da un secolo a oggi la teologia sta cercando di uscire dall’equivoco bimillenario, da un “letteralismo” imbarazzante che costringe i nostri contemporanei mediamente istruiti a una scelta dolorosa: o credere (rinunziando a ciò che le scienze umane e naturali, oltre che la logica, insegnano) o gettare alle ortiche la Bibbia (salvando la propria integrità intellettuale). Certo, de-mitizzare il Primo Testamento è stato relativamente facile; non altrettanto agevole l’operazione per il Secondo Testamento. Il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con notevole coraggio (ha dovuto sopportare non solo reazioni accademiche ed ecclesiastiche, ma perfino aggressioni fisiche), si è impegnato su questa strada, pubblicando – accanto ad altri titoli interessanti –

Letteralismo biblico: eresia dei Gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo,

ed. it. a cura di don Ferdinando Sudati, Massari ed., Bolsena (Vt) 2018 (ed. or. 2016), pp. 398

Spong non nega certo che il germe dei vangeli sia stata un’esperienza storica, solo ne circoscrive attentamente i contorni: nel primo secolo della nostra era alcuni ebrei furono affascinati dalla personalità e dal messaggio di un maestro nomade, Jeshua di Nazareth, e per qualche anno si misero al suo seguito. Le autorità religiose ebraiche lo percepirono però come un pericoloso sovversivo dell’ordine (teologico-morale-politico-sociale) costituito e lo fecero condannare a morte dall’autorità romana occupante la Palestina. I discepoli caddero in un profondo sconforto ma le esperienze mistiche attestate da alcuni di loro li convinsero che il maestro non era precipitato nel nulla della morte, che al contrario era stato accolto e reso immortale dall’abbraccio del Dio vivente. Pochi decenni dopo la crocifissione (51- 64) è Paolo, con le sue lettere, a formulare e diffondere la fede in Gesù; poco dopo è Marco (intorno al 72) che riprende la predicazione paolina e la struttura in un racconto più ampio e articolato: il primo dei quattro vangeli ritenuti, nel IV secolo, gli unici “canonici”. Ancora poco dopo un decennio (intorno all’84) Matteo riprende, a sua volta, il testo di Marco e lo amplifica, arricchendolo di dettagli: secondo quale criterio?

Gesù “costruito” sulle profezie

Spong, sulla scia del biblista Michael Douglas Goulder (1927-2010), sostiene che i capitoli del vangelo secondo Matteo seguono molto fedelmente la scansione della liturgia in vigore nelle sinagoghe. Da ebreo che si rivolge ad ebrei, sa che la sua ricostruzione teologicoliturgica non sarà presa alla lettera, avendo come scopo esplicito non tanto rendicontare storicamente la vita di Gesù (che egli, personalmente, potrebbe non aver neppure conosciuto), quanto attestare la fede della sua comunità. Essa si è infatti convinta che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d. C., la “gloria” di Dio, la “presenza” di Jahvé, risplenda nella persona del Nazareno, visto come il nuovo Mosé. Matteo esprime questa fede costruendo un racconto che ripercorre, tappa dopo tappa, la vicenda di Mosé: bambino salvato dall’eccidio dei neonati ebrei, fuggito in Egitto, rimasto quaranta anni (che diventano giorni) nel deserto, promulgatore sul monte della Legge (che diventa la nuova Legge, il “discorso della montagna”)… La tesi di Spong è di una semplicità disarmante (anche se, alle orecchie dei lettori ingenui, risulta allarmante): non sono le ‘profezie’ veterotestamentarie ad essere puntualmente avveratesi in Gesù, ma è la vicenda di Gesù che è stata costruita letterariamente sulla base delle ‘profezie’ veterotestamentarie.

Se è così, l’autore invita a non cercare in questo vangelo (come in nessun’altra pagina biblica) una veridicità storica, quanto ad accoglierne – se lo si vuole accogliere – il significato intenzionato da Matteo stesso: che in Gesù il messaggio biblico tracima rispetto alle barriere etniche di un popolo autoproclamatosi eletto e si rivolge all’umanità intera. «Andate in tutte le nazioni, dice il Cristo risorto» – e qui non si pensa certo alla rianimazione miracolosa di un cadavere, quanto a una dimensione inedita e incomparabile in cui Gesù, «primogenito di molti fratelli», è entrato dopo la crocifissione. «Andate da coloro che avete definito oltre i confini dell’amore di Dio. Andate da coloro che avete deciso che sono reietti. Andate da coloro che avete giudicato inadeguati. Andate dai non circoncisi, dagli impuri, dai perduti, dai non battezzati e dai diversi. Andate oltre il livello delle vostre esigenze di sicurezza. Andate da coloro che vi minacciano. […]. Proclamate loro la buona notizia dell’amore infinito di Dio, un amore che ci abbraccia tutti. Con il potere di questa esperienza, permettete alle vostre paure di dissolversi; e insieme a quelle paure scomparse, dite addio anche alle vostre insicurezze, ai vostri pregiudizi, ai vostri confini. Nella comunità umana c’è posto per tutti. Imparate a mettere in pratica questa verità. Non ci sono emarginati per l’amore di Dio. Questo è ciò che il grande Mandato significa». Un annunzio che, per essere credibile, deve intrecciare parole e gesti, teorie e opere: le comunità cristiane o diventano segni efficaci dell’amore invisibile del Padre (impegnandosi a dare la vista ai ciechi, il pane agli affamati, la libertà agli oppressi) o non hanno né senso né valore.

Parte superiore del fronte di copertina del libro di John Shelby Spong Letteralismo biblico: eresia dei Gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo (a cura di Ferdinando Sudati), 2018, tratta dal sito di Massari Editore 

purificare dal maschilismo la relazione con Dio

prospettiva femminile

da Altranarrazione 

È sempre più urgente purificare dal maschilismo la relazione con Dio. Non ci può essere autentica vita spirituale senza uno sguardo al femminile sulla realtà, sul mondo interiore e sui rapporti sociali

«Ad Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Osea 11,3-4)

Dio agisce nelle profondità dell’essere, occorre immergersi più che elaborare. I processi di razionalizzazione, o peggio di banalizzazione, rischiano di produrre solo proiezioni e non incontri. E non basta, nemmeno, immergersi, ma è necessario pure fare spazio, svuotarsi. Infatti non si può accogliere l’altro, con i suoi sentimenti, i suoi punti di vista, le sue esigenze se è già tutto deciso, stabilito, cristallizzato. A dialogare con Dio, poi, è l’anima e solo indirettamente la ragione a cui arrivano dei frammenti che sono spesso difficilmente decifrabili. Dio viene a guarire e a custodire dopo che ci siamo persi e feriti inseguendo il nostro idolo: l’autosufficienza. Nasciamo su iniziativa di altri, non sopravviviamo senza l’iniziativa di altri, ma prevale la vanagloria dell’immagine di (falsa) forza sulla (vera) esigenza di trovare un fondamento esistenziale e di testimoniare la solidarietà riconoscendo un destino comune.

«Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Osea 11,8)

«Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani» (Isaia 49, 15-16)

Siamo davvero i suoi figli, i nostri deliri di egoismo, i nostri rifiuti, le ombre che gli nascondiamo lo toccano nelle viscere. Non è un dolore intellettuale, per sentito dire, ma  è il dolore della madre che  somatizza. Non è il dolore di chi parla o scrive ma è quello che toglie il respiro e ti piega. Una madre che soffre, una vedova che piange il suo amato: è l’immagine di Dio che emerge da questa prospettiva. Qualcuno coinvolto in quello che avviene, molto diverso dal Giudice monocratico con il pollice su, in caso di osservanza del Codice Morale, con il pollice giù, in caso di violazione, come risulta da alcine descrizioni. Un Giudice che valuta corrispondenze tra comportamenti e regole, non una madre che giustifica e abbraccia il figlio anche se colpevole.

«Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?» (Cantico dei Cantici 6,10)

Ecco l’anima che ha incontrato la Grazia, che è stata visitata da Dio. È sola, ma non smarrita. In silenzio e in attesa per non prevaricare. Ecco l’anima che scoprendo la femminilità può incontrare il suo Dio e comprendere qualcosa di più. E, cioè, le cose più belle: quelle solo intuibili, quelle non di pubblico dominio, non classificabili, non manipolabili. Ecco l’anima contemplativa e compassionevole che vive il tempo dell’esilio preparando la cella del cuore per l’appuntamento (1) con il suo Amato e praticando la giustizia nei confronti dei poveri, degli ultimi, dei prediletti di Dio.

(1) «Che lui scavi nella tua anima il suo abisso e tu sia qui sempre presente a lui»

Elisabetta della Trinità

fermiamoci!

presa di coscienza

«Prossimo, nel comandamento biblico centrale dell’amore per il prossimo, non è chi è vicino, ma sono gli altri, gli altri estranei»

J.B. Metz 

da Altranarrazione

Fermiamoci. Smettiamola di collaborare con un’organizzazione economico-sociale che devasta sia l’umanità sia il pianeta. Nulla giustifica l’ingiustizia nemmeno la propria sopravvivenza. Il fine infatti non giustifica i mezzi anche se a scuola ci hanno insegnato il contrario. Ci ritroviamo su un campo di battaglia con la lista dei nemici da abbattere. Ci mettono fretta, non abbiamo il tempo di verificare colpe e responsabilità. Agiamo su sentenze emesse da altri.

Fermiamoci. Smettiamola di invidiare i ricchi e il loro benessere sporco del sangue dei poveri, il vuoto in cui si alienano i personaggi famosi e le deformazioni ontologiche a cui si espongono gli arrampicatori sociali. Non c’è cosa più avvilente di un oppresso che desidera diventare come il suo padrone. La liberazione non consiste nel mettersi al posto dell’oppressore ma nel costruire una convivenza pacifica in cui ogni essere umano possa esprimersi e così realizzarsi. È utopia che attende volontà.

Fermiamoci. Smettiamola di obbedire agli ordini che contrastano con la nostra coscienza. Dobbiamo formarci con spirito di iniziativa, da autodidatti, evitando di abbeverarci ai pozzi avvelenati dal Sistema. Dobbiamo uscire dal pantano del gossip, dall’insulto alla morale rappresentato dal calcio milionario e dedicarci alla preghiera e all’analisi. Abbandoniamo la stampa prezzolata e riflettiamo sulla lettera ai giudici di don Milani e sui discorsi di Calamandrei. Abbandoniamo le trasmissioni-spazzatura e leggiamo le omelie di Oscar Romero e i testi di Ignacio Ellacuría. Perché se non conosciamo le lettere dei condannati a morti della resistenza non conosciamo la libertà e non la meritiamo. Perché se non conosciamo il martirio di Iqbal Masih non conosciamo la dignità e non la meritiamo.

Fermiamoci. Smettiamola di produrre debito, non solo finanziario, ma soprattutto ecologico e umanitario. Saremo ricordati dalle generazioni future per le nostre discariche difficilmente trasportabili in musei (e comunque non molto attraenti per i turisti), per aver sostituito il plancton con la plastica e per aver spostato i campi di concentramento e di sterminio in mare.

800 anni fa l’incontro di Francesco d’Assisi col sultano

San Francesco d'Assisi incontra il Sultano d'Egitto AL-Kamil nell'anno 1219

san Francesco d’Assisi incontra il Sultano d’Egitto AL-Kamil nell’anno 1219

lettera del papa a 800 anni dall’incontro tra san Francesco e il Sultano

Non cedere alla violenza, soprattutto sotto pretesti religiosi, ma promuovere la pace e il dialogo: così il Papa in una Lettera al card. Sandri, suo inviato alle celebrazioni dell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco d’Assisi e il Sultano

Sergio Centofanti 

 la Lettera (in latino) di Papa Francesco al card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, suo inviato speciale alle celebrazioni dell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco d’Assisi ed il Sultano Al-Malik Al-Kamel, che si svolgeranno in Egitto dall’1 al 3 marzo.

Francesco, uomo di pace

Il Papa ricorda il Poverello d’Assisi come un “uomo di pace” che esortava i suoi frati a salutare le persone come chiesto da Gesù: “Il Signore ti dia la pace”. San Francesco – scrive il Papa – aveva compreso col cuore che tutte le cose sono state create da un solo Creatore, l’unico che è buono, e che “tutti gli uomini hanno in Lui un Padre comune”. Pertanto, “desiderava portare a tutti gli uomini, con animo lieto e ardente, la notizia”  dell’amore ineffabile del “Dio onnipotente e misericordioso”, che “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,3-4). Per questo motivo, invitava i frati che si sentivano chiamati da Dio ad andare tra i saraceni e gli altri non cristiani, nonostante i pericoli.

Il Poverello d’Assisi davanti al Sultano

Francesco stesso – ricorda il Papa – prendendo con sé un compagno, di nome Illuminato, partì per l’Egitto nel 1219. A Damietta, nei pressi del Cairo, incontrò il Sultano. Davanti alle domande del capo saraceno, “il servo di Dio Francesco, rispose con cuore intrepido che era stato inviato non da uomini, ma da Dio altissimo, per mostrare a lui e al suo popolo la via della salvezza e annunciare il Vangelo della verità”. E “il Sultano, vedendo l’ammirevole fervore di spirito e la virtù dell’uomo di Dio, lo ascoltò volentieri” (San Bonaventura, Legenda Maior, 7-8).

“Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo”

Il Papa esorta il card. Sandri a portare il suo “saluto fraterno” a tutti, cristiani e musulmani. Auspica che nessuno ceda alla tentazione della violenza, soprattutto “sotto qualche pretesto religioso”, ma piuttosto, che si realizzino “progetti di dialogo, di riconciliazione e di cooperazione” che “portino gli uomini alla comunione fraterna”, diffondendo la pace e il bene secondo le parole del profeta Isaia: “Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. Il Papa conclude la lettera benedicendo quanti parteciperanno a questo “memorabile evento” e “tutti i promotori del dialogo interreligioso e della pace”

La visita negli Emirati 800 anni dopo l’incontro di Damietta

All’inizio di febbraio, il Papa si è recato negli Emirati Arabi Uniti proprio in coincidenza con l’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco e il Sultano e ad Abu Dhabi ha firmato, con il Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib, il Documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune”.

Durante l’incontro interreligioso al Founder’s Memorial ha affermato: “Con animo riconoscente al Signore, nell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil, ho accolto l’opportunità di venire qui come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo”.

Il cristiano parte armato solo della sua fede e del suo amore

Francesco d’Assisi, a otto secoli di distanza, resta una profezia per tutta l’umanità: nel pieno delle crociate si è recato disarmato, con in mano solo il Vangelo, tra i nemici dei cristiani dell’epoca. Papa Francesco, nella Messa celebrata nello Zayed Sports City di Abu Dhabi il 5 febbraio scorso ha spiegato la beatitudine della mitezza ricordando le istruzioni di San Francesco ai frati che si recavano presso i Saraceni e i non cristiani: «Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (Regola non bollata, XVI)”. Il Papa aveva concluso: “In quel tempo, mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature, San Francesco ricordò che il cristiano parte armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto. È importante la mitezza: se vivremo nel mondo al modo di Dio, diventeremo canali della sua presenza; altrimenti, non porteremo frutto”.

padre Cardenal riabilitato da papa Francesco

POETA, RIVOLUZIONARIO E SACERDOTE

Ernesto Cardenal, sacerdote, rivoluzionario e poeta nicaraguense, nel 1984 fu sospeso a divinis da Woityla. Oggi, sul punto di morte, è stato ufficialmente riabilitato da papa Francesco

 meglio tardi che mai

Gianni Beretta

«Meglio tardi che mai» verrebbe da dire sulla riabilitazione come sacerdote del poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura in Nicaragua negli anni ’80 durante tutta la Rivoluzione popolare sandinista. Nel 1984 lui, insieme al fratello Fernando (gesuita, coordinatore della Gioventù sandinista e successivamente ministro dell’Istruzione), padre Miguel D’Escoto (ministro degli esteri) e padre Edgar Parrales (ministro per la famiglia) furono sospesi a «divinis» da Karol Wojtyla; dunque esonerati dallo svolgere i loro compiti sacerdotali.

È rimasta nella stoiria la fotografia del papa polacco che il 4 marzo 1983, appena sceso dall’aereo sulla pista dell’aeroporto Sandino di Managua, salutando uno per uno i membri del governo rivoluzionario (noi de il manifesto eravamo lì a un passo), puntò il dito su Ernesto (l’unico dei quattro preti-ministri ad accoglierlo) che gli si era inginocchiato per baciargli l’anello.

L’allora pontefice ritirò subito la mano umiliandolo e intimandogli: «devi regolarizzare la tua situazione con la Chiesa». Quella visita finì con la clamorosa contestazione a Giovanni Paolo II durante la messa nella gremita piazza 19 de julio; e la sua precipitosa dipartita, rosso di rabbia in volto, dal Nicaragua

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Uno degli slogan di quel tempo del corso sandinista era: Entre cristianismo y revolución no hay (non cè) contradicción. Mentre in quasi tutta l’America latina era in auge la Teologia della liberazione, avanguardia nell’applicazione del Concilio vaticano II. Che Wojtyla si prodigò letteralmente a sradicare a partire dal suo non casuale primo viaggio dalla sua nomina (nel gennaio 1979) alla III Conferenza episcopale latinoamericana di Puebla, che avrebbe dovuto sancire l’«opzione preferenziale per i poveri». Facendo così un grande favore al presidente Usa Ronald Reagan, nel frattempo impegnato nel promuovere le sette fondamentaliste in tutto il sub continente.
Papa Francesco ha finalmente revocato la sospensione al 94enne padre Ernesto, ricoverato in rianimazione per una grave infezione in un ospedale della capitale nicaraguense. A portargli il messaggio il nunzio Stanislaw Waldemar. Il quale ha espresso l’intenzione di concelebrare una messa insieme a lui. Sempre che, a questo punto, Cardenal riesca a rimettersi. Mentre il vescovo ausiliare di Managua, Silvio Baez, si è precipitato al suo capezzale chiedendogli la sua benedizione «come sacerdote della Chiesa cattolica».

Monsignor Baez, molto legato a papa Francesco, è il prelato che più si è esposto con le sue critiche al regime del presidente Daniel Ortega, ancor prima della rivolta studentesca scoppiata il 18 aprile dello scorso anno, repressa nel sangue dalle forze di sicurezza del fu comandante guerrigliero.

Così come Ernesto Cardenal è stato uno dei primi esponenti del sandinismo a denunciare (fin dagli anni ’90) la piega antidemocratica di Ortega da segretario del Fronte Sandinista prima, e dittatoriale da quando è tornato al governo nel 2007.

Tanto da essere preso di mira da una vera e propria persecuzione politica che gli è valsa un paio d’anni fa una sanzione di 750mila dollari per una inventata controversia sulla proprietà dei terreni dove lo stesso Cardenal aveva fondato negli anni ’70 la sua comunità contemplativa nell’isola di Solentiname del grande lago Nicaragua. Il sistema giudiziario, strettamente controllato da Ortega, era arrivato a congelargli il conto corrente; per poi sospendere il procedimento di fronte alle proteste di intellettuali e letterati dal mondo intero.
Il padre Cardenal è considerato infatti uno dei più grandi poeti latinoamericani. È stato insignito della Legion d’onore francese, del premio latinoamericano Pablo Neruda; fino al Premio regina Sofia di Spagna per la poesia iberoamericana (nel 2012). L’ultimo riconoscimento, il premio Mario Benedetti, lo aveva ottenuto giusto lo scorso anno; e lo dedicò al 15enne nicaraguense Alvaro Conrado, ucciso il 20 aprile scorso da un francotiratore del regime durante una manifestazione di protesta degli studenti. Tra le sue opere più famose: Oración para Marilyn Monroe (ancora del 1965), Quetzalcoatl, Canto Cosmico, La Revolución perdida…; molte di esse tradotte fin in venti lingue.
Nella sua lunga vita il padre Cardenal è stato suo malgrado avvezzo a subire feroci atti di repressione. Già nel 1977 gli sgherri della Guardia somozista distrussero le installazioni della comunità di Solentiname (cappella, scuola, biblioteca, laboratorio di arte primitivista, cooperativa di pescatori e contadini) e assassinò vari dei suoi attivisti. Così come fu clamorosamente boicottato durante la rivoluzione sandinista da ministro della cultura dalla stessa moglie di Daniel Ortega, Rosario Murillo (anch’essa poetessa e oggi vicepresidente nonché factotum del regime) che aspirava a quel posto; e che decise di inventarsi la Associazione dei lavoratori della cultura, in feroce competizione col padre-ministro.
Con la restituzione delle funzioni sacerdotali papa Francesco ha operato in extremis una sorta di risarcimento nei confronti del padre Ernesto che ora «è pronto per andarsene in pace» come ha commentato la scrittrice e anch’essa poetessa nicaraguense Gioconda Belli.
Gesto che il primo pontefice latinoamericano aveva già concesso (su esplicita richiesta) al padre Miguel D’Escoto prima di morire. Mentre Edgar Parrales optò subito per rinunciare allo stato laicale; e Fernando Cardenal scelse invece di rifare il noviziato per rientrare nella Compagnia gesuita a tutti gli effetti. Ancora qualche mese fa il riottoso Cardenal, che mai aveva chiesto la sua riabilitazione, ebbe a dire: «rivendico di essere stato poeta, sacerdote e rivoluzionario

l’ ‘inammissibile “amnesia storica” a proposito dello sterminio di rom e sinti

l’olocausto di rom e sinti

Porrajoms

lo sterminio di cui non si parla

  Sull’olocausto di rom e sinti da parte del regime nazifascista è calata un’inammissibile “amnesia storica”. Ma 500 mila morti non si possono dimenticare

l’appello di Moni Ovadia e del rabbino Ariel Toaff affinché il Giorno della memoria venga dedicato anche alle vittime rom e sinti

500 mila morti praticamente dimenticati. Chi non conoscesse la parola porrajmos, non se ne faccia però una colpa: dell’olocausto dei popoli rom e sinti in Italia si parla ben poco. Ma è una mancanza grave, un’inammissibile “amnesia storica” a cui si deve porre riparo. In lingua romanes porrajmos significa infatti “devastazione” e indica lo sterminio delle minoranze rom e sinte da parte del regime nazifascista. La Shoah dei rom e dei sinti, per dirla in breve.

Una tragedia quasi rimossa, tant’è che quando nel 2000 venne istituito il Giorno della memoria per ricordare gli ebrei vittime della persecuzione, lo sterminio dei rom non venne nemmeno preso in considerazione. Per questo lo scorso ottobre l’artista Moni Ovadia e il rabbino Ariel Toaff hanno rivolto un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: obiettivo, chiedere che la memoria del 27 gennaio venga dedicata anche al porrajmos.

Se tanti sanno infatti che Elvis Presley, Zatlan Ibrahimovic e le famiglie Togni e Orfei appartengono al popolo rom, pochissimi ricordano che dalla metà del dicembre 1942 rom e sinti di tutta Europa furono deportati nei campi di concentramento e sterminati alla pari di ebrei, omosessuali, persone con disabilità e dissidenti politici. «Mio padre, nato a Postumia, a cinque anni fu deportato nel campo di concentramento di Tossicia, in provincia di Teramo», dice Giorgio Bezzecchi, docente di Lingua e cultura romanì all’Università di Pavia e figlio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto all’internamento.

Parlando a nome del padre Goffredo, 80 anni e provato prima dalle conseguenze dell’internamento sulla psiche e poi dalla malattia, nei giorni scorsi Bezzecchi è intervenuto davanti agli studenti dell’istituto Severi-Correnti di Milano. Con sé aveva la Targa d’Argento del Senato, assegnata al padre lo scorso aprile. «Per la prima volta abbiamo ricevuto un riconoscimento istituzionale per la persecuzione», ha fatto notare Bezzecchi. «In Slovenia avevo una grande famiglia ma oggi non ce l’ho più». I nonni e una zia di Goffredo furono infatti deportati e uccisi ad Auschwitz, il padre fu condotto a Birkenau e altri parenti internati nel campo di Agnone (Isernia). Uno degli zii nacque invece a Tossicia nel 1943 e «lo chiamarono Benito», ricorda amaro Bezzecchi.

In Italia i campi d’internamento disposti per gli “zingari” furono 50, da Vinchiaturo (Campobasso) a Perdasdefogu, in Sardegna, passando per Ferramonti (Cosenza). «Mio padre racconta che non avevano le scarpe. Faceva freddo, avevano ognuno un vestito e c’erano solo due coperte per tutti, anche quando nevicava. Avevano fame e soffriva per la clandestinità: nessuno li voleva e temevano di morire», riprende Bezzecchi. «Mio padre oggi è scosso dal disinteresse per chi muore nel Mediterraneo.  Io stesso sono molto preoccupato: mi spaventa il silenzio della società civile».

Oggi in Italia fra rom, sinti  e camminanti (un gruppo che vive nella Sicilia orientale, ndr) si parla 110-170 mila persone, pari alla popolazione della città di Mantova. «A Milano, dove vivo con la mia famiglia, spesso siamo stati additati come “un problema da sgomberare”… ma siamo 4 mila, di cui 2 mila minorenni, su un milione di residenti: non certo cifre da potersi considerare “un problema”», fa notare Bezzecchi.

Rom e sinti sono la più grande minoranza europea: tra i 10 e i 12 milioni distribuiti fra Italia, Spagna e Germania soprattutto. «Sono tutti cittadini europei. Si tratta di persone per lo più sedentarie, in Italia solo il 3 % dei rom, i circensi, pratica il nomadismo », spiega Carlo Scovino di Amnesty International. «Eppure è da più di 500 anni che queste persone subiscono forme più o meno esplicite di discriminazione, dal pregiudizio allo sterminio, passando per le classi speciali nella scuola pubblica e la richiesta di schedatura come negli anni Quaranta e nel 2008».

L’antiziganismo ha origini antichissime, che in Italia risalgono al 15° secolo. «La parola zingari viene dal greco atziganoi, che significa “persone senza Dio”. Arrivarono in Europa dall’India e dal Bangladesh nel 1300, subito indicati come un gruppo diverso, pericoloso e quindi da allontanare», spiega Ulderico Daniele, antropologo e docente all’Università degli Studi di Roma Tre. Fra gli stereotipi duri a morire, gli zingari ruberebbero i bambini e sarebbero, di default, ladri. «A dir la verità fino al 1973 è stata la civilissima Svizzera a strappare i “figli del vento” alle famiglie per rieducarli in istituto. E per quanto riguarda la delinquenza, i disonesti ci sono in tutte le popolazioni», chiude Scovino: «Non si tratta di beatificare i rom, ma oggi sembra che davanti alla legge cada il principio dell’uguaglianza».

Il papa sdogana l’islam, ma l’islam sdogana la chiesa? – un auspicio

papa Francesco sdogana i musulmani

da infedeli a fratelli

Ottocento anni fa, durante le Crociate, tra sangue e spade, si levò forte la voce di San Francesco anche “contro” la Chiesa che quelle guerre capeggiava. Oggi sono le diplomazie e i gesti di Francesco Papa, che si reca nel cuore dell’Islam, a sottolineare l’importanza del dialogo, della fraternità e della pace fra i popoli.

La posta in gioco è altissima: parla a nuora perché suocera intenda. In tutto l’Islam il vero problema è il riconoscimento delle comunità cristiane e la costruzione dei luoghi di culto. È la loro possibilità di “vivere” allo scoperto manifestando liberamente la propria fede senza timore.

Ad Abu Dhabi tutto il mondo musulmano guarda con attenzione le parole e i gesti di Bergoglio. Ma anche i cristiani osservano con altrettanta attenzione quello che sta avvenendo.

La strada intrapresa dall’Argentino ricalca quella che Francesco d’Assisi segnò 800 anni fa: allora “infedeli” oggi fratelli.

Il Papa sdogana l’Islam, ma l’Islam sdogana la Chiesa? E’ l’auspicio e il punto di domanda di questo viaggio apostolico. Bergoglio lo ha fatto sin dall’inizio: “un fratello da voi per costruire sentieri di pace“. È questa la posta in gioco e lo si fa con le parole attribuite a san Francesco: fa di me uno strumento della tua pace.

Parole che affondano le loro radici nel testo della Regola non Bollata che allora la Chiesa non volle approvare:

Perciò tutti quei frati che per divina ispirazione vorranno andare tra i saraceni e altri infedeli… I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1 Pt2, 13) e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio…”.

Parole dettate dall’assisiate dopo il viaggio a Damietta nel 1219, senza se e senza ma.

L’esortazione “Né liti né dispute” è fondamentale in quanto il Santo auspicava che i frati si distinguessero dai crociati in armi. Non la ricerca di uno scontro, ma la costruzione di un terreno comune e umano su cui far nascere un’amicizia.

Le immagini che arrivano oggi da Abu Dhabi: il Grande Imam di Al-Azhar, Mohamed Ahmed al-Tayeb, il principe ereditario lo sceicco Mohammed Bin Zayed al Nahyan, e Papa Francesco che camminano mano nella mano rimarranno nella storia.

Immagini che siglano l’amicizia invocata da Francesco d’Assisi 800 anni fa. Le linee guida di allora diventano gli atteggiamenti di oggi. Non la strada dell’imposizione ma quella della condivisione.

dovremmo … ed invece …

vocazione all’infinito e impegno nel tempo storico

Pregare per la comunione con Dio e praticare la giustizia per quella con i poveri nel simbolo del fiore e della corda.

preghiera e pratica della giustizia

Dovremmo attendere Colui che libera ed invece ci sediamo al tavolo dell’oppressore.
Dovremmo cercare Colui che si abbassa per Amore ed invece lo preghiamo di rimanere in cielo.
Dovremmo sperare ed invece programmiamo.
Dovremmo affidarci alla Provvidenza, guardare i gigli che non filano e non tessono (1) ed invece ci accordiamo con i potenti per ottenere sovvenzioni o con i padroni per ottenere sponsorizzazioni.
Dovremmo rincorrere ed imitare la creatività dello Spirito che soffia e parla dove vuole (2) ed invece produciamo ripetitività alienante.
Dovremmo essere segno di contraddizione come il Signore Gesù (3) ed invece siamo elemento di stabilizzazione dell’Iniquità.
Dovremmo utilizzare un linguaggio profetico ed autentico (4) ed invece denunciamo le disuguaglianze omettendo accuratamente di pronunciare i nomi dei responsabili.
Dovremmo essere pacifisti lottando per la giustizia sociale ed invece non ci schieriamo per lasciare in pace gli sfruttatori.
Dovremmo curare le nostre nevrosi egoistiche vivendo la compassione come proposto nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo ed invece seguiamo il percorso formativo di disumanizzazione comandato dal Capitale.
Dovremmo nutrirci con la Parola di Dio e con l’Eucaristia, dissetarci con l’acqua viva donata da Cristo (5) ed invece ci riempiamo compulsivamente di distrazioni e di divertimento.
Dovremmo porre attenzione ai segni della presenza di Dio nella storia ed invece testimoniamo la sua assenza.
Dovremmo stare nelle strade del mondo ed invece ci barrichiamo nei palazzi.
Dovremmo promuovere un’altra narrazione ed invece assorbiamo quella degli idoli.

(1) Cfr. Vangelo di Luca 12,27
(2) Cfr. Vangelo di Giovanni 3,8
(3) Vangelo di Luca 2,34
(4) Cfr. Vangelo di Matteo 5,37
(5) Cfr. Vangelo di Giovanni 4,10

il grande peccato dell’indifferenza e della sottovalutazione

 

poi vennero a prendere anche noi

 

Prima di tutto vennero a dirci di lasciare affogare in mare i migranti e i disgraziati, così avremmo “combattuto i trafficanti di uomini”, e lasciammo fare, perché avevamo paura che ci togliessero il lavoro e costasse troppo mantenerli qui. A quelli di noi che insistevano con le “ideologie umanitarie” o ascoltavano quel pericoloso sovversivo comunista, il papa cattolico, ripetevano bruscamente: “E tu quanti ne ospiti a casa tua?”. E quelli, invece di rispondere “e tu quanti ne rimpatri coi tuoi soldi?”, tacevano, spaventati solo all’idea.

Poi vennero a dirci che il fascismo era morto e sepolto, e se c’erano gruppi che si radunavano nei cimiteri alzando il braccio, occupavano stabili, inneggiavano pubblicamente a dittatori criminali, picchiavano i giornalisti non c’era da preoccuparsi, ed eravamo esagerati, e noi tirammo un sospiro di sollievo, perché in realtà dei fascisti avevamo paura ed era più comodo pensare che no, non esistevano.

Poi vennero a dirci che “non esistevano più la destra e la sinistra”, e potevamo rilassarci, che il popolo lo avrebbero tutelato loro, quelli da sempre di destra alleati con quelli che obbedivano solo alla piattaforma privata d’un privato signore ispirato da un privato blog. E fummo contenti, perché mica lo capivamo bene, quali erano la destra e la sinistra, e sarebbe costata fatica, farlo davvero.

Poi schedarono gli scienziati, almeno quelli che non si erano dimessi dagli organismi pubblici, e non ci dispiacque, perché erano arroganti e boriosi, e ci ricordavano tutti i momenti che non è vero che uno vale uno, se uno è competente e l’altro no, e la scienza non è democratica, perché la curva delle epidemie o l’efficacia d’un farmaco non puoi stabilirli con una votazione online, e questo era duro da ammettere, perché molti di noi non avevano studiato e non avevano voglia di farlo.

Poi vennero a prendere anche noi, e non c’era rimasto nessuno a scrivere su un social #antifascistisempre e #facciamorete per proteggerci tutti assieme.

“non sono razzista ma … ” a proposito di migranti, un problema divisivo che ci fa riscoprire razzisti

Italiani brava gente. «Non sono razzista, ma...»

italiani brava gente

«non sono razzista, ma…»

 da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 01/02/2019

Oggi porre il tema dell’immigrazione risulta essere divisivo. È paradossale come l’immagine di persone che lasciano il loro Paese e attraversano una condizione disperata e situazioni terrificanti, invece di suscitare unità e canalizzare energie e risorse in spirito di umanità, riesca a creare divisioni, fazioni contrapposte, ideologie che usano proprio quella situazione di fragilità per osteggiarsi se non addirittura combattersi, facendo emergere beceri razzismi o giudizi taglienti.

Se è vero che da un lato sembra continuare una sorta di comune denominatore che è un certo sentimento di insofferenza e razzismo, dall’altro tutto il resto è in continuo mutamento: punti di arrivo, circolari ministeriali, discussioni pubbliche, vissuti dei migranti. Pertanto ogni tentativo di semplificazione risulta essere fuorviante e ingiusto. Da una parte c’è una negazione netta e radicale all’arrivo dei migranti. Esagerazioni di numeri, di messaggi mediatici, la categorizzazione in stupratori o terroristi, la divisione in migranti economici e politici, fanno da contraltare invece all’uso dei migranti nella prostituzione e nel caporalato.

L’immigrazione oggi è sempre più un fenomeno complesso e come tutti i fenomeni complessi richiede analisi, percorsi, interpretazioni strutturate. Come il liquido di contrasto nelle analisi cliniche, il fenomeno migratorio riesce, con lucidità, a mettere in evidenza alcune criticità della nostra società. Ad esempio ha svelato spesso con brutale forza che l’argomento razzismo non può certo dirsi risolto pur a decenni di distanza dalle leggi razziali o dopo le esperienze di Martin Luther King o Nelson Mandela. Ci riscopriamo essere un popolo razzista. Certo cerchiamo sempre e subito di giustificare dicendo “Non sono razzista, ma..”. Basta andare davanti a un ufficio postale, davanti a un supermercato e osservare. Lì in un angolo appoggiato al muro un immigrato che chiede uno spicciolo, magari in cambio di un aiuto per portare la spesa e quella presenza genera commenti, giudizi, appellativi e nomignoli che hanno tutto il sapore del becero razzismo di piazza. Credo che la questione razzistica non sia affatto risolta, e l’afflusso, oggettivamente consistente, di persone provenienti da culture, lingue e religioni diverse abbia accentuato l’atteggiamento di chiusura, inacerbendo le menti, anziché promuovere un’occasione per sviluppare un multiculturalismo già presente da decenni nelle grandi metropoli europee. Così, credo, quest’aria di intolleranza del “diverso” in fondo renda noi “diversi”: incapaci di accogliere, incapaci di interagire con culture differenti, con l’atavica e infantile paura “dell’uomo nero”. Questo rivela che abbiamo ancora molta, moltissima strada da fare.

Altra criticità che emerge con virulenza è certamente la discrepanza all’interno del mondo cristiano, dove incontriamo sempre più frequentemente persone che si identificano con il messaggio cristiano e contemporaneamente aderiscono a forme politiche o di comune sentire che vanno in direzione diametralmente opposta. Così non è raro vedere persone che in chiesa pregano per i profughi e fuori firmano al banchetto di raccolta firme contro l’arrivo degli stessi in quartiere. Questa che chiamo schizofrenia religiosa è presente più di quanto pensiamo e rischia di scindere il nostro essere religiosi e credenti: «La grande tentazione è quella di diventare praticanti di pratiche religiose. Accendere candele e sostare un paio di minuti a mani giunte, per poi uscire di chiesa lasciando lì dentro le cose di Dio… È una sorta di dissociazione dell’anima, in cui con abilità sappiamo vestire mille facce tutte belle e tutte pronte all’occorrenza. Apriamo l’armadio e indossiamo l’abito più opportuno» (Luca Favarin, Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo, ed. San Paolo, 2018 p. 112).

Infine, una terza criticità che mi sembra emergere chiaramente è che si continua a gestire, ma ancora prima a concepire e leggere, il fenomeno migratorio come un fatto emergenziale. È fallimentare considerare emergenziale ciò che è epocale. La gente si sposta perché dove si trova non sta ben. Lo fa perché è nella natura umana cercare soluzioni migliori per sé e per la propria famiglia. La migrazione trova giustificazione nell’animo umano. E in fondo è la stessa identica motivazione che spinge un giovane europeo a fare le valigie e tentare la fortuna in una grande metropoli occidentale.

In quest’ottica è fuorviante e, ridicolo, continuare ostinatamente a dividere i migranti in politici ed economici, come se dicessimo “Tu che scappi dalla guerra e dalle bombe vieni, ti accolgo, sei il benvenuto” e invece “Per te che scappi dalla miseria, dalla fame, dalla desertificazione e dalla deforestazione non c’è posto”. È una distinzione illusoria che non porta a nulla. Come vane restano le promesse e gli annunci che garantiscono rimpatri. A parte due o tre messe in scena il rimpatrio richiede una gestione che tra accordi bilaterali con ogni Paese, gestione dei transiti e personale necessario risulta essere fisicamente irrealizzabile.

C’è poi l’accoglienza che chiede di essere declinata: non è semplice gestione di strutture e servizi, significa avere a che fare con persone, con la loro storia, è chiamata a declinare una progettualità. E questo significa fare i conti con sogni, a volte sogni infranti o feriti, aspettative e desideri.

Ecco perché è più corretto parlare di “gestione” dell’accoglienza più che di “fare” accoglienza. Questa gestione dell’accoglienza richiede una professionalità di saperi, di pratiche, di metodologie. L’approccio che in questi anni stiamo sperimentando è un approccio olistico. Operatori con competenze e laurea diverse ci permettono di leggere in maniera più completa un fenomeno complesso. La storia del migrante e, soprattutto, il suo accompagnamento richiedono una molteplicità di conoscenze. Il lavoro di una buona équipe è essenziale. Il prendersi cura di colui che arriva dal Mediterraneo richiede grande umanità e professionalità. Un operatore in questo campo deve essere posto anche in continua formazione.

Sull’accoglienza, in Italia, si è fatto molto. Troppo, a mio avviso, guidati da una logica emergenziale. Le sbavature pesanti in termini di eticità dell’accoglienza che abbiamo visto a livello nazionale in più occasioni hanno rischiato di inficiare il lavoro di tutti. Come spesso avviene dove non si approfondisce, bastano gli errori di pochi per compromettere il buon lavoro dei molti. Certo è che la narrazione pesante, offensiva e volgare, distruttiva e maligna che viene fatta sulle ONG o sulle organizzazioni umanitarie non ha precedenti nella storia del nostro Paese. E offende tutti coloro che rimboccandosi le maniche ogni giorno e ogni notte si occupano di anziani, disabili, poveri, emarginati, immigrati, persone senza dimora e molto altro. Ogni organizzazione di servizio o di volontariato si occupa di un “piccolo pezzo di umanità”: lo fa con cura, con amore.

Lo Stato è chiamato a occuparsi del tutto. Sarebbe bello che le istituzioni ai massimi livelli invece di offendere, denigrare, screditare le organizzazioni, semplicemente le ringraziassero perché, liberamente e per amore, si occupano di umanità. Quella che a volte, sembra, abbiamo smarrito e che fatichiamo a ritrovare.

* Luca Favarin è prete di Padova, ha realizzato numerosi progetti in diversi Paesi africani, nonché con vittime di tratta, persone senza dimora e carcerati. Ha fondato ed è presidente di Percorso Vita onlus, organizzazione che si occupa di migranti, minori e forme estreme di povertà

* Parte superiore del libro di Luca Favarin, Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo

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