una ‘teologia della liberazione’ anche per gli … animali

 

Per una teologia della liberazione animale

Le vite degli altri. Un’unica comunità
Claudia Fanti 

 da: Adista Documenti n° 44 del 22/12/2018

La scienza ci dice che tutto ciò che esiste viene dalle stelle, all’interno delle quali, come in una fornace, si sono formati tutti gli elementi necessari alla costituzione del nostro universo, della nostra galassia, del sistema solare, del pianeta Terra e di ogni forma vivente. Ci dice, cioè, che, nelle stelle, siamo fratelli e sorelle di tutto. Che tutto è in relazione con tutto e tutto si sviluppa attraverso l’interdipendenza. Che l’interconnessione è «un habitus dell’universo», secondo l’espressione dello scienziato Rupert Sheldrake, ed è nella cooperazione e non nella competizione che va individuata l’essenza della vita.

La scienza ci dice che non esistono differenze sostanziali fra il corpo umano e quello di altri esseri viventi, perché tutti, dai primi batteri comparsi sulla terra fino a noi, presentano gli stessi elementi di base che costituiscono la vita: gli stessi 20 amminoacidi e gli stessi quattro elementi chimici – l’adenina, la guanina, la citosina e la timina – che permettono la combinazione degli amminoacidi rendendo possibile la biodiversità. La scienza ci dice che è grazie a questa formula di base che tra noi e un lombrico vi è il 46% di elementi comuni e che le molecole del nostro sangue sono identiche a quelle della clorofilla delle piante verdi con la sola differenza di un atomo di ferro al posto di un atomo di magnesio. Ci dice, anzi, nella parole del teologo Manuel Gonzalo, che noi siamo «la somma di conquiste che la Comunità della Vita su questo pianeta è andata faticosamente realizzando» nel corso di un lunghissimo tempo, che «siamo un puro dono gratuito della Vita di questo pianeta». Eppure, per quanto la scienza ci comunichi la visione di un universo in cui tutto è profondamente interconnesso, noi umani abbiamo seguito la direzione opposta, collocandoci al di fuori e al di sopra della natura e, molto spesso, e oggi più che mai, contro di essa. Ma se a pagare il costo più alto sono le forme di vita non umane, a cominciare dalle specie a noi più simili, quelle animali, in realtà, come evidenzia Federico Battistutta, ricercatore indipendente nel campo del religioso contemporaneo e coordinatore della comunità di ricerca “libero spirito”, «parlare e riflettere della condizione animale vuol dire anche parlare e riflettere proprio della nostra condizione, quella umana», perché «ciò che accade agli altri animali riguarda da vicino, da molto vicino quello che accade agli umani».

Ed è proprio la consapevolezza che, se «lo sfruttamento è uno solo», uno solo dovrà essere anche il processo di liberazione, a condurci, come spiega magistralmente Battistutta, a una teologia della liberazione animale come «progetto di liberazione integrale che includa al suo interno anche gli animali non umani». Qui l’intervento che ha scritto per Adista.

per una teologia della liberazione animale

 

 da: Adista Documenti n° 44 del 22/12/2018

Il sogno di una cosa

Due parole sul titolo. Teologia della liberazione animale: questa espressione riunisce – meglio ancora, condensa – due elementi, teologia della liberazione e liberazione animale. Il primo si riferisce a quella corrente di pensiero e di azione, nata negli anni Sessanta in America Latina, secondo cui il progetto di salvezza enunciato dall’esperienza cristiana include una liberazione integrale dell’essere umano che comprende l’emancipazione economica, politica, sociale, come tangibili segni della dignità umana. Il secondo elemento è la liberazione animale: qui il riferimento va al titolo di un saggio del filosofo australiano Peter Singer – appunto Liberazione animale – pubblicato negli anni Settanta e considerato uno dei testi fondamentali sia per gli animal studies (termine in uso nel mondo anglofono per indicare un campo accademico di ricerche trasversali sul mondo animale), sia per tutto il pensiero antispecista (si tratta di una corrente non solo filosofica, ma anche politica, che si oppone allo specismo, vale a dire a quella visione gerarchica che attribuisce un diverso valore e statuto morale agli esseri viventi in base alla loro specie di appartenenza, ponendo al vertice l’essere umano). In altre parole, parlare di teologia della liberazione animale vuol dire prospettare un progetto di liberazione integrale che includa al suo interno anche gli animali non umani.

Vale anche ricordare che la condensazione, secondo la psicoanalisi, è una di quelle procedure attive nel sogno grazie alla quale una rappresentazione (un’immagine e/o una parola) incorpora e fonde in sé una pluralità di immagini e/o parole. È quanto, in fondo, proporrò in queste righe. Non solo, la condensazione – sempre secondo la psicoanalisi – essendo parte integrante del lavoro onirico, fra le altre cose allude all’appagamento di un desiderio. E il presente lavoro vuol proprio dar voce a un sogno, a un desiderio: riflettere su un rinnovato rapporto fra l’essere umano e il resto del mondo animale.

Corpi che non contano

Scriveva anni fa Sergio Quinzio: «Guardate gli occhi di un cane che muore e vergognatevi della vostra filosofia». Ma che relazione sussiste fra la liberazione degli esseri umani dalle varie forme di oppressione che la affliggono con la liberazione animale? Ha senso tentare una relazione?

Nel periodo compreso fra le due guerre Max Horkheimer (che non era teologo, anche se ci ha lasciato un notevole libro – La nostalgia del Totalmente Altro– in cui anticipa le tematiche relative a un superamento della contrapposizione tra teismo e ateismo) provò a descrivere la struttura sociale dell’epoca come una grande piramide: al vertice i grandi magnati dell’industria, seguiti dai proprietari terrieri, poi dai militari, i liberi professionisti, i commercianti, fino a scendere ai livelli più bassi, con i contadini, gli operai, i disoccupati. Ancora più in basso le popolazioni dei territori coloniali, la cui miseria «supera ogni immaginazione». Ma alla base di questo immenso edificio – «la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale» – vi è «l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali».

Ciò che Horkheimer ci vuol dire con questa metafora è che il processo di sfruttamento taglia trasversalmente tutto il vivente. La teologia della liberazione animale intende collocarsi su questo piano del discorso, dentro questo progetto di liberazione integrale in grado di includere anche gli animali non umani.

A questo proposito, più recentemente, la filosofa Rosi Braidotti ha parlato proprio di zoo-proletariato. Sin dall’antichità, gli animali sono stati impiegati per lavori gravosi, come schiavi automatizzati e supporto logistico ancor prima dell’impiego delle macchine. Ciò è avvenuto per vari motivi. Per le gerarchie metafisiche con le quali per secoli è stata interpretata la vita (con la supposta mancanza di razionalita? degli animali, che li ha resi per questo motivo privi di diritti paragonabili a quelli degli umani). Ma anche per motivi strettamente economici: gli animali sono produttivi e non devono essere remunerati, pertanto la loro messa al lavoro non solleva problemi etico-politici. Per questo gli animali rappresentano una risorsa industriale-economica centrale: sono materie prime e vive di molti prodotti (carne, latte, seta, lana, pellami ecc.), e con l’avvento del fordismo si sono trovati sottoposti ai ritmi della produzione di massa (come nel caso degli allevamenti industriali). Per non parlare, infine, degli esperimenti di ingegneria genetica, dalla transgenia alla creazione di cloni o di ibridi umano-animali. In questo senso le vite degli animali sono delle non-vite già prima ancora di divenire alimento, materia prima o altro. Sono, riprendendo un’espressione di Judith Butler, «corpi che non contano», corpi che non sono degni di lutto, esistenze precarie, il cui statuto di animale non consente loro di aspirare a una vita dignitosa.

Rispetto a simili affermazioni una delle critiche più comuni rivolte agli animalisti può venire sintetizzata nell’affermazione secondo cui, oggi, vi sono oggettivamente delle priorità rispetto alla questione animale: la fame nel mondo, le malattie epidemiche, le ingiustizie sociali, le guerre, ecc. Qui non si intende negare tutto questo, ma, tornando all’immagine iniziale di Horkheimer, una visione d’insieme ci fa comprendere che vi è una medesima logica che taglia trasversalmente le condizioni di sfruttamento nel mondo; non a caso oggi si parla tanto di biopotere, di un potere che mira a controllare ogni sfera del vivente, gli esseri umani e gli altri animali, le sementi e le colture, fino a interi ecosistemi. In altre parole: se lo sfruttamento è uno solo, così pure uno solo dovrà essere il processo di liberazione. Occuparsi della questione animale non significa ignorare e trascurare il resto, tutt’altro.

“Ed ecco, era cosa molto buona”

Dove ha avuto inizio tutto ciò? Quale mito ha fondato e giustificato tale sfruttamento? Certamente potremmo trovare diverse fonti di ispirazione per questa tipologia di pensiero. Sicuramente tra i miti fondanti un posto di rilievo merita il racconto della creazione contenuto nella Bibbia. In particolare i passi di Genesi in cui si dice: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi 1,28). Questo antropocentrismo imperante, con l’invito a dominare e soggiogare tutto il vivente, si è protratto, pur con i mutamenti storici e culturali avvenuti, fino ad oggi, di fatto senza soluzione di continuità.

Ciò che è interessante è come nel testo biblico ci si imbatta in affermazioni di segno decisamente contrario rispetto a quanto appena citato, che possono sollecitare diverse riflessioni. Infatti, se proseguiamo la lettura del racconto, subito dopo l’ordine di dominare e soggiogare, leggiamo qualcosa che potremmo confondere con affermazioni provenienti dalle scritture orientali, induiste o jaina: «Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo (…)”. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Genesi 1,31). In altre parole, il testo racconta che il primo essere umano era vegetariano, anzi dovremmo dire vegano! Non solo: questo bisogno di una radicale trasformazione del rapporto uomo-animale lo vediamo riemergere nella Bibbia all’interno della letteratura profetica (cfr. ad esempio Osea II, 20 e Isaia XI, 6-8), fino all’affermazione paolina secondo cui «tut ta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto» (Rom 8, 22). Ora, questi brevi cenni al testo biblico sono sufficienti per mostrare che qui si vuole seguire un’ermeneutica che dia voce non alla volontà di potenza dell’essere umano, bensì alla sofferenza animale. Così come ha proceduto la teologia della liberazione in favore delle classi sociali sfruttate, e la teologia femminista nei confronti dell’oppressione subita dalle donne, si vuole qui far affiorare quella “mormorazione dal basso” (per riprendere un’espressione di Ernst Bloch) da cui emergono nei passi biblici la protesta, il desiderio e la speranza di libertà da parte di tutte le forme di vita, compresi gli animali non umani.

Una guerra sulla pietà

Come si è accennato sopra, a proposito della produzione di massa e della sperimentazione genetica, la cosa sta assumendo oggi connotati inquietanti. A questo proposito il filosofo francese Jacques Derrida parlava, riferendosi proprio al nostro tempo, di proporzioni senza precedenti dell’assoggettamento animale, di un’escalation di violenza senza precedenti contro l’animale non umano.

Leggo Derrida: «Nessuno può più continuare seriamente a negare che gli uomini fanno tutto ciò che possono per nascondere o per nascondersi questa crudeltà, per organizzare su scala mondiale l’oblio o il disconoscimento di tale violenza che qualcuno potrebbe paragonare ai peggiori genocidi». Quindi non c’è solo da denunciare la violenza in corso (allevamenti intensivi, vivisezione, macelli ecc.), ma il collaborazionismo fattivo nel perpetuamento di tale violenza. E su ciò siamo tutti coinvolti. Sempre con le parole di Derrida, «si sta compiendo una nuova prova della compassione», perché qui è in gioco proprio la questione del pathos, di quella forza emotiva che canalizza la qualità del nostro sentire, quali la sofferenza, la pietà, la compassione. Per questo Derrida aggiungeva che è in corso «una guerra sulla pietà». Cosa voleva dire? Leggo ancora: «Pensare la guerra in cui siamo non è solo un dovere, una responsabilità, un obbligo, è anche una necessità a cui, volente o nolente, direttamente o indirettamente, nessuno potrebbe sottrarsi. Ora più che mai. E dico “pensare” questa guerra perché credo che sia in questione proprio ciò che chiamiamo “pensare”. L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio da qui». Pensare inizia qui, è in questa apertura, in questo restare nudi – come vita dinanzi alla vita – che scaturisce la domanda, l’interrogarsi, il pensare come forma espressiva peculiarmente umana.

Sia chiaro: tutto quello che si sta dicendo non sono discorsi da “anima bella” che si autocompiace della propria sensibilità altruistica e dei propri pensieri lungimiranti rispetto alla cattiveria e all’insensibilità dei più. Parlare e riflettere della condizione animale vuol dire anche parlare e riflettere proprio della nostra condizione, quella umana. Ciò che accade agli altri animali riguarda da vicino, da molto vicino quello che accade agli umani.

Macchina antropologica e divenire-animale

Di fronte ai virulenti processi economici in corso, a cominciare dal business dell’industria agro-alimentare, che considera ormai la natura come un ostacolo da superare in vista di un aumento del valore aggiunto dei prodotti, riducendo costi di produzione, ignorando il degrado ambientale, così come la diffusione di malattie nell’essere umano e la sofferenza degli animali. A queste emergenze è necessario rispondere innalzando, come suggeriva sempre Derrida, il livello della riflessione. Da qui l’urgenza di una prospettiva, anche religiosa, che ribalti alla radice i parametri di riferimento circa il rapporto essere umano/animale.

È stato lo studioso italiano Giorgio Agamben a elaborare il concetto di macchina antropologica, riprendendo una distinzione risalente all’antica Grecia tra bìos e zoè (la vita specializzata, da una parte, e la nuda vita indifferenziata, dall’altra). La macchina antropologica non sarebbe altro che il dispositivo in base al quale avviene la produzione dell’umano attraverso l’opposizione essere umano/animale. L’umanità viene così definita attraverso la sottrazione e l’esclusione di ciò che, pure appartenendo alla vita, e alla vita stessa dell’essere umano, non è reputato umano. In altre parole l’essere umano fa l’essere umano separandosi dall’animale (un animale, si badi bene, che risiede fuori, ma anche dentro gli stessi confini dell’umano). Tale linea di separazione è fluida, viene di volta in volta ridefinita, decidendo chi rientra nelle categorie dell’umano e chi va escluso (ad esempio, di volta in volta si sono trovati espulsi dall’ambito umano: i barbari, gli eretici, i neri, le donne, gli ebrei, i rom, i gay, i migranti), divenendo oggetto del medesimo trattamento riservato agli animali non umani (esclusione, reclusione, sfruttamento, marchiatura, eliminazione).

Se, ad esempio, provassimo a rileggere l’episodio di Abramo e Isacco dal punto di vista di Isacco, leggeremmo il racconto dal punto di vista animale: Isacco a un certo punto si è trovato escluso dall’umano per essere sacrificato al posto di un agnello. «Proseguirono tutt’e due insieme; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio» (Genesi, 22,7-10). Questa è la macchina antropologica. Sulla sponda opposta c’è il divenire-animale. Sono stati i francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari a usare questa espressione. Non si tratta di un processo di deprivazione dell’umano, ma al contrario è offerto all’esperienza umana come opportunità di espansione, di arricchimento. Secondo i due autori la realtà è composta da una serie di molteplicità (di forme di vita e di modalità espressive di queste forme di vita) che apre alla possibilità di istituire connessioni molteplici, orizzontali, in più direzioni e in perenne movimento, in contrasto con le procedure e le tipologie verticali, gerarchiche, caratterizzate dal pensiero dominante. Ciò che è in gioco «è un rapporto (…) con l’animale, con il vegetale, con il mondo» che consente di compiere passaggi, trasformazioni, individuabili a ogni piano. Questo divenire-animale è la costruzione di un ponte tra etica ed etologia, fra ethos umano ed ethos animale, in grado di supportare un dialogo orizzontale tra umano e animale. Non si tratta di umanizzare l’animale, come spesso accade nel rapporto essere umano/animale, ma di favorire l’animalizzazione dell’essere umano, Si tratta di affinare i nostri sensi, prima ancora di affinare il pensiero, per percepire e interagire con quella che Gregory Bateson chiamava la «sacra unità» che connette tutti i viventi.

Per fare ciò è condizione necessaria congedarsi, nella teoria come nella pratica, da modelli di riferimento tuttora imperanti, come il concetto stesso di identità (l’esistenza di un soggetto già dato, chiuso, rigido, refrattario alle trasformazioni, separato da tutto il resto attraverso il rapporto dualistico soggetto/oggetto). A essa si contrappone la nozione di un soggetto nomade, post-identitario, incarnato (quindi storico, sessuato ecc.), ma nello stesso tempo in continuo divenire: «il nomadismo è un processo attraverso il quale tracciamo molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza, ognuno dipendente dal posto in cui ci troviamo e dal modo in cui cresciamo».

Il corpo di Dio

Parlare di teologia della liberazione animale ci conduce non solo a rimettere in gioco l’opposizione essere umano/animale, ma anche la coppia Dio/animale.

Circa l’opposizione essere umano/animale il teologo tedesco Eugen Drewermann ha sostenuto che la teologia non può ignorare i dati provenienti dai vari campi delle scienze, dalla psicoanalisi all’etologia, e che pertanto non è più possibile respingere l’idea che operi un unico flusso vitale, quello che ha reso possibile e che continua a svilupparci come esseri umani. «Che cos’è la vita – dice Drewermann – se non uno scambio eterno, gigantesco, senza fine?». Per queste ragioni egli è giunto a parlare anche di un’immortalità degli animali, collocando questa tematica, assai particolare, dentro una più generale riflessione sul senso della vita, della morte e sulla resurrezione, nella sottile convinzione che non vi sia un mondo dei viventi da una parte e un regno dei defunti dall’altra, ma che esista un solo campo, che i cristiani chiamano Regno di Dio, di cui tutti fanno parte, viventi e morti, animali inclusi.

Ma probabilmente per il mondo cristiano l’opposizione Dio/animale è ancora più radicale di quella fra essere umano e animale; accostare Dio e gli animali può suonare come un’eresia, se non una bestemmia (che cos’è in fondo la bestemmia se non l’accostamento del nome di Dio a specie animali considerate spregevoli?). Comunque sia, si tratterebbe di una formulazione incoerente, una vera e propria contraddizione, tutt’al più un ossimoro, che vede due opposti, Dio (l’essere perfettissimo, eterno, onnisciente e onnipresente, creatore di tutte le cose, reviviscenza del catechismo di Pio X) e l’animale (dotato al massimo di anima vegetativa e sensitiva, secondo la lezione di Aristotele che tanto ha influenzato il sapere teologico).

Per questo va radicalmente ripensato anche Dio. Qui ci limitiamo a riprendere alcune suggestioni della teologa americana Sallie McFague, la quale ha proposto la metafora del cosmo come corpo di Dio, con lo scopo di offrirci uno sguardo altro, per «pensare e agire come se i corpi contino». Così, se pensiamo e viviamo il cosmo come il corpo di Dio, allora «non incontriamo mai Dio non incorporato». Questo significa prendere sul serio la nostra stessa incarnazione e quella degli altri corpi perché abbiamo tutti una storia comune, «siamo tutti fatti – dice McFague – di ceneri di stelle morte».

La salvezza riguarda così tutti i corpi terreni, non solo quelli umani, per poter vivere tutti degnamente su questa Terra. Allora ciò che la tradizione cristiana chiama peccato si mostra come il fallimento della relazionalità, un’offesa contro altre parti del corpo di Dio (di altre specie o parti della creazione), poiché «la creazione è il luogo della salvezza, la salvezza è la direzione della creazione».

Conclusione

Mary Daly, teologa post-cristiana, in uno dei suoi ultimi libri, intitolato Quintessenza (che potremmo collocare all’interno della letteratura profetica), offre alcuni spunti interessanti per chiudere questa riflessione. Lei immagina una società post-patriarcale del futuro (il sottotitolo del libro è infatti “realizzare il futuro arcaico”) in cui, fra le tante novità, gli animali invitano a unirsi alla «maggioranza cognitiva che include piante, rocce, pianeti, stelle, angeli – tutti gli esseri amanti della vita», in contrapposizione all’affermazione di una superiorità degli umani in base alla ragione. In questa comunità di cui parla Daly però gli uomini non compaiono, si trovano confinati in altri continenti, separati dalle donne. Ecco, quello che in chiusura sento personalmente di poter dire, è dichiarare il bisogno di intraprendere fin da subito un lungo lavoro affinché possa essere superata questa mancanza – resa nel racconto di Mary Daly nella separazione degli uomini dalle donne -, per divenire partecipi veramente tutti, uomini e donne, di questa comunità degli esseri amanti della vita, di questo grande sogno della Terra. Di cui questo mio intervento vuol essere un piccolo, parziale contributo.

 

il nostro razzismo secondo p. Zanotelli

Alex Zanotelli

«il nero a chilometro zero svela il nostro razzismo»

 un brano da “prima che gridino le pietre”, pamphlet del missionario per una disobbedienza civile per non «tradire i valori cristiani»

Alex Zanotelli

Alex Zanotelli

«L’Europa ha perso la coscienza, la memoria e l’umanità. Ci preoccupiamo di difendere i nostri valori “cristiani” di fronte ad altre religioni, ma quei valori li stiamo tradendo da soli». Lo scrive un uomo che i principi del cristianesimo li conosce e li ha vissuti sulla propria pelle come missionario, Alex Zanotelli, nel pamphlet “Prima che gridino le pietre” (Chiarelettere, pp. 160, € 15, a cura di Valentina Furlanetto) dal sottotitolo che elimina ogni possibile malinteso: «Manifesto contro il nuovo razzismo».
«Questo libro racconta il razzismo di ieri e soprattutto di oggi, potente macchina del consenso», annota l’editore nella scheda. Il missionario e attivista, per il quale «Dio è schierato, è il Dio degli oppressi, degli schiavi, dei poveri», per più di mezzo secolo ha convissuto con «gli ultimi della terra, prima in Sudan poi in Kenya, in una delle infinite baraccopoli di Nairobi, Korogocho». Nato a Trento nel 1938, sacerdote dal 1964, missionario comboniano, direttore della rivista “Nigrizia” dal 1978 al 1987, Zanotelli traccia una storia di emigrati e migranti ricordando un linciaggio di italiani emigrati del 1893 nel sud della Francia scatenato da notizie false e con il furore popolare. Ci ricorda qualcosa?, chiede e si chiede. Arrivando all’esperienza di Riace e del sindaco Mimmo Lucano, Zanotelli rilancia «il valore politico della disobbedienza civile». Un dato citato nel libro: l’86% dei 65 milioni di rifugiati nel mondo calcolati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite  (Unhcr) è nei paesi poveri, appena il 14% nell’Occidente. Di seguito, su gentile concessione dell’editore potete leggere un estratto dal paragrafo «Razzismo di Stato» dal capitolo «Rompere il silenzio».

Razzismo di Stato
Mi viene da ripetere la domanda che ha fatto il papa ai leader della Ue: «Europa, che cosa ti è successo?». Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Il razzismo sta crescendo in Europa e anche in Italia.
Abbiamo sempre pensato agli italiani come a delle persone accoglienti, ci siamo sempre vantati del detto «italiani brava gente». Ma solo perché in realtà da noi non c’erano africani, non c’erano persone di colore. Era facile non essere razzisti senza neri in giro. Da quando nel nostro paese sono arrivate delle persone con la pelle scura si è visto di che pasta siamo fatti. E da dove arriva questo razzismo? Arriva da un senso di superiorità che hanno gli europei e gli italiani.
Noi europei crediamo fermamente che la nostra civiltà sia migliore di quella degli altri popoli. Crediamo di essere detentori di una cultura, una religione, una filosofia superiori. Questa convinzione è quella sulla quale si sono appoggiati primo lo schiavismo e poi il colonialismo. C’è questo senso di superiorità che impedisce di sentire il nero come un pari. Altrimenti non si spiegherebbe questa ostilità nei confronti dei migranti africani.
Prestiamoci attenzione: i migranti cinesi in Italia sono presenti in misura pari a quelli africani e tuttavia non suscitano la stessa rabbia, la stessa riprovazione, lo stesso furore. Evidentemente scatta qualcosa a livello psicologico, qualcosa che è dentro di noi, un rifiuto, un senso di superiorità atavico, che non riusciamo a sopprimere.Quando anni fa chiedevo ai fedeli delle parrocchie che frequentavo delle sottoscrizioni per i poveri in Africa oppure di adottare a distanza dei bambini africani erano tutti molto generosi; toccati profondamente dalle situazioni di povertà che raccontavo, aprivano volentieri il portafoglio.
Un po’ perché le donazioni verso i poveri pongono sempre chi dona in una situazione di superiorità morale, il dono è sempre verso qualcuno che ha bisogno, che tende la mano. Ci sentiamo lusingati e gratificati da questo. Ma bisognerebbe saper rispettare il diritto dell’altro alla dignità, non soltanto donare con condiscendenza e senso di superiorità.
Il fatto nuovo è che il nero a chilometro zero non funziona. Il nero va bene se sta in Africa, più lontano possibile, il nero al nostro fianco ha svelato il razzismo che c’è in noi. Una ostilità che non dimostriamo verso i migranti di altri paesi. Evidentemente è proprio la pelle nera a disturbare l’uomo bianco. E come chiamare questo se non razzismo?
Siamo di fronte a un razzismo di Stato, preparato da decenni da leggi come la Turco-Napolitano, la Bossi-Fini, i decreti Maroni, la realpolitik di Minniti. È un fenomeno che ci interpella tutti. Ora, con il governo Salvini-Di Maio-Conte siamo addirittura allo sdoganamento verbale del razzismo, della xenofobia, dell’aggressività. La politica sull’immigrazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che porta a chiudere i porti, va contrastata. La disobbedienza civile in questo contesto è l’unica arma che abbiamo. «Una legge che degrada la personalità umana è ingiusta», scriveva dal carcere di Birmingham Martin Luther King. Le sue parole ci chiamano in causa: «I primi cristiani si rallegravano di essere considerati degni di soffrire per quello in cui credevano.
Allora la Chiesa non era un semplice termostato che misurava le idee e i principi dell’opinione pubblica, era un termostato che trasformava la società. Quando i primi cristiani entravano in una città le autorità si allarmavano e subito cercavano di imprigionarli perché “disturbavano l’ordine pubblico” ed erano “agitatori venuti da fuori”. Ma i cristiani non cedettero».

È questo lo spirito che deve tornare ad animare le comunità cristiane, se vogliamo sconfiggere il razzismo e la xenofobia che ci stanno travolgendo. Papa Francesco ha lanciato molti segnali, ma è rimasto inascoltato. Il suo messaggio non sta passando. È attaccato, è solo.

una ostilità immotivata e razzista contro i migranti

migranti

gli sbarchi si riducono, l’ostilità aumenta

di Andrea Federica de Cesco
in “Corriere della Sera” del 5 dicembre 2018

«Nel corso del 2018 abbiamo vissuto un paradosso: a fronte di una drastica riduzione degli sbarchi (dell’80%), c’è stata una drammatizzazione e strumentalizzazione del fenomeno migratorio, che si sta traducendo in un’aperta ostilità verso gli stranieri»

Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità), ha aperto così la mattinata dedicata al ventiquattresimo rapporto dell’ente di ricerca scientifica indipendente, che dal 1993 è impegnato nello studio e nella diffusione di una corretta conoscenza dei fenomeni migratori.

Il testo, edito da FrancoAngeli, è stato presentato  all’Università degli Studi di Milano, con il vicedirettore del Corriere Venanzio Postiglione in veste di moderatore e con il politologo Nicola Pasini ad aprire il dibattito.

Il responsabile del settore Statistica della Fondazione Ismu Gian Carlo Blangiardo ha poi messo in luce alcuni dei numeri raccolti nel volume, a partire da quelli sulla presenza di stranieri in Italia: al primo gennaio scorso erano 6 milioni e 108 mila; considerando che la popolazione italiana conta 60 milioni e 484 mila residenti, ciò significa che è stata superata la soglia simbolica di uno straniero ogni 10 abitanti. «Rispetto al 2017 c’è stato un incremento del 2,5% degli stranieri presenti in Italia. Tale aumento è trascinato in particolare da quello dell’8,6% degli irregolari», ha detto Blangiardo, che è a un passo dalla guida dell’Istat.

Un altro tema centrale è la formazione dei giovani stranieri e l’intercultura come pratica educativa, su cui si è concentrata la responsabile Ismu del settore Educazione Mariagrazia Santagati, mentre il direttore generale della Cooperazione internazionale e dello sviluppo della Commissione europea Stefano Manservisi ha evidenziato l’importanza di facilitare gli investimenti privati nei Paesi africani e anche le rimesse dei migranti. Nello stesso contesto il Centro sportivo italiano di Milano ha ricevuto il riconoscimento della Fondazione Cariplo e della Fondazione Ismu 2018 per il progetto «Sport Inside», che promuove i percorsi d’integrazione sociale e di inserimento per i giovani stranieri che chiedono la protezione internazionale

il nuovo libro di Zanotelli contro il ‘nuovo razzismo’

il manifesto antirazzista di un vero rivoluzionario

il nuovo libro di Alex Zanotelli

“prima che gridino le pietre”

“manifesto contro il nuovo razzismo”

pubblicato da Chiarelettere (150 pagine, 15 euro)

di Paolo Piffer
in “Trentino” del 5 dicembre 2018

Un dato:

Secondo l’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni unite che si occupa di migrazioni), i rifugiati nel mondo sono 65 milioni, l’86% dei quali è ospite dei Paesi più poveri. Solo il restante 14% si trova in Occidente.

E un commento:

“Eppure l’Europa si sente sotto assedio, si sente invasa, reagisce con paura e ostilità, erge muri, srotola filo spinato, chiude i porti, respinge i migranti. Quella stessa Europa che pretende di essere l’esempio della civiltà tollera episodi di discriminazione e xenofobia. Gli italiani, emigrati negli anni in tutto il mondo, hanno dimenticato la loro storia, o fanno finta di non ricordarla”.

Padre Alex Zanotelli, il comboniano originario di Livo, in val di Non, torna in libreria dopo “Korogocho. Alla scuola dei poveri” – che risale ormai ad una quindicina d’anni fa, sulla sua esperienza missionaria nella baraccopoli alle porte di Nairobi, in Kenia – con “Prima che gridino le pietre”, pubblicato da Chiarelettere (150 pagine, 15 euro).”Manifesto contro il nuovo razzismo” è il sottotitolo. Perché di questo si tratta. Di un accorato appello, indignato, contro il trattamento riservato ai migranti da gran parte dell’Europa, come dagli Stati Uniti di Trump.

Da buon giornalista, è stato per anni direttore della rivista “Nigrizia”, Zanotelli prende in mano i numeri.

“È semplicemente ridicolo parlare di invasione – scrive – In Europa gli abitanti sono più di cinquecento milioni e gli immigrati arrivati negli ultimi sei anni sono meno di due milioni della popolazione, meno dello 0,4%: una goccia nel mare”.

E ancora:

“Se si guarda all’Italia è vero che abbiamo avuto molti sbarchi ma il numero di rifugiati ogni mille abitanti è molto più basso che in altri Paesi d’Europa: 2,4 rifugiati ogni 1000 abitanti secondo i dati dell’Unhcr, tutto sommato pochi rispetto ai 23 rifugiati ogni 1000 della Svezia, gli 11 ogni 1000 della Norvegia, ma anche la Germania ne ospita di più (8,1 ogni 1000) e la Francia (4,6 ogni 1000)“.

Sugli irregolari presenti in Italia, annota:

“Non sappiamo esattamente quanti siano ma non è difficile fare una stima realistica e non di pura propaganda (come invece il ministro dell’interno Matteo Salvini che in campagna elettorale ha promesso di mandarne a casa 500mila). Se si sommano le richieste di asilo respinte dalle commissioni territoriali dal 2014 ad oggi si arriva ad una cifra di poco superiore a 100mila persone”.

“Siamo di fronte a un razzismo di Stato”, e Zanotelli ne ha per tutti, dalle leggi TurcoNapolitano alla Bossi-Fini, dai decreti Maroni alla “realpolitik di Minniti”. Di fronte al quale

“l’unica arma che abbiamo è la disobbedienza civile, ciascuno nel suo ruolo, se non diciamo no qui e ora salta la nostra umanità”.

Guarda anche in casa sua il comboniano.

“Nel mio paese d’origine, in Trentino, il 50% ha votato Lega (per l’esattezza, alle ultime politiche, il 54,04% ndr). Ne fui profondamente indignato – scrive – Mi sono vergognato perché non ci si può dire cristiani e contemporaneamente aderire ai valori della Lega, o l’una o l’altra cosa”.

Neanche presagisse l’invito del neoassessore provinciale leghista Mirko Bisesti a porre crocefissi nelle aule scolastiche e metter su presepi in vista del Natale negli istituti, padre Alex tuona:

“La croce rappresenta un uomo che predicava l’amore e la fratellanza ed è morto per le sue idee, morto insieme a due ladroni, non compreso, non amato, tradito. Quell’uomo stava con i poveri, le prostitute, gli stranieri, i malati, gli infermi. Quando guardiamo il presepe dobbiamo renderci conto che non è una composizione pittorica e folcloristica, è la rappresentazione di una famiglia povera che vaga in cerca di riparo. Altrimenti il presepe, se viene usato come simbolo identitario contro altri, diventa l’opposto del suo significato originario”.

Nel “manifesto” c’è poi la lista dei tanti casi di stranieri che negli ultimi mesi, da nord a sud della penisola, sono stati attaccati, da italiani. Una sequela dolorosa. E una sorta di “breviario” africano. Il continente dal quale arrivano migliaia e migliaia di migranti, spesso non accolti. Fortunatamente, sottintende Zanotelli,

“c’è sempre qualcuno che si ribella, che non sta in silenzio. E sono queste persone a fare la differenza”.

la giornalista linciata sui social

 

ha denunciato le violenze contro una ladra rom, la giornalista Rai chiude Facebook per i troppi insulti

le violenze verbali subite dalla giornalista sono continuate anche su Internet, tanto da costringerla a chiudere il proprio account

 

Parole irripetibili. Sconcezze. Sessismo a go go e esaltazione della violenza. Non c’è da stupirsi che Giorgia Rombolà, la giornalista Rai che oggi è stata brutalmente aggredita verbalmente dai passeggeri della Metro A di Roma per aver difeso una donna rom, abbia deciso di chiudere il suo profilo facebook.

La Rombolà ha assistito a un tentato furto da parte della rom, che era già stata adocchiata e fermata dai vigilantes che la stavano trattenendo. Ma la vittima del tentato furto ha deciso che non siamo a Roma, nel 2018, ma nel Far West o in qualche villaggio medievale in cui vale la legge del taglione: se rubi, ho il diritto di pestarti a sangue. E così giù di botte, tirate di capelli, testa sbattuta contro il muro. Il tutto davanti alla figlia della donna, di circa 4 anni, che è caduta a terra senza che nessuno si preoccupasse di aiutarla.

La giornalista ha cercato di intervenire e per tutta risposta il suo viaggio in metro è stato costellato di insulti, che sono continuati su internet con questi toni.
Ad esempio sulla pagina del Primato Nazionale, testata di estrema destra legata a Casapound, ne sono comparsi molti, anche se i più sconci erano nel profilo della giornalista che è stato chiuso.

“Ringraziasse Dio che non abbiano preso a calci nel culo pure lei e con ceffoni sulla bocca che farebbe meglio a tenere chiusa. ignobile idiota”

“Per sostentarsi bisogna lavorare onestamente non rubare… capito buonista del cazzo….tanto la cessa non prende mezzi pubblici come tutti ma gira in macchinone” (al signore sfugge che il tutto è avvenuto in metro).

“Beh, poteva offrire il suo portafogli alla rom!
Continua a fare la bella addormentata, chissà, forse qualche principe rom, o africano ti sveglierà … non so in che modo ma ti sveglierà”

“E anche grazie a questi pseudo giornalisti che l’Italia sta andando a puttane … nel dubbio una passata l’avrei data anche a lei..”

Ovviamente, trattandosi di una donna, non sono mancati gli insulti sessisti, anche da parte di altre donne.

Siamo alla frutta: oltre a essere precipitati in un clima da Far West, ci siamo anche abituati a una violenza fisica e verbale che permea la nostra quotidianità. Essere pronti ad alzare le mani e la voce sembra essere diventata la normalità.

la cosa più importante nella vita secondo Boff

alla fine saremo tutti giudicati sull’amore

quello effettivo

un colloquio con Leonardo Boff

 

 

Forse aveva ragione Bauman quando scriveva:

“Il vero problema dell’attuale stato della nostra civiltà è che abbiamo smesso di farci delle domande. Astenerci dal porre certi problemi è molto più grave di non riuscire a rispondere alle questioni già ufficialmente sul tappeto; mentre porci domande sbagliate troppo spesso ci impedisce di guardare ai problemi davvero importanti. Il prezzo del silenzio viene pagato con la dura moneta delle umane sofferenze. Porsi le questioni giuste è ciò che, dopotutto, fa la differenza tra l’affidarsi al fato e perseguire una destinazione, tra la deriva e il viaggio. Mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere può essere considerato il più urgente dei servizi che dobbiamo svolgere per noi stessi e per gli altri”.

Per questo abbiamo bisogno di letture “divergenti” che aiutino – anche le nostre comunità ecclesiali – a guardare in profondità, a mettere in discussione l’ovvio, a chiedere fino a che punto la fede in Gesù Cristo è passione per l’uomo e per la storia.

Lo facciamo con un testimone privilegiato: Leonardo Boff, uno dei padri della teologia della liberazione. Boff, nipote di immigrati veneti giunti in Brasile alla fine del XVIII secolo per installarsi nel Rio Grande do Sul, è entrato nell’Ordine dei frati francescani minori nel 1959. Emessa la professione solenne e diventato sacerdote, studia negli Stati Uniti,in Belgio e in Germania, dove consegue il dottorato di filosofia e teologia presso l’Università di Monaco (uno dei due relatori era Joseph Ratzinger).

Tornato in Brasile, Boff occupa la cattedrale di teologia sistematica ed ecumenica a Petropolis, è direttore di numerose riviste teologiche e consulente della Conferenza episcopale brasiliana. La sua azione teologica, unita a quella di Gustavo Gutierrez, sostanzia la teologia della liberazione.

Ma l’uscita del libro “Chiesa: carisma e potere” gli procura un confronto serrato con la Congregazione per la Dottrina della Fede che gli impone, per un anno, un “silenzio ossequioso”. Dopo qualche anno, Leonardo Boff abbandona l’Ordine dei francescani. Ma non il suo impegno nelle comunità di base brasiliane e la sua attività di teologo, docente e scrittore. Nel 1993 è nominato docente di etica, filosofia della religione ed ecologia presso l’Università Statale di Rio de Janeiro.

Attualmente vive a Jardim Araras, una riserva ecologica a Petropolis, insieme a Marcia Maria Monteiro de Miranda e ha sei bambini adottati.

Cosa vuol dire guardare e leggere la storia con gli occhi di chi fa più fatica, con gli occhi dei poveri?

Significa cambiare lo scenario. Perché ogni punto di vista è a partire da un punto. Da quello che scegliamo, dipende il nostro sguardo e il nostro giudizio. I poveri sono la stragrande parte dell’umanità, sono la maggioranza della popolazione. Eppure, nonostante questo, non hanno voce: sono socialmente invisibili, non contano, sono considerati uno zero economico perché producono poco e consumano poco. Nella contabilità del sistema non hanno un peso.

Qual è stata l’intuizione della teologia della liberazione? E’ stata quella di sostenere che coloro che sono ai margini, che vivono nella periferia, coloro che secondo il giudizio del mondo sono non persone,  sono, invece, l’apparizione di Cristo crocefisso nella storia, sono coloro che hanno la centralità nel Vangelo, i primi destinatari del messaggio di Gesù.  Vedere la verità evangelica a partire dai poveri significa vedere a partire dalla stragrande parte della popolazione.

E questo cambia radicalmente il paesaggio sociale. Occorre conoscere la vita dei poveri nelle favelas, nelle borgate: non funziona niente: non c’è né Stato né la scuola, né parrocchia, né polizia. Uomini e donne, vecchi e bambini  abbandonati a se stessi. Sopravvivono in mezzo a questa immensa via crucis di dolore e di passione. Vedere il mondo a partire da loro significa dire anzitutto che questo non può essere, bisogna cambiare questa realtà. E’ troppo disumana, troppo ingiusta. Ti fa star male.

Soprattutto quando incontri il dolore innocente: i bambini che stendono le mani, il dramma, diffuso, della prostituzione infantile, lo sfascio di molte famiglie. Tutto questo provoca l’ira sacra, come quella dei profeti biblici.

Da questo sguardo sul mondo è nata la teologia della liberazione?

Sì! La povertà se analizzata in profondità è sempre un’ingiustizia e ogni ingiustizia è peccato. Sociale e storico insieme. Perché la povertà non è naturale, non è qualcosa che Dio vuole: è stata prodotta dentro relazioni storiche umane la cui conseguenza ha generato impoverimento. Non sono poveri, sono impoveriti, sono oppressi. E contro l’oppressione vale la liberazione.

Noi, alla fine degli anni sessanta, siamo partiti da una domanda, che rimane aperta ancora dopo tanti anni: come annunciare Dio, padre e madre di tenerezza di bontà, in un mondo di miserabili? Come dire che Dio è buono a chi vive una vita disperata?

Quali conseguenze nascono da questa domanda?

Per annunciare che Dio è veramente padre di tutti, specialmente dei poveri, perché sia vero il nostro annuncio, bisogna cambiare questa realtà. Non a partire da Gramsci o da Marx. No! Occorre cambiare dal capitale simbolico del cristianesimo: tutti questi poveri sono allo stesso tempo poveri e credenti, poveri e cristiani.

Come fare in modo che la fede cristiana, troppo a lungo sinonimo di rassegnazione, possa essere una fede di liberazione? Nei vangeli si racconta che Gesù libera le persone dalla fame, dal dolore, dalla morte. Occorre fare del contenuto della fede una forza di mobilitazione sociale,  un atteggiamento per un cambio di liberazione.

Cosa significa in concreto?

Significa avviare un’azione che porti più libertà. E’ un processo pedagogico, non avviene dall’oggi al domani. Per questo la teologia della rivoluzione non è mai stata una teologia latinoamericana. E’ stata pensata in Europa.

Per noi liberazione è creare le condizioni perché, riconoscendosi carichi di una dignità che viene da Gesù Cristo, ogni uomo, insieme agli altri, crei le condizioni sociali, culturali, economiche e politiche perché possa essere specchio dell’immagine divina.

I poveri al centro, dunque

Certo. Dobbiamo costruire la liberazione a partire dai poveri. Occorre superare la visione paternalistica, assistenzialistica, di chi ha molto e aiuta coloro che non hanno niente.  E’ importante condividere il pane. Però questo rischia di tenere l’altro sempre dipendente.

Occorre invece fare del povero soggetto della sua liberazione. I poveri sanno pensare, organizzarsi, muoversi. Non siamo noi a liberarli. Non è né la Chiesa né lo stato che liberano i poveri. Possono stare accanto a loro, camminare insieme, condividere il loro dolore, assumere la loro causa. Anche se tutto questo può procurare ferite e lacerazioni.

L’unica Chiesa che oggi nel mondo ha dei martiri è la Chiesa della liberazione: tantissimi vescovi, suore, laici, sacerdoti. Perché? Perché hanno assunto la posizione più difficile. Vista dai ricchi la loro era un’insurrezione, una tribolazione sociale che doveva essere evitata. Invece hanno dimenticato che l’opposto della povertà non è la ricchezza è la giustizia. Questo è il cuore della teologia della liberazione e il centro dell’insegnamento sociale della chiesa. In molti documenti – da Leone XIII in poi – la chiesa ha affermato che non vuole una società povera o una società ricca ma una società giusta e fraterna.

Ma se la Chiesa assume il punto di vista dei crocefissi della storia, non rischia di diventare una grande Ong, di ridurla ad essere solo un organizzazione umanitaria?

Può darsi che ci siano stati eccessi perché quando si vede a quale livello arriva la disumanizzazione qualcuno può aver assunto posizioni radicali. Ricordo quando portai Moltmann, il grande teologo della speranza, a visitare il Brasile. Al termine del lungo viaggio ci chiese perché non facevamo niente di fronte al peccato sociale, all’ingiustizia strutturata.  Gli abbiamo spiegato che avevamo scelto la pedagogia di Paolo Freire che implica da sempre un coinvolgimento di tutti, un cambiamento, lento e graduale, delle menti e dei cuori.

Sì, può darsi, come ricorda mio fratello Clodovis, che qualcuno abbia posto l’accento più sulla liberazione che sulla teologia. Ma la stragrande maggioranza dei teologi, delle comunità di base, dei cristiani latinoamericani non dimenticano la radice, la fonte della liberazione che è il Vangelo e la prassi di Gesù. La fede cristiana in sé stessa è liberatrice e questo non perché i teologi lo dicono. La vita di Gesù ha sempre un contenuto di liberazione e tutti dobbiamo fare in modo che il vangelo non diventi un pozzo di acque morte ma sorgente di acque vive.

Alla fine della vita, ci ricordano i grandi mistici, saremo giudicati non se avremo fatto teologia o meno ma se avremo avuto un rapporto di cura e di amore con quanti hanno fame, hanno sete, sono colpiti dall’Aids. Saremo, cioè, giudicati dall’amore. Quello effettivo.

A ottant’anni, dopo che hai scritto decine di libri, ti sei impegnato in molte lotte, qual è la tua immagine di Dio?

Ti racconto una piccola storia che forse spiega quello che ho in mente. In Brasile c’era un grande antropologo che ha sempre difeso gli indios, cercato la giustizia e per questo ha vissuto anche in esilio. Era ateo e invidiava frei Betto e me. “Come mai due persone intelligenti come voi credono in Dio?” ci diceva sempre. Aveva il cancro e sapeva di morire. Un giorno ha voluto che andassi a trovarlo perché desiderava avere un’ultima grande discussione metafisica con me. Mi ha fatto leggere la sua autobiografia dove terminava, con amarezza, dicendo che tutto – la sua vita e le sue passioni, la sua lotta e il suo impegno – finiva ora nella polvere cosmica, nel niente. Mi chiese: “Tu che dici?”.

Gli ho risposto che questo non era vero. “C’è un’ultima istanza di amore e di accoglienza che ha la figura di una nonna (italiana, non tedesca!).” Gli ho detto: “Quando arriverai di là, non porterai con te alcun passaporto, passerai direttamente. La tua vita a difesa dei poveri ti impedirà di fermarti alla dogana, di pagare pesanti pedaggi. E quando giungerai, Dio ti aprirà le sue braccia dicendoti: “Finalmente sei arrivato. Ti aspettavo con tanta nostalgia. Perché sei giunto così tardi?” E comincerà a abbracciarti e baciarti con dolcezza. Perché Dio è madre e padre di infinita tenerezza”.  Lui ha cominciato a piangere e ha perso i sensi.

Quando si è ripreso mi ha detto: “Questo che dici lo accetto, un Dio così lo voglio anch’io. Un Dio che mi ama per quello che sono. Ma, dimmi la verità: “Tutto questo è un’idea tua o un’invenzione della Chiesa?” “Non è ne mia né della Chiesa ma è l’immagine che Dio ci ha consegnato nella figura di Gesù. Che si chiama suo padre ‘Abbà’, che parla di Dio come del padre che aspetta con ansia il figliol prodigo e gli corre incontro, che sceglie sempre la via della misericordia?’”.

La grande eredità che ci ha lasciato Gesù Cristo – e che i cristiani e le chiese non hanno ancora del tutto assimilato – è questa. Non dilapidiamola!

un presepe in solidarietà ai migranti che fa discutere

Acquaviva

bufera sul presepe pro migranti

il sindaco: «È un’opera d’arte»

si tratta di una rappresentazione davvero singolare della Natività dove san Giuseppe e la Madonna sono raffigurati da due manichini-migranti che rischiano di affondare in un mare di bottiglie di plastica, con un Gesù Bambino di colore su un salvagente

Graziana Capurso

Il cartello che accompagna l’installazione recita: «Il bambino nasce nel mare, dove con Giuseppe e Maria, profughi, non accolti da nessuno vive l’esperienza che molti migranti affrontano nel nostro Mar Mediterraneo. E il mare di plastica a fare da sfondo alla Natività è un grido dall’allarme contro l’inquinamento». L’opera, realizzata dal comitato Feste patronali e con il sostegno dell’amministrazione comunale, vuole essere una denuncia contro i “tradizionalisti”, che sui social e sul quotidiano “Il Giornale” l’hanno descritta come “ridicola”.

A queste polemiche il sindaco Davide Carlucci ha commentato: «Vi sarebbe piaciuto vietare questa installazione, vi sarebbe piaciuto dare sfogo ai vostri pruriti fascistoidi: “Questo non si fa, questo non si può..” E invece no. Ad Acquaviva c’è ancora la libertà, c’è ancora la democrazia. Fatevene una ragione! Quando l’arte fa scandalo e quando anche il messaggio religioso è (per dirla con don Tonino Bello) “scandaloso” – aggiunge Carlucci – vuol dire che l’obiettivo è stato raggiunto. Scuotere la nostra visione del mondo “pacificata”, insinuare il dubbio, farci reagire. E da questo punto di vista l’installazione di piazza dei Martiri ha centrato in pieno l’obiettivo».

Pioggia di critiche sui social, che ancora una volta si dividono tra chi è a favore e chi è contro l’installazione della “discordia”: «Che brutta fine che stiamo facendo. Non riusciamo più nemmeno a rispettare quelle 2 tradizioni che ci sono rimaste». «Quest’opera prende origine da un clamoroso falso ideologico: Giuseppe e Maria, non erano profughi. La Sacra Famiglia – commentano su Facebook – si era mossa non spinta da motivi di migrazione, ma per rispondere al censimento, farsi registrare e pagare il tributo previsto e non trovava posto nelle strutture della piccola Betlemme. Il Vangelo è chiaro». «Si tratta della solita pagliacciata». «Ben venga l’idea di stimolare la riflessione dell’opinione pubblica su tematiche ambientali e sui flussi migratori, ma è irrispettoso strumentalizzare e politicizzare la Natività per questi scopi, questo non è un presepe», tuonano su Facebook. E ancora: «Oggi, il presepe non può che essere così: senza cometa e senza Magi. Un presepe di paura e di dolore. Ma il bambino è sempre una speranza». «Onore al sindaco, quest’opera è meravigliosa, evidentemente la verità fa male».

L’iniziativa si colloca all’interno di una serie di eventi organizzati per celebrare il Natale nel paese: il “Natale Acquavivese” iniziato l’8 dicembre, si concluderà il 6 gennaio: in questo periodo ad arricchire la cittadina una serie di concerti, balli, presentazioni di libri, street band, zampognari, la Casa di Babbo Natale nel centro storico e vari mercatini natalizi.

sempre più cattivi e sempre più razzisti … linciaggio di una rom per tentato furto

Roma

l’odio viaggia anche in metro

rom pestata davanti alla figlia per un tentato furto

La giovane aggredita brutalmente alla presenza della piccola. Il drammatico racconto della giornalista insultata dalla folla per aver cercato di fermare il pestaggio

di GABRIELE ISMAN

Roma sempre più cattiva e sempre più razzista

Capita così che alla fermata San Giovanni della Metro A una giovane rom tenti di rubare il portafoglio a un passeggero.
Con lei una bambina di 3-4 anni. Il furto viene sventato: come racconterà su Facebook Giorgia Rombolà, giornalista di Rai News 24,
“ne nasce un parapiglia, la bambina cade a terra, sbatte sul vagone. Ci sono già i vigilantes a immobilizzare la giovane (e non in modo tenero), ma a quest’uomo alto mezzo metro più di lei, robusto (la vittima del tentato furto?) non basta. Vuole punirla. La picchia violentemente, anche in testa. Cerca di strapparla ai vigilantes tirandola per i capelli. Ha la meglio. La strattona fina a sbatterla contro il muro, due, tre, quattro volte.
La bimba piange, lui la scaraventa a terra”.
Rombolà interviene prima urlando all’uomo di non picchiare la ragazza, poi cercando di fermarla. I vigilantes poi riescono a portare via la rom, l’uomo robusto se ne va, ma a bordo del treno la giornalista si ritrova circondata.
“Un tizio che mi insulta dandomi anche della puttana dice che l’uomo ha fatto bene, che così quella stronza impara. Due donne (tra cui una straniera) dicono che così bisogna fare, che evidentemente a me non hanno mai rubato nulla.
Argomento che c’erano già i vigilantes, che non sono per l’impunità, ma per il rispetto, soprattutto davanti a una bambina. Dicono che chissenefrega della bambina, tanto rubano anche loro, anzi ai piccoli menargli e ai grandi bruciarli”.Ancora Rombolà scrive:

“Un ragazzetto dice se c’ero io quante mazzate. Dicono così. Io litigo, ma sono circondata. Mi urlano anche dai vagoni vicini. E mi chiamano comunista di merda, radical chic, perché non vai a guadagnarti i soldi buonista del cazzo. Intorno a me, nessuno che difenda non dico me, ma i miei argomenti. Mi guardo intorno, alla ricerca di uno sguardo che seppur in silenzio mi mostri vicinanza.
Niente. Chi non mi insulta, appare divertito dal fuori programma o ha lo sguardo a terra. Mi hanno lasciato il posto, mi siedo impietrita. C’è un tizio che continua a insultarmi. Dice che è fiero di essere volgare. E dice che forse ci rivedremo, chissà, magari scendiamo alla stessa fermata”.

Il racconto sul social si conclude in modo amarissimo:

“Cammino verso casa, mi accorgo di avere paura, mi guardo le spalle. E scoppio a piangere. Perché finora questa ferocia l’avevo letta, questa Italia l’avevo raccontata. E questo, invece, è successo a me

per la chiesa l’Italia è in pericolo per la politica di governo

Francesco Peloso

La Chiesa lancia l'allrme sulla manovra e sul rapporto tra Europa e governo. Preoccupazioni del Vaticano anche sul clima.

la chiesa lancia l’allarme sulla manovra e sul rapporto tra Europa e governo
preoccupazioni del Vaticano anche sul clima

Un governo in conflitto con l’Europa, contro le Nazioni Unite in materia di migrazioni, tutto sommato assente nei negoziati per fermare il cambiamento climatico in corso a Katowice, in Polonia: su tre fronti decisivi il neo-isolazionismo promosso dall’esecutivo Lega-M5s incontra le critiche più o meno esplicite della Chiesa italiana e della Santa Sede. Risultato: ora non solo Bruxelles è sempre più lontana, ma anche le due sponde del Tevere sembrano essersi allargate come raramente era avvenuto negli ultimi decenni.

Il Vaticano dunque guarda con crescente preoccupazione la deriva autarchica del governo Conte a cominciare dai rapporti con l’Europa; il Vecchio continente del resto, secondo i vescovi, non è unito solo sotto il profilo politico o economico, le sue radici comuni si ritrovano, anzi, pure nel tessuto originario cristiano, in un nucleo di valori condivisi, nel rispetto dei diritti umani, nel mantenimento della pace; e se certo il processo di integrazione europeo può essere rinnovato e modificato, altra cosa è rinchiudersi nel nazionalismo e nella xenofobia. Così almeno si è espresso nei giorni scorsi li presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, intervenendo a un’iniziativa organizzata da un gruppo di associazioni cattoliche (Azione Cattolica, Acli, Comunità di Sant’Egidio, Cisl, Confcooperative, Fuci e Istituto Sturzo) dal titolo non casuale: La nostra Europa, con tanto di appello europeista pubblicato dal quotidiano dei vescovi Avvenire. Tema tanto più delicato nel momento in cui il governo italiano si trova al centro di una delicatissima trattativa sulla manovra economica con le istituzioni europee.

L’AFFONDO DEL PRESIDENTE CEI CONTRO LA LINEA DEL GOVERNO

Il cardinal Bassetti, scartando gli eufemismi curiali, ha affermato: «L’Italia ha un bisogno forte dell’Europa e l’Europa ha una necessità vitale dell’Italia. Non credo che nessuno ci guadagnerebbe da un ipotetico distacco. Un distacco che, tra l’altro, da un punto di vista storico, geografico, spirituale e culturale non ha alcuna ragion d’essere, dopo di che», ha rilevato il presidente della Cei, «si possono discutere le modalità dell’unione politica, ma senza perdere di vista un fatto: rilanciare significa anche rivedere, migliorare, riformare, non distruggere». Dunque nel pieno della crisi fra Roma e Bruxelles, dal vertice della Chiesa non ci si nasconde quale sia li vero rischio (o obiettivo politico non dichiarato): la rottura fra l’Italia e l’Ue. D’altronde Bassetti indica una strada ben precisa per ridare slancio a un’unione intesa come «comunità di popoli in pace che supera gli egoismi e i rancori nazionali», ovvero quella di dare vita a «un’Europa unita, pacificata e solidale, che non speculi sui conflitti sociali e sulle divisioni politiche, che non pratichi l’incultura della paura e della xenofobia, ma che costruisca, con animo puro, la cultura della solidarietà per un nuovo sviluppo della promozione umana». Nel discorso del cardinale non è mancata una citazione di Alcide De Gasperi, storico leader democristiano, fra i fondatori, insieme ad altri esponenti europei di ispirazione cristiana, del primo nucleo della comunità europea nel secondo Dopoguerra.

IL GLOBAL COMPACT E IL RUOLO DEL VATICANO

In effetti, la preoccupazione odierna, Oltretevere, è che nel disfarsi dell’unione politica, nel dispiegarsi «degli egoismi nazionali», vada in frantumi un percorso di solidarietà e civiltà innervato anche sulle varie tradizioni cristiane del continente che, pur tra diverse crisi e problemi, ha permesso all’Europa di progredire in pace come mai era avvenuto nella storia. Un approccio che urta soprattutto con l’ideologia della nuova Lega – non più solo del Nord ma nazionale – di Matteo Salvini. E in effetti è stato proprio il leader leghista a far ingranare la retromarcia al governo anche sul Global compact for migration, un accordo non vincolante promosso dalle Nazioni Unite, per gestire in modo il più possibile condiviso il fenomeno migratorio, combattendo i trafficanti, costruendo vie legali di accesso, creando alleanze fra i diversi Paesi coinvolti. Un accordo al cui raggiungimento ha collaborato in modo particolarmente attivo la diplomazia vaticana, anche per dare una risposta a quegli Stati, fra i quali appunto l’Italia, i quali, per geografia e storia, sono diventati terra d’approdo privilegiata. Per tale ragione il fatto che il governo abbia ritirato improvvisamente il proprio consenso all’intesa, viene giudicata in Vaticano una scelta strumentale dettata più dalla propaganda che dal realismo.

Vaticano Dicastero Economia Finanze

Infine l’ambiente: in Polonia a Katowice in questi giorni sono iniziati i negoziati per attuare l’intesa mondiale sullo stop al cambiamento climatico sottoscritta a Parigi nel dicembre 2015. Per papa Francesco la «cura della casa comune» è un punto fondamentale del suo magistero, da qui passa quell’idea di ecologia integrale in forza della quale ambiente, popoli, sviluppo dovrebbero far parte di un unico modello non più dominato dalla volontà di dominio e dallo sfruttamento illimitato delle risorse. Temi immensi, come si può intuire, sui quali la voce dell’Italia, per ora, è molto flebile fino a perdersi del tutto nelle polemiche di giornata.

alcune parrocchie lucchesi contro la politica disumana di Salvini

parrocchie lucchesi contro il decreto sicurezza e la Lega si arrabbia

Dura presa di posizione dell’Unità pastorale: “Effetti della legge peggiori del ‘male’, accelerazione di barbarie nel nostro Paese”.

I dirigenti toscani del Carroccio: “Pensate alle anime, non fate politica

“Una certa parte dei cristiani e delle loro comunità, più che seguire il vangelo ‘secondo’ Matteo, ‘assecondano’ l’altro Matteo, difendendone le idee e l’operato”
Ad ammonire i propri fedeli, contro i provvedimenti su immigrazione e sicurezza del ministro dell’Interno, sono un gruppo di parrocchie toscane del Lucchese: un avvertimento contro i consensi nei confronti delle politiche di Matteo Salvini e che senza mezzi termini – in linea con molti esponenti del mondo cattolico – condanna la nuova legge sulla sicurezza. E la Lega Toscana reagisce invitando “i pastori di Dio a limitarsi al compito di curare le anime e non di fare dichiarazioni politiche”.
Nuove polemiche, dunque, che seguono quelle degli ultimi giorni sul presepe, in particolare dopo l’appello del prete padovano Don Luca Favarin, affinché “non si faccia il presepio quest’anno”, scelta “evangelica”  per evitare “ipocrisie” (visto che “Gesù era un migrante e noi li lasciamo per strada”).
Stavolta a manifestare aspre critiche nei confronti del nuovo provvedimento, approvato da qualche giorno, sono le parrocchie di Massarosa, Bozzano, Pieve a Elici, Gualdo e Montigiano, le quali hanno uno dei loro punti di riferimento in don Virginio Colmegna, il presidente della Casa della Carità di Milano che ha invitato i cristiani a mettere in atto “atti di disobbedienza civile”. Le parrocchie sottolineano citazioni del mondo cattolico secondo cui gli effetti della legge sicurezza “saranno peggiori del ‘male’ che si vuole curare. Ma poco importa a chi bada più ai consensi elettorali che al bene comune e all’affermazione dei diritti e dei valori”.
Per l’Unità Pastorale delle comunità del Lucchese, che scrive sul suo blog ai fedeli,
“la gran parte dei cittadini attende indolente in una sorte di ‘letargo di civiltà’, spettatori passivi di un continuo regredire dell’Italia nell’ambito dei diritti umani e civili” ma “in alcune città qualche segno di risveglio si è manifestato, tentando di rallentare un’accelerazione di barbarie che corrode il Paese”.
Altrettanto dura è  la reazione dei leader locali del Carroccio:
“Uno dei problemi che affligge la Chiesa di oggi  la ‘fuga’ dei fedeli dai luoghi sacri, con messe sempre meno partecipate. E dichiarazioni politiche come queste, certo, non aiutano a tornare a frequentare, come noi auspichiamo, i nostri luoghi di culto”,
spiegano Elisa Montemagni e Andrea Recaldin, rispettivamente capogruppo in Consiglio regionale Toscana e commissario provinciale della Lega. 

E anche il ministro dell’interno Matteo Salvini in una diretta Facebook è tornato a rispondere a quella parte di mondo cattolico che critica la legge sicurezza sottolineando che ci sono molti

“parroci, suore, missionari, vescovi, cardinali che privatamente e pubblicamente mi dicono di andare avanti perché c’è bisogno di regole”.

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