una ‘teologia della liberazione’ anche per gli … animali
Le vite degli altri. Un’unica comunità
Claudia Fanti
da: Adista Documenti n° 44 del 22/12/2018
La scienza ci dice che tutto ciò che esiste viene dalle stelle, all’interno delle quali, come in una fornace, si sono formati tutti gli elementi necessari alla costituzione del nostro universo, della nostra galassia, del sistema solare, del pianeta Terra e di ogni forma vivente. Ci dice, cioè, che, nelle stelle, siamo fratelli e sorelle di tutto. Che tutto è in relazione con tutto e tutto si sviluppa attraverso l’interdipendenza. Che l’interconnessione è «un habitus dell’universo», secondo l’espressione dello scienziato Rupert Sheldrake, ed è nella cooperazione e non nella competizione che va individuata l’essenza della vita.
La scienza ci dice che non esistono differenze sostanziali fra il corpo umano e quello di altri esseri viventi, perché tutti, dai primi batteri comparsi sulla terra fino a noi, presentano gli stessi elementi di base che costituiscono la vita: gli stessi 20 amminoacidi e gli stessi quattro elementi chimici – l’adenina, la guanina, la citosina e la timina – che permettono la combinazione degli amminoacidi rendendo possibile la biodiversità. La scienza ci dice che è grazie a questa formula di base che tra noi e un lombrico vi è il 46% di elementi comuni e che le molecole del nostro sangue sono identiche a quelle della clorofilla delle piante verdi con la sola differenza di un atomo di ferro al posto di un atomo di magnesio. Ci dice, anzi, nella parole del teologo Manuel Gonzalo, che noi siamo «la somma di conquiste che la Comunità della Vita su questo pianeta è andata faticosamente realizzando» nel corso di un lunghissimo tempo, che «siamo un puro dono gratuito della Vita di questo pianeta». Eppure, per quanto la scienza ci comunichi la visione di un universo in cui tutto è profondamente interconnesso, noi umani abbiamo seguito la direzione opposta, collocandoci al di fuori e al di sopra della natura e, molto spesso, e oggi più che mai, contro di essa. Ma se a pagare il costo più alto sono le forme di vita non umane, a cominciare dalle specie a noi più simili, quelle animali, in realtà, come evidenzia Federico Battistutta, ricercatore indipendente nel campo del religioso contemporaneo e coordinatore della comunità di ricerca “libero spirito”, «parlare e riflettere della condizione animale vuol dire anche parlare e riflettere proprio della nostra condizione, quella umana», perché «ciò che accade agli altri animali riguarda da vicino, da molto vicino quello che accade agli umani».
Ed è proprio la consapevolezza che, se «lo sfruttamento è uno solo», uno solo dovrà essere anche il processo di liberazione, a condurci, come spiega magistralmente Battistutta, a una teologia della liberazione animale come «progetto di liberazione integrale che includa al suo interno anche gli animali non umani». Qui l’intervento che ha scritto per Adista.
per una teologia della liberazione animale
da: Adista Documenti n° 44 del 22/12/2018
Il sogno di una cosa
Due parole sul titolo. Teologia della liberazione animale: questa espressione riunisce – meglio ancora, condensa – due elementi, teologia della liberazione e liberazione animale. Il primo si riferisce a quella corrente di pensiero e di azione, nata negli anni Sessanta in America Latina, secondo cui il progetto di salvezza enunciato dall’esperienza cristiana include una liberazione integrale dell’essere umano che comprende l’emancipazione economica, politica, sociale, come tangibili segni della dignità umana. Il secondo elemento è la liberazione animale: qui il riferimento va al titolo di un saggio del filosofo australiano Peter Singer – appunto Liberazione animale – pubblicato negli anni Settanta e considerato uno dei testi fondamentali sia per gli animal studies (termine in uso nel mondo anglofono per indicare un campo accademico di ricerche trasversali sul mondo animale), sia per tutto il pensiero antispecista (si tratta di una corrente non solo filosofica, ma anche politica, che si oppone allo specismo, vale a dire a quella visione gerarchica che attribuisce un diverso valore e statuto morale agli esseri viventi in base alla loro specie di appartenenza, ponendo al vertice l’essere umano). In altre parole, parlare di teologia della liberazione animale vuol dire prospettare un progetto di liberazione integrale che includa al suo interno anche gli animali non umani.
Vale anche ricordare che la condensazione, secondo la psicoanalisi, è una di quelle procedure attive nel sogno grazie alla quale una rappresentazione (un’immagine e/o una parola) incorpora e fonde in sé una pluralità di immagini e/o parole. È quanto, in fondo, proporrò in queste righe. Non solo, la condensazione – sempre secondo la psicoanalisi – essendo parte integrante del lavoro onirico, fra le altre cose allude all’appagamento di un desiderio. E il presente lavoro vuol proprio dar voce a un sogno, a un desiderio: riflettere su un rinnovato rapporto fra l’essere umano e il resto del mondo animale.
Corpi che non contano
Scriveva anni fa Sergio Quinzio: «Guardate gli occhi di un cane che muore e vergognatevi della vostra filosofia». Ma che relazione sussiste fra la liberazione degli esseri umani dalle varie forme di oppressione che la affliggono con la liberazione animale? Ha senso tentare una relazione?
Nel periodo compreso fra le due guerre Max Horkheimer (che non era teologo, anche se ci ha lasciato un notevole libro – La nostalgia del Totalmente Altro– in cui anticipa le tematiche relative a un superamento della contrapposizione tra teismo e ateismo) provò a descrivere la struttura sociale dell’epoca come una grande piramide: al vertice i grandi magnati dell’industria, seguiti dai proprietari terrieri, poi dai militari, i liberi professionisti, i commercianti, fino a scendere ai livelli più bassi, con i contadini, gli operai, i disoccupati. Ancora più in basso le popolazioni dei territori coloniali, la cui miseria «supera ogni immaginazione». Ma alla base di questo immenso edificio – «la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale» – vi è «l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali».
Ciò che Horkheimer ci vuol dire con questa metafora è che il processo di sfruttamento taglia trasversalmente tutto il vivente. La teologia della liberazione animale intende collocarsi su questo piano del discorso, dentro questo progetto di liberazione integrale in grado di includere anche gli animali non umani.
A questo proposito, più recentemente, la filosofa Rosi Braidotti ha parlato proprio di zoo-proletariato. Sin dall’antichità, gli animali sono stati impiegati per lavori gravosi, come schiavi automatizzati e supporto logistico ancor prima dell’impiego delle macchine. Ciò è avvenuto per vari motivi. Per le gerarchie metafisiche con le quali per secoli è stata interpretata la vita (con la supposta mancanza di razionalita? degli animali, che li ha resi per questo motivo privi di diritti paragonabili a quelli degli umani). Ma anche per motivi strettamente economici: gli animali sono produttivi e non devono essere remunerati, pertanto la loro messa al lavoro non solleva problemi etico-politici. Per questo gli animali rappresentano una risorsa industriale-economica centrale: sono materie prime e vive di molti prodotti (carne, latte, seta, lana, pellami ecc.), e con l’avvento del fordismo si sono trovati sottoposti ai ritmi della produzione di massa (come nel caso degli allevamenti industriali). Per non parlare, infine, degli esperimenti di ingegneria genetica, dalla transgenia alla creazione di cloni o di ibridi umano-animali. In questo senso le vite degli animali sono delle non-vite già prima ancora di divenire alimento, materia prima o altro. Sono, riprendendo un’espressione di Judith Butler, «corpi che non contano», corpi che non sono degni di lutto, esistenze precarie, il cui statuto di animale non consente loro di aspirare a una vita dignitosa.
Rispetto a simili affermazioni una delle critiche più comuni rivolte agli animalisti può venire sintetizzata nell’affermazione secondo cui, oggi, vi sono oggettivamente delle priorità rispetto alla questione animale: la fame nel mondo, le malattie epidemiche, le ingiustizie sociali, le guerre, ecc. Qui non si intende negare tutto questo, ma, tornando all’immagine iniziale di Horkheimer, una visione d’insieme ci fa comprendere che vi è una medesima logica che taglia trasversalmente le condizioni di sfruttamento nel mondo; non a caso oggi si parla tanto di biopotere, di un potere che mira a controllare ogni sfera del vivente, gli esseri umani e gli altri animali, le sementi e le colture, fino a interi ecosistemi. In altre parole: se lo sfruttamento è uno solo, così pure uno solo dovrà essere il processo di liberazione. Occuparsi della questione animale non significa ignorare e trascurare il resto, tutt’altro.
“Ed ecco, era cosa molto buona”
Dove ha avuto inizio tutto ciò? Quale mito ha fondato e giustificato tale sfruttamento? Certamente potremmo trovare diverse fonti di ispirazione per questa tipologia di pensiero. Sicuramente tra i miti fondanti un posto di rilievo merita il racconto della creazione contenuto nella Bibbia. In particolare i passi di Genesi in cui si dice: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi 1,28). Questo antropocentrismo imperante, con l’invito a dominare e soggiogare tutto il vivente, si è protratto, pur con i mutamenti storici e culturali avvenuti, fino ad oggi, di fatto senza soluzione di continuità.
Ciò che è interessante è come nel testo biblico ci si imbatta in affermazioni di segno decisamente contrario rispetto a quanto appena citato, che possono sollecitare diverse riflessioni. Infatti, se proseguiamo la lettura del racconto, subito dopo l’ordine di dominare e soggiogare, leggiamo qualcosa che potremmo confondere con affermazioni provenienti dalle scritture orientali, induiste o jaina: «Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo (…)”. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Genesi 1,31). In altre parole, il testo racconta che il primo essere umano era vegetariano, anzi dovremmo dire vegano! Non solo: questo bisogno di una radicale trasformazione del rapporto uomo-animale lo vediamo riemergere nella Bibbia all’interno della letteratura profetica (cfr. ad esempio Osea II, 20 e Isaia XI, 6-8), fino all’affermazione paolina secondo cui «tut ta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto» (Rom 8, 22). Ora, questi brevi cenni al testo biblico sono sufficienti per mostrare che qui si vuole seguire un’ermeneutica che dia voce non alla volontà di potenza dell’essere umano, bensì alla sofferenza animale. Così come ha proceduto la teologia della liberazione in favore delle classi sociali sfruttate, e la teologia femminista nei confronti dell’oppressione subita dalle donne, si vuole qui far affiorare quella “mormorazione dal basso” (per riprendere un’espressione di Ernst Bloch) da cui emergono nei passi biblici la protesta, il desiderio e la speranza di libertà da parte di tutte le forme di vita, compresi gli animali non umani.
Una guerra sulla pietà
Come si è accennato sopra, a proposito della produzione di massa e della sperimentazione genetica, la cosa sta assumendo oggi connotati inquietanti. A questo proposito il filosofo francese Jacques Derrida parlava, riferendosi proprio al nostro tempo, di proporzioni senza precedenti dell’assoggettamento animale, di un’escalation di violenza senza precedenti contro l’animale non umano.
Leggo Derrida: «Nessuno può più continuare seriamente a negare che gli uomini fanno tutto ciò che possono per nascondere o per nascondersi questa crudeltà, per organizzare su scala mondiale l’oblio o il disconoscimento di tale violenza che qualcuno potrebbe paragonare ai peggiori genocidi». Quindi non c’è solo da denunciare la violenza in corso (allevamenti intensivi, vivisezione, macelli ecc.), ma il collaborazionismo fattivo nel perpetuamento di tale violenza. E su ciò siamo tutti coinvolti. Sempre con le parole di Derrida, «si sta compiendo una nuova prova della compassione», perché qui è in gioco proprio la questione del pathos, di quella forza emotiva che canalizza la qualità del nostro sentire, quali la sofferenza, la pietà, la compassione. Per questo Derrida aggiungeva che è in corso «una guerra sulla pietà». Cosa voleva dire? Leggo ancora: «Pensare la guerra in cui siamo non è solo un dovere, una responsabilità, un obbligo, è anche una necessità a cui, volente o nolente, direttamente o indirettamente, nessuno potrebbe sottrarsi. Ora più che mai. E dico “pensare” questa guerra perché credo che sia in questione proprio ciò che chiamiamo “pensare”. L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio da qui». Pensare inizia qui, è in questa apertura, in questo restare nudi – come vita dinanzi alla vita – che scaturisce la domanda, l’interrogarsi, il pensare come forma espressiva peculiarmente umana.
Sia chiaro: tutto quello che si sta dicendo non sono discorsi da “anima bella” che si autocompiace della propria sensibilità altruistica e dei propri pensieri lungimiranti rispetto alla cattiveria e all’insensibilità dei più. Parlare e riflettere della condizione animale vuol dire anche parlare e riflettere proprio della nostra condizione, quella umana. Ciò che accade agli altri animali riguarda da vicino, da molto vicino quello che accade agli umani.
Macchina antropologica e divenire-animale
Di fronte ai virulenti processi economici in corso, a cominciare dal business dell’industria agro-alimentare, che considera ormai la natura come un ostacolo da superare in vista di un aumento del valore aggiunto dei prodotti, riducendo costi di produzione, ignorando il degrado ambientale, così come la diffusione di malattie nell’essere umano e la sofferenza degli animali. A queste emergenze è necessario rispondere innalzando, come suggeriva sempre Derrida, il livello della riflessione. Da qui l’urgenza di una prospettiva, anche religiosa, che ribalti alla radice i parametri di riferimento circa il rapporto essere umano/animale.
È stato lo studioso italiano Giorgio Agamben a elaborare il concetto di macchina antropologica, riprendendo una distinzione risalente all’antica Grecia tra bìos e zoè (la vita specializzata, da una parte, e la nuda vita indifferenziata, dall’altra). La macchina antropologica non sarebbe altro che il dispositivo in base al quale avviene la produzione dell’umano attraverso l’opposizione essere umano/animale. L’umanità viene così definita attraverso la sottrazione e l’esclusione di ciò che, pure appartenendo alla vita, e alla vita stessa dell’essere umano, non è reputato umano. In altre parole l’essere umano fa l’essere umano separandosi dall’animale (un animale, si badi bene, che risiede fuori, ma anche dentro gli stessi confini dell’umano). Tale linea di separazione è fluida, viene di volta in volta ridefinita, decidendo chi rientra nelle categorie dell’umano e chi va escluso (ad esempio, di volta in volta si sono trovati espulsi dall’ambito umano: i barbari, gli eretici, i neri, le donne, gli ebrei, i rom, i gay, i migranti), divenendo oggetto del medesimo trattamento riservato agli animali non umani (esclusione, reclusione, sfruttamento, marchiatura, eliminazione).
Se, ad esempio, provassimo a rileggere l’episodio di Abramo e Isacco dal punto di vista di Isacco, leggeremmo il racconto dal punto di vista animale: Isacco a un certo punto si è trovato escluso dall’umano per essere sacrificato al posto di un agnello. «Proseguirono tutt’e due insieme; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio» (Genesi, 22,7-10). Questa è la macchina antropologica. Sulla sponda opposta c’è il divenire-animale. Sono stati i francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari a usare questa espressione. Non si tratta di un processo di deprivazione dell’umano, ma al contrario è offerto all’esperienza umana come opportunità di espansione, di arricchimento. Secondo i due autori la realtà è composta da una serie di molteplicità (di forme di vita e di modalità espressive di queste forme di vita) che apre alla possibilità di istituire connessioni molteplici, orizzontali, in più direzioni e in perenne movimento, in contrasto con le procedure e le tipologie verticali, gerarchiche, caratterizzate dal pensiero dominante. Ciò che è in gioco «è un rapporto (…) con l’animale, con il vegetale, con il mondo» che consente di compiere passaggi, trasformazioni, individuabili a ogni piano. Questo divenire-animale è la costruzione di un ponte tra etica ed etologia, fra ethos umano ed ethos animale, in grado di supportare un dialogo orizzontale tra umano e animale. Non si tratta di umanizzare l’animale, come spesso accade nel rapporto essere umano/animale, ma di favorire l’animalizzazione dell’essere umano, Si tratta di affinare i nostri sensi, prima ancora di affinare il pensiero, per percepire e interagire con quella che Gregory Bateson chiamava la «sacra unità» che connette tutti i viventi.
Per fare ciò è condizione necessaria congedarsi, nella teoria come nella pratica, da modelli di riferimento tuttora imperanti, come il concetto stesso di identità (l’esistenza di un soggetto già dato, chiuso, rigido, refrattario alle trasformazioni, separato da tutto il resto attraverso il rapporto dualistico soggetto/oggetto). A essa si contrappone la nozione di un soggetto nomade, post-identitario, incarnato (quindi storico, sessuato ecc.), ma nello stesso tempo in continuo divenire: «il nomadismo è un processo attraverso il quale tracciamo molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza, ognuno dipendente dal posto in cui ci troviamo e dal modo in cui cresciamo».
Il corpo di Dio
Parlare di teologia della liberazione animale ci conduce non solo a rimettere in gioco l’opposizione essere umano/animale, ma anche la coppia Dio/animale.
Circa l’opposizione essere umano/animale il teologo tedesco Eugen Drewermann ha sostenuto che la teologia non può ignorare i dati provenienti dai vari campi delle scienze, dalla psicoanalisi all’etologia, e che pertanto non è più possibile respingere l’idea che operi un unico flusso vitale, quello che ha reso possibile e che continua a svilupparci come esseri umani. «Che cos’è la vita – dice Drewermann – se non uno scambio eterno, gigantesco, senza fine?». Per queste ragioni egli è giunto a parlare anche di un’immortalità degli animali, collocando questa tematica, assai particolare, dentro una più generale riflessione sul senso della vita, della morte e sulla resurrezione, nella sottile convinzione che non vi sia un mondo dei viventi da una parte e un regno dei defunti dall’altra, ma che esista un solo campo, che i cristiani chiamano Regno di Dio, di cui tutti fanno parte, viventi e morti, animali inclusi.
Ma probabilmente per il mondo cristiano l’opposizione Dio/animale è ancora più radicale di quella fra essere umano e animale; accostare Dio e gli animali può suonare come un’eresia, se non una bestemmia (che cos’è in fondo la bestemmia se non l’accostamento del nome di Dio a specie animali considerate spregevoli?). Comunque sia, si tratterebbe di una formulazione incoerente, una vera e propria contraddizione, tutt’al più un ossimoro, che vede due opposti, Dio (l’essere perfettissimo, eterno, onnisciente e onnipresente, creatore di tutte le cose, reviviscenza del catechismo di Pio X) e l’animale (dotato al massimo di anima vegetativa e sensitiva, secondo la lezione di Aristotele che tanto ha influenzato il sapere teologico).
Per questo va radicalmente ripensato anche Dio. Qui ci limitiamo a riprendere alcune suggestioni della teologa americana Sallie McFague, la quale ha proposto la metafora del cosmo come corpo di Dio, con lo scopo di offrirci uno sguardo altro, per «pensare e agire come se i corpi contino». Così, se pensiamo e viviamo il cosmo come il corpo di Dio, allora «non incontriamo mai Dio non incorporato». Questo significa prendere sul serio la nostra stessa incarnazione e quella degli altri corpi perché abbiamo tutti una storia comune, «siamo tutti fatti – dice McFague – di ceneri di stelle morte».
La salvezza riguarda così tutti i corpi terreni, non solo quelli umani, per poter vivere tutti degnamente su questa Terra. Allora ciò che la tradizione cristiana chiama peccato si mostra come il fallimento della relazionalità, un’offesa contro altre parti del corpo di Dio (di altre specie o parti della creazione), poiché «la creazione è il luogo della salvezza, la salvezza è la direzione della creazione».
Conclusione
Mary Daly, teologa post-cristiana, in uno dei suoi ultimi libri, intitolato Quintessenza (che potremmo collocare all’interno della letteratura profetica), offre alcuni spunti interessanti per chiudere questa riflessione. Lei immagina una società post-patriarcale del futuro (il sottotitolo del libro è infatti “realizzare il futuro arcaico”) in cui, fra le tante novità, gli animali invitano a unirsi alla «maggioranza cognitiva che include piante, rocce, pianeti, stelle, angeli – tutti gli esseri amanti della vita», in contrapposizione all’affermazione di una superiorità degli umani in base alla ragione. In questa comunità di cui parla Daly però gli uomini non compaiono, si trovano confinati in altri continenti, separati dalle donne. Ecco, quello che in chiusura sento personalmente di poter dire, è dichiarare il bisogno di intraprendere fin da subito un lungo lavoro affinché possa essere superata questa mancanza – resa nel racconto di Mary Daly nella separazione degli uomini dalle donne -, per divenire partecipi veramente tutti, uomini e donne, di questa comunità degli esseri amanti della vita, di questo grande sogno della Terra. Di cui questo mio intervento vuol essere un piccolo, parziale contributo.