“tutto il Vangelo annuncia il rovesciamento delle gerarchie sociali e la riabilitazione dei poveri”
G. Casalis
da Altranarrazione
Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Vangelo di Matteo 25, 37-40)
Chi disprezza i poveri o è semplicemente indifferente ha una conoscenza distorta di Cristo. Nonostante tutti gli sforzi ascetici, le elucubrazioni dottrinarie, i ministeri esercitati, il consenso della comunità chi evita i poveri evita Dio. Alcune cose di se stesso Dio ha deciso di rivelarle solo attraverso di loro. È la sua scelta di abbassamento, di capovolgimento che meraviglia i piccoli e infastidisce gli ipocriti (quelli che recitano un ruolo diverso dal proprio essere). I poveri non sono solo un luogo teologico accanto alla Parola e all’Eucaristia ma sono anche un luogo di guarigione specifica.
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. (Isaia 58, 6-8)
Solo la relazione con i poveri può spezzare la catena dell’egoismo consentendoci l’esodo dall’autoreferenzialità che ci deforma all’alterità che ci fa scoprire la dignità della figliolanza. Ai poveri è stata consegnata la ricetta per curare la nostra ferita esistenziale. Sono i medici a cui dobbiamo rivolgerci per disintossicarci dagli idoli e per la profilassi contro l’infezione della indifferenza. Andiamo da loro per essere aiutati. Sono la nostra ultima speranza. Nella compassione ritroviamo l’immagine di Dio e constatiamo la brutalità delle seduzioni del mondo. I poveri portano sulle spalle il peccato sociale per questo Gesù si identifica con loro, sono i suoi fratelli più intimi perché i più simili a Lui.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se offrirai il pane all’affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono. La tua gente riedificherà le antiche rovine, ricostruirai le fondamenta di epoche lontane. Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi. (Isaia 58, 9-12)
L’incontro con i poveri rischiara le nostre tenebre interiori, ci apre nuove prospettive, ci porta fuori dalle camere asettiche in cui ci nascondiamo inutilmente per conservarci. I poveri ci chiamano anche quando non parlano o non li vediamo. Sono l’eterno appello alla nostra autenticità. Ci spingono nel profondo, ci costringono a deporre le maschere e ad avvertire le nostre viscere. Le analisi, i sistemi, e tutte le retoriche devono lasciare spazio all’assurdità della sofferenza.
«Ringraziamo di poter vivere nella carne il cammino di redenzione di Gesù, che fu perseguitato, imprigionato e condannato. Non deve essere il cristiano imitatore del suo maestro? Non temiamo nulla»
Frei Betto
lettera dalla prigione 21 novembre 1969
il vangelo è il più radicale cambio di paradigma nella vita umana
Quando ci poniamo a fianco degli oppressi, nel cammino di liberazione, Dio si mette in testa*. Ma non è propriamente una marcia trionfale. Sta lì per ripararci se possibile dai rischi e per prendersi per primo gli insulti quando va bene, gli sputi quando va male. Con la croce come vessillo ascolta i ragionamenti forbiti (pieni di citazioni) dei “dissuasori”. I soliti “benpensanti”, denominati in altra epoca anche scribi e farisei, che vorrebbero convincerci a non prestare servizio ai poveri (o semplicemente a stare con loro) per giustificare il sonno indifferente della loro coscienza. Il solo fatto della presenza, al di là della semplicità dei gesti, è come il suono della sveglia mattutina: fastidioso ma efficace. E c’è da comprenderli perché dopo occorre molto tempo e soprattutto lunghi discorsi di autocompiacimento per farla riaddormentare. Voler piantare la croce di Dio non sul marmo, tra i fiori e i dipinti, e soprattutto tra gli ori, ma nelle baracche, tra i cartoni, nella disperazione incolpevole ed anche in quella colpevole scandalizza. Tra i marmi, con un po’ di musichina e l’incenso lo spettacolo è sicuramente più gradevole rispetto alle piaghe, ma il Signore non ci chiede di scrivere copioni o di organizzare recite e passerelle. Le bellezze artistiche non si armonizzano con il Vangelo come le cerimonie sontuose e dalla raffinata coreografia. Il Vangelo vive nella polvere, è sporco del sangue dei poveri, è bagnato dalle lacrime degli esclusi, è stonato per le grida dei violentati, è stropicciato perché pure se lo leggiamo non lo capiamo, è segnato più volte con la matita perché quelle frasi hanno significati infiniti. Quando lo apriamo ci ripugna a causa della nostra formazione borghese, elitaria e spudoratamente superficiale. E così deve essere! Altrimenti stiamo leggendo la sua interpretazione o meglio la sua deformazione. Il Vangelo non è il manuale di morale del piccolo e triste borghese e neanche un romanzo. Il Vangelo è una “tragedia”: quella dell’uomo che non comprende il sogno di Dio e per questo si condanna all’infelicità, all’inutilità, al non-senso, alla violenza.
* “Io marcerò davanti a te; spianerò le asperità del terreno, spezzerò le porte di bronzo, romperò le spranghe di ferro. Ti consegnerò tesori nascosti e le ricchezze ben celate, perché tu sappia che io sono il Signore, Dio di Israele, che ti chiamo per nome”. (Isaia 45, 2-3)
Molti temi hanno animato l’edizione di quest’anno della Marcia Perugia Assisi.
Una lunga preparazione, dibattito, qualche polemica e qualche distinguo per una Marcia, quella inventata profeticamente da Capitini che ha passato da momenti di lotta nonviolenta a celebrazione retorica.
Quest’anno una folla incontabile, perché sparpagliata tra Perugia e Assisi e in alcuni momenti dispersa o scoraggiata dalla pioggia ha portato avanti le bandiere di circa 700 aderenti di ogni genere; influenzata dalla recente manifestazione per Mimmo Lucano, preoccupata per la situazione in cui grava l’accoglienza e coloro che la testimoniano, afflitta dalla permanente crisi del pacifismo “classico” ma rinforzata da tanti giovani ignari delle sottili polemiche, decisa nel rivendicare il disarmo nucleare, tenera nel ricordare la necessità di una Rivoluzione Silenziosa che parta dai gesti si tutti i giorni, la Marcia è stata tutti questi temi e forse anche di più ed è stata, come doveva, patrimonio dell’Umanità e non di una qualche parte.
L’augurio è che sia anche il senso di un risveglio e di una sintonia più forte tra tutti coloro desiderano un mondo migliore e si rimboccano le mani per realizzarlo.
Qua sotto una bella galleria fotografica di Alessandra l’Abate
Nel primo pomeriggio del 17 luglio 2018 un uomo si è affacciato dalla sua casa al settimo piano di un palazzo di via Palmiro Togliatti, a Roma, e ha sparato con una carabina ad aria compressa colpendo una bambina di 15 mesi, Cirasela, che era in braccio a sua madre sul marciapiede della strada a scorrimento veloce nella periferia orientale della capitale.
Con il marito e i figli la donna stava rientrando nella sua baracca, costruita in un affossamento sotto il ciglio della strada, in un campo nascosto alla vista dei passanti dietro a dei cespugli di erbe infestanti e a una recinzione, in cui vive da qualche anno.
Si è sentito uno sparo, la bimba è scoppiata a piangere e i genitori si sono accorti che perdeva sangue da una spalla: è stata subito chiamata un’ambulanza che ha portato Cirasela all’ospedale dove è stata operata d’urgenza. Dalla schiena della bambina è stato estratto “un corpo metallico molto simile a un piombino di una pistola ad aria compressa”. Dopo qualche giorno di ricovero in terapia intensiva all’ospedale Bambin Gesù di Roma, la bambina è stata trasferita nel reparto in cui è ancora ricoverata. Rischia danni permanenti alla deambulazione a causa di una lesione vertebrale che ha toccato il midollo spinale.
Il clima di ostilità verso i rom in città si nutre della mancanza strutturale di politiche pubbliche di inclusione
Qualche giorno dopo la sparatoria, i carabinieri hanno individuato l’uomo che ha sparato. Si tratta di un pensionato di sessant’anni, ex impiegato del senato, che ha ammesso di aver usato la sua carabina ad aria compressa, ma assicura di aver colpito la bambina per errore.
Il padre di Cirasela, Otet Alinna, non è convinto che si sia trattato di un errore: “Se fosse stato solo uno sbaglio, l’uomo sarebbe venuto in ospedale, ci avrebbe chiesto scusa. Io lo avrei capito”, dice Alinna. Invece i genitori di Cirasela hanno saputo che lo sparo era stato esploso da un appartamento al settimo piano di un palazzo solo qualche giorno dopo l’accaduto, all’inizio avevano pensato a qualcuno che aveva sparato da un’auto in corsa. Ora hanno paura che la salute di Cirasela sia compromessa per sempre.
Anche le altre famiglie rom che abitano nella zona e frequentano un parco alberato a pochi passi dall’accampamento temono che i loro bambini possano essere di nuovo attaccati da qualcuno. L’accusa contro l’uomo che ha sparato è di lesioni aggravate, ma per ora gli inquirenti escludono il movente razzista.
Per le associazioni che si occupano dei rom nella capitale, tuttavia, il clima di ostilità verso i rom in città si nutre della mancanza strutturale di politiche pubbliche di inclusione. A Roma, anzi, ancora resiste il “sistema dei campi” per cui l’Italia è stata richiamata diverse volte dalle autorità europee. L’Italia è uno dei paesi dell’Unione europea dove abitano meno rom (tra le 120mila e le 180mila persone, lo 0,2 per cento della popolazione). Dagli anni ottanta, in alcune città italiane si è deciso di sgomberare gli accampamenti spontanei e di confinare i rom, i sinti e i camminanti all’interno di campi di container gestiti dallo stato, lontano dalle città. Roma è la città con più campi statali e in questi insediamenti vivono circa cinquemila persone. Oltre ai campi riconosciuti ci sono poi molti campi informali.
Da diversi anni una sessantina di persone vive nell’accampamento informale in cui stava Cirasela con i suoi genitori: sono famiglie di rom romeni arrivati in Italia dopo l’entrata della Romania nell’Unione europea nel 2007, lavoratori stagionali arrivati nella capitale con l’idea di rimanere per un breve periodo. Vivono in campi informali senza servizi, sempre a rischio di essere sgomberati, in particolare nel quadrante orientale della città in cui c’è una presenza storica della comunità rom.
i sette campi rom a Roma
Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, racconta come già lo scorso anno proprio in quell’insediamento fosse scoppiata una forte tensione tra gli abitanti del quartiere e le famiglie rom. Nel luglio del 2017 il campo era stato distrutto da un incendio partito da un centro sportivo nelle vicinanze. Le fiamme avevano costretto le famiglie a trasferirsi temporaneamente nel parco vicino e poi in altre piazzole lungo via Palmiro Togliatti. Quando poi è rinata l’erba nello spazio in cui sorgeva il primo accampamento, le famiglie sono tornate a viverci.
Tuttavia, nel corso dell’estate la permanenza delle famiglie nel parco giochi aveva infastidito gli abitanti dei palazzi limitrofi che avevano protestato con le autorità cittadine. Ma invece di trovare una soluzione per le famiglie rom in emergenza abitativa, le autorità avevano deciso di chiudere la fontanella di acqua potabile nel parco giochi in modo da rendere ancora più inospitale lo spazio. “Con le temperature estive molto alte e la situazione difficile delle famiglie la chiusura della fontanella è stato un accanimento, senza che fosse risolta la tensione che si era creata con gli abitanti dei palazzi”, dice Stasolla.
Per il presidente della 21 luglio ci sono “responsabilità dell’amministrazione” perché l’insediamento di Palmiro Togliatti esiste da circa otto anni, è poverissimo e viene ciclicamente sgomberato, senza che sia trovata una soluzione definitiva per le persone che ci abitano, che finiscono per spostarsi di pochi metri lungo via della Serenissima per poi tornare dopo poco tempo nel vecchio insediamento.
Il presidente dell’Associazione 21 luglio conferma che sono circa 1.800 i rom che nella capitale vivono in campi informali in una situazione di emergenza abitativa, ma accusa anche l’amministrazione capitolina di non avere nessun piano per il superamento di questa situazione. Anzi negli ultimi mesi gli sgomberi sono aumentati e i rom che vivono in emergenza abitativa sono tornati a essere strumentalizzati in “una vera e propria operazione di propaganda” dell’amministrazione capitolina che ha l’appoggio del governo nazionale, accusa Stasolla.
Lo sgombero del Camping river
Esemplificativo di questa strategia è lo sgombero del Camping River, un campo rom a Prima Porta, nella zona settentrionale della città, avvenuto il 26 luglio, nonostante la Corte europea dei diritti umani ne avesse chiesto la sospensione. Circa duecento famiglie sono finite per strada, cacciate dall’unico campo rom della città in cui le condizioni di vita erano accettabili e dove c’era un alto tasso di scolarizzazione tra i bambini.
Il campo era da tempo sotto minaccia di sgombero, ma negli ultimi mesi la situazione aveva subìto un’accelerazione fino a quando la mattina del 26 luglio è andata in scena l’evacuazione e la demolizione del campo da parte delle forze dell’ordine, dopo un incontro tra il ministro dell’interno Matteo Salvini e la sindaca di Roma Virginia Raggi in cui il ministro ha garantito il suo sostegno politico all’operazione. Per motivare lo sgombero, l’amministrazione capitolina ha portato ragioni igienico-sanitarie. Mentre l’operazione era in corso il ministro Salvini ha twittato: “Finalmente si sgombera il Camping River”.
Ma il Camping River non era un campo spontaneo, era stato allestito dall’amministrazione comunale. Era un’ex rimessa di camper in cui nel 2005 la giunta di Walter Veltroni aveva allestito dei container per dare alloggio a duecento persone che erano state sgomberate da un insediamento informale nella zona dell’ex Snia, nel quartiere Prenestino. Nel campo erano in seguito state trasferite famiglie rom romene e dell’ex Jugoslavia. Nel 2010 al gruppo iniziale di famiglie si era aggiunto un altro gruppo di sessanta persone di origine kosovara appena sgomberate dal campo Casilino 900, nella periferia est della città.
Il campo sorgeva su un’area privata e il comune aveva sottoscritto una convenzione con il proprietario del Camping River Massimo Fagiolari che veniva pagato per i servizi che offriva tra cui la guardiania. “Dopo l’esplosione dell’inchiesta Mafia capitale nel 2014 (anche se il Camping River non è stato direttamente coinvolto), c’è stata una maggiore attenzione dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) perché nel caso del River c’era stata un’assegnazione diretta”, spiega Carlo Stasolla. Per questo, prima il commissario Francesco Paolo Tronca e poi la sindaca Virginia Raggi hanno indetto un bando per l’assegnazione della convenzione.
“Il bando sembrava fatto ad hoc per il Camping River, infatti l’organizzazione che lo gestiva fu l’unica a partecipare”, racconta Stasolla. Nella primavera del 2017 il bando fu però dichiarato inidoneo e poche settimane più tardi, il 31 maggio 2017, la sindaca Raggi presentò il piano rom, nel quale qualche giorno dopo incluse con una delibera specifica anche il Camping River. Nel progetto si annunciava che entro il 2020 sarebbero stati chiusi tre campi, quello della Barbuta, quello di Monachina e il Camping River, usando 3,8 milioni di euro stanziati dall’Unione europea.
Dal 1 luglio al 30 settembre 2017 è partita la prima sperimentazione e si è cominciato proprio con il Camping River. L’ufficio rom, sinti e caminanti del comune di Roma aveva mandato una lettera a tutti gli abitanti del campo – che all’epoca erano più di quattrocento – fissando al 30 settembre la chiusura del campo e in contemporanea aveva cominciato le indagini patrimoniali sulle famiglie per capire chi avesse diritto a entrare nel piano rom. Era emerso che la maggioranza (370 persone) degli abitanti del campo aveva un reddito e un patrimonio inferiore ai diecimila euro all’anno e perciò aveva diritto a entrare nel piano che prevedeva alcune misure di sostegno come un buono affitto fino a ottocento euro al mese per due anni.
Dopo le elezioni si è capito che in breve tempo si sarebbe arrivati a uno sgombero anche in assenza di sistemazioni alternative
Quando sono cominciati i colloqui con le famiglie si è compreso subito che in così poco tempo non era possibile trovare delle case in affitto, così la chiusura era stata spostata al 31 dicembre 2017. “Molte famiglie durante i colloqui chiedevano come potevano trovare un affitto dato che nessuno avrebbe mai affittato una casa a una famiglia rom senza reddito”, racconta Stasolla. E infatti nel corso dei mesi solo pochissime persone sono riuscite a firmare un contratto di affitto e a beneficiare del piano.
Tuttavia, dopo le elezioni di marzo 2018 la situazione è precipitata e si è capito che in breve tempo si sarebbe arrivati a uno sgombero anche in assenza di sistemazioni alternative per gli abitanti del campo. “Il 26 aprile è cominciato il presidio permanente dei vigili al campo e quello di solito è il segnale che lo sgombero è imminente”, racconta Stasolla.
Il 13 luglio la sindaca Raggi ha firmato un’ordinanza in cui chiedeva alle famiglie del River di lasciare il campo entro 48 ore dalla notifica del provvedimento. Lo sgombero è arrivato la mattina del 26 luglio, le persone sono state fatte uscire dal campo, 38 di loro hanno accettato i posti in accoglienza messi a disposizione dalla Sala operativa sociale. Una soluzione che è temporanea (dura al massimo per due mesi) ed è destinata solo alle persone più vulnerabili come le donne con i bambini.
Le donne hanno dovuto però accettare di essere separate dai mariti e di entrare nei centri solo con i loro figli minorenni. Diciannove persone hanno accettato di partecipare ai programmi di rimpatrio volontario in Romania, ma la maggior parte degli sgomberati del Camping River ha dovuto trovare un’altra sistemazione temporanea a casa di amici oppure è rimasto a dormire per strada.
Per prendere le distanze da Salvini, Raggi ha spesso parlato di “terza via” per risolvere la situazione dei rom a Roma: né campi né sgomberi sembrava essere la posizione della sindaca. Ma di fatto nel progetto pilota del Camping River è avvenuto uno sgombero forzato senza che nessuna terza via fosse di fatto sperimentata.
“Se volessimo tirare le fila di tredici mesi di lavoro dell’amministrazione capitolina per superare il Camping River secondo la strategia d’inclusione rom restano, al di là delle violazioni dei diritti umani, i numeri: delle 359 persone ammesse alle azioni del piano rom, alla fine solo il 9 per cento è rientrato nei programmi di rimpatrio assistito o sostegno all’affitto”, sottolinea Carlo Stasolla.
“Il 52 per cento delle famiglie non ha trovato alcuna soluzione e ora è in strada, mentre al 30 luglio 2018 risultano 123 le persone collocate in strutture di emergenza, dove, come da accordi verbali, resteranno solo fino al 30 settembre 2018. Per questa accoglienza il comune di Roma dovrà spendere una cifra stimata di circa 400mila euro”, continua.
“Quello che più ci allarma sono le falsità raccontate ai cittadini durante lo sgombero, una serie di affermazioni che ci fanno pensare alla propaganda e dobbiamo sempre ricordare che di solito le politiche che sono sperimentate sui rom poi vengono applicate anche ad altri settori della società, a partire da quelli più marginali. Ora vedremo che succederà nei grandi campi di Monachina e Barbuta”, conclude Stasolla.
In tempi di imbarbarimento dello spazio pubblico, di banalizzazione mediatica, di demagogia politica, potrebbe sembrare ingenuo o anacronistico raccontare di organizzazioni e cittadini che studiano e approfondiscono notizie e ragionamenti per rendere serio il proprio impegno politico e più efficaci le proprie argomentazioni.
È così che – a dispetto di chi misura la vitalità di associazioni e movimenti dal numero di manifestazioni – hanno trascorso gli ultimi anni molte organizzazioni della società civile che si occupano di politiche globali e diritti umani, conflitti e disarmo, crisi climatica e migrazioni, giustizia sociale e liberazione dei popoli, diritti e democrazia. Ed è così che hanno pensato di approfondire le tante questioni della Perugia-Assisi di quest’anno. Un po’ come se fosse il titano Atlante, l’evento si è caricato sulle spalle le cose del mondo che non ci piacciono, organizzando un forum multitematico a Perugia nei due giorni precedenti alla Marcia.
Quella del prossimo 7 ottobre sarà una Marcia della Pace che durerà più di un giorno, perché una parte del Paese è già in cammino. Sono ormai tante le manifestazioni che, mettendo insieme organizzazioni della società civile e singoli cittadini, vogliono evidenziare un dissenso o semplicemente palesare l’esistenza di un’Italia che non ci sta, che non è allineata alla straripante sbornia di una campagna elettorale che non è mai finita e di una vita politica che ha assunto i toni della perenne proclamazione ideologica.
Spontaneità di mobilitazione e di opposizione popolare che agisce come surroga ad una opposizione istituzionale. Opposizione che fatica nel sintonizzarsi con quella parte di Paese che aspira a rappresentare e farsi carico di un’azione politica strutturata e finalizzata.
Durante l’estate della criminalizzazione della solidarietà e dei porti chiusi, la Puglia più solidale piange i suoi lavoratori morti di caporalato; la Catania più accogliente affolla il molo per liberare i “sequestrati” della Diciotti; la Milano democratica scende in piazza contro un ministro che fonda un’alleanza della destra più xenofoba e antieuropeista da spendere alle prossime elezioni europee; Riace e mezza Italia si stringono intorno ad un sindaco arrestato per l’accusa di promozione di una società aperta, ideatore di un modello di comunità che nel resto del mondo è studiato e invidiato.
Intanto, il nostro Paese prosegue a esportare bombe verso l’Arabia Saudita – senza scrupoli né umani né di coerenza con le proprie leggi – che le fa piovere criminosamente sulla testa di bambini e civili imbelli. In Siria, il regime di Bashar al-Assad prepara la propria restaurazione e la spallata finale ai “ribelli”, nel silenzio della comunità internazionale. La Libia implode sotto il peso di una finta credibilità costruita da istituzioni internazionali ansiose solo di rimettere in moto gli affari, che puzzano di petrolio da comprare e di sangue dei migranti nei lager delle nuove frontiere esternalizzate. La Turchia di Erdogan e del suo ego si sbriciola economicamente, tra la follia di una politica estera da superpotenza che non può permettersi e le conseguenze dei dazi americani voluti dal suo ex amico Donald Trump, consegnando a mezza Europa lo spettro dello scioglimento anticipato del contratto che ha arginato la rotta balcanica di immigrazione. Ultima, ma non per importanza: il conflitto palestino-israeliano, lungi da trovare una via di pace e di indipendenza per il popolo palestinese, si caratterizza invece per nuovi e diseguali scontri e violazione dei diritti umani.
Questa concentrazione di contenuti e di politica non deve sembrare irrituale per la Perugia-Assisi, è il concetto stesso di Pace ad essere in discussione, se Pace non significa solo assenza di guerre e conflitti o un contenitore astratto, in cui porre pochi e consimili concetti. La Pace, quindi, diventa il nome che diamo al nostro progetto politico, che coinvolge ambiti che troppo spesso vengono tenuti distinti: dai conflitti alle migrazioni, dal disarmo alla giustizia sociale, dai diritti umani alla difesa dei beni comuni, dalla giustizia climatica ai diritti civili.
Ci sarà da fare un grande sforzo per elaborare in maniera più puntuale e diffondere un nuovo approccio nell’affrontare le politiche globali, un pensiero forte sul quale fondare nuovi movimenti per nuove generazioni. L’Arci, già da ora, è parte integrante di questo nuovo fronte, che sa guardare al globale e occuparsi delle sue più piccole comunità, che sa cogliere la circolarità e l’interdipendenza della realtà senza dimenticare l’importanza di nessun elemento.
Ripartiamo da qui, quindi. Dalla Perugia-Assisi del 7 ottobre.
L’Italia è un’Oligarchia fondata sugli affari. La sovranità appartiene al capo partito che la esercita per conto di banche, petrolieri e “grandi” aziende. (nuovo art. 1)
L’Oligarchia riconosce e garantisce l’asservimento dei singoli alla globalizzazione e alla speculazione finanziaria. (nuovo art. 2)
L’Oligarchia promuove la fuga dei cervelli e lo sviluppo della cultura e della ricerca nei paesi esteri. (nuovo art. 9)
L’Oligarchia promuove la pace con le armi e le azioni militari. (nuovo art.11)
Tutti hanno diritto, perdendo il posto di lavoro, di manifestare liberamente il proprio pensiero. (nuovo art. 21)
La scuola è aperta a tutti. Chi sceglie quella pubblica deve munirsi di: banco, sedia, e lavagna. (nuovo art. 34)
Con il consenso del capo azienda (e sentito il parere dei capireparto) al lavoratore può essere erogata una retribuzione per la sua attività. La retribuzione non dovrà in ogni caso essere sufficiente ad assicurare a sé (e tanto meno alla famiglia) un’esistenza libera e dignitosa. (nuovo art. 36)
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Non potrà comunque superare le 24 ore. (nuovo art. 36)
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore, se rinuncia ad avere figli e se diventa uomo. (nuovo art. 37)
Il diritto di sciopero è regolato da specifiche leggi e si esercita fuori dagli orari di lavoro.(nuovo art. 40)
Noi e l’Islam. Un testo, prima ancora una riflessione, che il Cardinal Martini poneva all’attenzione della comunità cristiana e civile di Milano nel 1990. Visto quanto scrive e il modo in cui lo propone direi profetico. Un uomo e un pastore capace di farsi interrogare e interpellare da quanto sta accadendo nella società con grande lucidità e con grande coraggio, non eludendo le domande più difficili e spinose, e leggerlo alla luce della Parola. Profetico e dunque attuale perchè pone interrogativi e linee di riflessione su aspetti fondamentali che molto dicono anche a noi oggi.
Indice
Dal Libro della Genesi (21, 13-20
Premessa
Chi siamo “noi” e chi è “l’islam”
I valori storici dell’islam
L’islam in Europa
L’atteggiamento della Chiesa e il dialogo
Annunciare il Vangelo di Gesù
Conclusione
Dal Libro della Genesi (21, 13-20):
In quel tempo Dio disse ad Abramo: “Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole”. Abramo si alzò di buon mattino, prese il pane e un otre di acqua e li diede adAgar, caricandoli sulle sue spalle; le consegnò il fanciullo e la mandò via. Essa se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l’acqua dell’otre era venuta a mancare. Allora essa depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva: “Non voglio veder morire il fanciullo!”. Quando gli si fu seduta di fronte, egli alzò la voce e pianse. Ma Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: “Che hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove di trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione”. Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua. Allora andò a riempire l’otre efece bere il fanciullo. E Dio fu con il fanciullo, che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratored’arco.
PREMESSA
Il racconto che abbiamo ascoltato, tratto dal più antico libro della Scrittura, il libro della Genesi, ci parla di un figlio di Abramo che non fu capostipite del popolo ebraico, come lo sarebbe stato Isacco, ma a cui ugualmente sono state riservate alcune benedizioni di Dio. “Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole” promette Dio ad Abramo. E infine nel racconto si dice: “Dio fu con il fanciullo“. Le reali vicende di questo Ismaele e dei suoi figli rimangono oscure nella storia del secondo e primo millennio avanti Cristo, ma è chiaro che il riferimento biblico va ad alcune tribù beduine abitanti intorno alla Penisola Arabica. Da tali tribù doveva nascere molti secoli dopo Maometto, il profeta dell’islam. Oggi, in un momento in cui il mondo arabo ha assunto una straordinaria rilevanza sulla scena internazionale e in parte anche nel nostro paese, non possiamo dimenticare questa antica benedizione che mostra la paterna provvidenza di Dio per tutti i suoi figli. Ed è di questo che vorrei parlarvi oggi, festa di sant’Ambrogio, in quello spirito di attenzione agli eventi della città che hanno caratterizzato la vita del nostro patrono. Esprimerò qualche riflessione non sul fenomeno dell’islam in generale, ma su quanto ci tocca oggi a Milano e nel contesto europeo, a seguito delle nuove forme di presenza dell’islam tra noi. Ho scelto come titolo preciso di questa conversazione Noi e l’islam.
CHI SIAMO “NOI” E CHI E’ “L’ISLAM”
Per noi intendo anzitutto il noi della comunità ecclesiale, della diocesi di Milano e, in seconda istanza, anche il noi della comunità civile cittadina, provinciale e regionale. Certamente il problema posto dall’islam in Europa è molto più vasto. Abbiamo avuto occasione di dirlo l’anno scorso, in questa stessa sede, parlando dell’accoglienza ai terzomondiali. La presenza di numerosi gruppi etnici di fede musulmana nei nostri paesi europei comporta anzitutto una serie di problemi riguardanti la prima accoglienza e assistenza, la casa, il lavoro. Uno sforzo che impegna tutti; e le comunità cristiane della nostra diocesi hanno dato prova questo anno di grande spirito di solidarietà. Tale compito di prima sistemazione in accordo con le leggi vigenti riguarda in primo luogo la comunità civile, sia pure in collaborazione con le forze di volontariato. Ma è evidente che tutti noi, comunità civile ed ecclesiale, non potremo limitarci in avvenire ai provvedimenti sopraindicati. Nasceranno via via nuovi problemi riguardanti la riunione delle famiglie, la situazione sociale e giuridica dei nuovi immigrati, la loro integrazione sociale mediante una conoscenza più approfondita della lingua, il problema scolastico dei figli, i problemi dei diritti civili, etc. Non entro direttamente in tali temi perché ho avuto modo di parlarne in diverse occasioni. Vorrei solo richiamare qui, prima di abbordare il tema più specifico, un punto che mi è sembrato finora poco atteso e cioè la necessità di insistere su un processo di “integrazione“, che è ben diverso da una semplice accoglienza e da una qualunque sistemazione. Integrazione comporta l’educazione dei nuovi venuti a inserirsi armonicamente nel tessuto della nazione ospitante, ad accettare le leggi e gli usi fondamentali, a non esigere dal punto di vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e violenze. Finora l’emergenza ha un po’ chiuso gli occhi su questo grave problema. In proposito, il recente documento della Commissione Giustizia e Pace della CEI dice: “Non va dimenticata la necessità di regole e tempi adeguati per l’assimilazione di questa nuova forma di convivenza, perché l’accoglienza senza regole non si trasformi in dolorosi conflitti” (Uomini di culture diverse, dal conflitto alla solidarietà, 25 marzo 1990, n. 33). E’ necessario in particolare far comprendere a quei nuovi immigrati che provenissero da paesi dove le norme civili sono regolate dalla sola religione e dove religione e stato formano un’unità indissolubile, che nei nostri paesi i rapporti tra lo stato e le organizzazioni religiose sono profondamente diversi. Se le minoranze religiose hanno tra noi quelle libertà e diritti che spettano a tutti i cittadini, senza eccezione, non ci si può invece appellare, ad esempio, ai principi della legge islamica (sciariaa) per esigere spazi e prerogative giuridiche specifiche. Occorre perciò elaborare un cammino verso l’integrazione multirazziale che tenga conto di una reale integrabilità di diversi gruppi etnici. Perché si abbia una società integrata è necessario assicurare l’accettazione e la possibilità di assimilazione di almeno un nucleo minimo di valori che costituiscono la base di una cultura, come ad esempio i principi della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e il principio giuridico dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ci sono infatti popoli ed etnie che hanno una storia e una cultura molto diverse dalle nostre e di cui ci si può domandare se intendano nello stesso senso i diritti umani e anche la nozione di legge. Ciò vale a fortiori dove si verificano fenomeni che genericamente chiamiamo col nome di integralismi o fondamentalismi, che tendono a creare comunità separate e che si ritengono superiori alle altre. Ma questo è un problema che nel suo insieme riguarda la comunità civile e la causa della pacifica convivenza tra le etnie ed io mi limito a richiamarlo. Connesso a questo è però il problema della possibilità anche di un dialogo interreligioso senza il quale sembra difficile assicurare una tranquillità sociale. Ora questo dialogo è possibile? Vi sono pronti i musulmani? Vi siamo pronti noi cristiani? Come vedete, si passa a poco a poco dai problemi che toccano la comunità civile nel suo insieme a quelli più propriamente religiosi, che consistono sostanzialmente, per noi cristiani, nella necessità di valutare e capire a fondo l’islam oggi e nel disporci al massimo di accoglienza e di dialogo possibile, senza per questo rinunciare ad alcun valore autentico, anzi approfondendo il senso del Vangelo. Si tratta in sostanza di rispondere a domande come queste:
a. Che cosa dobbiamo pensare oggi noi cristiani dell’islam come religione? b. L’islam in Europa sarà anch’esso secolarizzato, entrando quindi in una nuova fase della sua acculturazione europea? c. Quale dialogo e in genere quale rapporto sul piano religioso è possibile oggi in Europa tra cristianesimo e islam? d. La Chiesa dovrà rinunciare a offrire il Vangelo ai seguaci dell’islam? Islam significa etimologicamente “sottomissione” e in special modo sottomissione a Dio e a quella rivelazione che egli ha fatto di sé. Noi intendiamo qui per islam l’insieme di tutte le credenze e pratiche che si richiamano a Maometto e al Corano, ben consci della complessità di un simile macrocosmo e delle sue molteplici ramificazioni nei secoli. In generale possiamo dire che i “pilastri” dell’islam, accettati da tutti i musulmani, sono: il riconoscere un Dio solo, creatore, misericordioso e giudice universale, e Maometto come suo profeta definitivo; la preghiera cinque volte al giorno; il digiuno di ramadàn; l’imposta per i poveri; il pellegrinaggio alla Mecca una volta in vita; il gihàd interiore, cioè lo sforzo e il combattimento per Dio, da intendersi anzitutto come mobilitazione contro le proprie passioni per una vita giusta e la lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia; l’impegno a conformarsi nel privato e nel pubblico a quel modo di vivere chiamato sciariaa, basato sul Corano, seguendo il quale è possibile fare la volontà di Dio in ogni aspetto della vita: religioso, personale, familiare, economico, politico. Di qui si vede come l’islam è una religione in cui l’aspetto sociale e civile ha una fondamentale importanza. Anche se i musulmani nel mondo sono oggi diversi per origine etnica e correnti religiose interne e sono cittadini di diversi stati indipendenti, rimane però vero che la fede musulmana è di per se stessa un universalismo che oltrepassa le frontiere e rimane sensibile a grandi appelli al ritorno alle origini, così come avviene oggi nei movimenti fondamentalisti. Se non è facile parlare di islam in generale, in conseguenza della storia molto complessa e ricca di questa religione; più difficile ancora è definire il fenomeno dell’islam tra noi, dell’islam in Europa. Troppo recente infatti è il suo nuovo tipo di presenza nell’Europa occidentale ed è difficile persino stabilirne le misure quantitative. I musulmani nella grande Europa sono circa 23 milioni. Il paese che ne ha la più alta percentuale è senza dubbio l’Unione delle Repubbliche Sovietiche. Seguono la Francia con 2 milioni e mezzo, la Germania ex Federale con 1.700.000, l’Inghilterra con 1 milione. Per l’Italia si parla di cifre, tra regolari e clandestini, che vanno da 180.000 a 300.000 unità, ma probabilmente il numero è oggi più alto. Paesi molto più piccoli di noi rilevano una presenza proporzionalmente assai più elevata, come l’Olanda che ne ha 300.000 o il Belgio che ne ha 250.000. La presenza tra noi non è quindi numericamente molto rilevante, ma si è fatta vistosa negli ultimi anni, anche perché il loro arrivo in Italia ha coinciso con una ripresa delle correnti più integraliste. E’ forse la percezione di questo aspetto che sta creando tra noi un certo disagio e malessere, suscitando alcune delle domande alle quali tenterò di rispondere.
In quanto comunità cristiana, quali sono i principi a cui ci richiamiamo in questa materia? Possiamo rifarci per brevità a due tipi di testi. Anzitutto a quelli del Concilio Vaticano II, che ha parlato dei musulmani soprattutto in due luoghi. Al n.16 della Lumen Gentium si dice che “il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore e, tra questi, in particolare i musulmani, i quali professano di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giudizio finale“. Nel decreto Nostra Ætate sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane si dice in generale che “la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni” e “considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere quei precetti e quelle dottrine che non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini“. In particolare afferma di guardare con stima ai musulmani che “cercano di sottomettersi con tutto il core ai decreti di Dio anche nascosti, come si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce” (n.2). E a proposito dei “dissensi e inimicizie che sono sorti nel corso dei secoli tra cristiani e musulmani“, il Concilio “esorta tutti a dimenticare il passato e ad esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (n. 3). Il Concilio ha avuto dunque cura di richiamare elementi comuni a cristiani e musulmani. Per questo è anche significativo che esso abbia omesso altri temi importanti per l’islam. Non vengono menzionati dai testi conciliari né Maometto, né il Corano, né l’islam inteso come essenziale nesso comunitario tra i credenti, né il pellegrinaggio alla Mecca, né la sciariaa. Viene menzionata la comune ascendenza abramitica, ma non Gesù, che nell’islam è presente e però è assai lontano da come lo vede il cristianesimo. Per i musulmani Gesù, il figlio di Maria Vergine – e la figura di Maria è venerata presso i musulmani -, non è né profeta definitivo, né il Figlio di Dio e neppure è morto realmente sulla croce. Manca così la dimensione vera e propria della redenzione. Ai testi conciliari che già indicano, malgrado le omissioni sopra notate, con quale rispetto, con quale apertura di spirito e prontezza di dialogo deve procedere un cristiano nel riflettere sull’islam, possiamo ancora aggiungere un testo di Giovanni Paolo II che potrà fugare anche i dubbi di quanti temono che mediante la frequentazione e il dialogo con l’islam venga meno la chiarezza della fede cattolica. Dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis al n. 11: “Il Concilio ecumenico [Vaticano II] ha dato un impulso fondamentale per formare l’autocoscienza della Chiesa, offrendoci in modo tanto adeguato e competente la visione dell’orbe terrestre come di una “mappa” di varie religioni”. Il Concilio “è pieno di profonda stima per i grandi valori spirituali, anzi, per il primato di ciò che è spirituale e trova nella vita dell’umanità la sua espressione nella religione e, inoltre, nella moralità, con diretti riflessi su tutta la cultura. Per l’apertura data dal Concilio Vaticano II, la Chiesa e tutti i cristiani hanno potuto raggiungere una coscienza più completa del mistero di Cristo, “mistero nascosto da secoli” in Dio, per essere rivelato nel tempo, nell’uomo Gesù Cristo e per rivelarsi continuamente in ogni tempo”. Giovanni Paolo II non vede dunque opposizione, anzi convergenza, tra l’attenzione al dialogo interreligioso e l’accresciuta coscienza della propria fede. E’ con questo spirito e con questa fiducia che cerchiamo di rispondere alle domande che ci siamo posti all’inizio.
3. I VALORI STORICI DELL’ISLAM
Che cosa pensare dell’islam in quanto cristiani? Che cosa significa esso per un cristiano dal punto di vista della storia della salvezza e dell’adempimento del disegno divino nel mondo? Perché Dio ha permesso che l’islam, unica tra le grandi religioni storiche, sorgesse sei secoli dopo l’evento cristiano, tanto che alcuni tra i primi testimoni lo ritennero un’eresia cristiana, un ramo staccato dall’unico e identico albero? Che senso può avere nel piano divino il sorgere di una religione in certo modo così vicina al cristianesimo come mai nessun’altra religione storica e insieme così combattiva, così capace di conquista, tanto che alcuni temono che essa possa, con la forza della sua testimonianza, fare molti proseliti in un’Europa infiacchita e senza valori? A questa domanda così complessa non è facile dare una risposta semplice che, tuttavia, è in parte anticipata da quanto abbiamo riferito del Vaticano II. Si tratta di una fede che, avendo grandi valori religiosi e morali, ha certamente aiutato centinaia di milioni di uomini a rendere a Dio un culto onesto e sincero e, insieme, a praticare la giustizia. Quello della giustizia è infatti uno dei valori più fortemente affermati dall’islam: “O voi che credete, praticate la giustizia – dice il Corano nella Sura IV – praticatela con costanza, in testimonianza di fedeltà a Dio, anche a scapito vostro, o di vostro padre, o di vostra madre, o dei vostri parenti, sia che si tratti di un ricco o di un povero perché Dio ha priorità su ambedue” (versetto 135). In un mondo occidentale che perde il senso dei valori assoluti e non riesce più in particolare ad agganciarli a un Dio Signore di tutto, la testimonianza del primato di Dio su ogni cosa e della sua esigenza di giustizia ci fa comprendere i valori storici che l’islam ha portato con sé e che ancora può testimoniare nella nostra società.
4. L’ISLAM IN EUROPA
Una seconda domanda: ci sarà una secolarizzazione per l’islam in Europa? La domanda è legittima se si pensa al difficile percorso del cristianesimo nell’alveo della modernità negli ultimi tre secoli. Il confronto tra pensiero moderno razionale, scientifico e tecnico, tendente all’analisi e alla distinzione dei ruoli e delle competenze e la tradizione cristiana uscita dal mondo unitario medievale, ha segnato un cammino faticoso di cui solo il Concilio Vaticano II ha potuto consacrare alcuni risultati armonicamente raggiunti, pur se non ancora del tutto recepiti. Va emergendo però sempre più chiaramente che la fede in un Dio fatto uomo ed entrato nelle vicende umane è una forza che permette di cogliere anche nel divenire economico, sociale e culturale, i segni della presenza di Dio e quindi il senso positivo di un cammino di fede nell’ambito della modernità. Non è pensabile che l’islam in Europa non si trovi prima o poi ad affrontare una simile sfida. Sappiamo anzi che, dalla fine della prima guerra mondiale fino ad oggi, vi sono state molte proposte, tendenze, partiti, soluzioni secondo le quali il mondo musulmano, nelle sue diverse ramificazioni, etnie e territori, ha preso coscienza dell’avvento dell’era della tecnica e delle esigenze di razionalità che essa comporta. Bisogna dire però che fino ad ora la fede nei grandi “pilastri” dell’islam non sembra aver avvertito in maniera preoccupante la scossa derivante dai principi della modernità. Prevalgono in questo momento le tendenze fondamentaliste, che cercano di appropriarsi dei risultati tecnici, ma staccandoli dalle loro premesse culturali occidentali con la volontà di risolvere, nella linea della tradizione antica, tutti i problemi politici e sociali per mezzo della religione. Non si ammette quindi separazione tra religione e stato, tra religione e politica, e nell’interpretazione letterale del Corano vengono cercati tutti i principî per la risposta agli interrogativi contemporanei, anche sociali ed economici. E’ difficile prevedere che cosa potrà avvenire in un futuro più remoto e non è il caso di indulgere a ipotesi azzardate. Sembra corretto, nel quadro dell’atteggiamento di rispetto che prima abbiamo richiamato, auspicare e aiutare affinché il trapasso necessario ad una assunzione non puramente materiale delle agevolazioni tecniche che vengono dall’occidente sia accompagnato da uno sforzo serio di riflessione storico-critica sulle proprie fonti religiose e teologiche cercando “quell’armonia tra la visione filosofica del mondo e la legge rivelata” (cf. L. Gardet, L’islam e i cristiani, Roma 1988, p. 114), che era già presente in alcuni dei filosofi arabi conosciuti e utilizzati a san Tommaso. Dobbiamo adoperarci affinché i musulmani riescano a chiarire e a cogliere il significato e il valore della distinzione tra religione e società, fede e civiltà, islam politico e fede musulmana, mostrando che si possano vivere le esigenze di una religiosità personale e comunitaria in una società democratica e laica dove il pluralismo religioso viene rispettato e dove si stabilisce un clima di mutuo rispetto, di accoglienza e di dialogo.
5. L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA E IL DIALOGO
Alla luce di quanto fin qui detto, quale dialogo è possibile oggi e quale deve essere l’atteggiamento della nostra Chiesa a questo proposito? Mi pare opportuna una distinzione tra dialogo interreligioso in generale e dialogo tra singoli credenti. Il primo è quello che si svolge a livelli più ufficiali, tra rappresentanti religiosi di ambo le parti. Esso ha le sue regole indicate nel Vaticano II e poi in documenti come le norme edite dal Segretariato per il Dialogo Interreligioso (in particolare L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni, 1984). Da noi a Milano esiste la Commissione diocesana per l’Ecumenismo e il Dialogo; in questo senso lavora anche la Segreteria per gli Esteri ed è stato creato recentemente un Centro Ambrosiano di Documentazione per le Religioni, con attenzione speciale per il mondo musulmano. Sono pure da menzionare le presenze di istituti missionari come il PIME che hanno ormai una lunga tradizione di conoscenza e di dialogo con queste realtà. Tale dialogo è riservato piuttosto ai competenti.
Vorrei spendere una parola per quel dialogo che si svolge a livello quotidiano a contatto con i musulmani che incontriamo oggi sempre più frequentemente. Va tenuto presente il fatto che non sempre la singola persona incarna e rappresenta tutte le caratteristiche che astrattamente designano un credente di quella religione. Come avviene per i cristiani, così anche per i musulmani non tutti aderiscono in pratica e con piena coscienza ai precetti e alle dottrine prescritte e ciò probabilmente anche a causa dello scarso retroterra culturale di molti immigrati di recente. Il problema non è tanto di fare grandi discussioni teologiche, ma anzitutto di cercare di capire quali sono i valori che realmente una persona incarna nel suo vissuto per considerarli con attenzione e rispetto. Si potranno trovare, non di rado, molte più consonanze pratiche di quanto non avvenga in una disputa teologica. Ciò vale soprattutto per i valori vissuti della giustizia e della solidarietà. Tuttavia questa considerazione individuale deve sempre tener conto delle dinamiche di gruppo. Infatti l’islam non è solo fede personale, bensì realtà comunitaria molto compatta e una parola d’ordine lanciata da qualche voce autorevole al momento opportuno può ricompattare e ricondurre a unità serrata anche i soggettivismi o i sincretismi religiosi vissuti da un singolo individuo. Per quanto riguarda più in generale l’atteggiamento della nostra Chiesa e le attitudini che si raccomandano a tutti i nostri cristiani, vorrei richiamare brevemente l’attenzione su alcuni punti che derivano dai principi sopra esposti:
Occorre accogliere motivando cristianamente il perché della nostra accoglienza, dicendolo in una lingua “comprensibile“, che è più spesso quella dei fatti e della carità, dando ai musulmani il senso dello spessore religioso che pervade la nostra accoglienza.
Occorre ricercare insieme un obiettivo comune di tolleranza e di mutua accettazione. Non mancano per questo testi anche nel Corano. Dobbiamo sfatare a poco a poco il pregiudizio in essi radicato che i non musulmani sono di fatto non credenti. Solo quando ci riconosceremo nel comune solco della fede di Abramo potremo parlarci con più distensione, superando i pregiudizi.
Dobbiamo far cogliere loro che anche noi cristiani siamo critici verso il consumismo europeo, l’indifferentismo e il degrado morale che c’è tra noi; far vedere che prendiamo le distanze da tutto ciò. Data la loro abitudine a veder legate religione e società e anche in forza delle esperienze storiche delle crociate, essi tendono a identificare l’occidente col cristianesimo e a comprendere sotto una sola condanna i vizi dell’occidente e le colpe dei cristiani. Bisogna far comprendere che siamo solidali con loro nella proclamazione di un Dio Signore dell’universo, nella condanna del male e nella promozione della giustizia.
Il dialogo con i musulmani sarà in particolare per noi un’occasione per riflettere sulla loro forte esperienza religiosa che tutto finalizza alla riconsegna a Dio di un mondo a lui sottomesso. In questo, il nostro giusto senso della laicità dovrà guardarsi dall’essere vissuto come una separazione o addirittura opposizione tra il cammino dell’uomo e quello del cristiano.
Vi sarebbe da dire una parola più specifica per le nostre comunità e in particolare per i presbiteri che le presiedono. Vi sono due posizioni errate da evitare e una posizione corretta da promuovere. Prima posizione errata: la noncuranza del fenomeno. Il limitarsi a pensare all’islam come a una costellazione remota che ci sfiora soltanto di passaggio o che ci tocca per problemi di assistenza, ma che non avrà impatto culturale e religioso nelle nostre comunità. Da tale posizione si scivola facilmente a sentimenti di disagio e quasi di rifiuto o di intolleranza. Seconda posizione errata: lo zelo disinformato. Si fa di ogni erba un fascio, si propugna l’uguaglianza di tutte le fedi senza rispettarle nella loro specificità, si offrono indiscriminatamente spazi di preghiera o addirittura luoghi di culto senza aver prima ponderato che cosa significhi questo per un corretto rapporto interreligioso. Al riguardo saranno necessarie norme precise e rigorose, anche per evitare di essere fraintesi. La posizione corretta è lo sforzo serio di conoscenza, la ricerca di strumenti e l’interrogazione di persone competenti. Penso, in particolare, ai casi molto difficili e spesso fallimentari dei matrimoni misti. Esistono ormai nell’ambito della diocesi persone di riferimento, corsi e specialisti che sono a disposizione. Un supplemento di cultura e di conoscenza in questo campo sarà necessario in avvenire, in particolare per i preti. Come è chiaro in quanto abbiamo detto, pensiamo fermamente che il tempo delle lotte di conquista da una parte e delle crociate dall’altra debba considerarsi come finito. Noi auspichiamo rapporti di uguaglianza e fraternità e insistiamo e insisteremo perché a tali rapporti si conformi anche il costume e il diritto vigente nei paesi musulmani riguardo ai cristiani, perché si abbia una giusta reciprocità. Conosciamo i problemi giuridici e teologici che i nostri fratelli dell’islam hanno nei loro paesi per riconoscere alle comunità cristiane minoritarie i diritti che da noi sono riconosciuti alle minoranze, ma non possiamo pensare che tali problemi non possano essere risolti affidandosi a quella conduzione divina della storia che è vanto dell’islam aver sempre accettato in mezzo a tante dolorose vicissitudini. Il nostro atteggiamento vuole in ogni caso ispirarsi a quello di san Francesco d’Assisi che scriveva nella sua Regola, al capitolo XVI: Di coloro che vanno tra i saraceni: “I frati che vanno tra i saraceni col permesso del loro ministro e servo possono ordinare i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti e dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la Parola di Dio e tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che hanno consegnato e abbandonato il loro corpo al Signore nostro Gesù Cristo e che per suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili“. Nessuna contesa dunque, nessun uso della forza; esposizione sincera e a tempo opportuno di ciò che credono; accettazione anche di disagi e sofferenze per amore di Cristo.
6. ANNUNCIARE IL VANGELO DI GESU’
Una quarta e ultima domanda: può la Chiesa rinunciare ad annunciare il Vangelo ai musulmani? Occorre fare anzitutto una distinzione. Altro è infatti l’annuncio, altro è il dialogo. Il dialogo parte dai punti comuni, si sforza di allargarli cercando ulteriori consonanze, tende all’azione comune sui campi in cui è possibile subito una collaborazione, come sui temi della pace, della solidarietà e della giustizia. L’annuncio è la proposta semplice e disarmata di ciò che appare più caro ai propri occhi, di ciò che non si può imporre né barattare con alcunché, di ciò che costituisce il tesoro a cui si vorrebbe che tutti attingessero per la loro gioia. Per il cristiano il tesoro più caro è la croce, è il mistero di un Dio che si dona nel suo Figlio fino ad assumere su di sé il nostro male e quello del mondo perché noi ne usciamo fuori. Non sempre questo annuncio può essere fatto in modo esplicito, soprattutto nelle società chiuse e intolleranti. E’ un caso oggi non infrequente in alcuni paesi. Ma pure nei paesi cosiddetti liberi ci si scontra talora con chiusure mentali così forti da costituire quasi una barriera. Allora la proposta assume la forma della testimonianza quotidiana, semplice e spontanea, e quella della carità e anche del dono della vita, fino al martirio. E’ il principio sopra ricordato di san Francesco. Con questa distinzione riprendiamo dunque la nostra ultima domanda: può la Chiesa cattolica rinunciare a proporre il Vangelo a chi ancora non lo possiede? Certamente no, come ai musulmani non viene chiesto di rinunciare al loro desiderio di allargare la umma, la comunità dei credenti. Ciò che conterà sarà lo stile, il modo, cioè quelle caratteristiche di rispetto e di amore, quello stile di attenzione e di desiderio di comunicare la gioia nella pace che è proprio di chi accetta le Beatitudini. Questo stile non è senza riscontri anche nel mondo dell’islam. Si legge infatti nel Corano: “Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore… pazienta e sappi che il tuo pazientare è solo possibile in Dio… perciocché Dio è con coloro che lo temono, con coloro che fanno del bene” (XVI, 125-127). Raggiungeremo così tutti anche quell’atteggiamento missionario che ha caratterizzato il ministero di Ambrogio in mezzo ai pagani del suo tempo.
Francesco d’Assisi e il Sultano
7. CONCLUSIONE
Maometto nasce due secoli dopo il tempo di sant’Ambrogio e non vi è quindi nell’opera del santo nulla che si riferisca direttamente al nostro tema, ma è interessante notare che la comunità di Ambrogio era una comunità religiosamente minoritaria. Due terzi della popolazione che in quel tempo abitava nella zona di Milano non era cristiana. Eppure “sembra che a Milano non esistesse un ministero organizzato per l’evangelizzazione dei pagani. Nel De officiis ministrorum Ambrogio non dà alcuna istruzione ai chierici per il lavoro di conversione dei pagani” (cf. V. Monachino, S. Ambrogio e la cura pastoralea Milano nel secolo IV, Milano 1973, p. 48). La via ordinaria per la quale essi venivano a conoscenza del cristianesimo era la frequenza libera alla predicazione, aperta a tutti, i colloqui con il vescovo, come nel caso di Agostino, e specialmente il contatto con i cristiani e la loro condotta esemplare. Ambrogio poneva la sua cura nel far progredire la comunità cristiana come tale; per mezzo di essa, e non con un ministero organizzato, avveniva l’influsso sui pagani. Non dunque un proselitismo invadente, bensì l’immagine di una comunità plasmata dal Vangelo e dall’Eucaristia, zelante nella carità, libera e serena nel suo impegno civile quotidiano, coraggiosa nelle prove, sempre piena di speranza. E’ questa la nostra forza principale oggi, in un mondo secolarizzato, e questa forza è quella delle origini, quella della Chiesa di sant’Ambrogio e della Chiesa dei giorni nostri.
Card. Carlo Maria Martini Milano – 6 dicembre 1990
offrire accoglienza, integrazione e lavoro partendo dalla cura della terra e delle relazioni, seguendo i principi della permacultura. A Pomino, in provincia di Firenze, è stato avviato il progetto Orti delle Case in cui l’agricoltura biologica è il campo di sperimentazione di un modello di accoglienza che mette al centro il futuro e dell’indipendenza dei giovani migranti
Zucchine, pomodori, cipolle, insalata… camminiamo tra i campi all’aperto e le serre seguendo i passi di alcuni ragazzi africani, l’entusiasmo e l’orgoglio di mostrare il frutto del proprio lavoro arriva attraverso i loro gesti e parole.
“Mi piace tutto ciò che c’è nella terra, senza la terra non si vive”, ci dirà più tardi Eddy. In questo piccolo progetto di grande qualità che ci apprestiamo a conoscere, terra, cibo e progetti di vita si intrecciano, creando qualcosa di bello (e buono) per tutti.
Siamo a Pomino nel comune di Rufina (FI), ospiti dell’associazione “Le C.A.S.E.” (Comunità per l’accoglienza e la solidarietà contro l’emarginazione) che è nata nella vicina Pelago una ventina di anni fa; un’associazione “ombrello” che unisce varie case famiglia sia nel territorio fiorentino che nel senese. Uno dei valori comuni che unisce le case è l’accoglienza, un’accoglienza di diverso tipo: donne sole con figli, bambini, migranti, che si realizza nel quotidiano, nella convivenza con il nucleo genitoriale simbolico che vive stabilmente nella casa.
La casa famiglia di Pomino, fondata da Silvano Venturin e sua moglie Graziella Pella, in particolare è nata come casa di accoglienza per madri con bambini soli nel 2001, solo nel 2008, dopo le grandi ondate migratorie, l’accoglienza si è estesa ai migranti, prima ai minori non accompagnati e poi agli adulti, prevalentemente giovani uomini provenienti dall’africa subsahariana, diventando un C.A.S., un Centro di Accoglienza Straordinaria.
“Qui l’accoglienza si realizza su piccoli numeri, per lavorare in qualità e garantire un’inclusività a tutto tondo ed effettiva – ci racconta Rachele Venturin, antropologa, figlia di Silvano e Graziella e responsabile della “scuola laboratorio” del progetto di accoglienza – offriamo strumenti di formazione, per poter pensare anche al futuro, alla costruzione di una vita in Italia”.
Tutti questi elementi si intrecciano nel progetto “Orti delle Case” in cui l’agricoltura biologica è il campo di sperimentazione di un modello di accoglienza che mette al centro il futuro e l’indipendenza dei giovani migranti.
“Ci siamo chiesti quali potevano essere le realtà lavorative in cui inserirli all’interno di un contesto non cittadino come questo. Curarela terra è come prendersi cura di se stessi, in una situazione difficile come quella che vivono questi ragazzi, sradicati da tutto il loro mondo, ridà senso e futuro”.
Tutto è iniziato quattro anni fa con l’avvio dell’orto sociale su terreni di proprietà della diocesi prossimi alla casa famiglia, concessi in comodato d’uso. Oggi sono 5 i ragazzi a lavorare su quei campi producendo verdure biologiche che riforniscono una bottega del paese, un ristorante vicino e vengono vendute attraverso alcuni gruppi di acquisto solidale del territorio e direttamente a chi lo desidera.
Tutto questo è stato possibile grazie ad un importante lavoro sul gruppo e sulle relazioni, sia interne al gruppo che con il territorio. La “scuola laboratorio” infatti, non si limita all’insegnamento dell’italiano, essenziale per poter comunicare e conoscere, comprendere il mondo intorno.
“È un percorso di crescita personale e di gruppo. Con il contributo di Sauro Guarnieri, abbiamo introdotto il metodo permaculturale anche per curare le relazioni – prosegue Rachele – questo è importante anche per avere una buona cura degli orti. È importante per noi che i ragazzi accolti in questo percorso non siano solo degli esecutori ma che sia un processo condiviso, in cui le decisioni si prendono insieme. Oltre al lavoro nei campi abbiamo anche approfondito i temi connessi nella scuola laboratorio, facendo approfondimenti scientifici ma anche autobiografici per poter valorizzare le esperienze e le conoscenze di cui i ragazzi erano portatori”.
La formazione sul campo è avvenuta con i contadini del luogo, un passaggio di saperi e conoscenze, relazioni che continuano a crescere e a preparare il terreno che possa permettere a questi ragazzi di prendere in mano questa piccola impresa totalmente. Già, perché l’obiettivo di questo progetto, piccolo ma di qualità, è permettere la costituzione di una cooperativa agricola autonoma attraverso la quale questi giovani uomini possano prendere in mano il proprio futuro. Intanto, non con difficoltà, l’associazione Le Case, è riuscita a far riconoscere legalmente il loro lavoro, dal 1 maggio hanno un regolare contratto, un passo verso un sogno più grande.
Dobbiamo a due politici eletti, rispettivamente in Italia e in Germania, questi due incitamenti espliciti a “bestializzare” la politica. Non è folclore. Sono parole che dobbiamo prendere sul serio, perché è così che in Europa cominciarono derive che finirono in tragedie. Questi incitamenti potrebbero essere solo l’inizio di ciò che ci aspetta se i politici che attizzano l’odio diventassero egemoni in altri Paesi – oltre che già in Italia e Ungheria – e nel Parlamento Europeo. Le cause “scatenanti” di questo imbestialimento sono la paura – solo in parte comprensibile – e la reazione – sbagliata – al fenomeno di portata storica delle migrazioni verso l’Europa. La crescente esasperazione che esso genera in una parte degli europei è per certi aspetti paragonabile a quella provocata negli anni 20 e 30 dai rancori postbellici, dalla crisi economica del 1929 e dalla conseguente disoccupazione e povertà. Anche allora furono le estreme destre nazionaliste a profittare dell’astio di massa. Anche allora troppi dissero: non dobbiamo demonizzarli, se no facciamo il loro gioco. Si sa come andò a finire. Sta accadendo qualcosa di simile, ora?
Un ministro “fuori controllo”
Il motto “Libera la bestia che c’è in te” è riconducibile al Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Interni Matteo Salvini. Un’esortazione sorprendente da parte di chi è responsabile di mantenere l’ordine nel Paese. L’incitamento è nella testata de “Il populista”, il giornale on line della Lega fondato da Salvini (e diretto da Marco Dozio e Alessandro Morelli), e nell’immagine di copertina della sua pagina Facebook. La bestia da liberare è simbolizzata dalla fronte di un lupo dagli occhi gialli minacciosi, messo lì come un logo. Il sottotitolo de “Il populista” è: “Audace, istintivo, fuori controllo”. Il secondo incitamento «… o volete diventare lupi e farli a pezzi? Occhio per occhio, dente per dente! Aspettiamoli sotto casa!» è di David Köckert, il politico e consigliere comunale di un partito tedesco, che il 9 settembre ha arringato con queste parole una folla di 2.500 manifestati anti-immigrati nella cittadina tedesca di Köthen. Non è da meno un altro politico nelle istituzioni, il deputato leghista Giuseppe Bellachioma, che ha scritto rivolgendosi ai giudici: «Se toccate il Capitano (Salvini, ndr) vi veniamo a prendere sotto casa… occhio!».
Le violenze razziste
Chi pensasse “lupo che abbaia non morde” sbaglierebbe. In Italia, infatti, crescono da tre mesi le violenze razziste. Il giornalista Luigi Mastrodonato ha creato e aggiorna una carta interattiva dell’Italia (su Google Maps) con le “Aggressioni razziste dall’1 giugno 2018”. Vi si leggono i luoghi e gli articoli relativi a ogni episodio violento: finora due omicidi e 60 aggressioni. Ogni due giorni una o più persone, spesso extraeuropee e con la pelle scura, sono state aggredite con pugni, spranghe, armi, a volte anche al grido di “Salvini, Salvini”, come a Caserta l’11 giugno. A Macerata, il 3 febbraio, otto persone di colore sono state ferite a rivoltellate da Luca Traini, candidato leghista nel 2017. Sulle crescenti aggressioni razziste in Italia l’Onu sta aprendo un’inchiesta.
Il ruolo di Steve Bannon
Le estreme destre guadagnano consensi e puntano ora a conquistare l’Unione Europea per smantellarla dall’interno. L’orchestratore di questo disegno è lo statunitense Steve Bannon, ex-stratega di Donald Trump. Così come portò Trump alla Casa Bianca Bannon si è dato ora la missione di favorire la presa del potere in Europa delle destre estreme. Con questo dichiarato obiettivo ha aperto a Bruxelles l’agenzia politica “The Mouvement” per coordinare e consigliare i partiti nazionalisti. Secondo Bannon «I movimenti di destra populista e nazionalista vinceranno in Europa e governeranno. (…) È in Italia il cuore della nostra rivoluzione». Per questo è venuto più volte in Italia e ha incontrato Salvini e altri politici di governo. «Questo è un momento della Storia di cui si parlerà per 100 anni» ha detto Bannon. Ha ragione. Le reazioni politiche al fenomeno migratorio possono essere comprese solo in una prospettiva storica. L’impossibilità sia di fermare sia di accogliere completamente le crescenti migrazioni sta mettendo in gioco la convivenza nel continente. In pericolo è la stessa Unione Europea, l’istituzione che ha garantito sessant’anni di pace e sviluppo.
la copertina della pagina Facebook del “Populista”
Immaginare di poter impedire queste crescenti migrazioni, è come pensare di poter “vietare” l’alta marea dopo la bassa. Gli africani, oggi 1,2 miliardi, nel 2050 saranno 2,5 miliardi, mentre gli Europei resteranno 500 milioni. Come tra i vasi comunicanti, un travaso dall’Africa all’Europa sembra inevitabile. Non potendo impedirlo, occorrono in Africa e in Europa politiche che lo regolino e lo rendano fonte di benessere anziché di conflitto. Non basterà “aiutarli a casa loro”. Secondo Stephen Smith, uno studioso africanista franco-americano autore del libro “La corsa verso l’Europa”, in mancanza di altre strategie un lento innalzamento dei redditi in Africa porterà verso l’Europa più migranti, non meno. I migranti attuali, infatti, non sono gli africani più poveri. In buona parte, invece, sono quei giovani più intraprendenti che sanno racimolare i soldi per pagarsi l’odissea verso l’Europa. Secondo Smith il numero di costoro aumenterà quando gradualmente aumenterà il reddito in Africa. Questo fenomeno è drammatico specialmente per l’Africa, che perde così la parte potenzialmente più attiva dei suoi giovani. Ulteriori cause dei drammi dell’Africa sono corruzione, malgoverno, dittature, conflitti e cambiamenti climatici.
Da cittadini a consumatori
C’è però un altro fenomeno più recente che concorre a stimolare sia l’emigrazione dall’Africa sia la violenta ostilità di una minoranza di Europei verso i migranti: il consumismo nell’era di internet. Da alcuni anni, infatti, milioni di africani ammirano, grazie a internet, la vetrina di un Europa delle meraviglie. Lo spettacolo pubblicitario continuo di persone euforiche perché allietate da ogni sorta di mercanzia è una caricatura mendace della realtà. La stessa messinscena consumistica che attira gli africani è quella che ha alterato la scala di valori in Europa. Eravamo cittadini, siamo diventati “consumatori”. La pubblicità, già onnipresente, cerca di infiltrarsi ulteriormente in ogni metro del nostro spazio e in ogni minuto del nostro tempo. Sempre più europei, specialmente i giovani, sono indifferenti e ignoranti della nostra storia, dei nostri valori comuni – libertà, democrazia, rispetto, tolleranza – e della necessità di difenderli. La cosa che più ci importa è consumare, è cercare identità e soddisfazione nelle merci, non nei valori, e tanto meno nelle persone. Come disse un grande regista, gli unici due valori rimasti all’Occidente sono comprare e vendere.
Consumatori contro consumati
Tra l’ascesa delle estreme destre nazionaliste negli anni 20 e 30 e quella attuale c’è tuttavia una grande differenza. L’animosità popolare che allora portò al potere i partiti totalitari era quella degli impoveriti contro gli arricchiti. Oggi, invece, accade il contrario: l’ostilità che nutre le destre estreme è quella dei ricchi (noi europei, se comparati con gli africani) contro i poveri e i disperati che noi stessi abbiamo contribuito a impoverire e che cercano ora di raggiungerci. È l’ostilità dei consumatori contro i consumati. È la gelosia di chi teme che altri, più poveri di lui, gli portino via “la roba”. È l’affermazione di una “libertà” sinistra (la mia libertà di avere tutto e subito), che sta eclissando la eguaglianza e la fraternità. Nella crisi crescente dell’immigrazione e nelle sue drammatiche conseguenze politiche, il consumismo conta più di quello che sembra. Molti non lo vedono, così come i pesci non vedono l’acqua. È una cecità fatale. Inebetiti da tanti mulini bianchi, non vediamo avvicinarsi i lupi neri.
di Luca Liverani in “Avvenire” del 21 settembre 2018
Le chiese cristiane «sono chiamate ad essere luoghi di memoria, speranza e amore». E dunque «la protezione dei valori o delle comunità cristiane» perseguita «escludendo chi cerca un rifugio sicuro dalla violenza e dalla sofferenza è inaccettabile e mina la testimonianza cristiana nel mondo, elevando i confini nazionali a idoli»
Parole nette, rivolte innanzitutto ai cristiani e sottoscritte nel documento finale dai partecipanti alla Conferenza internazionale su «Xenofobia, razzismo e nazionalismo populista nel contesto della migrazione globale», organizzata a Roma dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale e dal Consiglio Mondiale delle Chiese (Wcc), con il Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani.
A chiudere la tre giorni è stata l’udienza papale. E padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero, ha ricordato che «in accordo con gli insegnamenti di papa Francesco», i punti cardinali della «risposta integrale alle sfide migratorie globali» sono «quattro verbi attivi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». «Sosteniamo l’istituzione dell’asilo – si legge dunque nel documento finale della tre giorni – per coloro che fuggono da conflitti armati, persecuzioni o calamità naturali». Allo stesso tempo «invochiamo il rispetto dei diritti per tutte le persone migranti, indipendentemente dal loro status». Al contrario, «il razzismo crea e mantiene la vulnerabilità dei membri di alcuni gruppi, negando i loro diritti e la loro esistenza, e cerca di giustificare la loro oppressione». E allora «in questo senso il razzismo è un peccato, radicalmente incompatibile con la fede cristiana». Nell’analisi del documento «il nazionalismo populista è una strategia politica che cerca di fare affidamento e promuovere le paure » al fine «di affermare la necessità di un potere politico autoritario per proteggere gli interessi del gruppo sociale o etnico dominante». È «nel nome di questa ‘protezione’ che i populisti giustificano il rifiuto di offrire rifugio, ricevere e integrare individui o gruppi di altri paesi». Ma è un rifiuto «contrario all’esempio e alla chiamata di Gesù Cristo». I partecipanti alla Conferenza quindi invitano «tutti i cristiani» a «respingere tali iniziative populiste», definite «incompatibili con i valori del Vangelo. Ciò dovrebbe ispirare la vita politica e il discorso pubblico, e informare le scelte fondamentali soprattutto al momento delle elezioni». L’invito ai mass media è di «astenersi dal diffondere idee e iniziative divisive e disumanizzanti e impegnarsi per la promozione di messaggi positivi». L’analisi non nega le problematiche: «Le preoccupazioni di molti individui e comunità che si sentono minacciate dai migranti devono essere riconosciute ed esaminate», in un dialogo «autentico con tutti coloro che le nutrono». Ma «sulla base dei principi della nostra fede cristiana e dell’esempio di Gesù Cristo, cerchiamo di innalzare una narrativa di amore e di speranza, contro la narrativa populista dell’odio e della paura». Anche le chiese cristiane devono «far crescere la coscienza critica tra i cristiani sulla complicità di alcune teologie nella xenofobia e nel razzismo».
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